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La Vita è Meravigliosa – e a Natale lo è ancora di più

Il senso del Natale in un film: La Vita è Meravigliosa

Insieme a “Bianco Natale” un altro classico hollywoodiano per le serate natalizie davanti la tv, oltre che un grande classico del suo autore, lo sceneggiatore produttore e regista Frank Capra, che nel 1946, quando il film uscì, aveva già all’attivo 3 Oscar al Miglior Regista per “Accadde una notte” 1935 “E’ arrivata la felicità” 1937 e “Eterna illusione” 1939, oltre all’Oscar del 1943 al Miglior Documentario per il film bellico di propaganda “Preludio alla guerra” primo della serie “Why We Fight” girati per istruire e motivare le truppe statunitensi.

Su invito del Capo di Stato Maggiore George C. Marshall, lo stratega cui si deve il “Piano per la ripresa europea” poi chiamato “Piano Marshall” dal suo nome, Frank Capra si arruolò nell’esercito (1942-45) per coordinare la propaganda bellica attraverso il cinema. Ebbe a dire di quell’esperienza: “Pensavo che fosse il mio lavoro mostrare ai nostri ragazzi le ragioni della nostra guerra. Avevano 18 anni, quei ragazzi, e non sapevano niente di cose di guerra. Non erano soldati, non avevano nessuna disciplina militare. Erano i peggiori soldati del mondo, quando la guerra scoppiò. Ma in due anni, erano i migliori del mondo. E c’è una ragione, per questo: avevano una mente aperta. Era la prima cosa che facevano, vedere i miei film. E quando li vedevano, sapevano cosa fare, perché combattevano. Capivano che non era un gioco. Che era vero.”

“La Vita è Meravigliosa” ebbe cinque nomination e nessun Oscar, dato che quell’anno, il 1947, fu “I migliori anni della nostra vita” di William Wyler a fare man bassa. Fu anche un flop al botteghino con un guadagno netto di centomila dollari: costato tre milioni e duecento ne incassò tre milioni e trecento. Il successo però cresce nei decenni a seguire e sin dall’anno seguente l’uscita nelle sale, Frank Capra cominciò a ricevere migliaia di lettere da fan desiderosi di raccontargli l’effetto positivo che il film aveva avuto su di loro; pare che circa 1500 di quelle lettere furono mandate dai detenuti del carcere di San Quintino. E per restare in tema, nel 1987 un giudice ordinò a un imputato la visione del film come parte della sua condanna per avere ucciso la moglie ammalata e per aver poi tentato di suicidarsi; lo stesso anno, il Consigliere del Presidente per la sicurezza nazionale rivelò alla stampa che la visione del film gli aveva dato la forza di andare avanti dopo aver tentato il suicidio. Perché il film parla di questo: un uomo ordinario, che ha rinunciato a ogni sua aspirazione sacrificandosi alle cause di forza maggiore, la famiglia il lavoro la comunità, nel momento più buio della sua vita sta per suicidarsi, e all’angelo sceso dal cielo per aiutarlo esprime il desiderio di non essere mai nato: detto, fatto. Torna nel suo mondo che non riconosce e dove nessuno lo riconosce perché non è mai esistito, le cose sono volte al peggio e tutto il bene che ha fatto è svanito, e tutte le persone che ha aiutato sono ai margini della società perché non hanno mai usufruito della sua solidarietà: “Strano, vero? La vita di un uomo è legata a tante altre vite. E quando quest’uomo non esiste, lascia un vuoto.” gli dice l’angelo, spiegando anche a tutti noi la morale del film: nessuna vita, neanche nei momenti più bui, diventa inutile.

La favola del film nasce dal racconto “The Greatest Gift” che l’autore, lo storico Philip Van Doren Stern, pubblica prima in forma privata come omaggio insieme a una cartolina natalizia per una ristretta cerchia di amici, e solo due anni dopo, avendo sentore dell’interesse che stava suscitando il suo scritto, ne registrò i diritti; il racconto in forma di omaggio era arrivato nelle mani di Cary Grant che lo propose allo studio presso cui era sotto contratto, la R.K.O. Pictures, la quale ne acquistò i diritti pensando di coinvolgere nel progetto Gary Cooper che avrebbe recitato insieme a Cary Grant: di certo un’accoppiata vincente.

