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Tre passi nel delirio

Uno dei pochi film a episodi che non abbiano per tema il sesso o estensivamente le relazioni fra uomo e donna. E già per questo degno di attenzione. C’è in più che i tre episodi sono liberamente ispirati a tre racconti di Edgar Allan Poe, inventore dei racconti polizieschi, della letteratura gotica o dell’orrore e dei gialli psicologici, senza dimenticare che fu un poeta romantico precursore del simbolismo e della figura del poeta maledetto: praticamente tutta la letteratura di questi filoni si deve a lui.

Così come grande letteratura non è sinonimo di romanzo voluminoso altrettanto il grande cinema non sempre è fatto di lungometraggi: ci sono sia racconti che cortometraggi di grandissimo valore artistico, ma se nella narrativa è più facile trovarli nella cinematografia l’impresa è più ardua, se non altro perché nel cinema italiano, da quegli anni in poi, i cortometraggi che compongono i film a episodi sono tutti figli del Boccaccio e del suo Decamerone, che in alcuni casi diverranno esercizio di stile per attori e registi che si guadagneranno oltre che l’attenzione del pubblico anche premi prestigiosi; fino alla deriva dei film ai episodi che diventeranno un’accozzaglia di volgarità da barzelletta i cui ultimi esempi risalgono ormai agli anni ’80.

Sono del parere che la produzione dei film a episodi andrebbe incoraggiata organizzando i giovani talenti che producono in ordine sparso; perché in genere i cortometraggi, oggi, non sono altro che personalissimi esercizi di stile per farsi vedere sul mercato, nei festival, magari raccogliere qualche riconoscimento per riuscire ad approdare all’agognato lungometraggio: una sorta di passaggio di formazione da abbandonare non appena si raggiunge l’obiettivo della produzione distribuita nelle sale. E’ un peccato perché il cortometraggio, come il racconto in letteratura, può avere un suo valore intrinseco, ammesso che dietro ci sia una volontà produttiva e distributiva.

I giovani registi, costretti a lavorare individualmente, purtroppo nella solitudine delle loro auto produzioni si convincono di essere autori a tutto tondo e così non è: ci sono corti ben scritti e mal girati se il giovane è forte in letteratura, mal scritti e ben girati se è forte in fotografia, e in entrambi i casi spesso male recitati perché i giovani registi non hanno esperienza di lavoro con gli attori e di recitazione, e per lo più, per ragioni economiche e/o affettive, coinvolgono amici complici e amanti tanti carini, tanto efficaci sul piano visivo ma senza alcuna formazione su quello artistico. Basterebbe che le major, Rai Mediaset Sky Netflix Amazon eccetera, organizzassero delle produzioni e dei percorsi narrativi a tema, come in questo film tratto da Poe: giovani sceneggiatori e giovani registi supervisionati e indirizzati in un progetto specifico, una sorta di laboratorio permanente per cortometraggi di qualità da distribuire singolarmente o riuniti in film a episodi. Ne gioveremmo tutti, spettatori e giovani talenti.

“Tre passi nel delirio” è stato distribuito in francese come “Histoires Extraordinaires” dal titolo che Charles Baudelaire diede alla prima raccolta di racconti di Poe che, traducendoli, pubblicò in francese; e in lingua inglese il film fu distribuito come “Spirits of the Dead” dal titolo di una poesia di Poe. Il film si apre con questa citazione di Poe: “Orrore e Fatalità hanno imperato in ogni tempo. Perché dunque segnare una data alle storie che devo raccontarvi?” Il cast è rigorosamente presentato per ordine alfabetico: Brigitte Bardot, Alain Delon, Jane Fonda e Terence Stamp, e quest’ultimo benché interprete di prima grandezza non diventerà mai una vera star come gli altri; in alcune locandine il suo nome non compare mentre in quella americana è aggiunto quello di Peter Fonda, fratello di Jane e interprete con lei nel primo episodio.

