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I vinti – a proposito di mostri

1952. Terzo film di Michelangelo Antonioni dopo “Cronaca di un amore” e “La signora senza camelie”. L’autore, già quarantenne, aveva cominciato ad interessarsi al teatro già da universitario, finché poco meno che trentenne si trasferì a Roma attratto dal sogno della celluloide e cominciò a scrivere per la rivista “Cinema” mentre frequentava pure il Centro Sperimentale di Cinematografia e collaborando alla sceneggiatura del film bellico propagandistico del 1942 di Roberto Rossellini “Un pilota ritorna”. Dopodiché andò in Francia a offrirsi come assistente a Marcel Carné nel film favola “L’amore e il diavolo” sempre del ’42, e l’anno dopo rientrò in Italia a causa della guerra che vedeva le due nazioni su fronti opposti. Lavorò a dei cortometraggi e con Luchino Visconti ad altri progetti che non videro mai la luce, e a guerra terminata partecipò, insieme a Carlo Lizzani e Cesare Zavattini alla sceneggiatura del post-bellico “Caccia tragica”, opera prima di Giuseppe De Santis, la cui opera seconda sarà il capolavoro “Riso amaro”. Antonioni, che non è più un ragazzino, freme, e forte della sua esperienza tecnica dietro la macchina da presa, nonché portatore di messaggi molto personali, debuttò con la storia noir di una coppia in “Cronaca di un amore” in cui lucidamente, e a suo modo, raccontò dei mostri. Con “La signora senza camelie” raccontò il mondo del cinema graffiando via la patina luccicante con la quale il mezzo si era fin lì raccontato, ambiente di mostri esso stesso, e al contempo l’autore introduce uno dei temi che caratterizzeranno la sua cinematografia: la crisi dei sentimenti, lo squallore oltre il sentimentalismo. Qui scrive soggetto e sceneggiatura insieme a Giorgio Bassani, Diego Fabbri, Suso Cecchi D’Amico e Turi Vasile.

Segue questo strano film moraleggiante fatto di tre episodi che nelle filmografie ufficiali di Antonioni viene spesso dimenticato: eppure non è un film secondario o brutto, tutt’altro. La sua debolezza sta forse nella lunga spiegazione in apertura del film, voce fuori campo di Mario Pisu su immagini di repertorio e titoli di giornali che spiegano la poetica del film che vuole raccontare il dramma sociale della violenza gratuita perpetrata da bravi ragazzi di buone famiglie: l’orrore dei mostri che una decina di anni dopo, prendendosi meno sul serio e attraverso la lente deformante del paradosso e del grottesco, Dino Risi racconterà nel suo capolavoro a episodi sfruttando le maschere di Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi. Ma non tutti sono portati alla commedia e la grandezza di Antonioni sta tutta nella sua poetica, oltre che nel suo stile lucido e tagliente. Ha viaggiato e ha lavorato in Francia ed è subito evidente che le sue aspirazioni guardano già fuori dai confini nazionali e, benché potendo raccontare storie di crimini tutti italiani che certo non mancavano in cronaca, sceglie di raccontare i tre episodi così come li ha letti sulla stampa internazionale e dedica un episodio alla Francia, uno all’Italia e l’ultimo all’Inghilterra, girati in loco e con troupe tecniche e artistiche locali. E ricordiamoci che in quel 1952 la guerra è finita da appena sette anni.

Francia, Parigi. I bravi ragazzi borghesi covano braci ardenti: la bella Simone cova disprezzo per i genitori e sogna una vita da favola; Pierre è un mitomane megalomane che si racconta come un parvenu, senza vergogna quando favoleggia di essere ricco oltre che desiderato dalle donne, le più anziane delle quali pagherebbero per averlo; i fratelli André e Georges che si fingono studenti modello ma architettano di uccidere l’amico ricco per fare anche loro una vita da favola possibilmente all’estero. Nel gruppo di giovani attori l’unico che ha avuto una brillante carriera è stato Jean-Pierre Mocky che cominciò come attore e poi facendosi assiduo aiuto di Antonioni imparò il mestiere e proseguì come regista, talmente prolifico da riuscire a girare anche tre film in un anno – qui nel ruolo di Pierre, la vittima. Non c’è un ruolo per il 45enne Alain Cuny, che aveva già lavorato con Antonioni in “La signora senza camelie”, e qui l’attore si accontenta di affiancare il maestro italiano come aiuto regista, anche se non farà mai il regista. Alla sceneggiatura si aggiunge la firma del francese Roger Nimier. L’episodio ebbe seri problemi di censura in patria tanto che non fu distribuito fino al 1963.

Questi i fatti: nel settembre del 1952, un uomo che resterà identificato solo come Monsieur I. intentò causa per chiedere che il governo francese sequestrasse il film che all’epoca era ancora in produzione. Il titolo francese del film era “Sans Amour” ed era composto da tre parti, tutte basate su storie vere, una delle quali era un famigerato affair del 1948 in cui un ragazzo di sedici anni aveva sparato a un compagno di classe, apparentemente a causa di una ragazza. Monsieur I. era il padre di quella ragazza, citata come Nicole I. che era stata condannata per complicità nel crimine, ma in quanto minorenne il suo nome restò secretato. Monsieur I. accusava il regista Michelangelo Antonioni e il suo assistente alla regia Alain Cuny di aver girato una storia in cui la ragazza sarebbe stata identificabile. Il governo francese prese le sue severe misure contro l’episodio: In primo luogo l’esportazione del negativo in Italia, dove Antonioni risiedeva, fu vietata; ma il divieto non divenne esecutivo e allora il governo pensò bene di vietare l’episodio in Francia, perché – come scrisse il critico Jean de Baroncelli su Le Monde dieci anni dopo, nel 1963, quando l’episodio fu distribuito sul territorio francese: – “Il Ministero della Giustizia si oppone alla realizzazione di qualsiasi sceneggiatura che evochi una vicenda giudiziaria che coinvolga persone ancora in vita”.

Italia, Roma. Protagonista è il 22enne Franco Interlenghi che aveva debuttato 15enne in “Sciuscià” di Vittorio De Sica, film premiato con l’Oscar. È il bravo ragazzo di buonissima famiglia che non accontentandosi del lusso in cui vive, c’è la servitù che lo chiama “il signorino”, invece di andare all’università si dà al contrabbando di sigarette: perché la gioventù gli brucia dentro e vuole tutto e subito. Ma il trasbordo delle sigarette allo scalo di San Paolo, allora periferia della città, viene interrotto dalla polizia e seguono fuggi fuggi e sparatorie, in una delle quali il giovane mostro uccide un uomo, ma poi nella fuga fa una brutta caduta in cui batte la testa. Rinviene, è sonnolento, raggiunge la sua ragazza e le confessa il delitto in un monologo un po’ troppo retorico, e a rendere ancora meno plausibile il dialogo che segue c’è che lei alla confessione del delitto non batte ciglio: vabbè che è ciecamente innamorata, ma un minimo di sana reazione sarebbe stato logico. È l’episodio meno riuscito e forse anche per questo non ebbe alcun problema con la censura. La ragazza è Anna Maria Ferrero che aveva debuttato nel 1950 nell’opera prima di Claudio Gora “Il cielo è rosso” e da allora è stata attivissima fino a tutti gli anni Sessanta, quando si ritirò per fare la moglie a tempo pieno del francese Jean Sorel, salvo poi pentirsene quando era troppo tardi. Nei ruoli dei genitori la signora del teatro Evi Maltagliati e l’ex baritono Eduardo Cianelli; il caratterista cine-televisivo Mario Feliciani è il commissario di polizia; Francesco Rosi è l’aiuto regista che debutterà come autore sei anni dopo con “La sfida”. Ah dimenticavo: il protagonista muore nel suo letto per le conseguenze del trauma cranico.

Inghilterra, Londra. Il mostro è uno psicopatico egomaniaco megalomane e anche lui vuole fama e ricchezza senza onesto sudore della fronte; è un poeta frustrato e frustrante e poiché il quotidiano scandalistico Daily Witness paga chiunque porti una storia da prima pagina – questa è l’altra mostruosità creatrice di mostri – va a vendere la sua notizia: ha ritrovato il cadavere di una donna e pretende di scrivere lui stesso l’articolo con tanto di sua foto in quanto anche autore del pezzo. Ma la cronaca trita e passa oltre, così dopo qualche giorno, di nuovo in cerca di soldi facili e di fama, confessa l’omicidio, credendo di aver commesso un crimine perfetto per il quale non potrà mai essere condannato. Ovviamente si è sopravvalutato e viene condannato a morte.

L’episodio è riuscitissimo, tanto che incorre nelle ire della censura italiana e tagliato fino a renderlo incomprensibile. Verrà recuperato integralmente e inserito in un altro film a episodi “Il fiore e la violenza” del 1962, che mette insieme, oltre all’episodio di Antonioni girato dieci anni prima, uno girato da Jean Renoir addirittura nel 1937, e uno completamente nuovo di François Reichenbach, poliedrico autore francese che fra le altre cose scrisse delle canzoni per Édith Piaf. Il centratissimo protagonista è interpretato da Peter Reynolds qui certamente nel suo ruolo più importante dato che il resto della sua carriera fu tutta una carrellata di caratterizzazioni in film di serie B; il giornalista lo interpreta il caratterista Patrick Barr. L’anziana patetica vittima è interpretata dall’ex attrice del muto Fay Compton; mentre la ventenne Eileen Moore, che interpreta la passione non corrisposta del protagonista, avrà una carriera di genere.

Il film, che fu presentato senza alcun esito al Festival di Venezia, benché considerato minore nella produzione dell’autore, e anche imperfetto, è certamente molto interessante e sicuramente da recuperare. Ciò che colpisce è che dalla sua analisi in poi, quel tipo di mostri urbani, di generazione bruciata come li definisce nel discorso di apertura, non hanno più smesso di esistere e quei giovani senza valori, o il cui unico valore è la soddisfazione personale a tutti i costi anche attraverso il crimine, sono ancora oggi in cronaca. Antonioni li racconta come figli della guerra, ragazzi nati durante il conflitto, che nella ritrovata pace non hanno più i valori fondanti delle generazioni precedenti e aspirano a un benessere, informe e indistinto, che con il boom economico avverrà solo dieci anni più tardi. Solo due anni dopo la distribuzione italiana re-intitolerà “Rebel Without a Cause” di Nicholas Ray come “Gioventù bruciata”: fu un caso? Sta di fatto che quel film divenne il manifesto di una generazione, di tanti giovani che si videro rappresentati e che si immedesimarono nel protagonista che, al contrario dei giovani frammentati nei tre episodi di Antonioni, è anche accattivante, affascinante. Antonioni avvertiva che avrebbe raccontato la realtà senza abbellirla ma il suo film è stato praticamente dimenticato mentre l’antieroe di James Dean ancora vive: segno che la realtà, al cinema, non può mai essere reale.

I mostri oggi

1962, Dino Risi dirige Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi nel film a episodi “I mostri”: è l’inizio del boom economico, è l’inizio della commedia all’italiana, è un film da salvare fra i 100 migliori. 1977, Risi torna a dirigere Gassman e Tognazzi in “I nuovi mostri” e alla regia si aggiungono Mario Monicelli e Ettore Scola, mentre nel cast entrano Alberto Sordi e Ornella Muti: siamo negli anni di piombo e i mostri si fanno anche più sanguinari, e il film concorre agli Oscar. 2009, nessuno dei registi e dei protagonisti originali è più fra noi – c’è solo la 68enne Ornella Muti che però non conta dato che era solo una bella presenza. I due film ogni tanto tornano in tv e si sono radicati nel nostro immaginario collettivo: nessuno più pensava a un altro seguito. Ma non si può stare mai tranquilli: il cinepanettonaro Enrico Oldoini aveva un’alta opinione di sé.

Enrico Oldoini con Terence Hill sul set di “Don Matteo”

Diplomatosi attore all’Accademia Nazionale di Arte Drammatica fu poi soggettista e sceneggiatore collaborando con molti bei nomi: Marco Ferreri, Pasquale Festa Campanile, Alberto Lattuada, Nanni Loy, Lina Wertmüller… ma deve essersi sentito più in sintonia con Sergio e Bruno Corbucci di cui ha seguito le orme sfornando film di cassetta. Passato al piccolo schermo lì ha avuto il merito di ideare il personaggio e la serie di “Don Matteo”, uno dei pochi format non traslati da adattamenti esteri. Questo suo “I mostri oggi” è la sua ultima regia cinematografica. È morto 77enne nel 2022 per una sclerosi laterale amiotrofica che l’aveva colpito cinque anni prima.

Questo suo ultimo film è nelle intenzioni (anche) un sincero omaggio, e partendo da un suo soggetto coinvolge nella sceneggiatura i figli d’arte Silvia Scola e Giacomo Scarpelli; assicuratosi l’eredità dei nomi coinvolge nel pacchetto l’amico sceneggiatore di genere Franco Ferrini, e Marco Tiberi già sceneggiatore nella squadra di “Don Matteo”: non esattamente il meglio delle penne cinematografiche in circolazione. Alla produzione tornano Pio Angeletti e Adriano De Micheli con la loro Dean Film insieme a Maurizio Totti (nessuna parentela col pupone Francesco Totti) della Colorado Film fondata insieme a Gabriele Salvatores e Diego Abatantuono (che dunque ha avuto il privilegio della prima scelta sui ruoli) e alla Mari Film di Massimo Boldi che però si tiene fuori dal cast. Vedo adesso per la prima volta questo film di 14 anni fa perché sin dallo stile del manifesto puzzava già di cinepanettone: tutti insieme i bei volti della commedia all’italiana più o meno intelligente o più o meno scollacciata, niente a che vedere coi manifesti dei mostri originali di cui pretende di essere sia omaggio che seguito. D’altro canto ogni film coi propri mostri è specchio del suo tempo: negli anni ’60 gli italiani scoprivano di non essere brave persone e nei ’70 ebbero la conferma di essere pessimi; cosa resta da scoprire agli italiani del nuovo millennio?

Ferro 6

C’è di nuovo che il film si apre con una carrellata su alcuni dei personaggi che vedremo e gli episodi si raccordano l’un l’altro senza più la distinzione netta dei cartelli coi titoli: narrazione più fluida e moderna. Nel primo episodio facciamo la conoscenza di alcuni personaggi del jet-set capitolino in un golf-club fra cui spiccano il Diego di Diego Abantantuono che fa il piacione con la bella di turno, la spagnola Pilar Abella, praticamente rifacendo sé stesso; e c’è il sofisticato Gino di Giorgio Panariello che davvero si sforza, sostenuto anche dal trucco, di creare uno di quei mostri che sappiamo: meno originale perché in pratica li abbiamo già visti tutti e meno originale perché le stesse maschere del pur volenteroso Panariello le abbiamo già viste tutte in tv. Sul green una sciroccata Angela Finocchiaro, che rifà anche lei una delle sue solite maschere da “La TV delle ragazze” di Rai 3 1988-89; non accreditato il suo istruttore dal volto rotondo incorniciato da folta chioma che nasconde Marco D’Amore, futura star del televisivo “Gomorra”, Sky 2014-2021. I mostri sono ancora i ricchi che parlano con la erre moscia: tutto qui?

Unico grande amore

La forzatura è che i due che si incontrano per caso si chiamano Romeo e Giulietta, ma vabbè: genialità e originalità non abitano questo film. Lei è disabile, lui la corteggia, la mette su una giostra e le ruba la carrozzella per accedere gratis allo stadio nel settore riservato ai disabili, per poi saltare in piedi al gol d’a Roma. Il mostro suburbano c’è, nipote di quello che interpretò Gassman in “Che vitaccia!” nel 1962. Aderenti i due protagonisti, Mauro Meconi e Susy Laude, che sono interpreti generici senza maschera grottesca perché ormai la mostruosità è interiorizzata e metabolizzata. Sarebbe stato più divertente e meno ordinario se nei due ruoli ci fossero stati due nomi di prima grandezza a misurarsi con l’ordinarietà.

Il malconcio

La premessa è arguta: partendo dall’episodio “Pronto soccorso” del 1977 con Sordi unico monologante, indaga sul pirata della strada – figura peraltro accennata da Gassman in “La strada è di tutti” nel 1962 – mostrandoci il ritrattino grottesco di un mostro che al volante sniffa cocaina e fa scommesse al telefono, nell’esecuzione di Diego Abatantuono che non è Gassman né Tognazzi né Sordi. L’altra buona trovata è l’aver dato un carattere e una maschera alla vittima del pirata, che con Sordi era un attore generico perché Sordi non dava spazio a nessuno, e qui c’è invece Giorgio Panariello che fa tutte le facce possibili per prendersi il suo spazio. Terza buona trovata è che non avendo più un Alberto Sordi la figura del soccorritore si sdoppia in una coppia con problemi di coppia, Claudio Bisio e Sabrina Ferilli, e qui casca l’asino perché la sceneggiatura si fa più che banale, servita da una recitazione più che ordinaria. L’ultima buona trovata è il malconcio che si va a cercare da sé un pronto soccorso, sfuggendo alla litigiosa coppia che fa pace pomiciando sul cofano dell’auto, con l’improvvido Bisio che davvero fa guizzare la lingua sulle labbra della collega – scherzo da guitto che avrebbe dovuto essere cestinato al montaggio, ma non in un film e in una compagine che esalta – non il sopra – ma il fuori le righe. Soggetto con buone trovate però mal sviluppate in scrittura.

Il vecchio e il cane

Veloce e riuscito episodio sui mostri contemporanei che si apre con un tizio che abbandona il cane per strada. Si ferma un’altra auto con famigliola in partenza per le vacanze estive: genitori con due ragazzi più nonno e cane. Si discute sull’abbandono degli animali e sul costo della vita, poi il capofamiglia invita il vecchio padre a far scendere il cane per i bisogni – e sgomma via abbandonandoli entrambi. Giorgio Panariello al naturale con la sua parlata toscana, così come l’anziano Sergio Forconi che interpreta suo padre; la milanese Angela Finocchiaro si adegua e parla anche lei toscano. Finora l’unico episodio pienamente riuscito.

Padri e figli

Abatantuono e Panariello duettano nella riscrittura di “Come un padre” del 1962 con Ugo Tognazzi e Lando Buzzanca, e l’aggiornamento sta nel fatto che il questuante non è un ansioso uomo tradito ma un meditabondo padre che ha scoperto l’omosessualità del figlio, di cui il professore è l’insegnante; avendo rassicurato il padre, l’anziano docente torna a letto dove ad attenderlo c’è il ragazzo, e il rimando all’altro episodio c’è tutto. La trasposizione con le tematiche del nuovo millennio funziona, quello che non funziona è sempre la sciatteria della sceneggiatura che non sa rinunciare a battute banali, però con Panariello sempre un passo avanti rispetto al bolso Abatantuono. Ma non finisce qui e l’episodio continua con uno sviluppo tutto originale: con l’invito a pranzo che nel ’62 chiudeva l’episodio mentre qui apre un nuovo arguto scenario in cui il padre spinge al confronto con rottura fra il figlio e il professore. Panariello con la sua toscanità pervade l’intero episodio che come nel precedente prevede una moglie conterranea, qui l’imitatrice umbra Emanuela Aureli, mentre il figlio è il debuttante Rocco Giusti con quest’unico film nel curriculum visto che essendo già star di “CentoVetrine” resta a fare la star nelle soap tv. Secondo episodio promosso.

La testa a posto

Dalla toscanità alla napoletanità. Anna Foglietta ha lasciato il lavoro per amore del fidanzato musulmano Alì, interpretato dal tunisino Mohamed Zouaoui, qui al suo secondo film in un carriera che lo porterà a vincere il Globo d’Oro nel 2011 (Golden Globe italiano dalla stampa estera) al miglior attore rivelazione per “I fiori di Kirkuk” dell’iraniano Fariborz Kamkari. Senza più gli introiti del suo lavoro la ragazza non potrà più aiutare la famiglia in ristrettezze economiche, col capofamiglia Carlo Buccirosso che qui non fa rimpiangere i mostri d’antan, la cabarettista Rosalia Porcaro come madre e l’ottantunenne Enzo Cannavale come nonno, qui al suo ultimo film. Ma l’aver lasciato il lavoro non basta e il fidanzato musulmano rompe con la ragazza, che dunque può riprendere il suo lavoro di prostituta per aiutare la famiglia, col padre che esulta perché la figlia ha rimesso la testa a posto. Paola Lavini come amica e collega della protagonista. Un altro episodio completamente riuscito se non fosse per le solite sciatterie nella scrittura più da serie tv che da cinema di serie A.

La fine del mondo

La fine del mondo è il buco nell’ozono che porta un caldo innaturale (e in questi giorni tutti ne abbiamo esperienza) ma sulla spiaggia sono tutti inconsapevoli e contenti – non abbastanza mostri dentro, però: sono caratteri banali. Veloce episodio corale dove ci sono tutti quelli visti fin qui: Anna Foglietta, Sabrina Ferilli, Carlo Buccirosso, Giorgio Panariello, Susy Laude e Mauro Meconi di nuovo in coppia, Diego Abantatuono che si auto-cita rifacendo il suo terrunciello, maschera con la quale fece ben 17 film in 3 anni, Angela Finocchiaro e Claudio Bisio. Nella foto di gruppo manca l’intervistatore tv, attore non accreditato che risponde al nome di Antonio Friello.

Povero Ghigo

Entra in scena la scuola milanese. Abatantuono duetta con Bisio, poi si aggiunge Ugo Conti. Ex attori cabaret i due vanno al funerale del compagno di scena Ghigo, ma il primo che nel frattempo è divenuto un divo di fiction tv dirotta il secondo verso un altro funerale dove fa l’ospite a pagamento. All’inizio dell’episodio altri due comici milanesi, Enzo Polidoro e Stefano Vogogna, come funzionari televisivi. Luciano Manzalini, in solitaria dal duo Gemelli Ruggeri, è il prete officiante. Altro degno episodio di mostri da nuovo millennio.

