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Comandante

Edoardo De Angelis è un regista napoletano, anzi un autore, da tenere d’occhio; e la napoletanità non è solo una nota biografica ma lo specifico della sua cinematografia. In una decina d’anni ha realizzato cinque film in una parabola crescente sia dal punto di vista dell’impatto su critica e pubblico che su quello prettamente stilistico. Si è diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia nel 2006 con il cortometraggio “Mistero e passione di Gino Pacino” dove racconta in napoletano stretto la storia surreale di un uomo che sogna di fare l’amore con Santa Lucia e che per il senso di colpa perde la vista: parabola tragica e grottesca; cortometraggio che va a finire in Serbia al “Küstendorf Film and Music Festival” dove, vincendo il premio della critica, incontra Emir Kusturica che lo supporterà nella realizzazione del primo lungometraggio, co-producendone nel 2011 l’opera prima “Mozzarella Stories”, Luca Zingaretti fra gli altri, una storia altrettanto grottesca e visionaria che continua a muoversi nell’ambiente partenopeo raccontando però una storia originalissima, che all’epoca pochi hanno visto ma che non passa inosservata alla critica; Francesco Alberoni scrisse sul “Corriere della Sera”: “Gli artisti spesso intuiscono il senso dei tempi. Lo ha fatto Edoardo De Angelis nel suo bellissimo e divertente film”. Un film che oggi varrebbe la pena recuperare.

Il talentuoso autore non perde tempo e con l’amico Pierpaolo Verga fonda la casa di produzioni “O’Groove” con la quale realizza nel 2014 il noir napoletano “Perez.”, Zingaretti protagonista, film col quale arrivano i primi riconoscimenti importanti: ai Nastri d’Argento viene candidato per il miglior soggetto e si aggiudica due premi, a Zingaretti va il Premio Hamilton Behind the Camera e a Simona Tabasco nel ruolo di sua figlia il Premio Guglielmo Biraghi; oltre al Globo d’Oro sempre al protagonista.

Nel 2016 dirige un episodio dei tre del collettivo “Vieni a vivere a Napoli” e l’intenso, tragico e doloroso, “Indivisibili”, che nella storia di due gemelle siamesi ritrova uno sprazzo di grottesco, ma ancora più amaro e feroce: le due gemelle si esibiscono come cantanti “fenomeno” nelle feste di paese, sfruttate dalla famiglia in un ambiente di squallida periferia partenopea, e arriva una caterva di altri riconoscimenti fra candidature, su cui sorvolo, e premi ricevuti: 6 David di Donatello, 6 Nastri d’Argento, 6 Ciak d’Oro, un Globo d’Oro, 4 premi minori al Festival di Venezia e altri 3 al Bari International Film Festival. Il 2018 è l’anno di un altro film di storie dolorose e di solitudini ancora ai margini del capoluogo campano, “Il vizio della speranza” e sono altri riconoscimenti fra cui finalmente quello al miglior regista, ma lontano, al Tokyo International Film Festival, che non è poco. Nel 2020 si dedica al teatro con una “Tosca” per il teatro San Carlo di Napoli, e la televisione realizzando per la Rai il primo di una trilogia delle commedie “in famiglia” di Eduardo De Filippo: “Natale in casa Cupiello” cui seguiranno “Non ti pago” e “Sabato, Domenica e Lunedì”. Il biennio 2021-22 lo dedica alla serie Netflix “La vita bugiarda degli adulti” dal romanzo di Elena Ferrante.

E si arriva a questo “Comandante” con un triplo salto mortale: è il primo film che De Angelis gira lontano da Napoli, è il primo film italiano moderno ambientato in un sottomarino (c’è un precedente del 1955 che diremo) ed è il suo primo con un budget da film internazionale: 14 milioni e mezzo di euro con il pieno sostegno della Marina Militare che ha aperto alla produzione i suoi archivi con i diari di bordo di Salvatore Todaro, il personaggio protagonista interpretato da Pierfrancesco Favino sempre più a suo agio nel riprodurre le cadenze e i dialetti dei personaggi biografici che sempre più spesso interpreta. Alla sua uscita nell’autunno 2023 il film ha incassato poco più di 3 milioni restando assai lontano dal suo costo ma c’è ancora da rifarsi con i diritti tv – al momento è su Paramount+ – con lo streaming, i DVD, il mercato estero su cui non è ancora uscito e il probabile ritorno di fiamma nel pubblico di casa nostra dopo gli eventuali auspicabili premi nostrani.