Metzengerstein

Roger Vadim & Jane Fonda in France. She's beautiful in this photo. | Jane  fonda, Jane fonda barbarella, Lady jane
Roger Vadim e Jane Fonda

Fu la coppia glamorous del regista francese e della rampolla d’arte americana a pensare al film. Erano reduci da “Barbarella”, un pasticcio fantasy grande insuccesso di pubblico e critica che negli anni diverrà un cult, e dunque perché non continuare su quella strada? Lui a dire il vero non era un grande regista, sfornava solo film pseudo-erotici ed era famoso come tombeur de femme: aveva debuttato in regia lanciando la sua prima moglie in “Piace a troppi (Et Dieu… créa la femme)”, lei era Brigitte Bardot, che lasciò per sposare Annette Strøyberg che abbiamo visto in “Il sorpasso”, che poi tradì con Catherine Deneuve, e poi sposò Jane Fonda che aveva diretto in “Il piacere e l’amore”. Ma l’attività satiresca del regista non si fermò, anzi: continuava coi suoi tradimenti addirittura coinvolgendo Jane in orge con più donne, e lei scriverà nella sua autobiografia: “Mi ero convinta che era quello che anch’io desideravo, salvo scoprire che stava uccidendo il nostro amore”. Anche quel matrimonio ovviamente finì e lui continuò a passare di letto in letto… Ed è questa la fantasia che mette in scena nel suo episodio.

Amazon.it: Metzengerstein: A Tale in Imitation of the German - Poe, Edgar  Allan - Libri in altre lingue

“Metzengerstein: A Tale In Imitation of the German” era il primo racconto di Poe in cui protagonista è il giovane Frederick, ultimo della ricca stirpe dei Metzengerstein, dissipatore crudele e dissoluto, che porta avanti una vecchia faida con la famiglia Berlifitzing, e secondo una profezia sarà un cavallo a mettere fine all’antica contesa; il patriarca Von Berlifitzing resta ucciso nell’incendio delle sue stalle, da cui sfugge un poderoso stallone nero, mentre il rampollo della famiglia rivale viene sospettato di aver provocato l’incendio e l’omicidio. Frederick, soggiogato dal fascino del nero stallone comincia a cavalcarlo incessantemente e quando il suo stesso castello prende fuoco il destriero ve lo conduce dentro, realizzando la profezia.

Roger Vadim adatta il racconto alle sue fantasie erotiche. Frederick diventa la 22enne Fredericka scritta su misura per la 32enne Jane Fonda, attrice seria e blasonata che aveva rilanciato come sex symbol, e la rimette in scena come nuova Barbarella del ‘500 europeo la cui dissolutezza si manifesta in statiche e stanche orge con esuberanza di gentil sesso, e in poche ridicole battute che ci fanno capire quanto la contessina sia capricciosa e crudele. Eh sì perché la sceneggiatura non sa far altro che riscrivere un lungo racconto con voce fuori campo che qua e là occasionalmente dà spazio a striminziti dialoghi fatti di quattro battute; il vecchio Von Berlifitzing diventa un aitante cugino della casa nemica – interpretato da Peter Fonda – di cui Fredericka si innamora e poiché non ricambiata gli fa incendiare le stalle e il cugino amato nemico muore; per il resto è tutto cartoline di castelli e rovine, lunghe cavalcate e fuochi purificatori. Un’occasione più che sprecata che sfiora il ridicolo, una sfilata di moda per Jane Fonda che indossa fantasiosi costumi anni ’60 che occhieggiano al ‘500, una Jane Fonda che non avendo nulla da recitare bamboleggia secondo le fantasie del suo improvvido consorte regista, ma che l’anno seguente verrà candidata all’Oscar per “Non si uccidono così anche i cavalli?” di Sydney Pollack a riprova delle sue capacità artistiche.