Razza superiore

Episodio che graffia più in profondità mettendo in scena gli argomenti sensibili del razzismo e del classismo. La vecchia nobildonna nostalgica del regime fascista e amica di gioventù di Edda Mussolini, la primogenita del Duce, costretta in carrozzella si fa accompagnare dal badante immigrato il quale, non appena la vecchia si addormenta, la traveste da mendicante e la lascia all’ingresso di una chiesa dove i parrocchiani in uscita le lasceranno molti oboli. Una trentina di euro che il badante si dividerà col maggiordomo perché la nobildonna sono anni che non paga gli stipendi. Protagonista la vera nobildonna Valeria De Franciscis che dopo una figurazione nel 2000 in “Estate romana” di Matteo Garrone debutta 93enne da protagonista in “Pranzo di Ferragosto” dell’altrettanto debuttante alla regia Gianni Di Gregorio; riprenderà il suo ruolo di vecchia madre nel 2011 in “Gianni e le donne” sempre di Di Gregorio per andarsene 99enne nel 2014. Il badante Tushar, attore non professionista ma efficace, si esibisce col suo vero nome.

Euro più, euro meno

La coppia di camerieri di un grande albergo romano, lui in sala lei alle camere, a fine giornata torna a casa sognando un futuro radioso nel presente ad ostacoli fra buffi e cravattari. A far coppia con la Ferilli la new entry nel cast del film Neri Marcorè. Dopo una velocissima carrellata dei soliti ricchi al buffet in albergo (già visti nel golf club del primo episodio) e un gratuito riferimento a Lilli Gruber“a roscia che sta de sguincio” – resta da chiedersi: dove sono i mostri? questi sono solo du’ poveri disgraziati, per dirla col loro gergo romanesco, che lecitamente sognano un futuro migliore, euro più euro meno. Episodio assolutamente inconcludente.

Fanciulle in fiore

Le tre fanciulle ironicamente in fiore sono tre borgatare romane calate in centro a far danno, sono dunque i mostri di questo brutto episodio scritto malissimo. Le tre fanciulle vogliono fare shopping ma non ci hanno gli euri, sempre al plurale in tutto il film quando sarebbe bastato una sola volta scegliendo di caratterizzare con questo idiotismo uno solo dei tanti personaggi. Le tre prendono di mira un Panariello ancora una volta formato famiglia, per circuirlo, scattargli delle foto e ricattarlo perché minorenni. I mostri ci sono e sono attuali ma sono scritti male perché svelando le intenzioni delle tre sin dall’inizio non lasciano nulla allo spettatore, né sorpresa né suspense, e il racconto si svolge tutto sulle smorfie dell’attore agganciato nella sala cinematografica dove ha portato la famiglia; a peggiorare l’intera struttura ci sono le risate del pubblico aggiunte in post-produzione, che dovrebbero essere rivolte al film sullo schermo ma sono sfacciatamente sincronizzate con le smorfie del disgraziato proprio come se l’episodio cinematografico non fosse altro che uno sketch tv, che sembra essere l’unico riferimento di regista e autori. Buggerato e derubato Panariello torna a sedere in sala e piangendo davanti al film comico dice alla moglie: “Piango dal ridere!”: battutona profonda che fa traboccare il vaso del brutto. Le tre adolescenti sono come da foto da sinistra a destra: Veronica Corsi, Cristel Checca e Chiara Gensini che è quella che si dà da fare in sala; la barese Elena Cantarone nel ruolo della moglie.

Terapia d’urto e L’insano gesto

A seguire due episodi che si intrecciano. Abatantuono come alto prelato in limousine con autista si dimostra banalmente poco caritatevole con un ragazzo africano che vorrebbe lavare il parabrezza. Poi passiamo nello studio dell’analista Finocchiaro in seduta con l’assistito Bisio, e si vede che i due amici milanesi si divertono a duettare – senza però divertire noi spettatori: la terapia d’urto consisterebbe in un grottesco e mal riuscito capovolgimento della deontologica professionale, che non è arriva ad essere un paradosso da mostro del terzo millennio ma ancora una volta solo trita comicità televisiva; sia come sia l’analista induce il paziente depresso al suicidio confermando il “buon” esito della seduta alla di lui moglie: c’è molto materiale per mettere in scena dei veri mostri ma gli sceneggiatori sono troppo presi dai loro moduli televisivi e dall’incapacità di graffiare. Si passa dunque all’insano gesto: il povero Bisio guarda il Tevere da un ponte mentre il prelato nega l’elemosina a un altro questuante, un attimo prima di accorgersi che un ragazzo sta per buttarsi nel fiume e lo “salva”, solo che il ragazzo voleva buttarsi in soccorso all’altro che si era già buttato: un pasticcio senza capo né coda, e senza morale. Nel ruolo del giovane impossibilitato salvatore Rodolfo Castagna non accreditato.

La seconda casa

Con Buccirosso si va a Napoli. Fornito di parrucchino col ciuffo che non sa trattenersi dallo scostare graziosamente dalla fronte, manca solo il mignolo alzato, fa costruire la seconda casa, ovvero un bunker segreto, sotto la villa che abita. Indi accompagna in una visita guidata lo zio latitante e i suoi due complici che abiteranno il bunker, rivelando di avere ucciso e interrato il progettista e gli operai che vi hanno lavorato, perché restasse davvero segreto. Il mostro c’è, ma l’episodio è facile e scontato: nessuno si aspetta che un camorrista non lo sia. I veri mostri sono quelli che sorprendono. Nel ruolo della moglie l’attrice teatrale Antonella Morea, nipote di Renato Carosone.

Cuore di mamma

Episodio da protagonista assoluta per la Ferilli in un episodio che è figlio di “Sequestro di persona” del 1977: lì a Vittorio Gassman avevano rapito la moglie, qui Sabrina si è persa la figlia in un supermercato; a entrambi viene data l’opportunità di una diretta televisiva per fare un appello, che si trasforma in manipolazione del mezzo pubblico. Come già detto altrove l’idea non è male ma è realizzata malissimo. La bella mamma è in cerca di attenzioni, e non c’è niente di male, mette gli occhi su un giovanotto che però è accompagnato dal suo fidanzato e lì, mentre la donna cambia espressione e parte la musica smaccatamente retorica e triste, in questo tripudio di banalità anche il fidanzato gay è eccessivamente effeminato come se non fosse bastato il bacio fra i due uomini a rendere il contesto. Di fatto la donna ha perso di vista la bambina. Anche nel cambio di prospettiva della protagonista non c’è progressione drammatica perché sceneggiatori e regista non sanno cosa sia la drammaturgia, e la donna passa da disperata a imbonitrice televisiva in un paio di fotogrammi. Di questa scrittura carentissima ne fa le spese Sabrina Ferilli che altrove e diretta da altri registi è anche brava. Massimo Giletti rifà sé stesso come intervistatore Rai.

Accogliamoli

E per finire in bellezza, si fa per dire, un episodio dedicato agli immigrati. Nel peggio del peggio di una Napoli-Milano, Buccirosso e Abatantuono duettano con battutacce da barzellette trite e ritrite che neanche da cabaret, ormai, forse solo da villaggi vacanza. I due sono due mostri reali, quelli che sfruttano gli immigrati affittando abitazioni super affollate a prezzi esorbitanti, ne sono piene le cronache. Solo che la materia è trattata con grandissima superficialità e quello che avrebbe potuto essere grottesco si fa grossolanamente surreale, alla continua ricerca di effetti per i due protagonisti. Diego Abantuono continua a rifare il suo terrunciello mentre Carlo Buccirosso non può far altro che indossare la parrucca di Pappagone, la maschera televisiva creata da Peppino De Filippo nell’ormai lontanissimo 1966, personaggio di grandissimo successo che dall’anno successivo divenne anche fumetto. In conclusione “I mostri oggi” sono solo quelli che hanno realizzato il film.

Tornando ai mostri di oggi, ovvero di 14 anni fa, il film è nel complesso un clamoroso pasticcio. Non manca qualche episodio riuscito ma, come si dice, una rondine non fa primavera. Alla sua uscita fu massacrato dalla critica quasi all’unanimità ma ebbe successo al botteghino presso il cosiddetto pubblico di bocca buona. La debolezza del film è proprio strutturale: dovrebbe toccare argomenti per i quali ci si indigna e si tiene lontano da temi sensibili come la politica, la religione, il giornalismo e la televisione che anzi omaggia: i mostri sono cinematograficamente altrove anche se non direttamente citati: “Ferie d’agosto” e il più recente e meno riuscito “Siccità” di Paolo Virzì, ma anche l’Oscar “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino che ha saputo indagare su altri mostri moderni, così come pure Matteo Garrone la cui filmografia sembra interamente dedicata ai mostri troppo umani.

Col dovuto senso critico è un film in ogni caso da vedere per metterlo a confronto coi film del 1962 e 1977 coi quali ha cercato un confronto: se invece di intitolarsi ai mostri si fosse intitolato altrimenti oggi non sarei qui a parlarne. I titoli degli episodi li apprendiamo solo in coda, quando ormai stiamo lasciando la sala, se al cinema, o cambiando canale se in tv. I numeri: Diego Abantantuono, che onestamente è il peggio, la fa da padrone apparendo in 8 episodi che potrebbero essere 7 se si considera che come prelato compare in due; segue Giorgio Panariello che con le sue maschere alternatamente riuscite compare in 6; a quota 4 si piazzano a pari merito Carlo Buccirosso che è il più incisivo del terzetto, Claudio Bisio e Angela Finocchiaro che arrancano; 3 episodi per Sabrina Ferilli protagonista solo in uno è sempre troppo simpatica sopra le righe; due per Anna Foglietta e la coppia filmica Mauro Meconi e Susy Laude; un solo episodio per Neri Marcorè arrivato alla ribalta come imitatore concorrente di “La corrida” condotta da Corrado su Canale 5, vincendo nel 1988; in seguito partecipa anche a “Stasera mi butto”, Rai 2, arrivando in finale e da lì in poi la carriera televisiva è tutta in ascesa, studiando da professionista per prepararsi al doppiaggio, al cinema e al teatro; benché da più di un decennio anche protagonista al cinema, per quando in film secondari, qui con un solo episodio non merita neanche il nome in locandina. Su tutto il resto stendiamo veli pietosi.

I nuovi mostri – con gli episodi censurati dalla Rai qui recuperati

1977. Sono passati quindici anni dall’originale e molta acqua è passata sotto i ponti: sono finiti i tempi spensierati del boom economico sull’onda del quale cinematograficamente si è passati dal neorealismo del dopoguerra alla spensieratezza della commedia all’italiana che nei suoi esempi migliori era anche critica sociale con venature di un umorismo graffiante che non risparmiava niente e nessuno. Il 1977 è nel mezzo di un decennio nero di terrorismo, nazionale e internazionale, una narrativa che drammaticamente entra anche in questo film in cui i toni grotteschi e graffianti si fanno ancora più incisivi, e anche violenti come la società che li esprime.

Gli episodi che prima erano 20 qui sono 14 e a Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi si aggiunge un Alberto Sordi in gran spolvero, di suo già campione di maschere grottesche dell’italiano medio, con l’aggiunta della stella in ascesa Ornella Muti che aveva debuttato solo sette anni prima con “La moglie più bella” di Damiano Damiani. Un’altra novità è che in alcuni episodi i quattro nomi dei titoli di testa cedono il passo ad altri validi interpreti che a loro volta diventano protagonisti. Tognazzi e Gassman recitano insieme in un solo episodio. Degli sceneggiatori originali rimane Ruggero Maccari che scrive il film con Age & Scarpelli e Bernardino Zapponi; mentre Ettore Scola che lì era sceneggiatore qui è regista e insieme a Mario Monicelli si aggiunge a Dino Risi che fu regista unico del primo film. Suo figlio Claudio Risi è l’aiuto regista. Armando Trovajoli che qui è Trovaioli torna a firmare la colonna sonora. Dei tre registi, all’uscita del film non si sapeva chi avesse diretto cosa perché di comune accordo avevano deciso di non firmare i loro episodi, e pare che i tre si siano impegnati a sostenere con i loro guadagni l’amico sceneggiatore Ugo Guerra gravemente malato e da diversi anni paralizzato, che sarebbe morto cinque anni dopo. Oggi siamo in grado di abbinare i registi agli episodi. Alla produzione Pio Angeletti e Adriano De Micheli della Dean Film prendono il posto di Mario Cecchi Gori. Come film straniero fu candidato all’Oscar nel 1979 ma quell’anno vinse il francese “Preparate i fazzoletti” di Bertrand Blier. Fu anche candidato ai David di Donatello ma vinse solo l’Alloro d’Oro alla miglior sceneggiatura al Festival di Taormina.

La versione presente su YouTube è quella ridotta negli anni Ottanta per la Rai in cui vengono tagliati cinque dei quattordici episodi rimescolando l’ordine di quelli rimasti. In questa censura sono saltati quelli meno edificanti ritenuti non adatti alle famiglie, ovvero: “Il sospetto”“Sequestro di persona cara”, “Mammina e mammone”“Cittadino esemplare” e “Pornodiva”; questi ultimi tre però sono stati reintegrati in una versione trasmessa su Rai Movie a partire dal 2014, però con l’amputazione del finale di “Pornodiva” che, come vedremo, cambia completamente il senso del racconto.

Tantum Ergo di Dino Risi

Gassman è un cardinale che causa guasto alla sua auto si ferma in una chiesa di periferia dove è in corso un acceso dibattito di borgatari guidato dal prete Luigi Diberti. Il cardinale improvvisa un sermone che acquieta gli animi, dimostrando al prete-operaio che faticosamente guidava da pari a pari il dibattito, che la retorica e l’eloquenza con l’aggiunta degli effetti speciali di sempre – luci, campane e musica d’organo – sono la vera via del Signore. Paolo Baroni efficacissima spalla in una regia molto arguta è il pretino che come da tradizione, vedi “La giornata dell’onorevole” in “I mostri”, è sempre omosessuale.

Auto stop di Mario Monicelli

Oggi lo scriviamo in un’unica parola ma all’epoca erano ancora due parole staccate. Partendo dal dettaglio del magnete sul cruscotto “vai piano e pensa a noi” con foto dei familiari, scopriamo che alla guida dell’auto Eros Pagni (raffinato interprete teatrale che al cinema è un caratterista di lusso) va oltre un autostoppista commentando “Sì, col cazzo!” per poi fermarsi immediatamente quando sul ciglio della strada gli compare la “gnocca” Ornella Muti che carica in macchina facendo sparire il magnete, e ovviamente mettendo in campo tutti i luoghi comuni dell’automobilista con fantasie erotiche, e tutti noi spettatori conosciamo i luoghi comuni sulla pericolosità degli autostoppisti ma anche degli automobilisti…

Con i saluti degli amici di Dino Risi

Segue uno dei due soli episodi non ambientati nell’area romana: breve come uno sketch televisivo. In un paesino dell’entroterra siciliano, un notabile mafioso passeggia per le vie assolate accompagnato dal suono del sempre classico marranzano, finché viene steso a colpi di lupara da due ragazzotti in vespa “Con i saluti degli amici”, ed è comune fra i siciliani il detto “Amici, e guàrdati!”. Battuta folgorante finale del mafioso morente interpretato dal romano Gianfranco Barra unico protagonista.

Hostaria! di Ettore Scola

Col punto esclamativo che subito mette in evidenza la tipicità dell’osteria della tradizione romana. Gassman e Tognazzi, l’uno cameriere l’altro cuoco, nel loro unico incontro del film fanno dell’osteria il loro personale ring con divertimento reciproco: sono quella che oggi diremmo una coppia di fatto, litigiosa e di mezza età, che con i tempi e i modi e la musichetta delle comiche d’antan si tirano addosso di tutto distruggendo la cucina salvo poi fare pace con un bacetto. I borghesissimi commensali apprezzano le vivande che dopo la lite contengono di tutto. E non è chiaro se i mostri sono la litigiosa coppia o i commensali, che di passaggio citano e omaggiano Indro Montanelli come caro amico: messaggio ambiguamente trasversale al giornalista.

Pronto soccorso di Mario Monicelli

Un affettatissimo Alberto Sordi, come Principe Giovan Maria Catalan Belmonte è un esponente della nobiltà nera romana, quella papalina sempre nostalgica del Papa-Re, lascia un’amica al Jackie O’, esclusivo locale romano che a partire dagli anni ’70 ereditò quello che restava della dolce vita romana dei tardi anni ’50. Con la sua Rolls Royce bianca (la Land Rover la prende solo per le uscite sportive) deve raggiungere la residenza della Principessa Aldobrandi dove fra nobili si discuterà lo scisma del Cardinale Marcel Lefebvre. Sordi si esibisce in un monologo un po’ troppo lungo e un po’ troppo indugiando, a mio avviso, su alcune volgarità che pur caratteristiche del “nobile” personaggio non necessitavano di sottolineature. Raccoglie la vittima di un incidente stradale e tenta inutilmente di portarlo in tre ospedali che per un motivo o un altro rifiutano l’urgente ricovero: questa è un’altra delle mostruosità sociali. Alla fine lo abbandona lì dove l’aveva trovato, sotto il monumento a Mazzini che lui crede Mussolini. Luciano Bonanni interpreta l’uomo ferito mentre l’amica di passaggio all’inizio altri non è che la ballerina del ventre Aïché Nana che sul finire degli anni ’50 si era resa famosa per uno spogliarello al ristorante Rugantino, immortalata dal fotografo Tazio Secchiaroli. In coda il titolo “Pronto soccorso” diventa inglese: “First Aid” e vai a capire perché.

L’uccellino della Val Padana di Ettore Scola

Questo è il secondo episodio non ambientato a Roma. La moda dell’epoca nominava le cantanti in un bestiario tutto italiano: Mina era la Tigre di Cremona, Iva Zanicchi era l’Aquila di Ligonchio e Orietta Berti che aveva addirittura due nomignoli – l’Usignolo di Cavriago e la Capinera dell’Emilia – qui diventa Fiorella l’Uccellino della Val Padana gestita dal totalizzante marito-impresario Tognazzi che nel privato se la deve vedere con le tante bambole che invadono la loro camera da letto, autocitazione per la Berti che è realmente collezionista di bambole. La poverina incorre in un problema alle corde vocali e il solerte marito le procura un incidente domestico dopo la quale potrà esibirla come caso umano su una sedia a rotelle. Molto brava lei che da cantante professionista si mette in gioco e nel finale stona con grande maestria.

Come un regina di Ettore Scola

Sordi asciuga i toni e condivide lo schermo con una dolce vecchina che interpreta la madre. Che lui, all’insaputa di lei, sta portando in in ospizio. L’interpretazione più convincente dell’attore è tutta negli sguardi che spaziano dall’apprensione all’esasperazione, dall’amore alla malsopportazione e al senso di colpa. Per Sordi è un bagno di verità: è noto che fosse morbosamente legato alla madre e ancora si racconta di quando, alla morte di lei, per vent’quattr’ore si chiuse in camera col cadavere rifiutandosi anche di aprire agli impiegati delle pompe funebri. La vecchina è l’attrice di un solo film Emilia Fabi. “Trattatela come una regina!” è l’invocazione finale del figlio mentre va via. Come una regina in esilio, dolorosa condizione di molti nostri vecchi che non hanno più spazio nella frenetica quotidianità che ci stritola.

Senza parole di Dino Risi

Il breve incontro d’amore fra una hostess poliglotta e un affascinante mediorientale che non parla nessuna delle lingue che lei conosce – e qui tocca dire che la Muti non parlava bene nemmeno l’italiano dato che per tutto l’arco crescente della sua carriera è stata sempre doppiata. Nel romantico episodio senza parole la musica è padrona con due successi dell’epoca: “Ti amo” di Umberto Tozzi e “All by myself” nella versione originale di Eric Carmen. Episodio volutamente zuccheroso dove non tutto è come sembra. Con il greco Yorgo Voyagis inspiegabilmente col trattino nei titoli, Yorgo-Voyagis, volto nuovo sugli schermi italiani come Giuseppe nel televisivo “Gesù di Nazareth” di Franco Zeffirelli, in onda quello stesso 1977.

L’elogio funebre di Ettore Scola

Il funerale comincia con l’accompagnamento di una musichetta sgangherata di una piccola banda che dà subito il tono all’episodio. Fra i quattro che portano a spalla la bara ecco Alberto Sordi. Si seppellisce un comico d’avanspettacolo e i convenuti sono il variopinto bestiario di amici e colleghi. Sordi, come storica spalla del vecchio comico Formichella, comincia l’elogio funebre che presto si trasforma in rievocazione di gloriose scenette e sagaci battute: il funerale diventa un’allegra rivisitazione della rivista d’antan in cui Sordi stesso mosse i primi passi, e alle lacrime si sostituiscono risate canti e applausi con tanto di passerella finale attorno alla fossa e sipario calato dai muratori retrostanti che calano una rete di protezione. Nel sentire comune di quell’Italietta democristiana forse questi teatranti erano dei mostri ma è evidente che a un attore comico quel funerale sarebbe piaciuto assai. Per non dire che oggi è ormai prassi comune, questa sì tristemente comune, l’abitudine di applaudire ai funerali, gesto privo di senso traslato dalla gente di spettacolo che di quegli applausi era vissuta, tanto che alcuni preti cominciano ad avvertire che gli applausi non sono consentiti. Per l’intero film questo episodio è un delizioso e degno finale. E poi con una ricerca mirata ho trovato i singoli episodi tagliati dalla Rai.

Mammina e mammone di Dino Risi

La giornata di due eccentrici barboni in un episodio davvero inconsistente che probabilmente avrà avuto un senso per i suoi creatori se ispirato a personaggi reali: la morale è che fra i barboni che si aggirano nelle nostre città ci sono anche nobili decaduti e personalità esemplari. Con Tognazzi che come dolce bambinone si accompagna all’ottantenne Nerina Montagnani, una caratterista che dopo aver lavorato come cameriera per tutta la vita ha esordito a settant’anni costruendosi una carriera di tutto rispetto.