il vero Salvatore Todaro

Pur iscrivendosi di diritto nel genere bellico, e nel sottogenere sottomarini, il film è crepuscolare, intellettuale, poetico. De Angelis continua la sua ricerca sui personaggi a disagio nel loro contesto, e con lo scrittore Sandro Veronesi che debutta come sceneggiatore, scrive un film con dialoghi e monologhi che hanno una cadenza da tragedia classica dove al protagonista si contrappone un coro, con momenti surreali, come quando tutti, comandante in testa, marciano cantando e ritmando “Parlami d’amore Mariù” come dedica d’amore alle donne che avevano lasciato a casa, e dedicata dal compositore Nino Bixio alla propria moglie, su testo di Ennio Neri per il film “Gli uomini, che mascalzoni…” diretto da Mario Camerini nel 1932 e per la voce del 30enne Vittorio De Sica; la canzone ebbe così tanto successo da divenire per tutti gli italiani un inno all’amore che successivamente fu cantata dai più grandi, anche della lirica.

Coraggiosi momenti surreali, nel film, e grotteschi persino, che si integrano perfettamente nella narrazione riuscendo a coinvolgere ed emozionare, perché il linguaggio alto e ricercato, poetico, da tragedia classica appunto, si sporca dei tanti dialetti che il sommergibile contiene nella sua varia umanità, così sintetizzato dal personaggio del comandante: “Questa è l’Italia unita. Arriva qui un livornese, un siciliano… sono più che stranieri, sono abitanti di due pianeti diversi, e lontani per lingua, cultura, temperamento… eppure proprio il crogiolo di tutti i dialetti, i piccoli manufatti e le grandi opere dell’ingegno, e le ottuse credenze pagane, la rivoluzione egualitaria del cristianesimo e le vecchie reliquie – si sono fusi… è il nostro tesoro. Proprio questo bordello, meraviglioso, e putrido, è l’Italia”: è un’altissima scrittura cinematografica che riesce a mettere insieme ispirazione letteraria e lingua parlata, con monologhi che potrebbero anche diventare repertorio da provino per attori e attrici – perché in un film necessariamente tutto al maschile non mancano le figure femminili: le brevi scene come cartoline ricordo della moglie del comandante, interpretata da Silvia D’Amico, e il monologo della donna che sul pontile guarda partire i marinai, monologo che è valso alla sua interprete Cecilia Bertozzi il Premio David Rivelazioni – Italian Rising Stars, un monologo recitato con voce fuori campo, come un pensiero, e che comincia: “Questo vento, io lo so dove li soffia tutti questi ragazzi, li soffia a morire…” giusto per dare qui il sapore del lirismo della scrittura di De Angelis e Veronesi, che dopo aver concluso il film hanno novellizzato la sceneggiatura per Bompiani.

Immagino che per questa sua scrittura che guarda dentro i cuori e le menti piuttosto che mostrare muscoli, il film potrà piacere più in Europa, e in Giappone dove l’autore è già stato premiato, che in quegli Stati Uniti che tanti film hanno dedicato ai sottomarini. Detto questo il film non manca di pathos e di tensione narrativa in un equilibrio assolutamente magistrale che esplora il limite fra la cieca obbedienza militaresca e la lungimirante pietas umana, con i tanti momenti riflessivi che si alternano a quelli d’azione e tensione: un gran film che secondo me non è stato compreso a fondo. Era in concorso al Festival di Venezia, anche come film d’apertura sostituendo il già programmato “Challengers” – il film americano di Luca Guadagnino la cui uscita è stata posticipata dalla Metro-Goldwyn-Mayer a causa dello sciopero degli attori – ma lì non ha ricevuto nessun premio, neanche minore; ricordiamo che il Leone d’Oro è andato a “Povere Creature” di Yorgos Lanthimos, mentre due Leoni d’Argento sono andati al giapponese Ryūsuke Hamaguchi per “Il male non esiste” e al nostro Matteo Garrone per “Io capitano” che si è aggiudicato anche il Premio Marcello Mastroianni per il debuttante senegalese Seydou Sarr, film che è anche candidato negli Stati Uniti come miglior straniero al Golden Globe e all’Oscar. Film che non ho ancora avuto l’opportunità di vedere. In ogni caso, da quello che leggo, troppa roba con cui confrontarsi, ma io resto un fan di questo film al quale auspico di rivalersi nei prossimi premi nazionali.