Cary Grant's & Gary Cooper's rumoured bisexuality

Ma dopo tre sceneggiature deludenti la R.K.O. si libera del fardello e vende i diritti all’appena nata Liberty Films di Frank Capra che finalmente realizza il film con l’attore che lui aveva sin da subito avuto in mente, James Stewart. Ma il film, che paradossalmente racconta come i fallimenti non ci debbano abbattere, fu esso stesso un fallimento economico che trascinò alla precoce chiusura la Liberty Film, che aveva appena fatto in tempo a realizzare un secondo e ultimo film, “Lo Stato dell’Unione” con Spencer Tracy e Katharine Hepburn. Nonostante il fallimento, e in linea con l’ottimismo dei suoi film, Frank Capra considera “La vita è meravigliosa” il miglior film da lui prodotto. Nel 1984, in un’intervista del Wall Street Journal in seguito al tardivo successo del film dirà: “Il film ha una vita propria e ora posso guardarlo come se non avessi niente a che farci. Sono come il genitore di un figlio diventato Presidente. Sono orgoglioso… ma i meriti sono del ragazzo. Quando incominciai a lavorarci non pensai nemmeno a una storia natalizia. Mi piaceva semplicemente l’idea.”

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L’ottimismo dei film di Capra, però, come ha studiato la critica moderna, è solo di superficie, perché se si va oltre si vede in evidenza un mondo conflittuale e poco rassicurante, in cui l’individuo è contro il sistema del potere affaristico, con racconti di drammi individuali familiari e sociali che trovano nell’improvviso risvolto del finale al positivo una soluzione inattesa e, proprio in tema di favola, incredibile sul piano logico. Ma il dramma non viene cancellato e malgrado i lieti fine traspare un pessimismo di fondo. Realizza favole per adulti ma rimane concentrato nel riprodurre la realtà, pur con qualche deviazione fantastica a volte, come in questo film la conversazione in un paradiso naïf, fra le stelle dell’universo, in cui San Giuseppe consiglia a Dio di mandare sulla Terra un Angelo Custode, di seconda categoria e senza ali, perché se le possa guadagnare assolvendo il suo compito. Una realtà intrisa di fantasia perché Capra vuole che il pubblico si identifichi con i personaggi e gli piace raccontare un realismo senza intellettualismi, che fa sì critica sociale ma in modo generico e superficiale, denunciando sì corruzione e malvagità di singoli individui, ma senza approfondirne davvero le cause, e il mezzo non può che essere la commedia: “Quando la gente si diverte, è più disponibile, crede in te. Non puoi ridere con qualcuno che non ti piace. E quando ridono, cadono le difese, e allora cominciano ad essere interessati a quello che hai da dire, al messaggio.” 

“La vita è meravigliosa” fu per James Stewart l’ultima collaborazione con Frank Capra e la prima cinque anni dopo aver combattuto in Europa la Seconda Guerra Mondiale, come abilissimo pilota delle Fortezze Volanti B-17; dopo venti missioni ufficiali ricevette per due volte la Croce di Guerra e la Croix de Guerre francese, poi accumulando in totale ben 15 onorificenze; senza dimenticare che fu anche la prima star ad andare al fronte poiché Hollywood era riluttante a mettere a rischio il proprio capitale artistico. Per Capra fu l’ultimo film con James Stewart perché da questo film in poi comincia il suo declino, prima con la già detta crisi economica e poi perché sarà uno di quei pochi casi in cui un regista gira remake dai suoi stessi film, implicitamente dichiarando di non avere più ispirazione; sarà anche uno dei primi a lavorare con il nuovo mezzo, la televisione, la quale, assorbendone i temi e i modelli narrativi, divulgandoli e reiterandoli su larga scala in un modello narrativo molto più pervasivo, contribuì al suo tramonto artistico. Poco più che sessantenne abbandona il cinema e si ritira a vita privata, concedendo solo conferenze e partecipazioni a manifestazioni cinematografiche.