Cittadino esemplare di Ettore Scola

Il mostro siamo noi. Gassman rientrando a casa dal lavoro assiste all’aggressione e all’accoltellamento di un uomo. Come nulla fosse raggiunge la famiglia per cena e si rilassa davanti a un programma Rai: ovvio che la Rai lo abbia tagliato. Dal programma sentiamo la voce di Pippo Franco nel varietà “Bambole, non c’è una lira” diretto da Antonello Falqui.

Il sospetto di Ettore Scola

Episodio decisamente politico, dunque indigesto alla finta ecumenica mamma Rai. Gassman commissario di polizia dall’accento napoletano fa una paternale a un gruppo di giovani sovversivi arrestati, e dal mucchio gli arriva una pernacchia. Fatta da un brigadiere infiltrato per meglio mimetizzarsi. Con Francesco Crescimone da Caltagirone che sarà anche sceneggiatore e regista.

Sequestro di persona cara di Ettore Scola

Cinema che racconta la televisione-verità: diretta televisiva dal salotto di un uomo distrutto dal dolore al quale hanno rapito la moglie e che si rivolge ai sequestratori implorando almeno una telefonata per averne notizie. Andata via la troupe televisiva l’uomo mostra che aveva tagliato il filo del telefono. Altro episodio scomodo da mostrare in tv perché un mostro si fa gioco della tv. Oltre che dell’opinione pubblica.

Pornodiva di Dino Risi

In effetti l’episodio, senza voler svelare nulla a chi non l’avesse ancora visto, è davvero forte, non per il contenuto ma per il concetto che veicola. Eros Pagni è di nuovo protagonista con la procace moglie interpretata da Fiona Florence che all’anagrafe è Luisa Alcini, una coppia di burini che prima di firmare il contratto che prevede scene di nudo e di sesso con una scimmia vogliono capire i dettagli e alzare il compenso. Nel ruolo dell’anziano produttore il caratterista settantenne Vittorio Zarfati che con Risi aveva debuttato l’anno prima, e che aveva una tragica storia alle spalle: di religione ebraica sfuggì al rastrellamento nazi-fascista dell’ottobre 1943 perché si trovava poco fuori Roma e perse la moglie e tre figli deportati e soppressi a Auschwitz-Birkenau. come figlia della coppia di burini la decenne Simona Patitucci che da adulta farà poco cinema ma tanto teatro musicale e molto doppiaggio.

E per finire un po’ di numeri. Nella versione integrale di 14 episodi Ugo Tognazzi è presente in 3, Vittorio Gassman in 5, insieme solo in uno; 3 per Alberto Sordi, 2 per Ornella Muti e 2 anche per Eros Pagni che di fatto si colloca fra i protagonisti. Nella versione ridotta Tognazzi perde un episodio e Gassman addirittura 3 restando entrambi a pari merito con 2 episodi, cedendo il passo a Sordi che li porta avanti tutti e tre mentre Pagni ne perde uno dei due. Come anticipato Rai Movie ha trasmesso una versione allungata ma continuano a mancare “Sequestro di persona cara” e “Il sospetto” entrambi con Gassman. L’ultima volta in cui il film è stato trasmesso in televisione è stato nell’agosto 2022 su Rai 3. Anche nelle versioni home prima in VHS e poi in DVD c’è la versione ridotta a 9 episodi, la stessa disponibile attualmente su Netflix: non credo che si tratti più di censura per argomenti ritenuti scabrosi o antisociali ma sono incuria da pigrizia intellettuale e commerciale.

I mostri

Veicolo per due dei divi del momento anche amici nella vita: Ugo Tognazzi che veniva dalla rivista e Vittorio Gassman dal teatro classico, diversissimi quanto intercambiabili, in questo film esplorano la loro intima natura di interpreti: tendente all’esagerazione istrionica Gassman, più misurato e ambiguamente sottile Tognazzi, che per questo fu anche lodato dalla critica: “segna il punto più alto raggiunto da Tognazzi nel film a episodi”, “…in confronto al suo rapinoso, irresistibile, talvolta magari debordante collega [si presenta] come un ‘dritto’ di indole più conciliante e flemmatica. E lo è, magari, però i personaggi più mostriciattoli finiscono per essere poi proprio suoi”. “Nel corso di questo festival dei due emuli di Fregoli, bisogna dare la preferenza a Tognazzi, molto più sciolto, più sottile, più sfumato e più convincente di Gassman. Con lui, la satira è meno diretta. Essa s’insinua e raggiunge meglio lo scopo”.

I due attori nel film “La marcia su Roma” sempre diretti da Dino Risi

Il film del 1962 è stato selezionato fra i 100 da salvare della nostra cinematografia ed è un caposaldo della primissima commedia all’italiana che molto bene si espresse nei film a episodi, spesso firmati da registi diversi, in questo caso addirittura 20 di durata varia, e qui li dirige tutti Dino Risi, già regista affermato che ha scritto il film con Elio Petri che aveva da poco debuttato in regia col drammatico “L’assassino” ma che era sceneggiatore da più di un decennio; con Ettore Scola, anch’egli sceneggiatore da un decennio che debutterà come regista l’anno dopo con “Se permettete parliamo di donne”; e poi con gli sceneggiatori a tempo pieno Agenore Incrocci, Ruggero Maccari e Furio Scarpelli. Al montaggio quello che diverrà un altro regista di genere, Maurizio Lucidi, che come montatore continuava un mestiere di famiglia. Scene e costumi di Ugo Pericoli, musiche di Armando Trovajoli e produzione di Mario Cecchi Gori. Il successo è servito: la feroce critica sociale è piaciuta molto a pubblico e critica.

L’educazione sentimentale

È quella che un italiano medio impartisce al figlio scolaro elementare, fatta di luoghi comuni, proverbi e modi di dire, tutti all’insegna del fare truffaldino come stile di vita e della disonestà intesa come furbizia in un mondo di disonesti, perché i disonesti sono sempre gli altri: un atteggiamento – non solo tutto italiano – sempre corrente. La morale è che quel che si semina poi si raccoglie. Ugo Tognazzi apre il film con questo ritrattino folgorante educando il figlio Ricky Tognazzi (doppiato da un altro bambino, Roberto Chevalier) anche all’arte cinematografica: quello stesso anno il bambino recita di nuovo accanto al padre nell’episodio “Il pollo ruspante” diretto da Ugo Gregoretti nel film “Ro.Go.Pa.G.”. Come collega d’ufficio completa il cast Mario Frera non accreditato nei titoli, come pure la moglie del protagonista e madre del bambino che altri non era che Pat O’Hara, vera madre di Ricky e compagna di Ugo.

La raccomandazione

Vittorio Gassman, reduce dal suo “Il mattatore” prima in tv e poi al cinema diretto sempre da Dino Risi che su di lui aveva disegnato “Il sorpasso” l’anno prima, si prende in giro rifacendo sé stesso in una rilettura un po’ sopra le righe: è un prim’attore teatrale impegnato nell’Otello di William Shakespeare, come realmente lo era stato qualche anno prima in una storica messa in scena curata da lui stesso e in cui ogni sera si alternava con Salvo Randone nei ruoli di Otello e di Jago, spettacolo che è possibile recuperare nella sua versione televisiva su RaiPlay. Nell’episodio un collega meno noto e meno fortunato gli chiede una raccomandazione per un’altra produzione e il primattore, fra bizze in camerino infarcite di classiche sboronate, effettivamente telefona per fare la sua raccomandazione – che però si rivela falsa e ipocrita, e fingendo di negare ciò che invece afferma fa del collega un ritratto ingeneroso e disastroso. Nell’ingrato ruolo del collega si presta il caratterista cine-televisivo Franco Castellani.

Il mostro

Velocissimo, meno di un minuto questo flash che mette in burla la critica sociale. Il titolo di un quotidiano annuncia che un “mostro” ha ucciso i suoi cinque figli e si barrica in casa sulla Pontina, dove a seguire vediamo che la polizia lo va a prelevare. Musica di marranzano perché sia chiaro che il mostro è un immigrato del sud, e poi un fotoreporter fa uno scatto del povero mostro stretto fra i due poliziotti, uno a cui manca un incisivo e l’altro con un occhio storto: altrettanto mostri ma da barzelletta. Il tutto all’insegna di un politicamente scorretto ancora di là da venire nella coscienza civile e all’insegna del quale non avremo più di queste perle.

Come un padre

Come un padre, è come il giovane marito geloso considera l’amico un po’ più anziano nel cui appartamento piomba in piena notte per lamentare il presunto tradimento della moglie, chiedendo all’amico di intercedere, proprio come un padre, per accertarsi che i suoi siano solo timori e malate fantasie. Rassicurato il giovane amico, l’uomo torna a letto dove ad attenderlo c’è la giovane moglie di cui si è appena parlato. Tognazzi recita di sottrazione, con molta misura, dando spazio all’emergente Lando Buzzanca che nei decenni a venire sarà protagonista della commedia sexy all’italiana sempre con questo genere di personaggio, qui però doppiato dal padovano Carlo Reali che garbatamente rifà il suo accento siciliano.

Presa dalla vita

Gassman, come se non ne avesse abbastanza, in questo episodio si sdoppia e interpreta due di quei mostri che si muovono sui set cinematografici: un tuttofare che rapisce una vecchietta e poi il regista dalla chioma argentata che la utilizza nel film malgrado lei. Parabola, e anche un po’ denuncia, di tanti piccoli interpreti dell’appena concluso neorealismo dove gli attori venivano presi dalla strada, appunto, e qui si racconta anche contro la loro volontà. I sei sceneggiatori, o uno dei sei non si sa chi, si sono qui divertiti a ritrarre il regista come una copia di Federico Fellini.

Il povero soldato

Il povero soldato in licenza è venuto dalla provincia nella capitale dove si era trasferita la sorella, per riconoscerne il cadavere: la ragazza è stata trovata assassinata e i giornali cavalcano la notizia con tono scandalistico. Un amico lo accompagna nell’appartamento della ragazza, ex cameriera, come l’amico spiega cautamente, che si è evoluta: si era comprata una casa arredata con ogni confort ai Parioli… Il povero soldato, avvilito, ha trovato il diario della sorella con nomi e cognomi della Roma bene, calendario degli appuntamenti e tariffe in decine di migliaia di lire che lui finge di scambiare per incomprensibili numeri di telefono, e sempre avvilito triste e mortificato, va alla redazione di Paese Sera, quotidiano chiuso nel 1994, chiedendo tre milioni e mezzo per cedere le scottanti memorie che lui, nella sua ignoranza, considera un doloroso lascito sentimentale. Solo alla fine gli sfugge uno sguardo di calcolata furbizia. Con Quinto Parmeggiani come capo redattore.

Che vitaccia!

Qui il mostro è un povero baraccato della periferia romana che non ha neanche i soldi per comprare le medicine a uno dei tanti figli malati, salvo poi spendere gli ultimi spiccioli per andare allo stadio a vedere la squadra del cuore, ‘a Roma. Angela Portaluri è la moglie incinta, probabilmente sempre incinta data la numerosa prole. Le immagini della partita giocata allo Stadio Olimpico di Roma sono quelle reali della partita Roma-Catania giocata il 10 febbraio 1963 e terminata 5-1: Adelmo Prenna segnò l’unico gol del Catania mentre il suo compagno Remo Bicchierai segnò un improvvido autogol.

La giornata dell’onorevole

Sintetico spaccato dell’attività di un uomo politico in cui qualcuno ha voluto vedere Giorgio La Malfa e qualcun altro Giorgio La Pira, comunque di area cattolica poiché il personaggio vive in un convitto di frati domenicani; ma nell’aula parlamentare assistiamo al discorso di un altro mostro, fascista nello specifico, perché centro destra o sinistra sono tutti uguali. Nessuna azione mostruosa o delittuosa viene mostrata nell’episodio, in quanto già l’essere “onorevoli” è di per sé indice di mostruosità: ipocrisia, cinismo, opportunismo e sotterfugi sono il tessuto del mostro politico. Intorno a Tognazzi il vero generale in pensione Ugo Attanasio, suocero di Alberto Lattuada che lo aveva fatto debuttare come figurante, che qui interpreta un generale che fa anticamera; c’è poi il caratterista friulano Carlo Kechler (erroneamente Kecler nei titoli), il caratterista gay Franco Caracciolo come solerte fratino, che sarà nel corpo di ballo delle Ragazze Coccodè nel programma Rai 2 “Indietro tutta!” di Renzo Arbore nonché una delle Sorelle Bandiera in sostituzione di Tito LeDuc. Come figurante non accreditata Gabriella Ferri che a un pranzo sorride alle amenità dell’onorevole.

Latin Lovers (Amanti Latini)

La traduzione fra parentesi che oggi sarebbe superflua all’epoca aveva senso perché non erano in molti a conoscere l’inglese, giacché molti non conoscevano ancora neanche l’italiano. Altro brevissimo episodio, non parlato e accompagnato dalla canzone “Abbronzatissima” di Edoardo Vianello. In un’affollata spiaggia una donna, in quello scandaloso bikini che in quegli anni si andava diffondendo, scivola via dalle mani sinuose dei due amanti latini che le sono ai lati. E le mani dei due uomini continuano a cercare nel vuoto – trovandosi, e stringendosi in un’intesa omoerotica che nulla ha dei maschi latini. Politicamente scorretto ma divertente in quanto tale. La bella è Luciana Vincenzi che nel 1966 parteciperà a Miss Italia dove verrà incoronata solo con la fascia di Miss Cinema, senza però fare una grande carriera cinematografica.

Testimone volontario

Col sempre istrionico Gassman che come avvocato senza scrupoli sfarfalla intorno a Tognazzi che gioca per sottrazione il ruolo di testimone di un omicidio – il primo intimorendo e screditando il secondo. L’episodio appare incompleto perché ci si aspetta dall’abusato povero testimone una finale e risolutiva reazione. Qui il mostro è sicuramente l’avvocato ma gli sceneggiatori hanno perso la ghiotta occasione di fare anche del testimone un mostro esemplare. Nel ruolo della moglie di Tognazzi un’accorata Marisa Merlini, il giudice è Carlo Ragno.

I due orfanelli

Altra maschera esageratamente grottesca per Gassman come mendicante che si accompagna a un giovane cieco sfruttandolo; all’offerta di un oftalmico di poter curare gratuitamente il povero infelice, cambia zona per non perdere la sua personale fonte di sostentamento. Daniele Vargas è il dottore. Il titolo è un dichiarato omaggio, senza alcuna attinenza specifica nella trama, al film omonimo del 1947 con Totò, che a sua volta fu la parodia del muto del 1921 “Le due orfanelle” di David Wark Griffith dove si raccontava che una delle due era cieca: il magistrale cerchio di omaggi e citazioni si chiude. Nell’importante ruolo del cieco dagli occhi assai vivaci, anzichenò, un giovane inspiegabilmente non accreditato e in cui qualcuno ha voluto riconoscere Teo Teocoli.

L’agguato

Altro veloce episodio senza parlato: il pizzardone Tognazzi, in elegante divisa bianca estiva, si apposta dietro l’edicola di un giornalaio per multare gli incauti che si fermano in divieto di sosta per fare un acquisto al volo. Episodio sicuramente ispirato alle reali abitudini di certi tutori dell’ordine. Come vittime si prestano il produttore Mario Cecchi Gori e l’addetto stampa Enrico Lucherini. L’episodio si può inserire nel sottogenere denuncia sociale.

Il sacrificato

Sin dal cartello col titolo la musichetta del maestro Armando Trovajoli suggerisce un sirtaki greco in omaggio alla protagonista femminile Rica Dialina, già Miss Grecia 1954, che recitando con la sua voce in un convincentissimo italiano riesce a tenere testa al quasi monologante Gassman: sfruttatore seriale delle donne e dei loro sentimenti, ma che dice di sacrificarsi per il loro bene spingendole a farsi lasciare. Archetipo del maschio italico ancora in giro come mostro predatore. La francese Françoise Leroy, di cui non si conoscono altri film, è l’amante successiva.

“Vernissage”

Il termine francese del titolo, virgolettato, al contrario del precedente inglese “Latin lovers” non ha bisogno di traduzione perché evidentemente già all’epoca nel nostro uso comune. Siamo nell’Italia del boom economico in cui l’italiano medio firma pacchi di cambiali per regalarsi il nuovo necessario, in questo caso una fiammante Fiat 600. Dopo il felice acquisto Tognazzi telefona alla moglie e poi sistema sul suo nuovo cruscotto i magneti con San Cristoforo, patrono dei viaggiatori in genere, e un “pensa a noi” con foto di moglie e figlio. Uscito dal salone la prima cosa che fa con l’auto nuova è andare a caricare una prostituta: santa ipocrisia della classe media. Il cortometraggio è un chiaro rifacimento in chiave borghese dell’episodio “Che vitaccia!” ambientato nel sottoproletariato ma con medesima dinamica ego-consumistica: lì lo stadio qui la prostituita. Il titolo è nell’immediato incomprensibile e necessita di una rilettura assai più sottile: se per vernissage si intende una mostra d’arte qui l’arte messa in mostra è il consumismo: le auto nel salone e le prostitute sul viale. Nel ruolo della prostituta una giovane Isabella Biagini non accreditata.

La Musa

Si fa ma non si dice. Gassman torna a gigioneggiare nei panni femminili di una musa letteraria che come componente di giuria di un concorso letterario, assai caldamente spinge ad assegnare il premio ad un improbabilissimo debuttante, assai ruspante, nella cui camera d’albergo va a impartirgli gli ultimi preziosi consigli prima di spegnere la luce spingendo l’aitante giovanotto, fresco di doccia e in accappatoio, sul letto; sul nero del buio udiamo gli ultimi suoni: un bicchiere che cade e lei che chiede “Dove sei?” in un finale aperto in cui il giovanotto è forse riuscito a sfuggire alle grinfie dell’interessata musa. Si fa ma non si dice: molti concorsi erano o sono truccati? molti critici letterari erano o sono venduti? o solo interessati alle camere da letto? Si fa ma non si dice: l’innominato premio si ispira chiaramente al più importante premio letterario del momento, il Premio Strega, e il look del Gassman-Musa con quei fili di perle sull’abito nero dalla vertiginosa scollatura sulla schiena, rimanda molto alle vera musa dello Strega, la scrittrice Maria Bellonci, che però tacque sul film e non seguì nessuna polemica: è una dichiarata e “innocente” presa in giro e l’attore riporterà il personaggio nel televisivo “Studio Uno”, diretto da Antonello Falqui e condotto da Mina, alla quale il Gassman-Musa dichiarerà di essere la creatrice del “Premio Cerasella”: una divertente gag che forse arrivò come smentita: tutto è bene quel che finisce bene. Nel ruolo del giovane scrittore ruspante lo stuntman Salvatore Borgese qui nel suo primo ruolo parlato in barese e doppiato da Stefano Satta Flores.

Scenda l’oblio

Qui i mostri sono una coppia dell’alta borghesia che al cinema stanno vedendo la scena di un film neorealista in cui un plotone di soldati tedeschi ha appena fucilato degli inermi civili contro un muro, e quel “semplice muro con le tegoline sopra” è il modello che ispira lui per la loro nuova villa: un genere di mostri sempre fra noi. La di lui degna consorte è Luisa Rispoli, attiva in pochi film con piccoli ruoli in quegli anni Sessanta anche come Maria Luisa Rispoli.

La strada è di tutti

Velocissimo ritratto per Gassman come altro mostro sempre attuale sulle nostre strade: il flemmatico ma anche polemico pedone che faticosamente attraversa sulle strisce pedonali fra auto che “incollano”, poi sale sulla sua Fiat 600 dal look sportivo e diventa un altro di quei pirati della strada.

L’oppio dei popoli

L’oppio dei popoli, che secondo Karl Marx era la religione, qui è la televisione seguendo l’opinione di tanti intellettuali e, in questo caso specifico, di molti cineasti: perché la televisione toglieva spettatori al cinema e solo nei decenni più recenti i due mezzi sono diventati intercambiabili. Tognazzi si fa molto espressivo pur nella maschera inespressiva dello spettatore imbambolato davanti alla tv da cui proviene la lunga credibile traccia sonora di un film americano alla cui conclusione l’annunciatrice ricorda il titolo “Salto nello spazio” di Peter Baldwin, annunciando fra i programmi dell’indomani altre pesanti dosi di oppio al popolo: la ventesima puntata del romanzo sceneggiato “La cieca di Sorrento”, che però uscì come film diretto da Nick Nostro in quello stesso 1963; il primo titolo è d’invenzione e sembra un omaggio poiché Baldwin è realmente esistito come attore americano, interprete di film di fantascienza, adottato dal nostro cinema con un importante ruolo in “Era notte a Roma” di Roberto Rossellini, 1960; Baldwin poi sposò Emi De Sica, figlia di Vittorio De Sica col quale collaborò come aiuto regista prima di tornare negli USA dove si riciclò come regista televisivo negli anni ’70, dunque una sua regia nel 1963 è improbabile. Qui Tognazzi si ritrova nel medesimo triangolo amoroso di “Come un padre” ma stavolta nel ruolo del cornuto; la bella moglie in baby-doll sul cui primo piano si apre l’episodio accompagnato dalla voce di Nico Fidenco che la dice bella cantando “Tornerai… Suzie” è interpretata dalla francese (il film è in coproduzione) Michèle Mercier che diventerà famosa con il ciclo di film su “Angelica”. Il giovane amante è l’aitante Marino Masè che quell’anno fu protagonista per Jean-Luc Godard in “Les Carabiniers”. Sempre a proposito della televisione come oppio dei popoli alla fine ci viene detto che l’unico programma che il cornuto protagonista non guarda è “Tribuna politica” certo perché troppo attinente alla realtà.

