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Avatar – la via dell’acqua

Comincia come un western con gli indiani che assaltano il convoglio ferroviario dei coloni invasori e finisce con una riedizione fantasy del “Titanic” che affonda; in mezzo storie di famiglie e di tribù che impareranno a conoscersi e a unirsi contro il nemico e, soprattutto, storie di teenagers con gli ormoni in subbuglio, passando anche attraverso una citazione di Moby Dick, la balena bianca”. Il primo “Avatar” del 2009 è stato un grandioso evento cinematografico perché il suo autore e creatore, è il caso di dirlo, ha proprio creato un mondo fin nei minimi dettagli consentendo agli spettatori un’esperienza immersiva mai provata prima: non erano solo scenari fantasy che facevano da sfondo ai personaggi e alla vicenda ma una vera e propria realtà alternativa e viva, protagonista essa stessa della nuova narrativa.

Il progetto “Avatar” prende vita nella mente di James Cameron nell’ormai lontana metà anni ’90 ma all’epoca, e secondo la tecnologia del tempo, fu stimato che un film di quella portata sarebbe costato qualcosa come 400 milioni di dollari: una follia. Così l’autore-creatore concentrò le sue energie e i suoi soldi, e non soltanto i suoi, nella realizzazione di “Titanic” (1997) che costò soltanto 200 milioni di dollari più gli spiccioli per la promozione: altri 85 milioni. Il film incassò quasi 2 miliardi di dollari e sarebbe stato superato proprio da “Avatar” che arrivò quasi a 3 miliardi piazzandosi come miglior incasso mondiale. Questo sequel ha incassato 2 miliardi e mezzo ed è il maggior incasso post pandemia, senza però raggiungere l’exploit del primo capitolo: che cosa non ha funzionato?

Per chi ama il genere il film è perfetto ma strada facendo – sono passati 13 anni dal primo capitolo – ha perso un po’ di pubblico per vari e molteplici motivi: tanti sono morti per pandemia Covid; tanti altri con il lock-down hanno perso l’abitudine di andare al cinema, altri ancora che sono corsi a vedere il primo “Avatar” perché fans dei fantasy sono rimasti parzialmente delusi perché in quel mondo non c’erano super-eroi in calzamaglia coi quali identificarsi e nei quali travestirsi nei vari festival cosplay; e poi ci sono quelli, ci sono sempre, che ne sono rimasti definitivamente delusi. Io personalmente appartengo alla categoria lockdowner (è un mio neologismo).

Visto in tv questo sequel ha per me perso la principale attrazione: la magia della sorpresa per i dettagli di mondi inesistenti, che oggi diventa semplice ammirazione per quello che ancora Cameron si inventa: sposta l’avventura dagli ambienti forestali a quelli marini e lì altri scenari, altre faune, altre vegetazioni che continuano a incantare senza più però sorprendere: il gioco è scoperto. Negli anni passati su Pandora il protagonista umano riconvertitosi Na’vi ha messo su famiglia e figliato: qui purtroppo tornano le già troppo viste dinamiche familiari, con questi adolescenti che fanno in chiave fantasy quello che fanno tutti gli adolescenti nei film con e per adolescenti: litigano e poi solidarizzano, maschi e femmine si fanno gli occhi dolci, si buttano nella mischia senza pensare alle conseguenze diventando però eroi loro malgrado. Tutta narrativa cinematografica trita e ritrita innestata su un mondo fantastico con una filosofia troppo scopertamente New Age: il divertimento rimane ma non c’è più l’incanto.