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James Stewart con il dopo guerra bisserà il successo degli anni ’30-40, avvierà proficue collaborazioni con Anthony Mann per i western e con Alfred Hitchcock per i gialli, in ogni caso spaziando da un genere all’altro sempre con grande credibilità. Per questo film, di rientro da anni di guerra aerea, non si sentiva più sicuro delle sue capacità interpretative e più volte aveva chiesto a Capra di posticipare la scena sentimentale e sottilmente erotica in cui condivide la cornetta del telefono bocca a bocca con Donna Reed, scena che diventerà fra le più famose del film, e che la censura ritenne troppo ardita insieme al primo bacio che seguì quella telefonata.

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Donna Reed, con un futuro Oscar nel 1954 per “Da qui all’Eternità” di Fred Zinneman, è una delle tante ottime attrici utilizzate da Frank Capra per fare da spalla ai protagonisti del suoi film, tutti film al maschile con la sola eccezione di Barbara Stanwyck, che fu la prima vera star nella sua all’epoca crescente cinematografia, e che tale resterà anche in seguito. Nel ruolo del cattivo, aggiunto da Capra e inesistente nel racconto originale, il veterano Lionel Barrymore esponente dell’illustre famiglia di attori teatrali e cinematografici detta “La Famiglia Reale” di Hollywood. Per il caratterista Henry Travers interpretare Clarence Oddbody, l’angelo di seconda classe, fu l’apice della carriera. H. B. Warner interpreta il vecchio farmacista dove il protagonista lavorava da giovane, e va ricordato che aveva interpretato Gesù nel muto del 1927 “Il Re dei Re” di Cecil B. De Mille, con il quale reciterà il suo ultimo piccolo ruolo accreditato in “I Dieci Comandamenti”, e lo si può ricordare come se stesso nella partita a quattro con Gloria Swanson in “Viale del Tramonto”. Thomas Mitchell, candidato all’Oscar come Non Protagonista nel 1937 per “Uragano” di John Ford e poi vincitore nel ’40 per “Ombre Rosse” dello stesso regista, è stato per le sue capacità mimetiche uno dei più richiesti caratteristi di Hollywood, e lo ricordiamo anche come papà di Rossella O’Hara. La sfavillante bionda platino Gloria Grahame, qui al suo primo ruolo significativo, inaugura la sua carrellata di bionde tentatrici e maliziose e arriverà all’Oscar nel 1952 per “Il Bruto e la Bella” di Vincente Minnelli.

Per la sua grande popolarità il film è stato oggetto di omaggi, citazioni e parodie. Ma già l’anno dopo la sua uscita ebbe un adattamento radiofonico in cui gli stessi James Stewart e Donna Reed reinterpretarono i loro ruoli. Nel 1977 ci fu un film tv e nel 1980 ne fu tratto un musical teatrale, mentre nel 1990 venne realizzato uno spin-off del film tv intitolato a Clarence, l’angelo di seconda categoria. Insomma: se la vita è meravigliosa va sfruttata fino alla fine.