Il regista col protagonista

Riguardo ad alcune critiche sul web ne trovo un paio a firma femminile che ideologicamente, e per partito preso, accusano il film d’essere “testosteronico” e ironizzano sulle poche figure femminile come “prefiche”, senza minimamente aver compreso il film sul piano artistico e cinematografico: l’ideologia acceca ed è sciocco volere immaginare, e fin anche pretendere, figure femminili più importanti in una storia che non ne contiene: è come quel politically correct che pretende di rivedere storie e personaggi che appartengono a un’epoca in cui il politically correct non esisteva.

il Cappellini originale

Gran lavoro per lo scenografo Carmine Guarino, concittadino e collaboratore di De Angelis fin dal di lui debutto. Ha ricreato una copia a grandezza naturale del sommergibile Comandante Cappellini il cui nome completo era “Comandante Cappellini – Aquila III – U. IT. 24 – I. 503”. Tranne qualche rara immagine dello scafo non esistono fotografie dell’interno, che è stato costruito nel parco divertimenti Cinecittà World utilizzando come materiale di partenza la replica di un U-Boot costruita per il film statunitense del 2000 “U-571” diretto da Jonathan Mostow, mentre lo scafo esterno è stato costruito col supporto della Marina Militare e di Fincantieri nel bacino navale dell’Arsenale Militare di Taranto, nel cui mare ha poi navigato come una scatola vuota per le riprese esterne. Le riprese subacquee si sono svolte nel Mare del Nord al largo del Belgio da cui provengono alcuni dei personaggi e degli interpreti del film. Mentre gli effetti visivi, che hanno preso il 10% del budget, sono stati curati dall’americano Kevin Tod Haug, fedele collaboratore di David Fincher: un titolo su tutti “Fight Club”, 1999. La curiosità è che il Cappellini è comparso, sempre in copia più o meno conforme, nel 1954 nel film “La grande speranza” di Duilio Coletti; nel film tv anglo-tedesco “L’affondamento del Laconia”, un transatlantico inglese convertito al trasporto di truppe e prigionieri che fu affondato dai tedeschi nel 1942, con il Cappellini che fra altri soccorse i naufraghi; c’è poi un altro film tv del 2022 giapponese “Sensuikan Cappellini-go no boken” che però parte da un aneddoto per raccontare una storia di fantasia. E anche il film di De Angelis, come tanti altri film storici, è incorso in qualche errore o anacronismo: viene usato l’Inno dei Sommergibilisti che però fu creato un anno dopo la vicenda narrata.

Per comporre il cast l’autore partenopeo affida ai suoi fedeli i ruoli principali: il napoletano Massimiliano Rossi, fin qui sentito recitare solo in napoletano più o meno stretto, e col regista fin da “Mozzarella Stories”, è il comandante in seconda e intimo amico del protagonista col quale comunica – primizia assoluta – in dialetto veneto; e ricordiamo che il comandante Todaro era per nascita messinese ma trasferito a Chioggia con la famiglia allo scoppio della Prima Guerra Mondiale; Gianluca Di Gennaro, nipote del cantante Nunzio Gallo, che ha cominciato a recitare da bambino vent’anni fa, qui alla sua prima collaborazione con De Angelis nel ruolo del marinaio Vincenzo Stumpo che dà la vita per salvare l’intero equipaggio, con un altro bellissimo monologo interiore mentre sott’acqua disincaglia il sommergibile da una mina inesplosa: “Andate voi, andate… tanto io sono morto… e che me ne fotte a me?” si conclude il suo monologo. A un altro giovane napoletano, Giuseppe Brunetti, va il ruolo del cuoco di bordo Gigino il Magnifico, già con De Angelis nel televisivo Rai “Natale in casa Cupiello” e anche nella serie Netflix “La vita bugiarda degli adulti”, della cui scrittrice Elena Ferrante è stato anche nel cast della terza stagione della serie Rai “L’amica geniale” creata da Saverio Costanzo. I naufraghi belgi che il Comandante accoglie nel sommergibile sono interpretati da Johannes Wirix, che avendo studiato recitazione presso l’Accademia Silvio D’amico a Roma nell’ambito del Progetto Erasmus, recita anche in italiano e nel film fa da traduttore; Johan Heldenbergh interpreta il suo capitano e Lucas Tavernier è il marinaio belga infame, per usare un termine partenopeo.

Completano il cast Arturo Muselli, noto al pubblico televisivo per il suo ruolo nella serie Sky “Gomorra”; l’ex bambino Giorgio Cantarini che a 5 anni ha esordito come figlio di Roberto Benigni nel film premio Oscar “La vita è bella” aggiudicandosi come primo italiano, e come più giovane, il premio Young Artist Award scherzosamente detto Kiddie Oscar, e che tre anni dopo fu anche in un altro film da Oscar come figlio di Russell Crowe in “Il Gladiatore” di Ridley Scott, e oggi ventenne sta cercando una nuova collocazione artistica; per la rappresentanza siciliana c’è Giuseppe Lo Piccolo che abbiamo visto nell’opera prima di Giuseppe Fiorello “Stranizza d’amuri”. In un cameo l’87enne Paolo Bonacelli.