CCH Pounder

Tornano i protagonisti del primo capitolo Sam Worthington e Zoe Saldana, con Sigourney Weaver che interpreta madre e figlia: la intravediamo per pochi secondi prima di ritrovarla formattata in blu come Kiri, ovvero figlia naturale Na’vi del suo primigenio personaggio umano (genesi che in un breve passaggio narrativo resta oscuro anche agli stessi personaggi, figuriamoci a noi spettatori), ragazza che viene adottata dalla famiglia Sully; quarto nome in elenco è Stephen Lang nel ruolo del cattivo morto nel primo capitolo, e qui anche lui torna riformattato in Na’vi perché possa continuare a dare filo da torcere ai nostri eroi pacifisti figli dei fiori cosmici la cui figliolanza è interpretata da giovani attori di cui non vediamo mai le vere sembianze, né tantomeno sentiamo le vere voci se vediamo il film col doppiaggio italiano – in pratica cartoni animati: Britain Dalton che è figlio di Timothy Dalton, Jamie Flatters e Trinity Jo-Li Bliss cui si aggiunge Spider, il giovane umano ribelle amico dei ragazzi Sully, interpretato da Jack Campion. Nel ruolo della saggia nonna blu torna CCH Pounder.

Il cast degli adolescenti con le loro reali sembianze: Jack Campion, Filip Geljo, Jamie Flatters, Bailey Bass, Trinity jo-Li Bliss, Britain Dalton e Duane Evans Jr.

La nuova famiglia Na’vi che impariamo a conoscere è quella che vive sulle isole della barriera corallina dove i Sully si rifugiano. Gli interpreti sono Cliff Curtis come capo tribù con l’amichevole partecipazione di Kate Winslet come sua moglie che torna a lavorare con James Cameron dopo “Titanic” e si attende il suo co-protagonista Leonardo Di Caprio nel terzo capitolo della serie. Gustosa curiosità: la Winslet è rimasta in apnea per 7 minuti e 14 secondi superando il precedente record di 6 minuti detenuto da Tom Cruise e stabilito durante la lavorazione di “Mission: Impossible – Rogue Nation”. I loro figli sono interpretati da: Bailey Bass, Filip Geljo e Duane Evans Jr. Tutti interpreti che hanno recitato con il motion capture per essere trasformati in Na’vi e di cui non vediamo mai le vere sembianze. Fra i cattivi torna Matt Gerald e si aggiungono la generalessa Edie Falco e il capitano Brendan Cowell che tiranneggiando lo studioso Jemaine Clement va a caccia di balene aliene. Fra gli altri umani da laboratorio in ruoli minuscoli Giovanni Ribisi e Joel David Moore. Non ci resta che vedere il capitolo 3 ma anche il 4, il 5…

Dune – dietro il flop del 1984 un altro mondo da scoprire

Che botta! Quando lo vidi al cinema uscii dalla sala più confuso che deluso, e amareggiato, perché convinto che a non capire nulla fossi stato solo io; poi, dopo, compresi dalle critiche e dalle opinioni di tanti altri spettatori, che il film era semplicemente brutto e mi misi il cuore in pace. Non ero mai stato un appassionato di fantascienza, non ne leggevo fumetti né romanzi, ma il cinema mi aveva aperto questa nuova sorprendente prospettiva: altri mondi erano possibili, altri mondi erano temibili. Nel 1979 ero stato terrorizzato da “Alien” di Ridley Scott e poi affascinato da tutti i sequel; nel 1982 mi ero divertito col macabro horror di “La Cosa” di John Carpenter; ma soprattutto ero stato irretito dalla favola dalle “Guerre Stellari” di George Lucas che erano cominciate nel 1977 e che, purtroppo, non sono più finite: un franchising che divora la propria ispirazione. Solo qualche anno dopo recuperai “”2001: Odissea nello Spazio” di Stanley Kubrick e “Il Pianeta delle Scimmie” di Franklin J. Schaffner dato che alla loro uscita, nel 1968, ero ancora troppo piccolo, ma poi capii per tempo che la sci-fi cinematografica sarebbe stato uno dei miei generi preferiti.