Bianco Natale, in brillante Technicolor

Il Technicolor che caratterizza questo film è stato il procedimento di cinematografia più usato negli Stati Uniti nel trentennio 1922-52, e proprio per i suoi colori saturi e brillanti fu usato soprattutto per girare musical e film in costume, oltre che i film d’animazione di Walt Disney: film che uscivano fuori dalla dimensione del naturalismo quotidiano, un quotidiano dove i colori sono più smorzati e confusi. La Technicolor Motion Picture Corporation, fondata nel 1914, realizzò il primo film a colori già nel 1917, il muto “The Gulf Between” che però è andato perduto. Il procedimento impiegherà ancora qualche anno per perfezionarsi e si arriva al 1932, anno in cui riceve l’Oscar Scientifico e Tecnico in contemporanea all’Oscar Miglior Cortometraggio d’Animazione al disneyano “Fiori e Alberi” che lo utilizza. Nel 1955 verrà fondata a Roma la Technicolor Italiana, che poi nel 1963 inventa in proprio il formato “Techniscope” che, senza scendere in dettagli tecnici, consentiva un notevole risparmio di pellicola; il primo ad utilizzarlo fu Vittorio De Sica con il suo “Ieri, oggi, domani” e poi Sergio Leone lo usò per tutti i suoi western. Questo “Bianco Natale”, del 1954, è anche il primo in VistaVision, un formato per film su schermo panoramico che resistette fino agli anni ’70, quando fra i suoi ultimi impieghi ci furono i primi esperimenti della LucasFilm sugli effetti speciali che porteranno nel 1977 a “Guerre Stellari”.

“Bianco Natale” è un classico che da decenni vediamo e rivediamo nel periodo natalizio e che non stanca mai. La ragione del suo eterno successo è che è una favola per adulti, e come tutte le favole il suo fascino non si estingue mai. Buoni sentimenti, fraintendimenti che trovano sempre la via della pacificazione, stratagemmi la cui soluzione ci tiene sempre in sospeso e l’immancabile catarsi finale; il tutto scandito da dialoghi brillanti e scene auto conclusive come piccoli quadri teatrali che si chiudono con una battuta o un’azione significative, eccellenti numeri musicali con coreografie che ancora sorprendono per la loro scoppiettante complessità e per quel gusto oggi perduto per il tip-tap. I personaggi non sono mai credibili ma sempre amabili, proprio come nelle favole, e contrariamente a qualsiasi altra favola qui non ci sono personaggi cattivi ma solo cattive circostanze che però i nostri eroi superano sempre, cantando e ballando. Per non amare questo film, o film di questo genere, bisogna non amare i musical, ed è plausibile, oppure bisogna essere degli inguaribili cinici senza fantasia.

Il film si apre con lui, Bing Crosby, che mirabilmente canta una versione rallentata e triste del già famoso successo “White Christmas” che Irving Berlin (pseudonimo del russo Izrail’ Moiseevič Bejlin) aveva scritto per il film del ’42 “La Taverna dell’Allegria” con Crosby e Fred Astaire, canzone che ricevette l’Oscar e che da allora è stata un cavallo di battaglia di Bing Crosby, il quale, quando la sentì per la prima volta disse all’autore: “Ecco un’altra delle tue canzoni per piangere.” E Berlin ne era consapevole se, come dicono le cronache, la mattina dopo averla scritta corse in ufficio per sollecitare la sua segretaria: “Prendi la penna, prendi appunti su questa canzone. Ho appena scritto la mia migliore canzone; diavolo, ho appena scritto la migliore canzone che chiunque abbia mai scritto!” “White Christmas” cantata da Bing Crosby rimane il disco più venduto fino ad oggi, nonostante praticamente tutti ne abbiano fatto una propria versione, da Louis Armstrong a Michael Bublé passando per Frank Sinatra e Barbra Streisand, e nella versione italiana con testo di Filibello (pseudonimo del paroliere Filippo Bellobuono) da Andrea Bocelli a Cristina D’Avena passando per Celentano e Laura Pausini.

