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Il Generale Della Rovere – Fascismo e Resistenza nel cinema d’autore

Di cinema, fiction &....: Il Generale Della Rovere, 1959

«Caro Signor Rossellini
ho visto i suoi film ‘Roma città aperta’ e ‘Paisà’ e li ho apprezzati moltissimo. Se ha bisogno di un’attrice svedese che parla inglese molto bene, che non ha dimenticato il suo tedesco, non si fa quasi capire in francese, e in italiano sa dire solo ‘ti amo’, sono pronta a venire in Italia per lavorare con lei.

Ingrid Bergman»

Inizia così, nel 1948, una storia d’amore cinematografica molto chiacchierata, dato che entrambi erano già sposati, e Roberto Rossellini lo era, poi, nientemeno che con Anna Magnani. Ma andando oltre il pettegolezzo, i due film che Ingrid Bergman cita compongono, insieme a “Germania Anno Zero“, la “trilogia della guerra antifascista” del maestro italiano che, ispirato dal nuovo amore, gira subito con lei un soggetto che era stato pensato per la Magnani, “Stromboli”, la quale gli risponde girando in contemporanea “Vulcano” diretta dall’ebreo tedesco-americano William Dieterle, esponente di quella diaspora di cineasti tedeschi fuggiti negli Stati Uniti a causa delle persecuzioni naziste. Entrambi i vulcanici film non furono però un successo al botteghino. Il sodalizio sentimentale e artistico di Roberto Rossellini e Ingrid Bergman si concluse dopo “Giovanna d’Arco al rogo”, ripresa cinematografica di uno spettacolo teatrale basato sull’omonima opera musicale di Paul Claudel: dopo sei film, nessuno dei quali memorabile, e tre figli, la coppia si separa: la riuscita artistica non era nel pacchetto, il neorealismo italiano che tanto fascino aveva avuto sulla Bergman spettatrice non si addice all’attrice internazionale, la quale torna a recitare in America dove vincerà il secondo di tre Oscar con “Anastasia” mentre Rossellini va in India dove appunto gira “India” del 1958 e conosce e sposa la sua terza moglie, una sceneggiatrice indiana.

I metodi del neorealismo – con l’apparente mancanza di preparazione e, spesso, anche di una sceneggiatura completa, o un’attenta costruzione della scena, che rendono il cinema di Rossellini (e non solo) così simile alla realtà proprio per questa assenza di impostazione tecnica – era sentita allora come indice di modernità, e fu anche di ispirazione per i cineasti della Nouvelle Vague francese, e non solo. Il cinema europeo del dopoguerra faceva necessariamente i conti col conflitto appena concluso, e ogni Paese lo ha raccontato a suo modo, e qui vale la pena ricordare che l’unica nazione a non avere nell’immediato dopoguerra una vera e propria cinematografia fu la Germania “colpevole” di aver dato vita al nazismo e subito divisa nei due blocchi che crolleranno nel 1989; ebbe una cinematografia politicamente spaccata in due, come la nazione, per la maggior parte ispirata proprio al neorealismo italiano: ma mentre a occidente si realizzavano film “rieducativi” antinazisti, a oriente si facevano film “educativi” al socialismo. Per non dire di tutti i professionisti che erano scappati in America dove non solo al cinema faranno grandi cose. Ricordiamo alcuni nomi austro-tedeschi a Hollywood: Fritz Lang, Peter Lorre, Georg Wilhelm Pabst, Otto Preminger, Erich Von Stroheim, Billy (Samuel) Wider, solo per citare i primi che vengono in mente.

1959, finalmente è l’anno di “Il Generale Della Rovere” che nelle intenzioni dell’autore è un film “di transizione”, quasi un ripiego alle necessita produttive e commerciali del momento: dopo l’India avrebbe voluto filmare il Brasile, ed è di quegli anni l’ispirazione a un ampio progetto alla cui realizzazione avrebbe dedicato il resto della sua carriera e della sua vita: un’enciclopedia di stampo scientifico e didattico sullo sviluppo tecnologico degli audiovisivi, e in particolare sulla capacità narrativa della nascente televisione nella quale avrebbe avuto molto da dire ad alti livelli.

È a Parigi dove sta cominciando a lavorare al documentario tv in 10 puntate di “L’India vista da Rossellini” e accetta di girare questo film di stampo tradizionale solo per compiacere i produttori italo-francesi. Il soggetto è di Indro Montanelli che ha firmato la sceneggiatura con Sergio Amidei e Diego Fabbri, che nasce da un’esperienza personale di Montanelli che imprigionato dai tedeschi a San Vittore, Milano, conosce un certo Giovanni Bertoni realmente fucilato dai tedeschi e i cui familiari, dopo l’uscita del film, intentano causa contro il regista per diffamazione nonostante il nome del protagonista sia stato blandamente mutato in Emanuele Bardone; dal successo della sceneggiatura successivamente Montanelli svilupperà il romanzo omonimo.