“Comandante”, titolo assoluto impegnativo ed esplicativo, è anche titolo di altri due film: il documentario del 2003 di Oliver Stone su Fidel Castro, e con l’articolo il fu un film con Totò del 1963. Questo di Edoardo De Angelis, oltre che a mio avviso bello, è anche importante in quanto film bellico biografico, e anche necessario, per conservare la memoria della storia e dei fatti, complessi e schizofrenici, che ci hanno condotto fin qui, a oggi. Dove noi siamo culturalmente più schizofrenici che complessi.

1917, sorprendente macchina ad orologeria

All’inizio non ci si fa caso. Ma dopo il primo raccordo, nel rifugio dove il generale dà l’incarico ai due soldati, comincia la corsa claustrofobica dentro la tortuosa trincea ed è subito chiaro che si tratta di un lunghissimo sofisticatissimo piano sequenza che coinvolge centinaia di uomini fra comparse figuranti e attori, senza contare la troupe tecnica che non si vede ma c’è, lì, dietro e intorno la macchina da presa che non si ferma un attimo: un solo errore di uno fra i tanti e bisogna ricominciare tutto daccapo. Fino al prossimo raccordo che è un’esplosione, e così di seguito tutto il film è costruito cucendo insieme lunghi e difficilissimi piani sequenza fitti di azione: corse, scoppi, sparatorie, dialoghi… Il pericolo poteva essere quello di rallentare l’azione ma, al contrario, la esalta, introiettando lo spettatore in un’unica sequenza, un’azione che si svolge in tempo reale (apparentemente). Solo per questo il film vale il prezzo del biglietto.

Da spettatore mi viene in mente solo un altro film girato in un unico piano sequenza, vero, senza raccordi artificiali, di 96 minuti, del 2002: “Arca Russa” di Aleksandr Sokurov. Un film in qualche modo sperimentale, girato dentro quel Palazzo d’Inverno di San Pietroburgo in cui abitavano gli zar e che oggi è un museo; una lunga sequenza onirica in cui un visitatore, che è la soggettiva dello spettatore, vaga per le sale vedendo i fantasmi del passato: sicuramente affascinante ma anche, a dire il vero, soporifero. Sokurov riuscì a girare l’intera sequenza solo al quarto tentativo, proprio per gli errori che capitavano, e Mendes ha provato le sue sequenze per sei mesi prima di girarle, e il risultato si vede.

Bisogna ricordare che il primo a usare all’interno di un film un “piano sequenza” – fra le altre innovazioni – fu un geniale venticinquenne che nel 1941 scrisse produsse diresse e interpretò il suo primo lungometraggio: lui era Orson Welles e il film “Quarto Potere”, un’opera arrogante e geniale che rifondò il cosiddetto “cinema delle origini” e che merita un approfondimento a parte.

Fatte le dovute ricognizioni sulla tecnica e lo stile, veniamo alla storia, al genere del film, che è un film di guerra, ma di una guerra poco rivisitata nei recenti decenni, la Prima Guerra Mondiale: un cardine nello svolgimento delle battaglie, perché è l’ultima guerra combattuta muovendo le armate in campo secondo il metodo ottocentesco, con le trincee in campo aperto e i corpo a corpo, con i fucili innestati di baionetta, armi e da tiro e insieme armi da taglio. E’ anche l’ultima guerra in cui vengono impiegati i cavalli e all’inizio del film ne vediamo un paio di carcasse. Ma è anche la prima guerra moderna per il gran numero di innovazioni tecnologiche: a cominciare dal filo spinato e per finire coi carri armati, sono stati impiegati per la prima volta la mitragliatrice leggera e il lanciafiamme, le maschere antigas e i primi aerei bombardieri: un nuovo genere di battaglia che ha portato il conflitto nei centri abitati coinvolgendo, per la prima volta massicciamente, i civili, e lasciando sul campo, insieme ai morti, una impressionante quantità di feriti, mutilati e sfregiati: sono di quel primo dopo guerra le fondazioni, nelle nostre città, delle “case del mutilato”, oggi archeologia architettonica, a significare di come la nuova guerra abbia cambiato la civiltà a venire.

Tutti i film di guerra raccontano grandi battaglie o piccoli episodi realmente accaduti. Fra i più recenti ricordiamo il pluripremiato “Dunkirk”, del 2017, anche quello molto interessante per il montaggio ellittico di scene che si svolgono in contemporanea ma da diversi punti di vista; e poi il più lineare “Midway”, dello scorso anno, dove si racconta la riscossa che gli americani si sono presi sull’atollo di Midway dopo l’attacco giapponese subìto a “Pearl Harbor”, altro gran film del 2001. E poi ci sono i film di guerra che raccontano storie private, di persone realmente esistite come anche di personaggi immaginari, letterari, la cui vita viene stravolta dal conflitto. Questo “1917” è un’ambigua sintesi fra i due generi perché, ispirato dai racconti reali del nonno del regista, è una fiction che racconta un evento verosimile in un contesto vero, ed è anche la storia privata di personaggi che vivono e muoiono nella guerra del loro tempo.