L’inizio del film è un cartello che annuncia la vigilia di Natale del 1944 col noto cantante Bob Wallace (Bing Crosby) che per la truppa accampata fra le rovine di Montecassino, Italia, intona le famose note. L’inquadratura si allarga e scopriamo che il quieto paesaggio innevato è il fondale di un precario palcoscenico allestito su un fondale ancora più ampio di uno scorcio visibilmente ricostruito in studio, con rovine di cartapesta: nei decenni passati della televisione in bianco e nero sembrava tutto – paradossalmente – più reale, mentre oggi svela tutto l’artificio della finzione, che però non guasta perché sappiamo che di bella finzione si tratta. Bob Wallace viene salvato dal crollo di un muro dal soldato Phil Davis che ha la maschera plastica di Danny Kaye, che gli si propone come paroliere e il duo si avvia al successo in patria negli anni a seguire. Conoscono due sorelle che si esibiscono come cantanti, le Haynes Sisters, Betty e Judy, Rosemary Clooney e Vera-Ellen, e insieme metteranno su uno spettacolo per aiutare l’ex generale dei due, oggi albergatore in crisi finanziaria, e poi finire in bellezza, formando anche due coppie sentimentali bene affiatate: quella spigolosa litigiosa e principalmente canterina formata da Bing Crosby e Rosemary Clooney, e l’altra principalmente ballerina formata dal gigione Danny Kaye e dalla leziosa e intraprendente Vera Ellen – in un film dove comunque tutti fanno tutto benissimo e cantano e ballano e recitano con un eterno sorriso stampato in viso.

Dirige il rumeno Manó Kertész Kaminer naturalizzato americano nel 1926 col nome di Michael Kurtiz, regista assai eclettico che, benché mancando di uno stile proprio immediatamente riconoscibile, fu uno dei più quotati di Hollywood negli anni ’40. Passò dai film d’avventura con Errol Flynn all’iconico “Casablanca”, al drammatico “Il Romanzo di Mildred” che fruttò l’Oscar a Joan Crawford e ne rilanciò la carriera. Con i suoi lauti guadagni, durante il secondo conflitto mondiale, aiutò diversi ebrei ad immigrare in America ma non poté fare nulla per i suoi genitori che morirono ad Auschwitz.

20 Facts About White Christmas (The Movie) | Sporcle Blog
Library of Congress on Twitter: "Did you know that Bing Crosby got his  nickname from the Bingville Bugle, a weekly satirical newspaper section?  Check out its take on March weather #OTD 1915 #

Bing Crosby all’epoca ha già 50 anni, un Oscar in bacheca per “La mia via” del ’45 e la fama di capostipite dei crooner. Bing, il cui vero nome è Harry Lillis Crosby, è un soprannome che si è meritato a 7 anni, quando era appassionato lettore dei fumetti “Bingville Bugle”. Appena terminati gli studi viene reclutato per il trio Rhythm Boys col quale gira il Paese per un paio d’anni e cresce artisticamente tanto da ricevere delle offerte di contratto da solista, che Bing rifiuta. Pare che durante i tour i tre giovanotti ne facessero di tutti i colori e Bing, in particolare, finì in galera per guida in stato di ebbrezza e perse il contratto da solista in “Il Re del Jazz” del 1930, e fu poi recuperato nell’esibizione del trio; ma alle sue intemperanze e alla dipendenza dall’alcol pare sia dovuto lo scioglimento dei Rhythm Boys allorché, a causa della sua irreperibilità, il gruppo non si presentò a un’importante esibizione. Ma come si dice: si chiude una porta e si apre un portone, e Bing Crosby da solista è diventato il più grande intrattenitore del XX secolo.

Anche Danny Kaye, al secolo David Daniel Kaminsky, all’epoca del film con i suoi 43 anni non era di primo pelo, ed era un già noto fantasista che si era fatto le ossa nel varietà e che si è imposto come personaggio eccentrico e assai singolare dotato di grande mimica, con un gusto per il nonsense che esibisce in molte sue filastrocche insieme a tic e mossette che diventano suoi tipici, sfoggiando anche un acrobatismo vocale che gli permette di imitare qualsiasi cosa: animali, strumenti e suoni vari. Con la sua aria perennemente in bilico fra il timido restio e l’avventuriero svagato, prese parte a molti film comici e brillanti, che vanno dal fiabesco al romanzesco al surreale. Nel 1955 ricevette l’Oscar alla carriera, insieme a Greta Garbo, e nel 1982 sempre nel corso delle premiazioni Oscar fu insignito del “Premio Umanitario Jean Hersholt” per il suo impegno con l’Unicef, di cui fu il primo ambasciatore nel mondo, a favore dei bambini poveri; e ancora per questo suo impegno ricevette nel 1986 la “Legion d’Onore” francese.