Rivedo oggi il “Dune” di David Lynch e la delusione è meno personale perché ho più cognizioni e il senno del poi, ma altrettanto vivida è la delusione, per lo spreco di tanto talento. Il romanzo omonimo è del 1965 e lo scrittore Frank Herbert pubblica successivamente una serie di altri cinque libri, fino al 1985, creando una sua personale saga, allungata poi a dismisura dal di lui figlio (cosa non si fa per le royalties) insieme al prolifico scrittore appassionato di sci-fi Kevin J. Anderson, più noto per i suoi sequel e prequel e spin-off di romanzi e film famosi che per le sue creazioni originali: un succhiasangue letterario. I sei libri originali sono ancora oggi considerati una delle pietre miliari di quella letteratura, che hanno ispirato anche Lucas per le sue guerre stellari. La forza di “Dune” sta nella sua ispirazione mistico-religiosa venata di ecologismo, in un’epoca in cui gli autori di fantascienza si indirizzavano tutti verso la modernità contemporanea e il futuro più o meno stellare e più o meno catastrofico: “Dune” guarda al passato e crea dei mondi futuri in cui è atteso un messia che poi, quando si risveglia dalla pre-morte iniziatica si rivolge al padre celeste: una favola che ci era già stata raccontata, e talmente innestata nel nostro inconscio collettivo da farci percepire quella nuova fantascienza come un déjà-vu e archiviarla come il meglio del meglio perché intimamente sentita.

I tentativi di farne un film furono diversi ma quello che prese davvero corpo è del 1971 allorquando il produttore di “Il Pianeta delle Scimmie” opzionò i diritti cinematografici (che per l’autore del romanzo si traducono in guadagni netti anche se il film non si fa) con regia affidata al David Lean di “Lawrence d’Arabia” (1962), ma il produttore morì e con lui il progetto. Un nuovo tentativo si avviò nel 1974 ad opera di una cordata di produttori francesi che coinvolsero nella regia il visionario cileno naturalizzato francese Alejandro Jodorowsky: scrittore, drammaturgo, regista, attore, compositore, scenografo, costumista, sceneggiatore di fumetti: un eclettico che oscilla tra la genialità e la follia, che con i suoi primi tre lungometraggi (che vanno assolutamente visti) – “Il paese incantato” 1968, “El Topo” 1970, “La Montagna Sacra” 1973 – e con le sue atmosfere magiche orrorifiche e surrealiste si ritagliò uno spazio unico in un mondo, quello cinematografico, cui non appartiene se non accidentalmente. Negli anni non si è fatto mancare nulla fino ad approdare alla psicomagia, una pseudo-scienza sulla quale ha realizzato nel 2019 il documentario “Psicomagia, un’arte per guarire” (visto su Sky) e un libro. Ah, in ultimo si è fatto officiante del matrimonio tra Marilyn Manson e Dita Von Teese.

Alejandro Jodorowsky al centro sotto il grande fungo bianco fra gli sposini

Dicendo al volo che anche Ridley Scott nei primi anni ’80 cercò di fare il film e ci rinunciò per la difficoltosa complessità dedicandosi a “Blade Runner” e fece più che bene – l’avventura di Jodorowsky e del suo film mai realizzato è di per sé un’altra incredibile narrazione che il regista Frank Pravich racconta, coinvolgendo anche i testimoni ancora in vita, nel suo documentario “Jodorowsky’s Dune”. Si parte dal produttore francese Michel Seydoux (prozio di Léa che abbiamo appena visto nell’ultimo 007) il quale, innamorandosi del progetto e stimando senza se e senza ma il visionario eclettico, gli mette a disposizione un budget pressoché illimitato perché possa realizzare una nuova creazione, qualunque essa sia. A questo punto ogni persona di buon senso capisce che l’impresa è già avviata al fallimento, ma Seydoux sogna di liberare le esigenze dell’arte dalla tirannia delle risorse materiali, incoronandosi pioniere di un mecenatismo dalla generosità sconfinata, che non conta il vile denaro perché lui rifiuta il pensiero di non poterne offrire all’infinito: un soggetto da internare. In realtà poi il film non si realizzò perché questi capitali infiniti non esistevano se non nella fantasia dell’uomo.