Il testamento di Francesco

Ancora la televisione come scenario. L’episodio si apre col telegiornalista Riccardo Paladini, non nuovo a queste brevi partecipazioni cinematografiche, che nella sala trucco della Rai ripassa le notizie da leggere in video. Accanto a lui Gassman impersona un forbito personaggio che tormenta il truccatore con continue richieste, perché attentissimo all’immagine di sé che sta per dare in tv; e lì in diretta televisiva lo scopriamo essere un sacerdote che commenta le parole di San Francesco sulla vanità umana.

La nobile arte

Ironia sin dal titolo giacché nel pugilato di cui l’episodio tratta non c’è nulla di nobile: tolti gli ideali dei combattenti è solo questione di ingaggi e scommesse. I due attori concludono insieme il film con un episodio drammaturgicamente più complesso esibendosi in due caratterizzazioni che, pur spinte e grottesche, mantengono l’afflato umano delle grandi interpretazioni: personaggi che bene avrebbero potuto essere sviluppati in un lungometraggio a sé stante. Sono entrambi due ex pugili suonati, Tognazzi che si è fatto impresario e Gassman, ex campione d’Italia, che ora gestisce una trattoria sul litorale romano. Per necessità economica il primo e cedendo alle lusinghe della gloria il secondo, tornano in campo con l’amara conclusione che tutti già sappiamo. Gli altri interpreti: Lucia Modugno è la moglie di Gassman, il caratterista Mario Brega realmente appassionato di boxe è uno degli allibratori mentre il vero campione Ottavio Panunzi si presta a salire sul ring nel match finale.

Facendo i conti sono 20 episodi di cui 8 per ogni attore da protagonista e 4 con entrambi. Il film ebbe due sequel: “I nuovi mostri” nel 1977 sempre con Risi alla regia che stavolta si divise il compito con Mario Monicelli e l’Ettore Scola che qui è ancora sceneggiatore, mentre al cast principale si aggiungono Alberto Sordi, già maestro di mostruosità per suo conto e con una cinematografia tutta sua, e Ornella Muti. Segue il terzo capitolo “I mostri oggi” nel 2009, anno in cui i protagonisti originali non sono più fra noi e che si rivelerà non più che una inutile sequenza di barzellette.

L’amore in città – esperimento unico nel 1953 di film e rivista contemporanei

la locandina del film

Esempio più unico che raro: possiamo vedere e sfogliare online, contemporaneamente, il film e il cinegiornale che lo racconta. Nell’articolo precedente ho parlato delle riviste di cinema in Italia e qui esploriamo questa curiosa operazione, cinematografica e rivista cartacea insieme, l’una complementare all’altra, pensata di certo con l’intento di portare i lettori al cinema e fare degli spettatori dei potenziali lettori: l’idea non era male, se non che negli anni ’50 il il mercato era già saturo; così “Lo Spettatore”, pomposamente diretto da Cesare Zavattini, Riccardo Ghione e Marco Ferreri, visse per un solo numero. A fine articolo è possibile sfogliare la rivista e vedere il film completo.

nei titoli di testa del film

Ma andiamo a vedere chi furono i tre creatori del progetto. Si legge nella rivista: “Due giovani cineasti, RICCARDO GHIONE e MARCO FERRERI, hanno ideato, assieme a Zavattini – Zavattini è in piccolo perché è citato nell’occhiello precedente – ‘la rivista filmata’ o ‘giornale cinematografico’, con il titolo ‘Lo Spettatore’ che dedicherà i suoi numeri, cioè i suoi films, ad alcuni dei più caratteristici aspetti della vita contemporanea. ‘Amore in città’ è il primo film della serie e svolge il tema dei vari e mutevoli aspetti dell’amore in una grande città.” I “due giovani cineasti” furono molto generosi nell’autodefinirsi, dato che cinematograficamente non avevano ancora prodotto nulla.

Riccardo Ghione è oggi il nome meno noto che viene ricordato come sceneggiatore, regista e produttore; in realtà non ha lasciato nulla di memorabile e possiamo considerarlo un intellettuale che amava il cinema, e si sa che non sempre siamo in grado di fare ciò che amiamo. Già due anni prima Ghione, e già in coppia con Ferreri, aveva fondato il cinegiornale Documento Mensile che nonostante avesse coinvolto bei nomi del cinema vivrà per soli tre numeri. Ci riprova con questo Lo Spettatore che andrà anche peggio. Dal 1956 si dà alla sceneggiatura, e nel 1968 dopo aver firmato un documentario mai distribuito debutta con il lungometraggio erotico “La rivoluzione sessuale”; dirigerà altri due soli film mentre come sceneggiatore resta nella scia dell’erotico firmando film come “Fotografando Patrizia” di Salvatore Samperi cui seguirà “Scandalosa Gilda” sempre con Monica Guerritore ma diretta dal marito Gabriele Lavia; seguono titoli come “Delizia” “Senza scrupoli” “Casa di piacere” “Una donna da guardare” “Diario di un vizio”…

Marco Ferreri, che studiava veterinaria nella natia Milano, cominciò a bazzicare nel mondo del cinema senza sapere ancora dove andare a parare: di certo era uno spirito inquieto e lo dimostra nell’intera sua cinematografia; l’anno prima di questa avventura produttiva aveva fatto la comparsa sul set di “Il cappotto” in cui Renato Rascel recitava in un ruolo insolitamente drammatico con Alberto Lattuada alla regia, film di cui Riccardo Ghione era supervisore alla travagliata sceneggiatura a più firme. Fallita la doppia avventura editoriale, Ferreri si fece agente di commercio per una ditta di obiettivi ottici viaggiando tutta la penisola con puntate anche in Francia e Spagna, dove conobbe lo scrittore Rafael Azcona col quale adattò per lo schermo il di lui romanzo “El Pisito” che dirigerà in lingua spagnola debuttando come regista cinematografico nel 1958. Dunque all’epoca di questo cineromanzo è ancora soltanto un giovanotto di belle speranze.

I meno che 30enni Ghione e Ferreri, non paghi del fallimento della prima esperienza editoriale, si rimettono dunque in gioco ma stavolta coinvolgono il 50enne di rango Cesare Zavattini, oggi ricordato come uno degli sceneggiatori più rilevanti del cinema neorealista. Già giornalista e scrittore si avvicina al cinema nel 1934 e dal suo incontro con Vittorio De Sica nasceranno capolavori come “Sciuscià” “Ladri di biciclette” “Miracolo a Milano” “Umberto D.” Sposando il nuovo progetto editorial-cinematografico dei due giovani rampanti, Zavattini pensa di bene di passare anche dietro la macchina da presa e con la sua sceneggiatura debutta come co-regista insieme a un altro debuttante: Francesco Maselli. E in quanto “grande vecchio” o perlomeno persona con più esperienza, oltre al nome ci mette anche la faccia, come si dice, oltre al suo lavoro espone l’idea del progetto, la cosiddetta poetica, che era quella di rilanciare il già morente neorealismo, sorto nell’immediato dopoguerra come necessario bagno di verità dopo il patinato cinema di regime, e che stava già morendo sulla spinta del nuovo genere che attirava gli italiani al cinema: la commedia all’italiana, e di questo periodo sono molti i film che mischiano i due generi, come ponte sul futuro.

Maresa Gallo, una delle attrici professioniste

Zavattini rilancia dicendo di volere avviare una sorta di cinema-verità, una specie di indagine socio-cinematografica dove gli attori non sono più quelli presi dalla strada ma sono addirittura gli stessi protagonisti delle loro vicende: “Il regista deve saper trarre da loro, come dagli ambienti veri, tutti i valori estetici e morali possibili, prescindendo dalle loro capacità tecniche ed interpretative.” Dunque non sarà la creatività dei cineasti a prendere spunto dalla realtà, ma si farà combaciare questa realtà con la creatività. Ambizioso dal punto di vista creativo di sceneggiatori e registi ma assai deleterio dal punto di vista degli attori professionisti, gente che all’epoca si faceva le ossa in palcoscenico, teatro di prosa o rivista che fosse, ma che nel caso di questo cinema-verità sarebbero stati solo di supporto, come accade in questo film.

L’esperienza fu però fallimentare e invece di rilanciare il neorealismo gli diede il colpo di grazia, in quanto gli esperimenti, più che indagine sociale sembrano più situazioni da “Specchio segreto”, il programma Rai che un decennio dopo Nanni Loy scrisse e diresse, che consisteva nel riprendere persone comuni messe in una situazione non comune dallo stesso Loy e altri attori professionisti capaci di seguire a braccio un copione; il programma era stato direttamente copiato dallo statunitense “Candid Camera” (che certo gli avventurieri di questo esempio di cinema-verità conoscevano) che andò in onda dal 1948 fino a tutto il 2014 e che era partito come programma radiofonico, “The Candid Microphone”, dove per candid si intende spontaneo, naturale, sincero – dunque non costruito; e nella sua versione italiana, Nanni Loy, che fu anche attore sceneggiatore e regista di vaglia, aggiunse una sana dose di cinismo nell’indagare la psicologia della vittima impreparata, spingendosi oltre la comicità fine a sé stessa incentrata solo sul prendersi gioco del malcapitato: una visione che possiamo approfondire su Rai Play di cui qui sotto un assaggio. Ricordiamo pure che da questi programmi è poi nato su Mediaset “Scherzi a parte” dove a subire gli scherzi saranno dei personaggi noti.

Il film, strutturato come un cinegiornale con narratore in voce fuori campo, è composto da sei episodi le cui sinossi è possibile leggere sulla rivista, che ha per attori dei non professionisti che interpretano sé stessi e le loro personali vicende: un cinema-verità che per essere realizzato di fatto interpreta la verità rendendola già finzione; il narratore all’inizio chiede a noi spettatori: “Li avete mai ascoltati cosa si dicono sul serio quando credono che nessuno li veda e li senta?” ma per il fatto che quei dialoghi sono stati trascritti, adattati, provati e riprovati e infine filmati non possono più definirsi verità – ma l’esperimento con la gente comune che reinterpreta sé stessa rimane interessante, e dalla visione si possono distinguere quelli che recitano con la loro voce dagli altri che sono stati doppiati: ulteriore manipolazione della verità.

AMORE CHE SI PAGA di Carlo Lizzani

Parlando di prostituzione e intervistando le “signore della notte” salta subito all’attenzione il paternalismo moralista infarcito di pietà pelosa con cui all’epoca veniva raccontato l’argomento. Carlo Lizzani, che non ha messo mano alla sceneggiatura del suo episodio, proprio in quel 1953 aveva cominciato a scrivere la sua “Storia del cinema italiano”. Era stato partigiano nella Resistenza Romana, poi iscritto al Partito Comunista Italiano. Aveva esordito due anni prima con la regia di “Achtung! Banditi!” che non lascia dubbi sull’impegno dell’autore nel cinema neorealista e politico. Nel 2013 si suicidò 91enne gettandosi dal balcone di casa. Nel ruolo della prostituta Anna la professionista Mara Berni alla quale il trucco ha aggiunto un velo scuro di baffetti sopra le labbra per renderla meno diva e più popolana. In un’inquadratura viene omaggiato Michelangelo Antonioni, altro regista di questo progetto, all’epoca nelle sale con il suo secondo film “La signora senza camelie”, e regista dell’episodio seguente.

TENTATO SUICIDIO di Michelangelo Antonioni

Raccogliendo tutti i personaggi in un teatro di posa, avvia poi i racconti delle singole vicende; prima la vicenda di una ragazza che ha cercato di buttarsi sotto un’auto perché il fidanzato l’aveva lasciata sapendola incinta; è evidente, nell’intervista alla protagonista, che lei sta leggendo da un gobbo il racconto della sua stessa vicenda, alla faccia del cinema-verità. Poi è la volta di un’altra, già ballerina di varietà nonché “entrenuse” come lei stessa pronuncia, che finge il suicidio con pochi barbiturici, dopo altri tentativi falliti, per riconquistare il marito che l’aveva lasciata e che alla fine la riprende in casa, ma lei continua a pensare al suicidio perché fondamentalmente insoddisfatta della vita di casalinga: quella che avrebbe potuto essere un’interessante indagine sull’insoddisfazione di una donna irrealizzata in un’epoca in cui alle donne comuni era preclusa ogni possibilità di riscatto sociale, quest’episodio nell’episodio si limita a raccontare il tentato suicidio.

Sempre per pene d’amore una terza si butta nel Tevere e una quarta, che va da sola in Vespa e definita “esponente di quella gioventù sfasata che riempie le cronache” per dire quanto i giovani fossero male considerati, si taglia le vene pensando che fosse più facile morire, per poi dichiarare che le piacerebbe fare l’attrice; al chi l’intervistatore-narratore, che segue la sceneggiatura dello stesso Antonioni, le chiede se il tentato suicidio non sia stato soltanto una posa. Una quinta racconta con grande naturalezza – “e se ne andette via co’ la moglie” – il triangolo amoroso in cui era la vittima.

Michelangelo Antonioni sta girando in contemporanea il suo terzo film, “I vinti”, un interessante e contrastato film a episodi che ispirandosi a fatti di cronaca avvenuti in nazioni diverse, racconta tre storie nelle tre diverse lingue: francese italiano e inglese. Conoscerà Monica Vitti durante il doppiaggio del successivo “Il grido” dove lei dà la voce a Dorian Gray, e fu subito amore insieme al trittico dei film sull’incomunicabilità.

PARADISO PER 3 ORE di Dino Risi

Che nella rivista viene erroneamente annunciato per 4 ore; ed è già esagerato definire “tre ore di felicità, tre ore di paradiso” poche ore di semplice svago per cameriere e militari, secondo la narrazione del dicitore; il Dancing Astoria sito in via di San Giovanni in Laterano 87 è luogo di svago anche per coppie già formate e già avvelenate dalla gelosia, ma soprattutto è luogo di incontri per giovanotti e signorine, alcune delle quali accompagnate da mammà che filtra i pretendenti al ballo perché non si sa mai se da cosa nasce cosa. Senza raccontare storie specifiche questo episodio si limita a mostrare tipi e comportamenti facendosi onesto documento sociale senza i fronzoli delle pretese narrative e drammaturgiche. Dino Risi aveva debuttato l’anno prima con “Vacanze con il gangster” e all’epoca stava lavorando già al suo secondo lungometraggio “Il viale della speranza”, entrambi film che si collocano come ponti fra il neorealismo e quella commedia all’italiana di cui Risi diverrà indiscusso maestro.

UN GIORNALISTA RACCONTA:
AGENZIA MATRIMONIALE di Federico Fellini

Fellini è Fellini sin dagli inizi. L’anno prima aveva debuttato con “Lo sceicco bianco” che non era piaciuto a tutti perché inaugurava un nuovo stile che sarebbe rimasto tutto suo personale: un realismo onirico e magico venato di amaro e anche sarcastico umorismo che successivamente verrà definito fantarealismo. Quello stesso 1953 esce col suo secondo lungometraggio “I vitelloni” che si aggiudica il Leone d’Argento a Venezia e riempie i cinema anche all’estero. Nel segno di questo fantarealismo firma il suo episodio che molto poco ha a che vedere col cinema-verità dell’intero progetto e che proprio per questo è l’episodio più riuscito: lascia la sua traccia autorale facendosi beffe dell’intero parterre degli ideatori. Di vero, ma anche no, dichiara che c’è l’ispirazione della storia, di quando giornalista fu incaricato di fare un servizio sulle agenzie matrimoniali. Scopriamo che la voce narrante di tutti gli episodi appartiene a questo personaggio, il giornalista, interpretato da Antonio Cifariello col suo vero nome e doppiato da Enrico Maria Salerno che dunque è il narratore dell’intero film; inoltre questo cortometraggio felliniano è quello che dichiaratamente schiera più attori professionisti: Silvio Lillo è il proprietario dell’agenzia che Livia Venturini gestisce e Cristina Grado è la giovane povera in cerca di sistemazione matrimoniale.

UN FATTO VERO: STORIA DI CATERINA
di Francesco Maselli con la collaborazione di Cesare Zavattini

Già dichiarare l’episodio “un fatto vero” sin dal titolo getta un’ombra sulla veridicità degli episodi precedenti… diciamo allora che è un po’ più vero degli altri; del resto non c’era l’attrice Mara Berni a interpretare una delle prostitute nelle finte interviste in “Amore che si paga”? Come spiega la rivista il debutto in regia di Cesare Zavattini è dovuto all’attaccamento per il suo soggetto del cortometraggio, alla cui regia c’è l’altro debuttante, il 22enne Francesco Maselli; la storia è quella vera che tenne banco sulle cronache dell’anno prima: Caterina Rigoglioso interpreta sé stessa in una vera e propria performance recitativa che niente ha a che vedere con le assai più semplici interviste dei primi episodi; esempio di cinema-verità alla massima espressione che rimane come vero documento di un’epoca: vediamo nel film che alla Provincia di Roma c’era l’Ufficio Assistenza Illegittimi, roba che oggi sembra fantapolitica. La palermitana Caterina nel 1949 era andata a Roma a fare la cameriera e lì come molte ragazze sprovvedute venne sedotta e abbandonata, diede alla luce il “figlio del peccato” (come all’epoca venivano definiti i “bastardi”, altro termine fortunatamente non più in uso neanche per i cani) che abbandonò in un giardinetto perché non era in grado di sostentarlo, salvo poi pentirsi e riprendersi il figlio, fra altre disavventure compreso il carcere.

Goliarda Sapienza

La doppia – con l’accento vagamente romanesco tipico di tanti immigrati che si spostano nella capitale, che tentano di mimetizzarsi linguisticamente – la catanese Goliarda Sapienza, oggi acclamata poetessa e scrittrice che 16enne si era iscritta all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica di Roma, dove la famiglia si era trasferita, poi protagonista pirandelliana in teatro; di sei anni più grande di Francesco Maselli, si erano conosciuti quando lui era 19enne ed ebbero una tormentata relazione che durò diciotto anni. Avvicinatasi al cinema non vi si dedicò mai pienamente dato che stava scoprendo la scrittura nella quale ha lasciato il meglio di sé.

LO SPETTATORE SI DIVERTE: GLI ITALIANI SI VOLTANO di Alberto Lattuada

Conclude un episodio scapricciatello dove non c’è neanche traccia di parlato ché le sequenze parlano da sé (tranne un paio di inutili battute che annacquano la precisa e vincente scelta stilistica); tante belle ragazze spuntano da ogni dove in una soleggiata mattinata romana quasi come in una sfilata di moda accompagnata dalla musichetta accattivante di Mario Nascimbene, che musica tutti gli episodi. Le belle ragazze invadono le strade e gli uomini si voltano qualcuno anche tentando un approccio, e tranne qualche inquadratura occasionalmente rubata tutto è argutamente costruito in un episodio di cinema-verità studiato a tavolino.

Del regista Alberto Lattuada bisogna ricordare che è praticamente l’unico fra tutti i cineasti coinvolti ad avere un passato di fascista, anche se pare che aderì al GUF, Gruppo Universitari Fascisti, solo per avere mano libera nell’organizzare retrospettive cinematografiche di pregio. Dopo un necessario passaggio al neorealismo, tappa quasi d’obbligo per l’autorato del dopoguerra, oggi è ricordato soprattutto come scopritore di talenti femminili – Marina Berti, Carla Del Poggio (poi sua moglie) Valeria Moriconi, Catherine Spaak, Dalila Di Lazzaro, Teresa Ann Savoy, Nastassja Kinski, Clio Goldsmith, Barbara De Rossi fra le altre – in una cinematografia pervasa di garbata sensualità; dunque possiamo considerare questa carrellata di bellezze come un prodromo della sua matura cinematografia.

Dell’intero film, oltre al musicista Nascimbeni, vanno ricordati Gianni Di Venanzo per la fotografia, Eraldo Da Roma per il montaggio e Gianni Polidori per la scenografia; mentre alle sceneggiature ci sono le penne di: Aldo Buzzi (anche aiuto regista), Luigi Chiarini, Luigi Malerba, Tullio Pinelli, Luigi Vanzi e Vittorio Veltroni, e fra gli aiuto-registi c’era anche Gillo Pontecorvo. Nell’insieme un film ancora oggi gradevole pur con tutti i limiti di un progetto velleitario che non fece scuola, e da vedere per l’intero pacchetto di nomi che schiera.

Fastidiosissima la numerosa pubblicità che partendo a minutaggi prestabiliti interrompe la visione senza rispettarne i tempi narrativi.

Ro-Go-Pa-G – Laviamoci il cervello

1963. Con i suoi primi due film, “Accattone” e “Mamma Roma”, benché scarso di successo al botteghino e creatore di divisivi scandali, Pier Paolo Pasolini si impone come il nuovo che avanza nella nostra cinematografia, già amato nell’ambiente artistico-culturale e all’estero, ma genericamente inviso in quell’Italia democristiana e Vaticano-centrica, inviso persino alla sinistra allora estrema del PCI – cui Pasolini si era affiliato da giovane ma poi cacciato “per indegnità morale e politica” all’epoca del primo processo, il 1950, per atti osceni in luogo pubblico che, benché da condannare (ancora oggi sarebbero assai discutibili) non meritavano certo uno stigma politico. Ciò che realmente disturbava, perché sia a la destra che la sinistra erano accomunate da un medesimo comune senso del pudore, era lo sdoganamento dell’omosessualità, non più con gli atteggiamenti macchiettistici da deridere e perciò tollerare, ma per l’impegno politico e sociale che ora esso veicolava, come critica all’intera società che non risparmiava nessuno: Pasolini chiedeva a tutti, clero e intellettuali sinistrorsi e fascisti, di fare i conti con i propri peccati e buttare la maschera ipocrita da sepolcri imbiancati: che era ciò a cui quella stessa società lo aveva costretto, pubblicamente, nelle aule dei tribunali. Pasolini era un puro di spirito e una mente acutissima, tormentato da un’omosessualità che l’intera società condannava e quindi vissuta come una colpa da espiare, cui il pubblico scandalo aveva esacerbato una naturale intransigenza, e via via che la sua personalità culturale cresceva, cresceva di pari passo anche la misura del suo indice puntato ad accusare chi lo aveva accusato.

“Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all’esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume. Così anche voi apparite giusti all’esterno davanti agli uomini, ma dentro siete pieni d’ipocrisia e d’iniquità”. Vangelo di Matteo, capitolo 23, versetti 27 e 28.

Come dichiarato non avrebbe fatto un altro film sulle periferie romane e, nonostante gli scarsi introiti, il produttore Alfredo Bini è felicissimo della sua collaborazione con Pasolini: aveva appena vinto il Nastro d’Argento per il complesso delle sue produzioni: due film di Mauro Bolognini e i due film di Pasolini, appunto. Quindi lo inserisce in questo pacchetto di bei nomi mettendo su un film a episodi, genere spesso redditizio perché mediamente a basso costo moltiplicava gli spettatori moltiplicando i nomi in cartellone, e ha sdoganato Pier Paolo Pasolini nella cinematografia di genere per grandi platee. Nel film vediamo che il vero titolo è “Laviamoci il cervello” e l’invenzione di Bini Ro-Go-Pa-G è il sottotitolo. Ma il titolo è stato cambiato dopo che il film era stato denunciato e condannato per vilipendio alla religione a causa dell’episodio di Pasolini – e di chi se no?

Il film si presenta come “quattro racconti di quattro autori che si limitano a raccontare gli allegri principi della fine del mondo”, un’asserzione che di per sé non sembra significare molto, così come il titolo scelto dopo la condanna, che somiglia più che altro a un’ironica presa in giro dei censori. Alfredo Bini, che produce insieme ad Angelo Rizzoli e Manolo Bolognini, parte dal maestro italiano per eccellenza, Roberto Rossellini e gli affianca il più giovane suo ammiratore Jean-Luc Godard già esponente di punta della Nouvelle Vague parigina, e insieme a Pasolini chiude il quartetto con Ugo Gregoretti, noto al grande pubblico anche come attore brillante e arguto commentatore televisivo. E la cosa più interessante è che questo film a episodi, contrariamente alle abitudini produttive, ha un tema che possiamo definire libero e che soprattutto non parla esclusivamente di sesso e di rapporti di coppia come la maggior parte dei film a episodi, eccezion fatta per il primo dei racconti, come vengono vezzosamente chiamati gli episodi o cortometraggi, che come vediamo subito è una citazione, o forse una presa in giro, del genere commedia sexy.

Illibatezza

Al maestro Rossellini, qui al suo terz’ultimo lavoro cinematografico, è toccato in sorte di lavorare con Rosanna Schiaffino, neo sposa di Alfredo Bini che il produttore vuole lanciare nel cinema di serie A dei grandi maestri, e per lei sceglie la via della leggerezza scrivendo un episodio da commedia all’italiana, probabilmente con la mano sinistra, come si dice, con tutto il rispetto per i mancini; basta ricordare che Tullio Kezich scrisse: “Diremo soltanto che Rossellini sembra impegnato masochisticamente a far sfigurare quelli di noi che lo considerano un maestro, e a dar ragione ai suoi superficiali detrattori”. Non è chiaro se Rossellini abbia lavorato al progetto controvoglia, oppure se il tono leggero non gli è consono, ma il risultato è davvero imbarazzante. Sembra voler fare il verso a quella commedia all’italiana un po’ pruriginosa ma fondamentalmente bacchettona e decisamente maschilista: i tempi sono quelli, le rivendicazioni femminili o femministe arriveranno negli anni ’70. Immagina per la Schiaffino uno scenario da cinema internazionale collocandola come hostess dell’Alitalia che a Bangkok suscita le attenzioni di un lascivo americano medio – ma il debole sviluppo narrativo e le situazioni sono davvero imbarazzanti sia per noi spettatori che per l’imbarazzata hostess e soprattutto per l’imbarazzata attrice: la morale della favola è che il maniaco è attratto dal suo aspetto acqua e sapone di brava ragazza mentre il titolo parla addirittura di illibatezza spingendo l’immaginario dello spettatore nella sfera più intima della femminilità, e strizzando l’occhio ai maniaci in sala; e il di lei fidanzato geloso, ovviamente siciliano, consulta addirittura uno psicologo, oggi diremmo comportamentale, che consiglia alla brava ragazza un cambio di look: deve trasformarsi in bomba sexy per inibire le fantasie dell’uomo, e dare modo a Rosanna Schiaffino di sfoggiare una parrucca biondo platino che la fa somigliare a Sylva Koscina, attiva in quegli stessi anni nei peplum e nei ruoli sexy di sfasciafamiglie. Rossellini tenta anche una maldestra incursione di cinema nel cinema con la hostess che, data la lontananza, si scambia col fidanzato innocenti filmini girati con cinepresa 8 millimetri (solo pochi anni dopo sarebbe esploso il Super 8 della Kodak) e costruisce una simbolica scena in cui il disperato e disperante maniaco americano, malamente imitando la gestualità di uno Charlot, tenta di afferrare l’immagine fatta di luce della bella amata. A completare l’opera una Bangkok visibilmente ricostruita in studio con fondali fotografici e sagome cartonate dove si aggirano poco convinti sia i protagonisti che le comparse dagli occhi a mandorla. L’americano è l’anonimo americano Bruce Balaban, il fidanzato è l’anonimo Carlo Zappavigna doppiato da Pino Locchi, lo psicologo è tratteggiato dal professionista di lungo corso Gianrico Tedeschi e come seconda hostess c’è la sorella della protagonista, Maria Pia Schiaffino che vent’anni dopo morirà in un incidente stradale insieme al figlio.

Il nuovo mondo

Jean-Luc Godard realizza il suo racconto in puro stile Nouvelle Vague: voce del protagonista fuori campo che racconta, senza emozione, il deterioramento della sua storia d’amore, e seguono pochi frammentati dialoghi fra i due protagonisti nella linea del cinema dell’incomunicabilità. L’autore francese sembra l’unico prendere alla lettera i dettami del produttore, ovvero “gli allegri principi della fine del mondo”, e immagina che sopra il cielo di Parigi sia scoppiata una bomba atomica. Sono gli anni degli armamenti nucleari; dopo Hiroshima e Nagasaki gli Stati Uniti hanno proseguito con gli esperimenti fino al 1958 nell’atollo di Bikini, ed è del 1949 la prima atomica sovietica; ma è anche un periodo in cui l’atomica viene raccontata come sviluppo sociale e l’espressione era atomica si era diffusa nel mondo con un significato positivo, di fiducia nel futuro che all’epoca era immaginato come portatore di importanti avanzamenti tecnologici, con un ruolo determinante dell’energia nucleare rispetto a quella fin lì generata dai combustibili fossili, il petrolio e il carbone. Dunque siamo in un periodo storico in cui la parola atomica è su tutti i giornali e in tutte le accezioni. Jean-Luc Godard cavalca l’attualità nel suo cortometraggio e immagina un suo personale catastrofico futuro. Allo scoppia sopra Parigi segue l’attesa della catastrofe, della caduta al suolo delle radiazioni, ma nulla sembra accadere, solo piccoli slittamenti quotidiani, come i parigini che ingoiano misteriose pillole – uno di questi è lo stesso Godard in un cameo – e il cambiamento che il protagonista nota nella sua ragazza: deterioramento del senso morale, del linguaggio, delle abitudini: inspiegabilmente porta un coltello nella biancheria intima. La fine del mondo vista attraverso il microcosmo di un’anonima coppia: l’umanità non perirà sotto spettacolari distruzioni e macerie radioattive ma sarà svuotata di senso dal suo interno. Tutto molto criptico. Bisogna notare però che all’epoca anche Godard non sfuggiva a un maschilismo diffuso e a inizio film fa dire al suo protagonista: “Malgrado il suo carattere dolce Alexandra mi resistette a lungo” come a dire che quelle che non la davano subito erano delle stronze dal carattere di merda. Alexandra la interpreta Alexandra Stewart, canadese francesizzata che si avvierà a una lunga carriera di ottimi secondi ruoli; il protagonista è lo svizzero Jean-Marc Bory che Louis Malle aveva reso famoso al fianco di Jeanne Moreau in “Gli amanti”, 1958.

Il pollo ruspante

“Il pollo ruspante” di Ugo Gregoretti è il quarto e ultimo racconto ma come altri relatori prima di me lascio il terzo, “La ricotta” di Pasolini, da analizzare per ultimo, perché Pasolini è il mio tema principale e perché effettivamente, è opinione diffusa, è l’episodio più importante e meglio riuscito, sicuramente quello che fece parlare di più e che resterà a memoria futura, mentre gli altri tre episodi verranno dimenticati. Ed è un peccato perché questo di Gregoretti è un gioiellino di ironia cattiva che denuncia la deriva del consumismo che come una febbre – mai più guarita – aveva cominciato a impossessarsi degli italiani che scoprivano i miraggi e le lusinghe del boom economico di fine anni ’50 primi ’60 che per la classe operaia era fatta di cambiali. Gregoretti nel suo film svela gli espedienti e le modalità induttive del marketing di stile americano, che facendo leva sui più basilari istinti – ambizione e opportunismo, invidia ed emulazione – trasforma gli individui in consumatori accaniti del superfluo e dell’inutile. Esemplare la spiegazione del percorso obbligato in autogrill per indurre all’acquisto compulsivo della merce esposta, tecnica oggi affinata disponendo il percorso all’uscita, dopo il pasto, perché durante la consumazione si verificavano dei ripensamenti sull’opportunità di quegli acquisti.

La sceneggiatura alterna due narrazioni: nella prima c’è la conferenza a un meeting di commercianti di un professore che parla attraverso attraverso il laringofono, sorta di microfono che messo a contatto del collo, tramite dei sensori capta e riproduce il suono delle parole di persone operate alla laringe. Nel film, il relatore che attraverso quel suono meccanico snocciola impressionanti dati e tecniche di persuasione occulta, diventa una sorta di figura extra umana, robotica e tecnologicamente minacciosa: già questa intuizione dell’autore fa salire di molto il livello del racconto. Nell’altra narrazione seguiamo le vicende della famiglia-tipo che nell’accostamento fatto dal relatore diventano polli da batteria – in contrasto col pollo ruspante del titolo, libero di vivere e di fare quello che vuole secondo la spiegazione che papà Ugo Tognazzi dà al figlio di otto anni Riky, che da grande sarà l’attore regista Ricky Tognazzi. Quello stesso anno, il 1963, padre e figlio reciteranno di nuovo insieme in un episodio di “I mostri” di Dino Risi. La moglie è Lisa Gastoni, brava e bella attrice di genere che ha tentato la via esclusiva del film d’autore, ma la sua fama resta legata al film d’esordio di Salvatore Samperi “Grazie zia” del 1968, che verrà definitivamente associato alle commedie erotiche mentre in realtà era un manifesto del cinema arrabbiato di quei tardi anni ’60. Molto divertente e appropriata anche l’incursione di Topo Gigio che la sua creatrice Maria Perego presta al film come simpatico, finto innocente, diffusore del consumismo dal prezioso televisore in bianco e nero già con telecomando. “Il pollo ruspante” nella sua compattezza è forse il più riuscito dei quattro episodi ma nella memoria cinematografica sconta il fatto che il suo autore, uomo di spettacolo a tutto tondo, non era la personalità esplosiva che è stato Pasolini. Pasolini che viene ironicamente citato quando il bambino mascherato da bandito spara con la pistola giocattolo e il padre gli chiede quale supereroe o personaggio fosse: Riky, continuando a sparare, dice: “Sono Pasolini!”. Pasolini che ritorna con il fermo immagine di una natura morta del suo episodio, a chiudere l’intero film, lasciandoci la sensazione che l’intera produzione sia stata messa su per sdoganare Pasolini nel cinema per famiglie.

La ricotta

Pasolini, quando aveva dichiarato che non avrebbe fatto altri film sulle borgate romane non è stato del tutto sincero perché, anche se in questo cortometraggio, o racconto che dir si voglia, cambia completamente tematica e registro, i borgatari e i pratoni fuori Roma restano protagonisti. In apertura, dopo due significativi brani dai vangeli, mette le mani avanti con la sua avvertenza:

E che successe? fu condannato per vilipendio alla religione a quattro mesi di reclusione, che evitò pagando una multa; e poiché l’intero film fu ritirato dalle sale, fu costretto ad apportare delle modifiche al sonoro e dei tagli, che a raccontarle oggi sembra assolutamente ridicolo, ma che erano l’espressione dello spirito e della cultura di quel tempo poiché la decisione fu presa in base a una stretta, e fu molto stretta, applicazione delle norme vigenti, per quanto largamente disapprovata dagli ambienti politici e culturali più progressisti; la condanna fu successivamente amnistiata ma Pasolini, che restava un puro di spirito, accusò il colpo perché anche se temeva l’azione, e in cuor suo non se l’aspettava, non pensava assolutamente di avere commesso vilipendio. E non lo aveva fatto. Per capire il senso della censura basta il commento finale del regista della finzione che alla morte dell’attore che interpretava il ladrone buono diceva: “Povero Stracci, crepare è stato il suo solo modo di fare la rivoluzione.” ed è diventato: “Povero Stracci! crepare, non aveva altro modo di ricordarci che anche lui era vivo.”

Il centurione a sinistra è Tomas Milian, e il primo in linea retta alla sua sinistra è Ettore Garofolo con parrucca dai riccioli oro rosso, come da descrizione di Pasolini nella sceneggiatura, letteraria e poetica insieme: “Il corpo di Cristo è retto, nella parte più bassa del quadro, da un ange­lo, sotto le ascelle, mentre, un altro, accucciato, gli regge su una spalla – guardando verso l’obiettivo – le gambe (…) questi due angeli riccioloni e un po’ rosci, hanno l’aria contadina: ma cresciuti in città. Il fondo dell’espres­sione è perduto o piuttosto citrullo. Comunque, uno, più giovane, quello che regge Cristo sotto le ascelle, un giovincello sui sedici anni, è tutto vestito di quel grigioverde di cui si vestirono nei secoli, soldati ora perduti negli ossari del mondo a lasciare il verde di quel panno nei crepu­scoli di bufera… L’altro, accucciato, un pochino stempia­to – con sotto la chioma ricciolona mezza roscia, gli occhi infossati, le ciglia spioventi e le mascelle un po’ troppo tonde e grosse – dev’essere marchigiano: comunque ha spalle, dorso e pancia ignudi, e un manto lo cerchia fino a raccogliersi sulla coscia, giallo grano, sopra la mutanda di quel solito, stinto, crudele, disseccato verdino.” È evidente, che parlando del sedicenne e del marchigiano, si riferisce precisamente ai ragazzi che ha in mente di collocare nel cast.

Il film racconta un set cinematografico in cui si filmano due momenti della crocifissione: la morte del Cristo sulla croce in bianco e nero e un tableau vivant a colori della deposizione; ricordiamoci che i quadri viventi erano rappresentazioni statiche e mute, occasionalmente accompagnate da musica, che con dei figuranti ripetevano l’immaginario iconografico cristiano, mutuati dalla pittura o come composizioni originali. Nella messa in scena di “La ricotta” gli attori invece parlano, ma secondo le ferree disposizioni registiche devono restare immobili. Mentre per tutto il resto del racconto Pasolini usa il bianco e nero, che è quello di tutti gli episodi del film, per questi suoi quadri usa il colore, i colori brillanti della pittura a cui si ispira: la Deposizione di Rosso Fiorentino e il Trasporto di Cristo al Sepolcro di Jacopo Pontormo.

Rosso Fiorentino e Jacopo Pontormo

La rivoluzione di Pasolini era quella di dare voce agli ultimi, senza risparmiare essi stessi dalle critiche, però: sul set, i borgatari chiamati a recitare insieme ai professionisti, sono totalmente indifferenti al lavoro in cui sono coinvolti, perché pensano solo a mangiare, a scherzare, a ballare il twist, mentre i professioni, d’altro canto, sono distratti dalle loro personali bizze e dai loro birignao. Gli ultimi cui l’autore vuole dare voce s’incentrano nella figura del protagonista, il borgataro Stracci interpretato da Mario Cipriani, che Pasolini aveva già utilizzato nel coro dei borgatari dei suoi due primi film, e al quale resterà incollato nella vita reale il soprannome del film. Stracci interpreta il ladrone buono nella Passione in bianco e nero e la passione cui assistiamo è la sua: porta il suo cestino-pranzo alla famiglia affamata, moglie e quattro figli, e seguono tutta una serie di contrattempi e vicissitudini che Pasolini stavolta, abbandonando i toni drammatici, racconta in chiave grottesca, ricorrendo addirittura all’accelerato come accadeva nei film dell’epoca del muto: siamo davanti a un regista in crescita che osa e che compone un’operina esemplare che gli è valsa la Grolla d’Oro a Saint-Vincent (premio che oggi non esiste più) come miglior regista.

Tutto il film è sempre leggibile su due piani distinti: il bianco e nero e il colore; il sottoproletariato e i professionisti; la passione classica, quella a colori, interpretata dai professioni, un sacro ricostruito in studio e quindi molto artificiale, in contrapposizione alla passione in bianco e nero profana che con la morte sulla croce di Stracci risulta, infine, quella più vera. A dirigere il tutto – mentre dietro la macchina da presa c’è Pasolini col direttore della fotografia Tonino Delli Colli e i suoi due aiuto che hanno anche dato una mano nella sceneggiatura, Carlo Di Carlo e Sergio Citti che si presta anche a fare da figurante sul set – c’è il regista interpretato da Orson Welles, uno che per soldi accettava qualsiasi cosa ma che qui crede in quello che fa: è sornione di suo e dà al personaggio, e alle parole di fuoco di Pasolini che in lui riscrive se stesso, il giusto ironico distacco che lo rende ancora più tagliente; inoltre, come si vede dal labiale, ha fatto lo sforzo di recitare in italiano, doppiato in via del tutto eccezionale dallo scrittore Giorgio Bassani qui alla sua unica esperienza recitativa benché assiduo sui set come soggettista e sceneggiatore. Carlo di Carlo nel suo prezioso diario annota: “Riguardo La ricotta ricordo quel rapporto per me abbastanza assurdo con Welles. Pasolini lo volle a tutti i costi – e giustamente – perché nessuno meglio del mito Welles poteva esprimere e rappresentare il regista (cioè il regista del film nel film). Welles accettò la parte solo per un fatto economico (non sapeva neanche chi era Pasolini), chiese una cifra spropositata per un film così breve che fece rimanere in bilico la realizzazione de La ricotta per molto tempo. Ma poi le sue condizioni vennero accettate. Orson Welles non sapeva mai nulla quando arrivava sul set. Si informava poco prima di ogni ciak cosa si doveva girare, mi chiedeva le battute tanto per sapere, occhio e croce, di cosa si trattava, poi esigeva il gobbo. L’italiano lo masticava abbastanza e avrebbe potuto tranquillamente imparare le battute. La scena più eclatante della sua partecipazione al film fu quando doveva recitare la poesia di Pier Paolo: Io sono una forza del passato / solo nella tradizione è il mio amore… Allora Welles sulla sedia da regista venne posto al centro di una collinetta con gli occhiali abbassati tanto che potesse leggere (senza che lo si notasse perché favorito dal controluce) l’enorme gobbo che io gli tenevo a una distanza di quattro metri e sul quale avevo trascritto la poesia”.

E se da un lato Pasolini fa un film cristiano nel senso più puro e dunque più eversivo del termine (da adolescente è stato tentato dalla via ecclesiale) dall’altro è totalmente anti cattolico nel denunciare le sovrastrutture culturali e artistiche e politiche che hanno snaturato il messaggio cristiano. E poi si auto-cita mettendo in mano al regista del film nel suo film un libro (inesistente in realtà) sul suo precedente film, “Mamma Roma”, e gli fa anche declamare una sua poesia, oltre a esprimere parole di fuoco sulla borghesia che non gli perdonerà questo attacco frontale. Il regista Orson Welles non fa che confondere il povero giornalista di “Teglie Sera”, un nome che è tutto un programma, che evoca notizie stracotte:
Giornalista: “Che cosa vuole esprimere con questa sua nuova opera?”  
Regista: “Il mio intimo, profondo, arcaico cattolicesimo.”  
Giornalista: “Che cosa ne pensa della società italiana?”  
Regista: “Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa. (…) Lei non ha capito niente perché lei è un uomo medio: un uomo medio è un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, razzista, schiavista, qualunquista. Lei non esiste… Il capitale non considera esistente la manodopera se non quando serve la produzione… e il produttore del mio film è anche il padrone del suo giornale… Addio.” 
E dopo la stampa sul set arriva anche il produttore col suo carrozzone di mostri alto borghesi, mentre il povero morto di fame muore di accidentale indigestione sulla croce non prima di avere avuto un orgasmo (un passaggio abbastanza gratuito sforbiciato dalla censura) alla vista di una figurante che fa lo spogliarello.

Con “La ricotta” Pasolini denuncia la decadenza morale della società, e ne dichiara l’immoralità attraverso l’intera troupe cinematografica dove convivono l’alto e il basso che pure si mischiano all’occorrenza nel rincorrere il mercimonio del sesso, tema sempre centrale nell’immaginario pasoliniano: uno degli angeli ruspanti che va a infrattarsi con una delle dive; e i figli adolescenti di Stracci che lasciano un improvvisato picnic rivolgendo alla madre un vago “ci ho da fà” per seguire un gioviale e gaio attore che da sotto la corona di cartone dorato occhieggia: sono tutti da biasimare, tentati e tentatori.