La diffamazione sta nel fatto che Bertoni/Bardone è un truffatore, giocatore incallito e frequentatore di prostitute, che come fasullo Colonello Grimaldi raggira i parenti di prigionieri millantando aderenze fra i tedeschi e spillando denaro, se non per farli rilasciare, per lo meno evitare di farli trasferire nei campi in Germania. In realtà è in combutta con un sottufficiale della Gestapo al quale passa la metà dei proventi in denaro, quando non li ha persi tutti al tavolo del baccarà. Il generale del titolo è un importante esponente della resistenza italiana che il colonnello Müller contava di catturare per poterlo poi scambiare con importanti prigionieri tedeschi, ma il partigiano viene ucciso in un’improvvida sparatoria e al dunque propone al miserabile truffatore dai modi eleganti di fingersi il Generale Della Rovere nel braccio dei prigionieri politici del carcere di San Vittore, per raccogliere informazioni sulla resistenza. Va da sé che una volta in prigione e a stretto contatto con i veri combattenti per la libertà italiana, il malfattore ha una conversione morale e muore da eroe. Grande successo al botteghino e Leone d’Oro a Venezia, ex aequo con un altro film bellico, sulla prima guerra mondiale, “La grande guerra” di Mario Monicelli che guarda al conflitto con dissacrante ironia.

Oggi il film, pur mantenendo intatta la sua forza narrativa, risente del tempo e mostra, quasi come uno spaccato sul cinema di quell’epoca, la rudimentalità dei mezzi tecnici: è il primo film italiano in cui si usa lo zoom e le ricostruzioni in studio a Cinecittà (il cui ingresso sulla via Tuscolana, corredato di due garitte militari, viene filmato come ingresso di un kommandantur) sono abbastanza riconoscibili soprattutto nell’ambientazione carceraria; le scene più dialogate, molto statiche e con pochi controcampi, sono filmate con gli attori che si posizionano in favore della cinepresa come a teatro si sarebbero posti in favore del pubblico.

Il protagonista, che ha come antagonista il tedesco Hannes Messemer che recita bene anche in italiano, è il 59enne Vittorio De Sica in stato di grazia che, consapevole dell’impegno, per l’occasione rende più fluida e veritiera la sua recitazione, altrove sempre abbastanza manierata e gigionesca. L’anno prima era stato candidato agli Oscar come non protagonista per “Addio alle armi” da Hemingway, regia di Charles Vidor con Rock Hudson e Jennifer Jones; c’era anche Alberto Sordi. Ma la maggior parte dei premi e delle candidature di De Sica sono dovute alla sua attività di regista, dove ha sicuramente dato il meglio di sé firmando film memorabili che qui sarebbe troppo lungo elencare, ma basta ricordare “Il giardino dei Finzi-Contini” del 1970 che rientra in questa casella di film sul Fascismo e la Resistenza.

Nel cast la “partecipazione speciale” di Sandra Milo e Giovanna Ralli, che Rossellini deve essersi divertito nello scambiargli il colore dei capelli, facendo bruna la prima e platinata la seconda. Il terzo nome femminile è quello della francese Anne Vernon, come compromesso della coproduzione. Ma il terzo ruolo più interessante è affidato al caratterista per tutte le stagioni Vittorio Caprioli, sempre a suo agio sia in ruoli drammatici che brillanti. Nella scena finale fra i prigionieri in anticamera per la fucilazione troviamo Ivo Garrani come capo dei partigiani, un giovane Franco Interlenghi e, omaggio al De Sica regista, Lamberto Maggiorani, che nel suo intervento fa riferimento a una bicicletta: da operaio, De Sica ne aveva fatto, un paio d’anni prima, il protagonista di quel “Ladri di biciclette” che riceverà Oscar, Golden Globe, BAFTA e Nastri d’Argento.

Nel 2011 ne è stato fatto un film in due puntate Rai con la regia di Carlo Carlei e l’interpretazione di Pierfrancesco Favino. Un remake cinematografico sarebbe oggi immaginabile con quel George Clooney molto in sintonia con l’Italia e l’antimilitarismo, nonché con quel pizzico di cialtroneria, voluta e controllata, che spesso ritroviamo nelle sue interpretazioni. Chi gli telefona per dirglielo?