William Wilson

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Il secondo episodio, “William Wilson”, è adattato e diretto da Louis Malle che vi rimane abbastanza fedele. In realtà il regista partecipa a quest’operazione che reputa commerciale solo perché ha bisogno di soldi per finanziare il film a cui sta lavorando: “Soffio al cuore”. William Wilson è il protagonista di una storia grottesca sul tema del doppio che racconta in prima persona della persecuzione che subisce sin dall’infanzia da un suo omonimo, che paradossalmente gli è anche estremamente somigliante. Nel finale W.W. affronta il suo persecutore una volta per tutte e, trascinatolo in una stanza lo sfida a duello, e avendo la meglio sul suo avversario riesce a infliggergli un colpo mortale; si accorge però di trovarsi di fronte a uno specchio, Il cui riflesso gli bisbiglia la frase conclusiva: “Tu hai vinto ed io cedo. Ma tu pure, da questo momento, sei morto – sei morto al Mondo, al Cielo, alla Speranza! In me tu esistevi – e ora, nella mia morte, in questa mia immagine che è la tua, guarda come hai definitivamente assassinato te stesso.”

Alain Delon e Brigitte Bardot in una pausa sul set

Nel film il racconto in prima persona è trasferito in una confessione a un prete interpretato da Renzo Palmer; altra comprensibile variazione è la trasformazione del giovane da spennare barando al tavolo da gioco in una ambigua donna, per inserire una figura femminile in un racconto tutto al maschile di cui è protagonista assoluto Alain Delon, divo del momento definito uomo più bello del mondo, qui in un’interpretazione assai convincente. Per il ruolo dell’incallita giocatrice d’azzardo, fascinosa e ambigua, figura che nel film non racconta alcun tentativo di seduzione in aggiunta al gioco di carte, non asessuata ma distaccata, Louis Malle avrebbe voluto l’androgina Florinda Bolkan, che da hostess brasiliana poliglotta era stata appena lanciata da Luchino Visconti con un piccolo ruolo in “La Caduta degli Dei”, ma i produttori, fra cui l’italiano Alberto Grimaldi, volevano un nome di prima grandezza e gli imposero Brigitte Bardot, che bontà sua accettò il piccolo ruolo, ma per la quale il regista non nascose il disappunto definendola inadatta; a sua volta le impose una parrucca nera simil Florinda Bolkan che però la fece somigliare a Claudia Cardinale, ma B.B. recitò il suo ruolo come dovuto, con freddo distacco e senza bamboleggiare; inevitabilmente però le manca l’ambiguità che il regista aveva immaginato inserendo una donna, unica, in una sala da gioco completamente al maschile. Purtroppo Louis Malle a mio avviso sbaglia il finale togliendogli il fascino del mistero: trasferisce il duello all’aperto e il doppio mortalmente ferito non si riflette più da uno specchio ma è lì fisicamente presente davanti a lui, pur maledicendolo con la frase finale del racconto.

Toby Dammit

Toby Dammit: The Italian Connection #2 |

Protagonista del terzo episodio diretto da Federico Fellini è Toby Dammit, dal racconto “Mai scommettere la testa con il diavolo” in cui Poe racconta di un giovanotto pieno di cattive abitudini che la severissima educazione impartitagli dalla mamma nell’infanzia ha incoraggiato anzichenò, dato che le punizioni materne invece di scacciare il male via da lui, al contrario, in lui introducevano il male; fra le varie cattive abitudini di Toby Dammit c’è quella di ripetere continuamente “scommetto la mia testa col diavolo”… e poiché il diavolo vince tutte le scommesse lo sconsiderato giovanotto morirà in un incidente – decapitato. Nomen omen: per lui lo scrittore inventa il cognome Dammit che suona come damn it! un’imprecazione che sta per dannazione! e associata a un nome specifico, Toby, diventa maledetto Toby.