Una proposta di locandina per il film mai realizzato: il classico carro messo davanti ai buoi

Ma l’altrettanto visionario Jodorowsky, fiducioso perché incline alla medesima utopia, si mise alacremente al lavoro e scrisse la sceneggiatura di un film che sarebbe durato 14 ore: una follia. Oggi ne avrebbero fatto una serie tv, come sono state fatte, ma all’epoca l’impresa fu liquidata come tale: una follia. Sulla carta un kolossal fantascientifico per il quale era riuscito a coinvolgere addirittura un suo celeberrimo amico, simbolista e surrealista della prim’ora, il marchese Salvador Dalì, per il ruolo dell’imperatore; c’era poi nel cast, come Barone Harkonnen, il grande e grosso Orson Welles, il quale per vile denaro faceva e fece di tutto; il rocker Mick Jagger arruolato come il di lui nipote Feyd-Rautha Harkonnen; e la divina Gloria Swanson come Reverenda Madre; agli effetti visivi ci sarebbe stato Dan O’Bannon (Alien) mentre la scenografia, psichedelica e new age, l’avrebbe disegnata il maestro dei fumetti fantasy Jean Giraud/Moebius, e last but not least la colonna sonora sarebbe stata firmata dai Pink Floyd. Solo a mettere in fila questi nomi gira la testa.

Alcune delle tavole realizzate da Moebius per il film

Troppa carne al fuoco per dei capitali talmente illimitati da essere inesistenti. Nel documentario “Jodorowsky’s Dune” c’è l’acuto e tagliente punto di vista di Amanda Lear, che all’epoca era amante e musa dell’anziano Salvador Dalì: “Per l’artista, è proprio l’assenza di limiti materiali a delineare il limite maggiore alla concretizzazione dell’aspirazione, a inibirne la progressiva evoluzione in opera d’arte.” E come la storia dell’arte ci insegna molti grandi capolavori sono stati realizzati nell’immanenza di limiti effettivi: dittature che limitano la libertà di espressione, coscrizione fisica, assoluta mancanza di mezzi di sussistenza e via discorrendo. Dalle smisurate 14 ore si passò a una più razionale sceneggiatura per un film di 3 ore, e ora che gli altrettanto smisurati finanziamenti francesi sin erano volatilizzati, si cercò il coinvolgimento di produttori americani, i quali, molto più pragmatici, rifiutarono di finanziare un kolossal diretto da Jodorowsky e a quel punto il progetto si avviò tristemente all’oblio. Quando dieci anni dopo partì la lavorazione di questo film diretto da David Lynch, Alejandro Jodorowsky ci rimase assai male, ma poi andò a vedere il film e commentò: “All’inizio ne ho molto sofferto perché pensavo di essere io l’unico in grado di realizzarlo. Sono andato a vedere il film con molta sofferenza, pensavo che sarei morto, ma quando ho visto il film mi è tornata l’allegria, perché il film è una merda.”

Dino De Laurentiis con Slvana Mangano

La merda prende il via nella seconda metà degli anni ’70 con Dino De Laurentiis che acquista i diritti e chiede all’autore di scrivere una nuova sceneggiatura. Il produttore era scappato dall’Italia per riparare con la famiglia – è sposato con Silvana Mangano e hanno tre figlie e un figlio – a causa di un grave dissesto economico procurato dalle leggi italiane: nei dintorni di Roma aveva costruito la sua cinecittà personale chiamandola Dinocittà, dove aveva girato grandi film anche con star internazionali – “Guerra e Pace” di King Vidor e “La Bibbia” di John Huston, tanto per ricordare due titoli. Ma nel 1972 cambia la legge sulle produzioni cinematografiche che ora consente i finanziamenti statali solo a produzioni al 100% italiane, contro il 50% precedente, e De Laurentiis chiude baracca e burattini e se ne va in America a fondare la sua De Laurentiis Entertainment Group con la quale produce film come “Serpico” di Sidney Lumet e “I Tre Giorni del Condor” di Sydney Pollack, tanto per ricordare un altro paio di titoli.