I protagonisti sono due ex attori bambini, inglesi come il regista e il resto del cast in una produzione anglo-americana che schiera grandi interpreti in camei di una sola scena. il 28enne George MacKay, che praticamente ha sulle spalle l’intero film, fra i due è quello che ha il curriculum più lungo, e che ha avuto un ruolo da coprotagonista in un altro interessante film bellico, “Defiance – I giorni del coraggio” del 2008. Il 23enne Dean-Charles Chapman, invece, qui è al suo primo ruolo adulto: ha recitato ballato e cantato in teatro in “Billy Elliot the Musical” ed è poi stato un re adolescente della famiglia Baratheon nella saga tv “Il Trono di Spade”; serie da cui proviene anche Richard Madden, lì della famiglia degli Stark, famiglie in sanguinari conflitti, e qui – curiosità per cinefili – fratello maggiore assai somigliante del giovane coprotagonista: fratello da ritrovare alla fine del film un po’ come accade nell’Oscar 1998 “Salvate il soldato Ryan” di Steven Spielberg di cui rimane indimenticabile la sequenza d’apertura con lo sbarco in Normandia.

Gli altri camei nel cast sono di Colin Firth, Benedict Cumberbatch, Mark Strong, Andrew Scott e la francese Claire Duburcq. Di Sam Mendes, il regista co-sceneggiatore, va ricordato che viene dal teatro e ha debuttato in cinema facendo subito centro con “American Beauty”; ha poi fatto a tempo a dirigere, prima di separarsi un paio d’anni dopo, la moglie Kate Winslet in “Revolutionary Road” con Leonardo DiCaprio, rimettendo insieme la mitica coppia cinematografica del “Titanic”. “1917” mi sembra il suo film più personale, oltre a essere quello più rivoluzionario dai tempi del suo debutto cinematografico. Ha già vinto il Golden Globe come miglior film drammatico e miglior regista ma altri premi sono sicuramente in arrivo.

Dunkirk, il film che mancava

“E’ un vigliacco?” chiede il ragazzo del soldato impaurito. “No, è traumatizzato” gli risponde il saggio anziano. Questo scambio di battute non sarebbe mai potuto avvenire nei classici film di guerra, quelli che rivediamo in tv, dove c’erano i vigliacchi e gli eroi, i buoni e i cattivi, sani princìpi e precise regole comportamentali. Oggi tutto è messo in discussione, fortunatamente aggiungo. Dopo il Vietnam ci si è accorti che i ragazzi che tornano dal fronte soffrono di stress post-traumatico e molti non si riprendono più, come viene suggerito in quello scambio di battute.

Dunkirk è la grafica inglese di Dunkerque, cittadina costiera nel nord della Francia al confine con l’Olanda, dove nel giugno del 1940 si svolse un’epica battaglia mai raccontata al cinema, finora: abbiamo avuto film su Pearl Harbor, sullo sbarco in Normandia, su Londra bombardata, su Parigi occupata, Roma città aperta, le battaglie a Berlino durante il nazismo e poi la disfatta, Stalingrado, Leningrado… dunque questo è il film che mancava. E che film!

Christopher Nolan, che l’ha scritto e diretto, ci pensava da ben 25 anni. L’inizio è spiazzante: non si sa dove siamo, non si sa chi spara, non si sa chi fugge né dove fugge; il nemico non si vede mai e l’amico non sempre è quello che sembra; si sopravvive solo per la fortuna e la capacità di nascondersi e mimetizzarsi, travestirsi, senza preoccuparsi di fare gli eroi e semmai solo portandosi dietro un senso di colpa. Film di azione e di scarsi dialoghi, dialoghi essenziali, esplicativi dove necessario e sempre significativi nei rapidi scambi di battute.

Anche i titoli che ci compaiono davanti non si comprendono subito: La Spiaggia, una settimana; Il Molo, un giorno; Il Cielo, un’ora. E via via che le immagini scorrono ci rendiamo conto dei tre diversi piani narrativi, tre luoghi con tre tempi diversi che vengono raccontati insieme e i cui tasselli tocca a noi spettatori mettere insieme: l’azione che nel cielo degli Spitfire della Royal Air Force si svolge in un’ora viene raccontato all’interno della giornata di uno yacht privato requisito dalla marina inglese che a sua volta viene raccontato nella settimana in cui si è svolta la battaglia sulla spiaggia.