Pasolini si serve di uno dei principali simboli del cristianesimo, la Passione di Cristo, per rappresentare la società italiana attraverso l’immoralità della troupe di quel set cinematografico in cui il vero Cristo, Stracci, diventa il simbolo di un sottoproletario sacrificato al vuoto compiaciuto della borghesia. E non è un caso che tutti i suoi protagonisti – Accattone, Ettore di “Mamma Roma”, il Tommaso di “Una vita violenta” – a fine film muoiano tutti, perché per gli ultimi non c’è speranza di redenzione se non attraverso la morte. Pasolini di questo film dirà: “L’intenzione fondamentale era di rappresentare, accanto alla religiosità dello Stracci, la volgarità ridanciana, ironica, cinica, incredula del mondo contemporaneo. Questo è detto nei versi miei, che vengono letti nell’azione del film […]. Le musiche tendono a creare un’atmosfera di sacralità estetizzante, nei vari momenti in cui gli attori si identificano con i loro personaggi. Momenti interrotti dalla volgarità del mondo circostante. […] Col tono volgare, superficiale e sciocco, delle comparse e dei generici, non quando si identificano con i personaggi, ma quando se ne staccano, essi vengono a rappresentare la fondamentale incredulità dell’uomo moderno, con il quale mi indigno. Penso a una rappresentazione sacra del Trecento, all’atmosfera di sacralità ispirata a chi la rappresentava e a chi vi assisteva. E non posso non pensare con indignazione, con dolore, con nostalgia, agli aspetti così atrocemente diversi che una sì analoga rappresentazione ottiene accadendo nel mondo moderno”.

Il film fu accolto dalla critica con freddezza, e Alberto Moravia in un articolo di L’Espresso spiegò: “La chiave del mistero va ricercata, secondo noi, oltre che nell’impreparazione culturale di molti critici, anche nella ingenua mancanza di tatto di Pasolini. Diamine: il regista nell’intervista dichiara: L’Italia ha il popolo più analfabeta e la borghesia più ignorante d’Europa, ed ecco che scontenta così i partiti di destra come quelli di sinistra. Poi, peggio ancora, Orson Welles rincara: L’uomo medio è un pericoloso delinquente, un mostro. Esso è razzista, colonialista, schiavista, qualunquista, ed ecco scontentati tutti quanti. L’Italia del passato, infatti era il paese dell’uomo, in tutta la sua umanità; l’Italia di oggi, invece, è soltanto il paese dell’uomo medio”. E ancora: “Dobbiamo premettere che un solo giudizio si attagli a quest’episodio: geniale! Non vogliamo dire con questo che sia perfetto o che sia bellissimo; ma vi si riscontrano i caratteri della genialità, ossia una certa qualità di vitalità al tempo stesso sorprendente e profonda. L’episodio di Pasolini ha la complessità, nervosità, ricchezza di toni e varietà di livelli delle sue poesie; si potrebbe anzi definire un piccolo poema di immagini cinematografiche. Da notarsi l’uso nuovo ed attraente del colore e del bianco nero. Orson Welles, nella parte del regista straniero che si lascia intervistare, ha creato con maestria un personaggio indimenticabile”.

Completano il cast dei proletari: Maria Bernardini che è la figurante che si spoglia; e fra gli altri, oltre a Ettore Garofolo cui è stata data una battuta, tornano Lamberto Maggiorani, Franca Pasut e l’americano e Allen Midgette con aveva avuto un bel ruolo in “La commare secca” di Bernardo Bertolucci che gli offrirà un altro piccolo ruolo in “Novecento”, e che dalla fattoria di Pasolini è infine passato alla factory di Andy Warhol; e poi c’è un ancora sconosciuto Tomas Milian; fra i professionisti Vittorio La Paglia è il giornalista mentre Edmonda Aldini e Laura Betti (fedelissima amica di Pier Paolo per tutta la vita e anche oltre) sono le due dive bizzose; nel carrozzone degli invitati al seguito del produttore, cui dà fisicità l’avvocato Giuseppe Berlingieri che fu nel collegio di difesa di Pasolini in uno dei suoi tanti processi, si divertono a figurare uno stuolo di amici giornalisti fra cui Andrea Barbato e l’inglese John Francis Lane, lo scrittore Enzo Siciliano e fra i nomi più strettamente legati allo spettacolo le attrici Elsa De Giorgi e Giuliana Calandra. Dopo Elsa Morante in “Accattone” tutti volevano farsi vedere nei film di Pasolini, anche per testimoniagli stima e vicinanza.

La condanna per vilipendio alla religione venne poi amnistiata mentre lui, imperterrito, stava lavorando al suo prossimo film, anch’esso a tema religioso: “Il Vangelo secondo Matteo”. Arriverà un’altra denuncia? Su YouTube il film completo.

11 settembre 2001

Lo ripetono tutti i media ed è vero: tutti ci ricordiamo il momento, e dove eravamo, in cui abbiamo appreso, in diretta o in differita, di quella tragedia che davvero ha cambiato il mondo. Il cinema non poteva non raccontarla, e lo ha fatto con diversi film il primo dei quali, che è anche il più rappresentativo, è uscito esattamente un anno dopo, l’11 settembre 2002, col titolo originale 11’09″01 – september 11. Un film di 11 episodi della durata simbolica di 11 minuti 19 secondi e un fotogramma, scritti e diretti da 11 registi provenienti da 11 nazioni diverse, ognuno raccontando una propria storia ambientata nel proprio Paese in assoluta libertà espressiva e secondo la propria coscienza, ognuno con un budget di 400.000 dollari, ognuno senza sapere cosa stessero facendo gli altri. Il film è stato acclamato in tutto il mondo, suscitando critiche e polemiche solo da noi, giudicato da alcuni dei nostri critici fuori dal coro come “irrispettoso” e “poco pertinente” in alcuni segmenti, con conseguente indignazione in diretta tv dell’iraniana Samira Makhmalbaf ospite a “Porta a porta”. Di mio posso affermare che avendolo visto al cinema mi è rimasto impresso, nel cuore e nella mente, solo l’episodio firmato da Sean Penn, proprio uno di quelli messi in discussione.

Il primo cortometraggio, Iran, è proprio quello di Samira Makhmalbaf che è stata premiata al Festival di Venezia con il premio Unesco per questo suo episodio che lei aveva intitolato “God, Construction and Destruction”. Non è certo un caso che ad aprire il film sia questo iraniano, dato l’impegno militare degli USA in quell’area. Ambientato presso una comunità di iraniani rifugiati in Afghanistan, nello specifico racconta di un gruppo di bambini che aiutano a impastare la malta con la quale verranno fatti dei mattoni per costruire dei rifugi che, come va ripetendo loro la maestra che li viene a raccogliere per portarli a scuola, non fermeranno certo le bombe atomiche degli americani che verranno a vendicare la tragedia appena subita. L’autrice è figlia di un altro regista, Mohsen Makhmalbaf, sotto la cui scuola si è formata cinematograficamente, ed oggi è ritenuta fra i migliori registi in attività, benché la sua filmografia, per ragioni politiche, sia molto scarna.

Per la Francia, nazione promotrice dell’intera iniziativa produttiva da un’idea originale di Alain Brigand, firma Claude Lelouche, che secondo la linea della maggior parte della sua cinematografia racconta una storia d’amore, qui fra due francesi che vivono a New York, lei sordomuta e lui normodotato che però conosce il linguaggio dei segni avendo un fratello sordomuto, e che per i sordomuti fa la guida turistica a New York, e quella mattina esce per condurre il gruppo alle torri gemelle. Sono protagonisti l’attrice sorda dalla nascita Emmanuelle Laborit, già protagonista di “Marianna Ucria” diretto da Roberto Faenza nel 1997, e Jérôme Horry. Il fascino di questo piccolo film sta nel silenzio, dei dialoghi e delle azioni, con le tragiche sequenze che passano in tivù che la protagonista però non vede e non sente perché sta scrivendo al suo amato una lettera d’addio: a meno che un miracolo… E il miracolo accade quando lui si ripresenta alla porta completamente coperto della polvere dei detriti. L’ultimo film di Lelouche “I migliori anni della nostra vita” del 2019, una storia sentimentale nella terza età con Anouk Aimée e Jean-Louis Trintignant.

Molto più complessa la visione di Yusuf Shahin che firma per l’Egitto. Regista scomodo, politicamente impegnato, critico verso le azioni militare del suo Paese contro Israele nella “guerra dei sei giorni”, e attivo anche nella denuncia della corruzione e del fondamentalismo islamico, ha fatto anche molto discutere per le sue posizioni progressiste, anche in campo sessuale, perché dichiaratamente bisessuale ne ha parlato in una serie di quattro film autobiografici. Fra l’altro è stato lui a far debuttare il divo egiziano Omar Sharif. Qui lui si racconta in prima persona interpretando il suo cortometraggio che si apre con una carrellata dal basso verso l’alto di una delle torri gemelle, ricreata virtualmente, perché lì sta girando un film la cui lavorazione viene interrotta, il giorno prima della tragedia, per una banale mancanza di permessi. Con un doppio salto mortale narrativo lo ritroviamo sulla scogliera davanti casa sua dove gli compare il fantasma, una sua proiezione mentale, di un soldato statunitense (interpretato da un attore arabo decolorato) morto nel 1983 in Libano (terra originaria dei genitori del regista) nell’attentato alle forze multinazionali di stanza nel territorio. La storia si complica quando con un ulteriore salto mortale si sposta, insieme al fantasma, a casa del kamikaze colpevole di quell’azione, e intercorrono veloci conversazioni – bisogna restare entro gli 11 minuti! – sulle origini dello scontro fra il mondo arabo e quegli Stati Uniti depositari di una propria visione del mondo che al mondo impongono: tema non facile da sviluppare in così poco tempo e l’impressione che se ne trae è quella di un assaggio nell’attesa di un ulteriore sviluppo. Yusuf Shahin è morto 82enne nel 2008.

Anche Danis Tanović per la Bosnia-Erzegovina riporta il dramma alla storia del suo territorio e racconta di una ragazza che come ripete sua madre, “ogni 11 del mese è sempre la stessa storia”, preferisce ignorare la drammatica notizia, che arriva da una radio nello spazio comune dove sono riunite le donne che hanno perso i loro uomini e le loro famiglie nel massacro della popolazione locale da parte dei soldati serbo-bosniaci, l’11 luglio 1995: come ogni 11 del mese la ragazza guida in piazza il corteo muto delle sopravvissute. Il messaggio è che le tragedie personali, e locali, hanno la priorità anche davanti a tanta eclatante insensatezza.

Idrissa Ouédraogo per il Burkina-Faso (ex colonia francese denominata Alto Volta fino al 1984) racconta una storia che rientra nei ranghi del classico cinema di narrazione: Adamà è un ragazzo che smette di andare a scuola per guadagnare dei soldi per potere pagare le cure alla madre gravemente malata. Due settimane dopo l’attacco alle Torri Gemelle crede di vedere Osama Bin Laden sul quale gli Stati Uniti hanno messo una taglia di 25 milioni di dollari; con l’intento di guadagnare quei milioni, sia per guarire sua madre che tanti altri bisognosi della nazione sofferenti di aids e dissenteria, insieme ai suoi ex compagni di scuola comincia a pedinarlo e a filmarlo per documentarne l’esistenza in loco, ma “Osama” parte e un poliziotto blocca i ragazzi all’ingresso dell’aeroporto e alle loro spiegazioni e proteste li sbeffeggia ché non c’è nessun Osama Bin Laden. Il film non chiarisce se Osama fosse davvero lui, ed è un dato di fatto che è stato avvistato in diverse parti del mondo, così come accadde per Hitler alla fine della Seconda Guerra Mondiale, e il cortometraggio ha comunque un lieto fine allorché i ragazzi decidono di vendere la videocamera, trafugata al padre di uno di loro, per pagare le cure alla mamma di Adamà che così potrà tornare a scuola. Idrissa Ouédraogo, morto 64enne nel 2018, è stato uno dei più significativi autori cinematografici della regione e dell’Africa in generale.

Ken Loach per il Regno Unito, come Danis Tanović, parte dalla data dell’11 settembre per andare a un’altra data, l’11 settembre del 1973, quando Augusto Pinochet attuò in Cile, sostenuto dagli Stati Uniti, un colpo di stato contro il presidente regolarmente eletto Salvador Allende, colpevole di essere marxista e per questo inviso all’amministrazione USA, allora guidata da Richard Nixon, sempre patologicamente terrorizzata dai comunisti e sempre impegnata ad imporre nel mondo la propria visione di democrazia. Ken Loach, attivista politico della sinistra dura e pura e autore notoriamente impegnato sul sociale che sistematicamente mette in film le problematiche della classe operaia inglese, per raccontare questa operazione di confronto storico, con l’ennesima denuncia delle malefatte americane, si fa portavoce di un’altra nazione e immagina che un profugo cileno a Londra, interpretato da Vladimir Vega anche compositore della ballata che esegue, scriva una lettera ai familiari delle vittime degli attentati. La lettera si fa narrazione dei fatti cileni con video di repertorio accompagnati dalla voce del protagonista che narra le nefandezze e i sanguinosi accanimenti sulla popolazione, e alla fine unendosi al dolore delle famiglie nel ricordo delle vittime dell’11 settembre 2001, conclude auspicando che loro, altrettanto, si uniranno a lui nel ricordo delle vittime dell’11 settembre 1973: mettendo in atto un ricatto morale. Personalmente trovo specioso e gratuitamente provocatorio, come per l’episodio di Tanović, utilizzare un rimando di date, pure coincidenze, per spostare l’attenzione su fatti diversi: in un calendario di 365 giorni che si ripete da duemila anni è facile trovare qualsiasi coincidenza a volerla cercare, e poi collocarci significati e richiami che per distanza di spazio e di tempo non sono altro che azzardi. Differente è quando la coincidenza viene cercata a posteriori, come quando undici anni dopo, l’11 settembre del 2012, i talebani hanno attaccato il consolato USA a Bengasi e ucciso, fra gli altri, l’ambasciatore Chris Stevens; o come oggi, 11 settembre 2021, data che era stata significativamente scelta dai talebani che hanno occupato l’Afghanistan (poi dilazionata all’ultim’ora) per instaurare il loro governo. Tornando alla commemorazione di Danis Tanović e alla denuncia di Ken Loach che spara a zero sulle malefatte statunitensi, sono argomenti che sempre meritano discussioni e approfondimenti, ma a parer mio in altri contesti e in altro modo, con più spazio magari, dove le denunce in atto possano essere protagoniste di fatto senza dover rubare la scena all’evento immediato, perché sostituire forzosamente delle vittime con altre toglie solo dignità a tutti.

Più sintetico e drammaticamente coraggioso, oltre che efficace, il contributo del talentuoso pluri-Oscar Alejandro González Iñárritu per il Messico. Con la consapevolezza che tutti avevamo visto e rivisto fino allo sfinimento le immagini dell’attacco alle Torri Gemelle, utilizza i suoi 11 minuti e rotti per montare un documentario in cui sceglie di mostrarci uno schermo nero commentato da un sonoro indistinto di voci quotidiane; poi il nero si squarcia ogni tanto per pochi secondi mostrandoci le più dolorose immagini di repertorio, quelle delle persone che si sono lanciate nel vuoto, e al sonoro indistinto si sostituiscono gli annunci tivù, le urla delle vittime e dei testimoni, il sonoro delle telefonate dalle torri alle famiglie; poi tutto questo, il nero e i frammenti di video con il tragico sonoro, viene interrotto dalla sequenza del crollo delle torri, in agghiacciante silenzio; riprende il parlottio indistinto che si stempera in un’armonia sinfonica mentre lo schermo da nero si fa bianco e compare una scritta, prima in arabo e subito dopo in inglese, che chiede: “La luce di Dio ci guida o ci acceca?” Una domanda che resta come un monito mentre una luce accecante si leva dallo schermo bianco.

Anche Amos Gitai per Israele fa il gioco delle coincidenze di date ma lo fa con spirito critico e, benché senza sapere a cosa stessero lavorando gli altri suoi illustri colleghi nel mondo, intuisce che una delle tracce sarà proprio quella, e se ne tira fuori con un caustico spirito critico, spirito critico che ha sempre dichiarato verso la politica del suo Paese, dove non è ben visto; negli anni ottanta, proprio per l’impossibilità di continuare a lavorare in Israele dove era ostacolato, si reca all’estero in auto esilio, prima a Berkeley, USA, dove si laurea, e poi a Parigi, Francia. Forte di diversi riconoscimenti internazionali torna in patria dove però continua a essere osteggiato. Gira i suoi 11 minuti in un unico piano sequenza con decine di attori figuranti e comparse perfettamente coordinati, raccontando di un attentato a Tel Aviv e mettendo in scena il caos che segue e che coinvolge forze dell’ordine, soccorritori, curiosi, testimoni e troupe televisive tempestivamente arrivate. E’ la reporter tv, in ansia di andare in onda e con scarse informazioni raccolte, che partendo dal quel suo 11 settembre con un kamikaze che si è fatto esplodere, comincia a snocciolare tutta una serie di altri 11 settembre di anni e luoghi diversi in cui sono accaduti fatti, a dir suo, eclatanti, come ad esempio un gruppo di persone uccise da un fulmine in India, facendo così pessimo giornalismo pur di continuare a parlare e a filmare. Viene interrotta dalla voce in cuffia del regista che le dice che non la manderà in onda perché qualcosa di davvero terribile è accaduto a New York, avvisandola, e ammonendola, “Ricorda questa data, 11 settembre, perché è una data che nessuno più dimenticherà”. Ma la giornalista, che non capisce, ancora protesta, e il regista le risponde: “Non ti sto parlando dell’11 settembre del 1944 o del 1997, ti sto parlando dell’11 settembre di oggi”. Che è quello che conta in questo film.

Mira Nair per l’India opera una sintesi culturale che supera le divisioni religiose che hanno fatto di India e Pakistan due nazioni distinte e due popoli in eterno conflitto, e per l’occasione racconta una storia vera, quella di una famiglia pakistana trapiantata negli Stati Uniti che ha perso il figlio nelle Torri Gemelle. Ma CIA ed FBI indagano sul ragazzo, perché di fede musulmana, e questo crea un clima di sospetto attorno alla famiglia prima ben vista e rispettata nel vicinato e ora tenuta a distanza. Sei mesi dopo, i resti del ragazzo vengono individuati fra le macerie e si ristabilisce la verità: il giovane musulmano è morto nel tentativo di prestare soccorso e il suo nome viene ora inserito fra quello degli eroi. Nell’elogio funebre la madre considera, e accusa, che se Salman, suo figlio, si fosse chiamato Gesù o David non sarebbe stato considerato un terrorista a priori.

L’episodio che Sean Penn immagina per gli Stati Uniti è una piccola favola dolceamara che da vent’anni non ho più dimenticato. Sarà per la presenza di Ernest Borgnine, unica star in tutto il film, o per il racconto in sé? Ciò che allora mi colpì, e ancora oggi mi colpisce, è il punto di vista del racconto, originale e spiazzante come dovrebbe essere il punto di vista di ogni racconto. Anche in conflitto col sentire comune ma comunque onesto. Sean Penn, attore da Oscar, non è un regista della domenica e i suoi film li possiamo tranquillamente definire impegnati: politicamente socialmente artisticamente. Per il suo 11 settembre immagina un vecchio che vive in un appartamento buio e parla da solo con la moglie morta come se ancora fosse lì con lui, e continua imperterrito a innaffiarle sul davanzale della finestra un vaso di fiori secchi per la mancanza di luce. Finché il giorno della tragedia, mentre dalla tv vediamo il crollo della prima torre, fuori dalla finestra crolla un sipario d’ombra e finalmente la luce del sole illumina il vaso ed entra nell’appartamento. Rose di tanti colori fioriscono all’istante, proprio come nelle favole, ed è ambiguo il sorriso che l’autore ci strappa: alla tragedia di migliaia di persone corrisponde un attimo di fuggevole felicità di un singolo individuo. Felicità che poi si spegne perché con la luce arriva anche la consapevolezza che la moglie non è più con lui a vivere nell’ombra del loro appartamentino. Ernest Borgnine dà spessore e credibilità a una storia simbolica che ci fa interrogare sui punti di vista e sulla relatività di ogni punto di vista. Questo episodio, insieme al successivo nonché ultimo, è stato quello che più ha fatto discutere i nostri critici.

Conclude per il Giappone il regista Shōhei Imamura, uno dei pochi ad aver vinto per due volte la Palma d’Oro al Festival di Cannes. La sua partecipazione a questo film collettivo chiude la sua carriera, poiché muore di cancro 80enne nel 2006. Nel suo cortometraggio, antimilitarista, denuncia in chiave tragicamente grottesca e simbolica, disturbante, le guerre coloniali in cui il Giappone si è impegnato in passato. Colloca il suo racconto nel 1945, alla fine della Seconda Guerra Mondiale che vide il Giappone annientato dalle bombe atomiche, e ci mostra un soldato, un reduce, che affetto da disturbo post traumatico si comporta come un serpente: ingoia persino un topo e viene cacciato di casa, mentre la moglie si consola con un altro uomo. In un flashback viene chiarito il suo comportamento: poiché durante una battaglia si era nascosto viene picchiato da un commilitone che gli chiede perché non stia prendendo parte alla loro “guerra santa”. Quando in seguito la moglie gli chiede: “Ti disgusta così tanto essere uomo?” lui per tutta risposta striscia via ignorandola e in chiusura viene mostrato un serpente sopra un sasso mentre appare la scritta in caratteri giapponesi che un voce fuori campo legge “Le guerre sante non esistono”. Tutto molto simbolico, dunque, con solo un riferimento alle guerre sante e nessun richiamo diretto all’11 settembre. Un cortometraggio che rimane comunque assai ermetico per la ricchezza di simboli, certo più espliciti per la cultura giapponese che per la nostra.