Il regista del momento era David Lynch che col suo secondo lungometraggio “The Elephant Man” aveva commosso il mondo intero sbancando i botteghini e ricevendo otto nomination agli Oscar – quindi poco importava che potesse essere o meno il più adatto a condurre in porto l’epico progetto, bastava che fosse uno dei giovani registi più promettenti del decennio: l’idea di fondo è che tutti possono fare tutto.

Forte del suo clamoroso successo anche come sceneggiatore, David Lynch chiese e ottenne da De Laurentiis di poter scrivere lui il film. C’è da ricordare che aveva appena rifiutato di dirigere “Il Ritorno dello Jedi”, il terzo episodio delle Guerre Stellari, perché pensava che quel progetto fosse troppo predefinito dal suo creatore e gli si chiedesse di essere solo un esecutore tecnico senza la possibilità di esprimere una propria creatività: di fatto, col senno di poi, sarebbe stata una grande scuola, per lui che veniva da piccoli film assai personali, nella gestione di una produzione di dimensioni faraoniche – come di fatto sarebbe stato “Dune”.

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Lynch impiegò tre anni per definire le scenografie e i costumi con Anthony Masters, già candidato all’Oscar per “2001: Odissea nello Spazio” mentre poi la lavorazione del film si protrasse per un intero anno, sei mesi di riprese con gli attori e altri sei per la post-produzione e gli effetti speciali, con un costo finale di 45 milioni di dollari dell’epoca che oggi sarebbero circa 120, e che fecero di “Dune” una delle produzioni più dispendiose per molti anni a venire. Ne incassò in patria circa 38 e riuscì a mettersi in paro con gli incassi del resto del mondo, e in particolare il mercato europeo dove il film restò per diverse settimane in testa al box office.

#virginia madsen di Costume Lovers 🎩🥧

Quei tre anni spesi a definire la parte visuale hanno prodotto il meglio del film, già allora e fino a tutt’oggi. Mentre per la fantascienza lo stile imperante era quello delle luci psichedeliche dei laser e degli effetti pirotecnici, per il film fu studiato e reso minuziosamente il mondo, i mondi, creati dallo scrittore: popoli dalle culture di stampo feudale e con credenze antiscientifiche, per i quali era possibile immaginare una tecnologia che, benché collocata nel nostro futuro, appare rétro, come nei film anni ’50 ispirati alla fantascienza di Jules Verne o H. G. Wells; e per i quali proprio in quegli anni ’80 è stato inventato il termine steam-punk per definire una tecnologia futuristica all’interno di una narrazione del passato, particolarmente l’epoca vittoriana, dove i computer sono macchine meccaniche che vanno a vapore (steam) e l’energia elettrica è ancora, come era nell’Ottocento, sinonimo di innovazione e progresso tecnologico, con la capacità di creare anche enormi magneti capaci anche di modificare nientemeno che l’orbita della Luna: effetti visivi spesso cinematograficamente poco credibili e di scarsa qualità (punk) tipici dei film di serie B.

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Il trucco e i costumi più riusciti: le Reverende Madri
Silvana Mangano, Francesca Annis e Siân Phillips

Lo stile visivo del “Dune” creato da David Lynch coi suoi eccellenti collaboratori (il direttore della fotografia è il doppio Oscar Freddie Francis) è sontuosamente steam-punk a partire dalle scenografie della casata Atreides in uno stile che coniuga barocco e modernismo, e insieme agli altrettanto straordinari costumi lo si può definire eclettismo ottocentesco. In quegli anni ’80 non c’era ancora la tecnologia digitale e tutta la fantascienza del film è meccanica: è l’italiano Carlo Rambaldi che ha creato gli enormi vermi che viaggiano sotto la sabbia delle dune e gli altri effetti speciali meccanici del film. Rambaldi era stato chiamato negli Stati Uniti proprio da De Laurentiis per creare il King Kong del 1976 che gli valse subito un Oscar; ne seguirono altri due, per “Alien” e per “E.T.”, e le figure meccaniche di questo film sono più credibili e fluide degli stessi attori che, al contrario, appaiono meccanici e finti. Il film, per essere goduto appieno, andrebbe visto ad audio spento, ammirando solo i mondi e gli scenari fantastici.