Il film, nella sua struttura, è debitore della magnifica serie tv prodotta da Steven Spielberg “Band of Brothers” che invito a recuperare: giovani reclute allo sbando, là capaci anche di gesta eroiche, qui condannati dalla storia solo alla fuga: inglesi e francesi assediati dai tedeschi sulla spiaggia, e quella che si prospettava come una sanguinosissima disfatta volge, benché trattandosi di ritirata e fuga, in un grande successo: più di 300.000 inglesi vengono messi in salvo, e non abbiamo conto delle truppe francesi.

Il film non cede un attimo e meriterebbe un premio corale a tutti gli interpreti nella certezza che premi tecnici arriveranno. Grandi battaglie aeree, tremendi bombardamenti sulla navi in rada cariche di soldati, tensioni fratricide, fughe rocambolesche e momenti di grande impatto emotivo come quando arrivano “i nostri”: una flottiglia di yacht e pescherecci inglesi privati che hanno attraversato la Manica per venire a salvare i ragazzi, ché di ragazzi si tratta.

Gli interpreti. I volti noti sono: Kenneth Branagh, Cillian Murphy, Mark Rylance e Tom Hardy che si riconosce solo dagli occhi dato che per tutto il film recita con la calotta e la mascherina del pilota aereo, lui sì eroico; i volti più o meno noti: James D’Arcy e Jack Lowden. Il resto della truppa: Aneurin Barnard, Tom Glynn-Carney, Kevin Guthrie, Barry Keoghan, Bobby Lockwood, Adam Long,  Charley Palmer Rothwell, Harry Richardson, Harry Styles, Elliott Titterson, Brian Vernel, Fionn Whitehead.

Cinque stelle da non perdere.

American Sniper, un eroe lontano da noi

E’ un instant movie basato sulla biografia di un navy seal, Chris Kyle, che come cecchino (sniper) è divenuto una leggenda fra i suoi commilitoni e anche fra i nemici talebani che hanno messo su di lui una taglia. Un film necessario e anche ovvio per la cultura e la cinematografia americana che così onora i suoi eroi ma anche gli antieroi di cui si è occupata la cronaca, facendo al contempo spettacolo e audience. Uno di quei tanti film che generalmente sono prodotti da e per la televisione e che se arrivano sui nostri schermi sono altrettanto quelli televisivi. Ma questo fa il salto di qualità per l’interpretazione del bravissimo Bradley Cooper che ne è anche produttore esecutivo e per la regia firmata da Clint Eastwood che, pur in linea con i suoi standard sempre molto alti, non aggiunge nulla alla sua personale cinematografia.

Di questo eroe americano ci rimane estraneo il suo totale limpido impegno per la patria dato che noi italiani l’unico impegno che siamo in grado di prendere per la patria è quello di cercare sempre di fregarla perché al contempo ce ne sentiamo sempre fregati: è un rapporto di fiducia e di adesione che a noi manca e la cui indagine ci porterebbe troppo lontano e da un’altra parte rispetto alla chiacchierata su questo film che da mediocre si fa bello per l’impegno artistico che vi è profuso.

Non è neanche cinematograficamente nuovo lo stress post traumatico di cui soffre il protagonista una volta tornato alla vita civile e alla famiglia, semmai è nuovo il modo di raccontarlo che ne fa, piuttosto che il solito disadattato a volte allucinato e altre volte violento, ne fa una maschera gelida e apparentemente priva di emozioni, perché tutte trattenute nell’animo saldo dell’eroe e nell’interpretazione di Bradley Cooper. Uno spunto interessante sarebbe il duello a distanza che il cecchino americano intraprende col suo omologo cecchino talebano, ma nel film è solo accennato perché l’urgenza narrativa primaria è la biografia di Chris Kyle e l’opportunità di un racconto bellico altrimenti epico si ammoscia fra le lacrime e le giuste trepidazioni della moglie, interpretata con altrettanta adesione da Sienna Miller.