A questo film ne sono seguiti altri, a cominciare dal documentario del sempre scomodo Michael Moore “Fahrenheit 9/11”, che nel titolo richiama il romanzo “Fahrenheit 451” di Ray Bradbury da cui il film del 1966 di François Truffaut che Ramin Bahrani ha inutilmente rifatto e aggiornato nel 2018; Moore nel suo documentario fa le pulci alla famiglia Bush in affari con gli arabi e la famiglia di Osama Bin Laden. Segue nel 2006 “World Trade Center” di Oliver Stone. Dello stesso anno “United 93” di Paul Greengrass che ricostruisce, dalle telefonate dei passeggeri ai parenti, ciò che è accaduto sul volo United Airlines 93 dirottato da terroristi ai quali i passeggeri e il personale di volo si sono ribellati, facendo schiantare l’aereo in aperta campagna, mentre era destinato ad abbattersi sul Campidoglio o sulla Casa Bianca. “Molto forte, incredibilmente vicino” del 2011 di Stephen Daldry dal romanzo di Jonathan Safran Foer che parte da quella tragedia per una narrazione di più ampio respiro. “La 25ª ora” diretto da Spike Lee e uscito nel 2002 è uno dei primi film girati a New York dopo la tragedia e il primo a mostrare Ground Zero; il film interpretato da Edward Norton avrebbe dovuto avere come protagonista Tobey Maguire che però rinunciò per interpretare “Spider-Man” diretto da Sam Raimi e girato a New York poco prima dell’attacco, tanto che in una sequenza comparivano le Torri Gemelle: la clip e il trailer vennero censurati dalla produzione, le Twin Towers sparirono dal film la cui l’uscita, essendo un block-buster di pura evasione, venne anche rimandata. Solo lo scorso anno la Sony ha rilasciato il trailer originale che era stato oscurato.

Noi donne siamo fatte così

1971. Un titolo che è di per sé un manifesto, una dichiarazione di status e di intenti, ma che fallisce entrambi i punti perché in una buona metà degli episodi non è protagonista la donna con il suo sbandierato modo di essere bensì la situazione del racconto, a volte sviluppata in una vera e propria trama ma per lo più sono episodi che rimangono situazioni senza sviluppo narrativo, sketch, scenette da varietà televisivo, barzellette. E la donna è solo il mezzo espressivo. E’ un peccato perché l’occasione era ghiotta: Monica Vitti protagonista assoluta di uno di quei film a episodi tanto in voga all’epoca, che nel 1963 avevano avuto come protagonista femminile Sofia Loren in “Ieri, oggi, domani” diretta da Vittorio De Sica e accompagnata passo passo dal coprotagonista Marcello Mastroianni. Qui dirige Dino Risi e non c’è spazio per coprotagonisti maschili, e dove il ruolo di comprimario in pochi casi si fa importante viene affidato a differenti attori, che in ordine di apparizione sono: Enrico Maria Salerno, Carlo Giuffrè, Ettore Manni.

Donna oggetto con Enrico Maria Salerno in “Zoe – Romantica”

12 episodi per 112 minuti di film, in media 9,33, con episodi più lunghi e complessi, veri cortometraggi, e altri davvero veloci come siparietti, il primo dei quali in apertura del film è anche muto, che offrono a Monica Vitti l’occasione di cimentarsi in 12 ritratti diversi in cui recita credibilmente con diverse cadenze regionali e interpreta anche un’americana, una tedesca e una hostess poliglotta. Gli episodi vengono introdotti da un cartello che li intitola col nome della donna protagonista e solo nei titoli di coda si apprende che ogni episodio aveva un titolo proprio, che come si vuole in narrativa introduce allo spirito del racconto più del semplice laconico nome femminile.

Siciliana vittima-carnefice in “Alberta – Il mondo cammina” con Carlo Giuffré

Da “Noi donne siamo fatte così” ci si aspetta un film che nei suoi episodi racconti la donna nei suoi molteplici e complessi aspetti, anche pre rivoluzione settantottina, anche nel tono grottesco che si è scelto e nel quale la protagonista è notoriamente a suo agio. In realtà sono donne che più che raccontare come sono fatte, dunque dal loro punto di vista, raccontano storie totalmente maschili in cui la donna, per lo più, rimane la costola di un Adamo che si avvia in quegli anni settanta a essere seriamente messo discussione, e dunque il film è già vecchio e fuori fuoco già alla sua uscita nelle sale.

Ancora donna oggetto in “Teresa – Schiava d’amore” con Ettore Manni

Unici riferimenti alla realtà del tempo: una veloce battuta sul divorzio, legalizzato in Italia l’anno prima, ed evidentemente non ancora metabolizzato dagli autori tanto da spingerli a scriverci sopra un intero episodio; lo sciopero delle lavoratrici di un biscottificio; la guerra del Vietnam; la citazione del programma radiofonico “Chiamate Roma 3131” qui adattato in “Chiamate Roma 2121”, un episodio che pericolosamente fa l’apologia dello stupro. C’è poi il ritratto di una coppia iper moderna della Roma bene, come si dirà all’epoca in seguito al successo del film di critica sociale “Roma bene” di Carlo Lizzani, di quello stesso anno; coppia aperta che vanta libere frequentazioni erotiche extra coniugali ma che alla fine danno sfogo alla loro intima natura di siciliani, ovviamente gelosi come la narrativa pretende, e si uccidono a vicenda. In questo episodio la Vitti fa di nuovo la coppia siciliana creata con Carlo Giuffré che l’aveva disonorata in “La ragazza con la pistola” diretto da Mario Monicelli tre anni prima, grande successo che in qualche modo ridisegnò la sua immagine presso il pubblico, dopo che era stata per il compagno di vita Michelangelo Antonioni musa della tetralogia detta dell’incomunicabilità. Il resto sono ritratti di donne senza tempo occasionalmente inserite in un luogo specifico per darle la possibilità di sfoggiare calate dialettali diverse, compreso il napoletano dell’episodio “Annunziata” ovvero “Mamma” in cui è madre di 22 figli e orecchia l’episodio “Adelina” di “Ieri, oggi, domani” ispirato a un reale fatto di cronaca.

Dirige Dino Risi, maestro della commedia con le unghie affilate che ha già firmato capolavori come “Il sorpasso” e fra i film a episodi “I mostri”; ma qui il suo sguardo cinico e tagliente non basta a dare spessore a una serie di barzellette. Un film ancora gradevole per la presenza di Monica Vitti e che, dati i numerosi anche brevi episodi, si può vedere a tempo perso, magari facendo zapping quando nel canale in visione c’è la pubblicità. Nel complesso uno di quei film a episodi troppo legati alla fantasia maschile e maschilista degli autori – Age e Scarpelli, lo stesso Dino Risi, Ettore Scola, Rodolfo Sonego, Luciano Vincenzoni, Giuseppe Catalano, più un anonimo che firma “Eliana – La guerra del Vietnam” che potrebbe celare la stessa Monica Vitti, corrispondente di guerra italiana gravemente mutilata, nell’ospedale da campo in Vietnam, che al presidente americano in visita rivolge un fulminante “…li mortacci tua!”. Il film fu praticamente ignorato nelle sale, mentre la critica salva il mestiere della Vitti e non infierisce sul prodotto. Monica Vitti si rifarà inanellando tre successi: “La Tosca” diretta da Luigi Magni, “Teresa la ladra” diretta dal suo compagno Carlo Di Palma e “Polvere di stelle” di e con Alberto Sordi.

Una giovanissima Ileana Rigano, accreditata come Riganò, nel ruolo muto ma essenziale della graziosa camerierina della coppia siciliana Vitti-Giuffré

Boccaccio ’70

Boccaccio 70

Dice il cartello all’inizio del film “Scherzo in quattro atti ideato da Cesare Zavattini” e i quattro atti, come se fossimo a teatro, sono introdotti e chiusi da un sipario dipinto.

I atto: Renzo e Luciana

Roma spettacolo: settembre 2013

Già dal titolo riconosciamo la fonte dell’ispirazione: quei Renzo e Lucia di manzoniana memoria, coppia osteggiata dagli uomini e dagli eventi che faticheranno non poco per coronare il loro sogno d’amore. Ma allora che c’entra Boccaccio? L’episodio, anzi il primo atto, scritto a sei mani dalla prolifica e acclamata sceneggiatrice Suso Cecchi D’Amico; dallo scrittore Giovanni Arpino, meno attivo al cinema ma ben rappresentato: suo il romanzo da cui fu tratto “Divorzio all’italiana” di Pietro Germi, 1962; da un suo racconto fu poi scritto “Profumo di donna” di Dino Risi, 1974, da cui il remake americano “Scent of a woman” di Martin Brest, 1992; e poi “Anima persa” sempre di Risi, 1977; terzo sceneggiatore fu lo scrittore Italo Calvino che veicolò il cortometraggio da un suo proprio racconto, “L’avventura di due sposi” dalla collezione “Gli amori difficili”. Ma allora, di nuovo, che c’entra Boccaccio? Praticamente nulla, come avvisato all’inizio del film è uno “scherzo”, puramente intellettuale, messo in opera, come stiamo vedendo, da grandi firme della letteratura contemporanea e con le direzioni di altri quattro grandi registi dell’epoca.

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Il film è del 1962 e con quel ’70 allunga una mano sull’incognito futuro, come a volersene appropriare, ma piuttosto che essere il precursore di una serie di film a episodi ben scritti e diretti, farà da ispirazione a una lunga sequela di film di serie B, più o meno boccacceschi, decisamente più ammiccanti fino a sfiorare la pornografia nel peggiore dei casi; in ogni caso, come già detto altrove, schema narrativo come esercizio di stile per gli italici divi dell’epoca. in realtà “Boccaccio ’70” è un film di costume che mette in scena l’Italia di quei primi anni ’60 con il boom economico che portò in ogni casa la lavatrice rigorosamente pagata a cambiali mensili, lo sviluppo delle periferie, e i conseguenti mutamenti nel costume sociale. Monicelli realizza un film garbato che oggi possiamo vedere come uno spaccato sulle condizioni socio-economiche di quel proletariato, soprattutto in chiave femminile, dato che fondamentalmente racconta l’uso e l’abuso dei contratti di lavoro in cui si chiedeva alle donne di mantenersi nubili e sterili pena il licenziamento, contrattualità che verrà abolita e regolamentata e punita non prima del 1970, inizio di un periodo di ulteriori sconvolgimenti sociali, in chiave più drammatica, che presenteranno i conti aperti nell’allegro decennio precedente. Vale la pena ricordare che questo racconto di Italo Calvino aveva anche ispirato la “Canzone triste” di Sergio Liberovici.

Marisa Solinas, Playmen Magazine May 1968 Cover Photo - Italy

Mario Monicelli sceglie come protagonisti due debuttanti di bell’aspetto e convincente interpretazione. Renzo è Germano Gilioli, qui doppiato da Renzo Montagnani, che dopo aver preso parte due anni dopo al misconosciuto “Le conseguenze” regia di Sergio Capogna, scompare dal mondo cinematografico. Lei è Marisa Solinas, che sarà anche cantante di musica leggera, coinvolta nello scandalo che seguì il suicidio di Luigi Tenco a Sanremo, per il quale dichiarò che il cantautore si era tolto la vita a causa dei debiti contratti per una tangente di 6 milioni di lire pagata agli organizzatori del festival; ovviamente la società coinvolta la denunciò e lei in seguito raddoppiò dichiarando di avere ricevuto minacce per il figlio se non avesse rettificato: vero o falso che sia il tutto, si sa che dove c’è fumo anche se non sempre c’è un arrosto c’è comunque qualcosa che brucia. Marisa Solinas si ritaglierà anche uno spazio nell’erotismo posando nuda per Playmen e per la Gina Lollobrigida fotografa autrice di “Italia mia”, e incidendo anche due canzoni pseudo erotiche sulla falsa riga della francese “Je t’aime… moi non plus”. In un piccolissimo ruolo, come Ercole circense, l’ancora poco noto Giuliano Gemma qui doppiato da un Alighiero Noschese già frequentatore degli studi Rai ma non ancora approdato alla fama di imitatore, anche politico (cosa non facile all’epoca) nei varietà.

II atto: Le tentazioni del dottor Antonio

Boccaccio '70 – Le tentazioni del Dottor Antonio - Italy For Movies

Fellini firma questo secondo atto e il suo stile è subito evidente: quello grottesco e surreale che al contempo si prende gioco della società, di quella società prevalentemente guidata da un imperante perbenismo di tracimazione cattolica. Ne è protagonista assoluto un Peppino De Filippo in gran spolvero, mattatoriale una volta tanto, dato che la sua carriera è di eterno secondo: fratello minore, anche artisticamente, di Eduardo, e poi spalla di Totò. Peppino era stato protagonista per Fellini in “Luci del varietà”, debutto del regista in co-regia con Alberto Lattuada, grande insuccesso e terreno di successive polemiche sulla paternità del film. Fellini, che in quell’occasione rimase incantato da Peppino De Filippo, ebbe a dire di lui: “Era un attore che mi piaceva moltissimo, un buffone glorioso, un attore comico straordinario e a mio parere molto più bravo del fratello Eduardo, più cattivo, più originale: il povero cristo che impersonava sempre Eduardo era stato già anticipato in tanti racconti di Cechov, in tanto teatro, lo stesso Viviani in fondo lo aveva interpretato in maniera molto più scattante, diavolesca e potente. Mi sembrava che Peppino fosse una delle incarnazioni più riuscite di questo personaggio sfrontato, patetico nella sua spavalderia, come sapeva muoversi in scena, con l’arroganza e la disinvoltura di certi cani, una presunzione, una spavalderia solo sua”. Peppino era morto nel 1980, Fellini morirà nel 1993.

49 idee su Peppino De Filippo | attori, cinema, personaggi

L’altra protagonista è l’iconica Anita Ekberg, la statuaria ex Miss Svezia già Golden Globe a Hollywood come migliore attrice emergente per “Hollywood o morte” del 1956 con la coppia Jerry Lewis – Dean Martin. Anitona, come affettuosamente la chiamerà Fellini, approderà nella Hollywood sul Tevere per girare un peplum e da lì parte la sua storia artistica tutta italiana e felliniana. Qui recita se stessa, quella resa nota da “La dolce vita”, con la sua voce e quel suo accento sufficientemente alieno da trovare posto nell’immaginario di un Fellini sempre alla ricerca di volti particolari che abbina sempre a doppiaggi altrettanto fuori dal comune: in questo film, ad esempio, fa doppiare una donna brutta da un uomo in falsetto. Anitona, in gigantografia da un manifesto che pubblicizza il latte, turba la fantasia del dottor Antonio Mazzuolo che, nomen omen, da puritano intransigente mazzìa e perseguita tutti quelli che, a suo dire, disturbano la morale comune e il comune senso del pudore: in realtà anche il clero e i politicanti si mostrano più tolleranti e compiacenti di lui. In un incubo notturno e durante un temporale Anitona esce dal manifesto in tutta la sua enormità e duetta con il misero omettino tentandolo come una fascinosa e gigantesca diavolessa, mentre risuona ossessivo il motivetto di Nino Rota della pubblicità. Motivetto che, dopo aver visto il film in tivù decenni fa da ragazzino, ancora ricordo, così come il vagare notturno dell’affascinante gigantessa fra i palazzi modernisti dell’EUR.

Anche in questo cortometraggio, introdotto dal racconto di una bambina nei panni di un Amorino capriccioso che poi conclude il film, non c’è alcun riferimento diretto a Boccaccio, ma tant’è. E’ scritto da Fellini con lo scrittore Ennio Flaiano e con Tullio Pinelli, primogenito dei piemontesi conti Pinelli già brillante autore di commedie teatrali finché vinse una selezione come sceneggiatore cinematografico alla Lux Film di Roma, sorpassando calibri come Vitaliano Brancati ed Elio Vittorini. Qui conosce Fellini col quale collaborerà praticamente a tutti i suoi film.

Fra le curiosità c’è da riportare che nella scena in cui Antonio Mazzuolo schiaffeggia una donna seduta al tavolino di un bar per la sua generosa scollatura, riprende il vero accadimento in cui un giovane Oscar Luigi Scalfaro (Presidente della Repubblica dal 1992 al 1999) allora presidente di Azione Cattolica, schiaffeggiò una donna in un locale pubblico per l’identica ragione. Poi, secondo gli autori di “A New Guide to Italian Cinema” del 2007, l’Anitona di Fellini sarebbe stata ispirata dalla gigantessa di un B-movie americano del 1958, “Attack of the 50 Foot Woman” dove i 50 piedi americani corrispondono a circa 15 metri: quel film non è mai arrivato in Italia e l’ipotesi, ancorché plausibile, non trova conferme nei fatti.

III attoIl lavoro

Un’inquadratura del film che esemplifica l’incomunicabilità fra i due coniugi, distanti, lui riflesso in uno specchio: simbolo cinematografico del doppio ma anche del narcisismo, come pure di parossismo schizofrenico: in ogni caso disagio esistenziale.

Dirige Luchino Visconti, che scrive il cortometraggio con Suso Cecchi D’Amico, la quale passa con nonchalance dal proletariato del primo atto a questa ricca borghesia, meglio ancora nobiltà, del terzo episodio, sempre ambientato a Milano. E ancora una volta Boccaccio non c’entra in quanto la storia è derivata da un racconto di Guy de Maupassant, “Au bord du lit”, tradotto da noi sia come “Accanto al letto” che “Sul bordo del letto”, un dramma morale in forma di beffa amara che può ricongiungersi ai temi narrati nel “Decamerone” dal Boccaccio: una donna, scoperte le numerose relazioni del marito puttaniere, decide di concedersi a lui solo dietro compenso. Luchino Visconti di Modrone conte di Lonate Pozzolo si diverte a farne un film molto personale in cui con tagliente autoironia svende la sua classe sociale allo spettatore medio in cerca di brividi scandalistici, ed è anche l’unico episodio dove si intravede un nudo femminile, per la gioia degli occhi e il prezzo del biglietto, dato che per il resto è tutto uno sterile esercizio di stile abbastanza freddo, cerebrale, in cui Visconti mostra anche una copia tedesca de “Il Gattopardo” che è il racconto da cui stava preparando il suo film successivo. Un piccolo film di auto citazioni.

In un lungo antefatto mette in scena lo sproloquio di un avvocato che introduce il tema delle numerose ragazze squillo con le quali si è sollazzato il giovane piacente conte Ottavio, tutto nella norma per carità, se non fosse che una delle ragazze ha parlato e lo scandalo è finito su tutti i giornali; ma non è tanto lo scandalo a preoccupare il conte e il suo avvocato, quanto piuttosto la reazione del suocero che chiude i cordoni della borsa. Da qui, dopo aver subìto il monologo dell’avvocato, il conte passa a duettare con la moglie Pupe, tedesca che parla in tedesco col padre al telefono, al quale dice che vuol trovarsi un lavoro, come da titolo del film, pur non sapendo cosa davvero significhi quella parola: è un capriccio che la trama non giustifica, fine a se stesso come ogni capriccio della nobiltà, ma un capriccio che introduce l’anima del racconto: poiché al marito piace pagare le donne, e nel contempo continua a desiderare anche la bella moglie, lei gli si concederà dietro compenso, quadrando il cerchio: trova un lavoro e beffa il marito, ma a che prezzo? la consapevolezza di poter fare solo la puttana.

Boccaccio '70: le location del film con Romy Schneider e Sophia Loren

Benché l’uso e l’abuso di attori stranieri sia la tendenza del cinema italiano dell’epoca sempre in cerca di co-finanziamenti e lasciapassare per il mercato estero, in Visconti è anche un gusto personale che segue la sua formazione artistica: ha cominciato a lavorare nel cinema francese al seguito di Jean Renoir; e nella sua cinematografia la nobiltà e l’alta borghesia, e la decadenza sociale e umana, diverranno filo conduttore, dal prossimo film “Il Gattopardo” all’ultimo “L’Innocente”, mentre prima di questo momento di svolta si era espresso dentro la vena del neorealismo a cominciare dal suo primo film “Ossessione” e poi con “La terra trema” e “Bellissima” e “Rocco e i suoi fratelli” fra i quali inserisce quello che fu considerato il suo primo tradimento al neorealismo: “Senso”.

Romolo Valli e Paolo Stoppa

Protagonista di questo episodio è Thomas Milian, nato a Cuba durante i regimi pre Castro che, dopo avere assistito al suicidio di suo padre, ex generale di regime caduto in disgrazia nel regime successivo, fugge negli Stati Uniti dove prende la cittadinanza e la via della recitazione. Sul finire degli anni ’50 venne in Italia a esibirsi al Festival di Spoleto in una pantomima di Jean Cocteau, e gli andò bene perché gli erano rimasti in tasca solo 5 dollari: lo notò Mauro Bolognini che gli aprì una carriera cinematografica in serie A, fino a questa regia di Luchino Visconti dove è doppiato da Corrado Pani; percorre tutto il film facendo in realtà da spalla ai protagonisti dei due segmenti della storia: nel primo, come detto, fa da interpunzione al monologo dell’avvocato interpretato da Romolo Valli, grande interprete teatrale con importanti incursioni al cinema, prematuramente scomparso a causa di un incidente stradale, a 55 anni. Nella seconda parte Thomas – come dai titoli – ma poi Tomas Milian, fa da spalla a Romy Schneider, doppiata da Adriana Asti, un’austriaca naturalizzata francese e resa famosa dalla trilogia di film sulla Principessa Sissi ma dalla cui zuccherosità volle subito prendere le distanze cercando ruoli più impegnativi. A questo terzetto bisogna aggiungere la partecipazione di Paolo Stoppa, altro amico e collaboratore di Visconti, qui nel ruolo muto e beffardo di un secondo avvocato.

Tomas Milian diventerà famoso passando agli spaghetti-western e ai poliziotteschi dove sarà “Er Monnezza”, mentre Romy Schneider proseguirà con una fulgida carriera stroncata a 43 anni da quello che si credette un suicidio ma che in realtà fu un arresto cardiaco dovuto sia ad abuso di alcol che a una profonda depressione per i postumi di un cancro, e soprattutto per la tragica morte del figlio 14enne trovato infilzato su un cancello che voleva scavalcare. Ma secondo un articolo del 2009 del quotidiano tedesco “Bild”, l’attrice fu vittima di spionaggio da parte della Stasi, i servizi segreti della DDR, per il suo sostegno a un comitato di opposizione al regime sovietico, e si adombra l’ipotesi dell’omicidio.