Toby Dammit (1968) di Federico Fellini - Recensione | Quinlan.it

Federico Fellini spazza via tutto il contesto del racconto e tiene solo il personaggio che inserisce nel suo mondo, contemporaneo e insieme fantastico. Toby Dammit diventa un attore britannico, come il suo interprete Terence Stamp, trentenne in ascesa dalla carriera assai promettente, candidato all’Oscar già al suo debutto cinematografico e poi protagonista con i più grandi registi del momento, ma negli anni ’70 la sua carriera langue e lavorerà per lo più in ruoli di supporto grazie alla sua versatilità interpretativa che lo condurrà nel 1995 alla candidatura ai Golden Globe per l’interpretazione di un transessuale in “Priscilla la regina del deserto” di Stephen Elliot. Come Toby Dammit è per Fellini una star alcolizzata che prelevato all’aeroporto di Roma viene condotto in auto da un prete, Salvo Randone che sarà di nuovo con Fellini nel successivo “Satyricon”, che come religioso sta collaborando alla sceneggiatura di un western cattolico con un Gesù cowboy, ironia al vetriolo felliniana sui contemporanei spaghetti-western dell’innovatore Sergio Leone. Sin dall’inizio, con un gruppo di suore i cui veli svolazzano nell’atrio dell’aeroporto, il regista ci introduce nel suo mondo, una sfilata di tipi e situazioni che Toby intravede nel lungo percorso per le vie di Roma sull’auto che lo condurrà allo studio televisivo dove va in scena in diretta tivù la serata in cui anche lui verrà premiato con la Lupetta d’Oro, anch’essa invenzione felliniana. Va da sé che lo spettacolo è un ulteriore palcoscenico con cui il regista-autore mette in scena le sue fantasmagorie cui però l’attore britannico, molto preso dall’alcol, sembra poco interessato, anche perché non capisce nulla: parla solo inglese, nel film non tradotto e non sottotitolato, e quello che dice, benché comprensibile oggi più di quanto lo fosse all’epoca quando la conoscenza della lingua non era così diffusa, arriva allo spettatore parzialmente incomprensibile tanto quanto l’attore non comprende gli italiani: è un dialogo fra sordi, un’incomprensione reciproca di cui si danno per scontati i temi, le frasi, i luoghi comuni, il chiacchiericcio italiano come il biascicare inglese, entrambi reciprocamente incomprensibili e come tali archiviati e portati avanti fino all’estremo di un’intervista con domande senza risposte, condotta da Milena Vukotic, già con Fellini in “Giulietta degli spiriti”. Il genio di Fellini è tutto qui: fa del racconto morale di Poe un racconto immorale del suo mondo contemporaneo, in cui mostra la sua Roma e il suo teatro di posa a Cinecittà come simboli di tutta l’italianità, grottesca e becera, arrogante e rumorosa, colorata e cupa al contempo, cattolica e strafottente. E Toby Dammit, che aveva preteso una Ferrari da guidare spericolatamente così come ha vissuto, va incontro al destino che Poe aveva scritto per lui. A Fellini importa poco di quel Toby Dammit ma non per questo ne fa un film minore, anzi lascia il segno del suo indiscutibile genio e questo episodio è in assoluto il migliore dei tre, presentati sullo schermo per ordine di riuscita artistica per il gradimento in crescendo di noi spettatori, adesso in cerca degli altri due film a episodi a cui Fellini ha partecipato: “L’amore in città” del 1953 e “Boccaccio ’70” del 1962. Da ricordare che nel 1977 è uscito nelle sale il film “2 Fellini 2” che metteva insieme “Toby Dammit” e “I Clowns”.

La bambina di Mario Bava, che in realtà è interpretata da un maschietto, Valerio Valeri, a confronto con la bambina di Federico Fellini interpretata da Marina Yaru

Una curiosità. Fellini immagina che Toby Dammit sia perseguitato dalla visione di una inquietante bambina tutta bianca con le unghie smaltate di rosso: è il suo demone, il diavolo che attende la sua testa. Questa figura di bambina inquietante il regista la prende pari pari da un film horror che Mario Bava aveva girato un paio d’anni prima, “Operazione paura”, che è il fantasma di una bambina morta anni prima in un incidente e che ora, in cerca di vendetta, causa le morti misteriose del film. Quando Mario Bava vide “Toby Dammit” se ne lamentò con Giulietta Masina: “E’ la stessa del mio film!” E la moglie di Fellini alzò le spalle: “Sai com’è Federico…”