Rosemary Clooney, ebbene sì zia di George Clooney, ma anche madre del prematuramente scomparso Miguel Ferrer, primogenito che ebbe con il doppio marito José Ferrer che risposò dopo aver divorziato – ma all’epoca da quelle parti usava così, vedi Liz Taylor e Richard Burton. “White Christmas” fu il suo primo ruolo importante, in seguito al quale ebbe un suo programma tv, “The Rosemary Clooney Show” e poi vagò come cantante da un casa discografica all’altra, mentre al cinema non farà molto altro di importante. La sua carriera altalenante, nonostante l’indubbio talento, è probabilmente dovuta al disturbo bipolare di cui soffriva, aggravato dalla tragica perdita dell’amico John Fitzgerald Kennedy al cui assassinio assistette praticamente in diretta televisiva; questo trauma la segnò per il resto della vita tanto da renderla dipendente da medicinali stupefacenti. Morì di cancro a 72 anni nel 2001 e il nipote George ricordò come lo protesse a inizio carriera.

trudy stevens | The Heavy Petting Zoo
Trudy Stevens

Vera-Ellen, senza il cognome Westmeier Rohe, iniziò a danzare a 9 anni e ancora giovanissima divenne star del Radio City Music Hall di New York, approdando poi a Broadway e infine arrivò al cinema grazie al produttore Samuel Goldwyn, dove ballerà sul grande schermo con le grandi star maschili dell’epoca, da Frank Sinatra a Gene Kelly e il suo nome diverrà praticamente sinonimo di musical. “White Christmas” fu però il penultimo film di una carriera infelicemente breve a causa dell’anoressia di cui soffriva e della conseguente artrite che sviluppò, costringendola a ritirarsi dalle scene nel 1957. Oggi, purtroppo, eccezion fatta per i cultori del musical d’antan, è un nome praticamente dimenticato nonostante il suo grande talento. Pochi sanno che benché fosse un’eccellente ballerina Vera-Ellen non fosse altrettanto versata nel canto e in questo film i suoi interventi sonori sono doppiati dalla stessa Rosemary Clooney e, quando le due fanno coppia, da Trudy Stevens.

Altre curiosità sul film. I costumi di Vera-Ellen le coprono sempre il collo che mostrava non ben specificati segni del suo disturbo alimentare. La costumista Edith Head non è neanche menzionata nonostante il suo eccellente lavoro e, per il colmo, fu e ancora è la donna con più nomine e Oscar ricevuti, addirittura vincendone 2 nel 1951 perché erano ancora separate le categorie Film in bianco e nero e Film a colori, così lei vinse in B/N per “Eva contro Eva” e a colori per “Sansone e Dalila”. Danny Kaye non fu la prima scelta e prima di lui rifiutarono il ruolo Fred Astaire e Donald O’Connor. E per finire il critico del New York Times scrisse: “E’ un peccato che il film non centri l’obiettivo del divertimento tanto quanto i colori hanno invece colpito i nostri occhi.”

Nel numero da solista di Rosemary Clooney si nota nel quartetto dei boys un giovanissimo George Chakiris già in carriera a Hollywood e visto anche al fianco di Marilyn Monroe. Dopo questo film nel 1959 entrerà nel cast londinese di “West Side Story” e due anni dopo sarà anche nel film di Robert Wise e Jerome Robbins, per il quale vinse nella categoria Miglior Attore non Protagonista sia l’Oscar che il Golden Globe.

Official Website of Academy Award Winner George Chakiris

Anche lui non avrà nuove occasioni per bissare il successo di cui è stato protagonista. Nel 1996, 64enne, si ritira dalle scene e si reinventa come quotato disegnatore di gioielli.