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Carlo Rambaldi, in secondo piano, al lavoro su una delle creature del film

Anche perché i dialoghi sono pessimi. Gli Atreides comunicano tramite il pensiero, leggono i pensieri dei loro nemici, e quando usano la voce diventano pericolosi perché ne sanno usare una, profonda e speciale, capace di effetti sulla materia e sulla stabilità dei malcapitati. Materia, questa, la forza del pensiero e quella della parola detta in modo speciale, assai affascinante, in cui lo spirituale mentalista Alejandro Jodorowsky si sarà certamente trovato a suo agio, ma David Lynch non capisce la portata di quel mezzo espressivo e banalmente fa esprimere i suoi personaggi con voce fuori campo, dando suono ai pensieri, come nelle più scadenti soap opera.

Data l’enorme materia narrativa il film che ne ha tirato fuori aveva una durata di circa quattro ore ma De Laurentiis intervenne pesantemente tagliando circa un’ora e mezzo di girato, col risultato che il film andato nelle sale risulta incomprensibile oltre che sbagliato sotto svariati aspetti. Il New York Times scrisse con ironia tagliente: “Molti dei personaggi di Dune sono sensitivi, il che li mette nella posizione unica di essere in grado di capire ciò che accade nel film.” Il critico del Chicago Sun-Times: “Ci sono voluti a Dune circa nove minuti per spogliarmi completamente di ogni aspettativa. Questo film è un vero casino, una incomprensibile, brutta, non strutturata inutile escursione nei reami più oscuri di una delle sceneggiature più confuse di tutti i tempi.” David Lynch fu così scottato da quella disastrosa esperienza che da lì in poi pretese da contratto il final cut.

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Kyle MacLachlan con Sean Young

Il film è anche un “per la prima volta sullo schermo” del protagonista Kyle MacLachlan scelto fra centinaia di attori dal produttore insieme alla figlia Raffaella allora sua collaboratrice e oggi erede. L’attore e il regista divennero grandi amici tanto che il primo divenne l’interprete feticcio del secondo, che lo porterà a vincere un Golden Globe come protagonista della serie tv “Twin Peaks”, mentre il regista, che è anche un quotato pittore esposto al Museum of Modern Arts di New York, verrà definito dalla rivista AllMovie come “Uomo del Rinascimento del cinema moderno americano” che però sforna film di alterne fortune tutti improntati su una ben precisa narrativa: le piccole città di provincia in cui si annidano segreti e pericoli e oscure trame con al centro una donna da salvare.

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Nel cast il 72enne Josè Ferrer alla sua ultima interpretazione, al ruolo dell’imperatore (che in un mondo parallelo era stato pensato per Salvador Dalì) conferisce l’autorevolezza di un caratterista che è stato una star della Hollywood degli anni ’40 e ’50. Il tedesco Jürgen Prochnow, qui in uno dei suoi rari ruoli di buono, è il padre del protagonista, mentre l’inglese Francesca Annis, che si era fatta notare come la Lady in “Macbeth” di Roman Polansky, interpreta la madre.

Al caratterista di lungo corso Kenneth McMillan venne affidato l’ambito ruolo (pensato per Orson Welles) del barone volante Harkonnen, detto nel film ciccione volante, omosessuale psicopatico e assassino di bei figlioli con la faccia devastata da pustole e bubboni: personaggio che fece insorgere le associazioni omosessuali che non gradirono il gay cattivo (come se i gay, al pari di chiunque altro, dovessero essere tutti buoni) e per di più pieno di pustole che somigliavano tanto, a sentir loro, al sarcoma di Kaposi (tumore dell’AIDS) che cominciava a mietere vittime nella comunità, e non solo. Il suo ambiguo e spietato nipote Feyd-Rautha (pensato per Mick Jagger) va a un altro rocchettaro un po’ più punk e un po’ più giovane, Sting.

