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Birdman, o l’imprevedibile virtù dell’ignoranza

Attori e registi e scrittori e artisti e performer, aspiranti tali o presunti tali, andatelo a vedere tutti. Potevo essere politicamente corretto e dire anche attrici registe e scrittrici ma questo mi serve per dire che una delle tante chiavi di lettura di questo ricchissimo film è che lo sguardo del regista/autore è tutto al maschile, è un duello virile fra due attori per vedere chi ce l’ha più lungo, e le figure femminili sono tutte, ahimè mi spiace dirlo, di supporto per meglio disegnare la figura di questo grandioso personaggio meravigliosamente interpretato da un Michael Keaton sessantenne e stazzonato che non vedevamo sugli schermi da un bel po’: già Golden Globe e candidatura agli Oscar. Mi rivolgo ad attori e registi perché questo è anche un film sull’arte della recitazione: sul cinema – di cui mette in berlina vizi e vezzi delle superproduzioni che mietono vittime fra il pubblico e i loro portafogli sfornando blockbuster pieni di effetti speciali e vuoti di senso; sul teatro – a cui guarda con vero amore anche quando lo osserva criticamente e di cui mette sotto accusa, anche qui vizi e vezzi, di certa critica supponente e autoreferenziale, e di un certo tipo di attore, qui incarnato dal personaggio del grandioso Edward Norton, che gioca a fare il maledetto geniale e invece non è altro che un cialtrone opportunista.

La storia sarebbe anche semplice da riassumere: Riggan Thomson, star in declino che ha legato il suo nome alla trilogia cinematografica del fantaeroe Birdman, vuole riciclarsi in teatro come vero artista impegnandosi in una produzione a Broadway di cui è oltre a essere protagonista è anche regista e scrittore del copione adattato da un romanzo di successo di Raymond Carver. Ovviamente il nostro, pazientemente ma anche cinicamente assistito dal suo avvocato/agente interpretato da Zach Galifianakis (co-star della trilogia cogliona di “Una notte da leoni”), è anche in serie difficoltà economiche ed ha una famiglia normalmente e anche banalmente disastrata con ex moglie (Amy Ryan) e figlia ex tossica che, interpretata da Emma Stone, è il personaggio femminile meglio delineato che infatti porta a casa le nomination al Golden Globe e all’Oscar. Gli altri personaggi femminili sono le due colleghe di scena: una, che ovviamente è la nuova comprensiva compagna (Andrea Riseborough) e l’altra, cui si presta Naomi Watts (con Iñárritu in “21 grammi”) è una quarantenne già mezza frollata che su quel palcoscenico sta finalmente realizzando i suoi sogni di bambina: patetica quanto basta. Ma conoscendo Alejandro González Iñárritu e la sua cinematografia fatta  (compreso questo) di soli cinque grandi titoli (“Amores Perros”, “Babel” e “Biutiful”) è evidente che il geniale messicano, dopo essere passato attraverso sceneggiature e film assai complessi sia nella scrittura che nella confezione e nel montaggio, che sempre hanno avuto successo di critica ma un po’ meno di pubblico, stavolta ha scritto una trama comprensibile a tutti ricca però di sottotracce per il palati più raffinati da mettere al servizio di una realizzazione tecnica virtuosistica e assai complessa e dal risultato affascinante per tutti, critica e pubblico sia colto che impreparato: trattando di teatro e ambientato dentro e attorno a un teatro il copione è recitato come se si fosse a teatro, tutto di filato, in un unico lunghissimo piano sequenza che in realtà monta abilmente insieme differenti ma altrettanto lunghi e difficili movimenti di macchina in un’azione che ci avvolge dall’inizio alla fine fra camerini e quinte e palcoscenico e dintorni (Times Square dove il protagonista corre in mutande) in cui viene inquadrato en passant anche il batterista che esegue come se fosse dal vivo la colonna sonora del film: straordinario. In cinema si ricordano altri soli due titoli di film girati in piano sequenza: “Nodo alla gola” di Alfred Hitchcock e “Arca russa” di Aleksandr Sokurov.

Poi c’è il resto, la psiche e la favola, gli effetti speciali che Iñárritu ha l’ardire di criticare e di usare al contempo in una sequenza inattesa e mozzafiato che sotto finale libera e rivela la nevrosi del protagonista che durante tutto il film battibecca col suo alter ego Birdman, che lo vuole fuori da quella fogna di teatro per ridargli vita al cinema, mentre esprime segretamente i suoi poteri di telecinesi sin dalla sequenza di apertura in cui lo vediamo meditare levitando a mezz’aria. E c’è spazio anche per un presagio di catastrofe con una palla di fuoco che attraversa il cielo e una moria degli spiaggiati granchi più antichi del mondo: se non si salvano più neanche loro non c’è più speranza per nessuno… se non nell’intima fede in se stessi e nei propri sogni, come sembra indicarci un finalino consolatorio che ci strappa un sorriso e un sospiro di sollievo.

Fra le righe: ricordiamo che Michael Keaton, dopo aver interpretato “Beeteljuce” di Tim Burton, con lo stesso altro geniale regista nel 1989 indossa la tuta del supereroe “Batman” che poi come una puttana da quattro soldi e troppi milioni di dollari di budget è passato di attore in attore e di regista in regista fino a essere ripreso in toto e ridisegnato in noir da Christopher Nolan e Christian Bale. Quindi è lecito leggere nell’interpretazione dell’odierno Keaton un’adesione d’antan al personaggio dell’attore anziano in crisi da effetti speciali. Anche Edward Norton con questa sua interpretazione rimarca la sua personale distanza da quel genere di film dato che, inciampatovi nel 2008 come “Incredibile Hulk” finì in causa con i produttori che avevano tagliato dal film buona parte della sua prestazione di attore a favore di vuoti effetti speciali: peccati che si scontano. E c’è da dire, concludendo, che se il Batman di Burton/Keaton era un bel film, antesignano di una serie che si sputtanò cammin facendo, l’Incredibile Hulk di Leterrier(chi è costui?)/Norton era davvero brutto.