All’uscita del film si è parlato di immagini crude e violente ma a mio avviso sono solo chiacchiere per creare interesse al botteghino dato che non sono più crude e violente di moltissimi altri film. Altri interpreti degni di nota sono Luke Grimes e e Jake Mc Dorman come amici e commilitoni dell’eroe americano che ci lascia con un po’ di nervoso e un po’ di invidia perché, diciamocelo pure, noi non abbiamo più né patria né eroi. E neanche più santi e navigatori visto che dei primi il Vaticano fa inflazione e i secondi sono ormai piccoli traghettatori che si vanno a incagliare all’Isola del Giglio…

“300 l’alba di un impero” – ma la vera battaglia è fra estrogeni e testosterone

Capitolo secondo del “300” sulla battaglia delle Termopili dove gli eroici Greci furono sconfitti dai Persiani di Serse. “300” fu a suo tempo un meritato successo per avere inaugurato un nuovo linguaggio cinematografico dal punto di vista visivo, avvicinando l’immagine filmica alla graphic novel, con i fotogrammi trattati in modo da diventare assai simili al tratto disegnato. Ma non era solo vuoto effetto visivo, c’era il ritmo, la storia abbastanza fedele alla Storia, e un glamour visivo che disegnava gli eroi Greci con corpi seminudi scolpiti e i Persiani come diavoli nerovestiti guidati da un cattivissimo Serse la cui invenzione visiva, trucco e costume, rimane per me una delle cose in assoluto migliore del film: una sorta di macho-trans fashion-sadomaso tutto muscoli e catene dorate.

Il merito di questo secondo capitolo è quello di non essere un semplice sequel, o un prequel, ma una side-novel, un racconto in parallelo dei fatti che precedettero la battaglia delle Termopili e di quello che accadde subito dopo. Lo scenario cambia e dalla battaglia di terra fra le gole delle Termopili qui abbiamo grandiose scene di battaglie navali tutte costruite al computer ma assolutamente spettacolari: sono i cartoni animati per noi adulti.

Immediatamente salta subito agli occhi che visivamente questo film è più morbido del primo, meno graphic, e poi la sceneggiatura che si prende molte – forse necessarie? – libertà rispetto alla Storia: una produzione di questo tipo costa parecchio e non può deludere il botteghino. Il primo film fu stupidamente accusato di fascismo – mentre al contrario era il fascismo a ispirarsi a un certo tipo di eroi del passato – e fu anche accusato di machismo perché praticamente non c’era una figura femminile in tutto il film: ma era la storia di una battaglia fra Spartani e Persiani nel 480 avanti Cristo e necessariamente non potevano esserci donne nella storia, se non brevemente nei talami nuziali… Preso atto di queste critiche, che per me rimangono pretestuose, si è confezionato questo secondo film immettendo una massiccia dose di estrogeni in una storia altrimenti tutta testosterone, e inventando di sana pianta un personaggio assolutamente improbabile come Artemisia: per il nome si sono probabilmente ispirati al promontorio Artemisio presso il quale si svolse la battaglia di Salamina; un’Artemisia addirittura comandante di tutta la flotta navale di Serse, in un’epoca e in una regione geografica dove la donna non aveva nessun valore sociale né ruolo pubblico, e ricordo che la Siria di allora è l’Iran di oggi e non è che le cose siano cambiate molto…

Dunque come spettatore devo mettere a disposizione del film la mia credulità di bambino se voglio godere lo spettacolo: lo facciamo più spesso di quanto pensiamo… Altra favola che ci viene qui raccontata è come l’insignificante figlio di re Dario diviene il terribile Serse che abbiamo già conosciuto nel primo film: attraverso un bagno mistico in un lago magico, in cui si immerge brutto anatroccolo e rinasce dorata icona tutta catene e piercing con le sopracciglia disegnate ad ali di gabbiano come troppi giovanotti che seguono il terribile trend. Ok, stavolta dunque c’è dichiaratamente un po’ di favola. Altro importante personaggio femminile è Gorgo, la moglie del re spartano Leonida, l’eroe delle Termopili. Immagino che qui i produttori si siano trovati con l’impossibilità di scritturare per un cameo il Leonida del primo “300”, Gerard Butler, che nel frattempo è diventato una star e costa sicuramente troppo. Così hanno fatto quello che si fa in questi casi, ci si inventa un altro personaggio come sostituto altrettanto credibile e più a buon mercato, così sarà Gorgo ad accogliere Temistocle recatosi a Sparta per chiedere l’aiuto di Leonida, e nel finale la regina in cerca di vendetta si unisce eroicamente nella battaglia di Salamina: a tutti quelli e quelle che hanno criticato l’eccessivo machismo di “300” ora chiedo: quanto c’è di femminile in queste donne forzosamente forti, troppo moderne, ancorché affascinanti, ma alla fin fine mascolinizzate?