IV atto: La riffa

Sophia Loren, Boccaccio '70 | Sophia loren, Celebrità, Attrice

Il quarto atto è tutto al servizio di Sophia Loren che già nei titoli del manifesto non condivide il suo spazio con un secondo interprete, come accade per gli altri episodi; del resto produce suo marito Carlo Ponti e dirige il suo maestro d’arte Vittorio De Sica: “Chi mi ha in segnato a credere in me stessa? Vittorio De Sica: non solo un grande amico, ma anche un importante mentore nella mia vita” ha dichiarato recentemente l’ottantasettenne diva, e anche: “Devo ringraziare mio marito e De Sica. Ho cominciato dal niente. Mia madre era una povera signora, ci morivamo di fame e siamo andate a Roma. Senza persone che credono in te non vai da nessuna parte. Incontrai Carlo Ponti, il mio futuro marito, e mi fece conoscere Vittorio De Sica. Lo porto nel cuore.

Un piccolo grande miracolo: Vittorio De Sica, Cesare Zavattini e “La porta  del cielo” | Associazione Cinematografica "La Dolce Vita"
Vittorio De Sica e Cesare Zavattini

Scrive la sceneggiatura originale quel Cesare Zavattini che si è praticamente inventato l’intero film. Artista eclettico – scrittore giornalista poeta commediografo ma anche pittore e sceneggiatore di fumetti – ha avuto un lungo e proficuo sodalizio con De Sica col quale ha creato film come “Sciuscià” “Ladri di biciclette” “Miracolo a Milano” imponendosi come autore di punta del neorealismo ma nel contempo artisticamente e culturalmente impegnato a svecchiare l’arte del cinema che considerava duttile e insieme popolare, un’espressione artistica che secondo il suo sentire avrebbe potuto avviare un rinnovamento civile della società sottraendola alle sterili leggi del mercato.

Qui, partendo dal neorealismo, colloca il suo racconto a Lugo di Romagna durante una fiera del bestiame con un ampio antefatto affollato di gente vera, interpreti presi dalla strada, tipi particolari come piacciono anche a Fellini, con la differenza che Fellini li trucca e li veste e li fa muovere dando vita all’immaginario dei suoi bozzetti, mentre De Sica li filma così come sono, limitandosi a estrapolarli dal contesto per metterli al centro del racconto immaginato da Zavattini: in entrambe le soluzioni sempre doppiati. La storia è una favola sulla cui logica bisogna passare oltre. Nella fiera andiamo a scoprire lentamente la protagonista: il personaggio della popolana sfrontata e dal buon cuore sulla quale la Loren ha costruito l’intera carriera. Qui è Zoe, una napoletana che nella fiera gestisce una baracca di tiro a segno insieme a una coppia locale, con la cui complicità ha messo su un’attività illecita: una riffa il cui biglietto vincente, il primo estratto sulla ruota di Napoli ovviamente, darà al fortunato vincitore l’ambitissimo premio di giacere con cotanta maggiorata, che però fa la difficile e vorrebbe ma non può scegliere l’uomo da premiare, e nel frattempo si dà da fare col belloccio del paese, il buttero Gaetano. E’ chiaro che si tratta di prostituzione bella e buona ma in questa favola la buona e bella Zoe mantiene un cuore innocente e tanti leciti sogni che pensa di realizzare con i guadagni, già cospicui, un vero tesoretto, delle riffe che ha già organizzato nelle fiere di paese in paese. Vince il timido scialbo sacrestano e il biglietto vincente diventa l’ambito oggetto di un’asta al rialzo sempre più ardito fra i vari tipi che interpretano se stessi con i lori veri nomi, ma il sacrestano è risoluto nel volere godere il suo inaspettato e altrimenti irraggiungibile premio, la prorompente napoletana con un vestito rosso che sembra dipinto addosso. A questo punto un paio di ben congegnati colpi di scena danno alla vicenda dei risvolti inaspettati… Accanto alla Sophia nazionale Alfio Vita (cinque soli film all’attivo) è l’impacciato sagrestano e Luigi Giuliani (a quota tredici film) è il bello della fiera, mentre tutti gli altri interpreti, come detto, sono presi dalla strada, eccezioni fatta per Annarosa Garatti, l’amica del tiro a segno, professionista con pochi film che si è dedicata successivamente al doppiaggio.

Questo è l’unico episodio che, benché senza riferimenti diretti, resta in linea con la narrativa del toscano Giovanni Boccaccio e del suo Decamerone che incontrano l’arte di arrangiarsi partenopea: dunque, a mio avviso, l’episodio stilisticamente più riuscito all’interno di un film a episodi in cui del Boccaccio nel titolo non c’è traccia: uno scherzo in quattro atti ideato da Cesare Zavattini, appunto. L’episodio che rimane più impresso è di nuovo quello di Fellini, come accadrà per “Tre passi nel delirio” e c’è da riportare l’incidente avvenuto con la distribuzione all’estero: presentato fuori concorso al Festival di Cannes che quell’anno, il 1962, ha premiato il dimenticato film brasiliano “La parola data” – mentre c’erano in concorso “L’eclisse” di Michelangelo Antonioni, “Il processo di Giovanna d’Arco” di Robert Bresson, “L’angelo sterminatore” di Luis Buñuel, “Il lungo viaggio verso la notte” di Sidney Lumet, “Divorzio all’italiana” di Pietro Germi – da “Boccaccio ’70” è stato eliminato l’episodio “Renzo e Luciana” diretto da Monicelli per portare nelle sale un film di durata più consona: l’originale dura più di tre ore e mezza; ne ha fatto le spese l’episodio con meno appeal, con protagonisti sconosciuti e un tipico racconto della realtà sociale italiana del momento. Per protesta e solidarietà col collega escluso De Sica Fellini e Visconti disertarono il festival. Qui di seguito i manifesti francese, che come sempre francesizzano anche i nomi propri, inglese e tedesco.

Boccace 70 de Luchino Visconti, Federico Fellini, Vittorio De Sica, Mario  Monicelli (1962) - UniFrance
Boccaccio '70 (1962) - IMDb
BOCCACCIO 70 (1962) – Cinema Italiano Database

Tre passi nel delirio

Uno dei pochi film a episodi che non abbiano per tema il sesso o estensivamente le relazioni fra uomo e donna. E già per questo degno di attenzione. C’è in più che i tre episodi sono liberamente ispirati a tre racconti di Edgar Allan Poe, inventore dei racconti polizieschi, della letteratura gotica o dell’orrore e dei gialli psicologici, senza dimenticare che fu un poeta romantico precursore del simbolismo e della figura del poeta maledetto: praticamente tutta la letteratura di questi filoni si deve a lui.

Così come grande letteratura non è sinonimo di romanzo voluminoso altrettanto il grande cinema non sempre è fatto di lungometraggi: ci sono sia racconti che cortometraggi di grandissimo valore artistico, ma se nella narrativa è più facile trovarli nella cinematografia l’impresa è più ardua, se non altro perché nel cinema italiano, da quegli anni in poi, i cortometraggi che compongono i film a episodi sono tutti figli del Boccaccio e del suo Decamerone, che in alcuni casi diverranno esercizio di stile per attori e registi che si guadagneranno oltre che l’attenzione del pubblico anche premi prestigiosi; fino alla deriva dei film ai episodi che diventeranno un’accozzaglia di volgarità da barzelletta i cui ultimi esempi risalgono ormai agli anni ’80.

Sono del parere che la produzione dei film a episodi andrebbe incoraggiata organizzando i giovani talenti che producono in ordine sparso; perché in genere i cortometraggi, oggi, non sono altro che personalissimi esercizi di stile per farsi vedere sul mercato, nei festival, magari raccogliere qualche riconoscimento per riuscire ad approdare all’agognato lungometraggio: una sorta di passaggio di formazione da abbandonare non appena si raggiunge l’obiettivo della produzione distribuita nelle sale. E’ un peccato perché il cortometraggio, come il racconto in letteratura, può avere un suo valore intrinseco, ammesso che dietro ci sia una volontà produttiva e distributiva.

I giovani registi, costretti a lavorare individualmente, purtroppo nella solitudine delle loro auto produzioni si convincono di essere autori a tutto tondo e così non è: ci sono corti ben scritti e mal girati se il giovane è forte in letteratura, mal scritti e ben girati se è forte in fotografia, e in entrambi i casi spesso male recitati perché i giovani registi non hanno esperienza di lavoro con gli attori e di recitazione, e per lo più, per ragioni economiche e/o affettive, coinvolgono amici complici e amanti tanti carini, tanto efficaci sul piano visivo ma senza alcuna formazione su quello artistico. Basterebbe che le major, Rai Mediaset Sky Netflix Amazon eccetera, organizzassero delle produzioni e dei percorsi narrativi a tema, come in questo film tratto da Poe: giovani sceneggiatori e giovani registi supervisionati e indirizzati in un progetto specifico, una sorta di laboratorio permanente per cortometraggi di qualità da distribuire singolarmente o riuniti in film a episodi. Ne gioveremmo tutti, spettatori e giovani talenti.

“Tre passi nel delirio” è stato distribuito in francese come “Histoires Extraordinaires” dal titolo che Charles Baudelaire diede alla prima raccolta di racconti di Poe che, traducendoli, pubblicò in francese; e in lingua inglese il film fu distribuito come “Spirits of the Dead” dal titolo di una poesia di Poe. Il film si apre con questa citazione di Poe: “Orrore e Fatalità hanno imperato in ogni tempo. Perché dunque segnare una data alle storie che devo raccontarvi?” Il cast è rigorosamente presentato per ordine alfabetico: Brigitte Bardot, Alain Delon, Jane Fonda e Terence Stamp, e quest’ultimo benché interprete di prima grandezza non diventerà mai una vera star come gli altri; in alcune locandine il suo nome non compare mentre in quella americana è aggiunto quello di Peter Fonda, fratello di Jane e interprete con lei nel primo episodio.

Metzengerstein

Roger Vadim & Jane Fonda in France. She's beautiful in this photo. | Jane  fonda, Jane fonda barbarella, Lady jane
Roger Vadim e Jane Fonda

Fu la coppia glamorous del regista francese e della rampolla d’arte americana a pensare al film. Erano reduci da “Barbarella”, un pasticcio fantasy grande insuccesso di pubblico e critica che negli anni diverrà un cult, e dunque perché non continuare su quella strada? Lui a dire il vero non era un grande regista, sfornava solo film pseudo-erotici ed era famoso come tombeur de femme: aveva debuttato in regia lanciando la sua prima moglie in “Piace a troppi (Et Dieu… créa la femme)”, lei era Brigitte Bardot, che lasciò per sposare Annette Strøyberg che abbiamo visto in “Il sorpasso”, che poi tradì con Catherine Deneuve, e poi sposò Jane Fonda che aveva diretto in “Il piacere e l’amore”. Ma l’attività satiresca del regista non si fermò, anzi: continuava coi suoi tradimenti addirittura coinvolgendo Jane in orge con più donne, e lei scriverà nella sua autobiografia: “Mi ero convinta che era quello che anch’io desideravo, salvo scoprire che stava uccidendo il nostro amore”. Anche quel matrimonio ovviamente finì e lui continuò a passare di letto in letto… Ed è questa la fantasia che mette in scena nel suo episodio.

Amazon.it: Metzengerstein: A Tale in Imitation of the German - Poe, Edgar  Allan - Libri in altre lingue

“Metzengerstein: A Tale In Imitation of the German” era il primo racconto di Poe in cui protagonista è il giovane Frederick, ultimo della ricca stirpe dei Metzengerstein, dissipatore crudele e dissoluto, che porta avanti una vecchia faida con la famiglia Berlifitzing, e secondo una profezia sarà un cavallo a mettere fine all’antica contesa; il patriarca Von Berlifitzing resta ucciso nell’incendio delle sue stalle, da cui sfugge un poderoso stallone nero, mentre il rampollo della famiglia rivale viene sospettato di aver provocato l’incendio e l’omicidio. Frederick, soggiogato dal fascino del nero stallone comincia a cavalcarlo incessantemente e quando il suo stesso castello prende fuoco il destriero ve lo conduce dentro, realizzando la profezia.

Roger Vadim adatta il racconto alle sue fantasie erotiche. Frederick diventa la 22enne Fredericka scritta su misura per la 32enne Jane Fonda, attrice seria e blasonata che aveva rilanciato come sex symbol, e la rimette in scena come nuova Barbarella del ‘500 europeo la cui dissolutezza si manifesta in statiche e stanche orge con esuberanza di gentil sesso, e in poche ridicole battute che ci fanno capire quanto la contessina sia capricciosa e crudele. Eh sì perché la sceneggiatura non sa far altro che riscrivere un lungo racconto con voce fuori campo che qua e là occasionalmente dà spazio a striminziti dialoghi fatti di quattro battute; il vecchio Von Berlifitzing diventa un aitante cugino della casa nemica – interpretato da Peter Fonda – di cui Fredericka si innamora e poiché non ricambiata gli fa incendiare le stalle e il cugino amato nemico muore; per il resto è tutto cartoline di castelli e rovine, lunghe cavalcate e fuochi purificatori. Un’occasione più che sprecata che sfiora il ridicolo, una sfilata di moda per Jane Fonda che indossa fantasiosi costumi anni ’60 che occhieggiano al ‘500, una Jane Fonda che non avendo nulla da recitare bamboleggia secondo le fantasie del suo improvvido consorte regista, ma che l’anno seguente verrà candidata all’Oscar per “Non si uccidono così anche i cavalli?” di Sydney Pollack a riprova delle sue capacità artistiche.

William Wilson

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Il secondo episodio, “William Wilson”, è adattato e diretto da Louis Malle che vi rimane abbastanza fedele. In realtà il regista partecipa a quest’operazione che reputa commerciale solo perché ha bisogno di soldi per finanziare il film a cui sta lavorando: “Soffio al cuore”. William Wilson è il protagonista di una storia grottesca sul tema del doppio che racconta in prima persona della persecuzione che subisce sin dall’infanzia da un suo omonimo, che paradossalmente gli è anche estremamente somigliante. Nel finale W.W. affronta il suo persecutore una volta per tutte e, trascinatolo in una stanza lo sfida a duello, e avendo la meglio sul suo avversario riesce a infliggergli un colpo mortale; si accorge però di trovarsi di fronte a uno specchio, Il cui riflesso gli bisbiglia la frase conclusiva: “Tu hai vinto ed io cedo. Ma tu pure, da questo momento, sei morto – sei morto al Mondo, al Cielo, alla Speranza! In me tu esistevi – e ora, nella mia morte, in questa mia immagine che è la tua, guarda come hai definitivamente assassinato te stesso.”

Alain Delon e Brigitte Bardot in una pausa sul set

Nel film il racconto in prima persona è trasferito in una confessione a un prete interpretato da Renzo Palmer; altra comprensibile variazione è la trasformazione del giovane da spennare barando al tavolo da gioco in una ambigua donna, per inserire una figura femminile in un racconto tutto al maschile di cui è protagonista assoluto Alain Delon, divo del momento definito uomo più bello del mondo, qui in un’interpretazione assai convincente. Per il ruolo dell’incallita giocatrice d’azzardo, fascinosa e ambigua, figura che nel film non racconta alcun tentativo di seduzione in aggiunta al gioco di carte, non asessuata ma distaccata, Louis Malle avrebbe voluto l’androgina Florinda Bolkan, che da hostess brasiliana poliglotta era stata appena lanciata da Luchino Visconti con un piccolo ruolo in “La Caduta degli Dei”, ma i produttori, fra cui l’italiano Alberto Grimaldi, volevano un nome di prima grandezza e gli imposero Brigitte Bardot, che bontà sua accettò il piccolo ruolo, ma per la quale il regista non nascose il disappunto definendola inadatta; a sua volta le impose una parrucca nera simil Florinda Bolkan che però la fece somigliare a Claudia Cardinale, ma B.B. recitò il suo ruolo come dovuto, con freddo distacco e senza bamboleggiare; inevitabilmente però le manca l’ambiguità che il regista aveva immaginato inserendo una donna, unica, in una sala da gioco completamente al maschile. Purtroppo Louis Malle a mio avviso sbaglia il finale togliendogli il fascino del mistero: trasferisce il duello all’aperto e il doppio mortalmente ferito non si riflette più da uno specchio ma è lì fisicamente presente davanti a lui, pur maledicendolo con la frase finale del racconto.

Toby Dammit

Toby Dammit: The Italian Connection #2 |

Protagonista del terzo episodio diretto da Federico Fellini è Toby Dammit, dal racconto “Mai scommettere la testa con il diavolo” in cui Poe racconta di un giovanotto pieno di cattive abitudini che la severissima educazione impartitagli dalla mamma nell’infanzia ha incoraggiato anzichenò, dato che le punizioni materne invece di scacciare il male via da lui, al contrario, in lui introducevano il male; fra le varie cattive abitudini di Toby Dammit c’è quella di ripetere continuamente “scommetto la mia testa col diavolo”… e poiché il diavolo vince tutte le scommesse lo sconsiderato giovanotto morirà in un incidente – decapitato. Nomen omen: per lui lo scrittore inventa il cognome Dammit che suona come damn it! un’imprecazione che sta per dannazione! e associata a un nome specifico, Toby, diventa maledetto Toby.

Toby Dammit (1968) di Federico Fellini - Recensione | Quinlan.it

Federico Fellini spazza via tutto il contesto del racconto e tiene solo il personaggio che inserisce nel suo mondo, contemporaneo e insieme fantastico. Toby Dammit diventa un attore britannico, come il suo interprete Terence Stamp, trentenne in ascesa dalla carriera assai promettente, candidato all’Oscar già al suo debutto cinematografico e poi protagonista con i più grandi registi del momento, ma negli anni ’70 la sua carriera langue e lavorerà per lo più in ruoli di supporto grazie alla sua versatilità interpretativa che lo condurrà nel 1995 alla candidatura ai Golden Globe per l’interpretazione di un transessuale in “Priscilla la regina del deserto” di Stephen Elliot. Come Toby Dammit è per Fellini una star alcolizzata che prelevato all’aeroporto di Roma viene condotto in auto da un prete, Salvo Randone che sarà di nuovo con Fellini nel successivo “Satyricon”, che come religioso sta collaborando alla sceneggiatura di un western cattolico con un Gesù cowboy, ironia al vetriolo felliniana sui contemporanei spaghetti-western dell’innovatore Sergio Leone. Sin dall’inizio, con un gruppo di suore i cui veli svolazzano nell’atrio dell’aeroporto, il regista ci introduce nel suo mondo, una sfilata di tipi e situazioni che Toby intravede nel lungo percorso per le vie di Roma sull’auto che lo condurrà allo studio televisivo dove va in scena in diretta tivù la serata in cui anche lui verrà premiato con la Lupetta d’Oro, anch’essa invenzione felliniana. Va da sé che lo spettacolo è un ulteriore palcoscenico con cui il regista-autore mette in scena le sue fantasmagorie cui però l’attore britannico, molto preso dall’alcol, sembra poco interessato, anche perché non capisce nulla: parla solo inglese, nel film non tradotto e non sottotitolato, e quello che dice, benché comprensibile oggi più di quanto lo fosse all’epoca quando la conoscenza della lingua non era così diffusa, arriva allo spettatore parzialmente incomprensibile tanto quanto l’attore non comprende gli italiani: è un dialogo fra sordi, un’incomprensione reciproca di cui si danno per scontati i temi, le frasi, i luoghi comuni, il chiacchiericcio italiano come il biascicare inglese, entrambi reciprocamente incomprensibili e come tali archiviati e portati avanti fino all’estremo di un’intervista con domande senza risposte, condotta da Milena Vukotic, già con Fellini in “Giulietta degli spiriti”. Il genio di Fellini è tutto qui: fa del racconto morale di Poe un racconto immorale del suo mondo contemporaneo, in cui mostra la sua Roma e il suo teatro di posa a Cinecittà come simboli di tutta l’italianità, grottesca e becera, arrogante e rumorosa, colorata e cupa al contempo, cattolica e strafottente. E Toby Dammit, che aveva preteso una Ferrari da guidare spericolatamente così come ha vissuto, va incontro al destino che Poe aveva scritto per lui. A Fellini importa poco di quel Toby Dammit ma non per questo ne fa un film minore, anzi lascia il segno del suo indiscutibile genio e questo episodio è in assoluto il migliore dei tre, presentati sullo schermo per ordine di riuscita artistica per il gradimento in crescendo di noi spettatori, adesso in cerca degli altri due film a episodi a cui Fellini ha partecipato: “L’amore in città” del 1953 e “Boccaccio ’70” del 1962. Da ricordare che nel 1977 è uscito nelle sale il film “2 Fellini 2” che metteva insieme “Toby Dammit” e “I Clowns”.

La bambina di Mario Bava, che in realtà è interpretata da un maschietto, Valerio Valeri, a confronto con la bambina di Federico Fellini interpretata da Marina Yaru

Una curiosità. Fellini immagina che Toby Dammit sia perseguitato dalla visione di una inquietante bambina tutta bianca con le unghie smaltate di rosso: è il suo demone, il diavolo che attende la sua testa. Questa figura di bambina inquietante il regista la prende pari pari da un film horror che Mario Bava aveva girato un paio d’anni prima, “Operazione paura”, che è il fantasma di una bambina morta anni prima in un incidente e che ora, in cerca di vendetta, causa le morti misteriose del film. Quando Mario Bava vide “Toby Dammit” se ne lamentò con Giulietta Masina: “E’ la stessa del mio film!” E la moglie di Fellini alzò le spalle: “Sai com’è Federico…”