Il Leonida originale di Gerard Butler lo vediamo passare brevemente sullo schermo in una sequenza “di repertorio” con accanto Michael Fassbender che nel frattempo è diventato anche lui una star, a dirci quanto successo abbiano avuto gli interpreti del primo film. Che è quello che sicuramente si augurano quelli di quest’altro: Temistocle è l’australiano Sullivan Stapleton, già eroe televisivo nell’inglese “Strike Back” serie action-fanta-thriller dove il nostro è l’affasciante canaglia che si porta a letto tutte le donne che gli capitano e tiro, e qui non si discosta molto dal personaggio tv dato che anche qui gli trovano il modo di farlo esibire in un divertente e violento amplesso con la cattivissima Artemisia interpretato da una Eva Green che sembra spiazzata e forse non all’altezza di questo personaggio così sopra le righe per cattiveria e sensualità, talmente eccessivo da risultare al limite del comico. Serse è sempre il brasiliano Rodrigo Santoro che pur interpretando un personaggio grottesco e surreale non mette mai in difficolta la mia credulità infantile. Lena Headley è la regina Gorgo e anche lei viene dalla televisione di lusso e successo dove è la perfida e incestuosa regina del “Trono di Spade”, a confermare l’andamento secondo cui star cinematografiche passano alla tv da cui provengono nuove star cinematografiche…

Un solo dubbio: possibile che con tutto quel po’ po’ di effetti speciali a disposizione si siano dimenticati di uniformare gli scuri occhi dell’Artemisia adolescente agli occhi chiari di quella adulta?

Monuments Men, and a monument woman

Dal regista George Clooney mi aspettavo qualcosa di più impegnavo. Non ci ha forse abituato a film più intellettuali e anche a volte difficili, come “Confessioni di una Mente Pericolosa”, “Good Night, and Good Luck”, “Le Idi di Marzo”?… Invece ci confeziona un film gradevole ma molto didascalico e dall’impianto televisivo, più vicino alla saga di “Ocean’s Eleven” del suo amico Steven Soderbergh.

Qui un gruppo di simpaticoni studiosi d’arte americani si arruolano nei Monuments Men, una costola dell’esercito statunitense che è appena sbarcato in Europa per combattere il nazifascismo: il gruppetto, cooptando un inglese e un paio di francesi, si occuperà di recuperare le opere d’arte che i tedeschi stanno trafugando in tutto il continente per conto di Hitler: compito notevolissimo che avrà anche un costo in vite umane, che è anche il leitmotiv e il dubbio dell’intera vicenda: può un’opera d’arte valere più della vita umana? Dubbi d’alto livello morale e impresa di alto livello culturale scodellati in un film ben confezionato ma di livello medio… Allora penso che Clooney è una mente raffinata che ha voluto realizzare questo film per il pubblico medio americano, quello di massa, che poco sa di opere d’arte e poco ne vuole sapere, se non al costo di un biglietto cinematografico, portandosi dietro birra e popcorn, a fare il tifo per gli yankees dovunque siano e qualsiasi cosa facciano: da questo punto di vista Clooney ha impacchettato un film vincente, pieno di azione e battute brillanti, uomini eroici e azioni impossibili, tragici sacrifici e risoluzioni insuperate. Le facce poi sono quelle giuste: a parte l’anziano caratterista Bob Balaban frequentatore negli anni settanta di molto cinema indipendente e mainstream che oggi dice poco a tanti e tanto a pochi, ritroviamo il capitano Clooney insieme all’amico Matt Damon, più il grosso caratterista John Goodman che duetta col francese Jean Dujardin come ai tempi del fortunato “The Artist” in cui erano l’artista di cinema muto e il suo impresario, e l’inglese Hugh Bonneville che in patria è protagonista del televisivo “Downton Abbey”.

Conclude il cast la sempre affascinante ed eccellente, e qui per me fil rouge, Cate Blachett, che mette tutto il suo talento a servizio di un ruolo secondario che lei eleva a protagonista riempiendo lo schermo: recita la parte di una francese, e si vede che lo fa con gusto, e viene da chiedersi se non ci fossero disponibili attrici francesi vere, tipo le internazionalizzate Audrey Tatou o Marion Cotillard, ma forse per loro quel ruolo era troppo “di servizio”, ma Cate Blanchett ne ha fatto una preziosa partecipazione proprio mentre andava a vincere il meritatissimo Oscar per il suo ruolo da protagonista in “Blue Jasmine” di un Woody Allen che, prendendosi una pausa da certi filmetti inutili che è venuto a girare in Europa, è tornato alla sua ispirazione principale con un emozionante ritratto di donna nevrotica che nulla di nuovo aggiunge alla sua filmografia ma che proprio per questo è la conferma del suo personale talento.

Concludendo: “Monuments Men” per noi europei che vediamo opere d’arte a ogni passo nelle nostre città è forse un film troppo semplice ma il prezzo del biglietto vale la pena per le buone intenzioni, l’eccellente confezione e l’ottimo cast in cui brilla il diamante solitario di Cate Blanchett, una monument woman. E scusate se è poco!