Nel resto del cast altri nomi di punta in ruoli più o meno sacrificati, non si sa quanto dai pesanti tagli. Max Von Sydow è il planetologo imperiale. Il caratterista inglese Freddie Jones, direttamente dal cast di “The Elephant Man”, sarà un altro dei fidati attori del regista. Lo shakespeariano Patrick Stewart, che diverrà famoso con le serie “Star Trek” e “X-Men”, in quel 1984 è praticamente uguale a com’è oggi. Il riluttante Brad Dourif, forte del suo Golden Globe per “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, accetta dopo molti tentennamenti il corteggiamento del regista, col quale girerà anche il successivo “Velluto Blu”. Everett McGill, caratterista dalla faccia quadrata per personaggi in azione, sarà un altro degli affezionati attori del regista. L’ex attore bambino Dean Stockwell, che nei primi anni ’60 è stato il primo attore a vincere per due volte come migliore attore a Cannes, è l’ambiguo Dottor Yueh e Paul L. Smith è Rabban l’altro nipote psicopatico del barone, detto La Bestia. Richard Jordan è Duncan Idaho, un cortigiano di Casa Atreides nonché schiavo sfuggito agli Harkonnen (fonte internet perché nel film non si capisce chi sia).

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Max Von Sydow, Patrick Stewart, Kyle MacLachlan e Jürgen Prochnow

Fra le donne spicca l’ambigua Reverenda Madre della gallese Siân Phillips sulle altre due attrici del momento: la nana Linda Hunt che, primo caso nella storia del cinema, ha appena vinto l’Oscar interpretando un ruolo maschile in “Un anno vissuto pericolosamente” di Peter Wier; oggi è nota come Hetty nella serie tv “NCIS: Los Angeles” dove ha dovuto diradare la sua presenza a causa di un brutto incidente automobilistico; l’altro nome di punta è Sean Young, che venuta alla ribalta con “Blade Runner” si avvierà verso un triste declino a causa di vari incidenti di percorso, alcuni reali, altri legati alla sua fama di attrice difficile, alcolista e, per chi non gliele manda a dire, decisamente rompicoglioni: nel 2012 è stata arrestata perché ha dato in escandescenze quando le è stato impedito l’accesso a una esclusiva festa a invito, che non aveva, per i partecipanti alla cerimonia degli Oscar. Virginia Madsen, qui al suo terzo film, rimarrà famosa per questo suo ruolo di principessa, per il quale ha dovuto girare il ruolo di narratrice (esplicatrice) che apre il film dopo che era stato tagliato di un’ora e mezza. Per la prima volta sullo schermo l’inquietante bambina Alicia Witt che crescendo continuerà a lavorare con Lynch, ritagliandosi una buona carriera fra cinema e tv. Per ultima mi piace ricordare Silvana Mangano nell’incomprensibile (perché tagliato?) ruolo della Reverenda Madre Ramallo. Come è evidente nella foto sopra, in posa con le altre due attrici che indirizzano all’obiettivo uno sguardo fiero e intenso, lei ha uno sguardo doloroso, molto personale: si sta separando dal marito Dino De Laurentiis e vive una profonda depressione dacché il figlio Federico – cui il film è dedicato all’inizio dei titoli di testa – è morto 26enne in un incidente aereo su un Piper che si è schiantato in Alaska mentre girava un documentario sui salmoni. Silvana non si riprenderà più e a breve le verrà diagnosticato un tumore allo stomaco. Questa sua inutile partecipazione a “Dune” sarà la sua penultima apparizione cinematografica: seguirà “Oci Ciornie” di Nikita Michalkov con Marcello Mastroianni. Muore a 69 anni nel 1989.

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L’intero progetto di “Dune” di David Lynch e Dino De Laurentiis si può archiviare come uno spreco, più di talento che di denaro. E’ di quest’anno il remake di Denis Villeneuve di cui è già in lavorazione il sequel e un prequel tv: staremo a vedere.

Frankenstein – l’originale del 1931

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Fa sempre bene fare un salto nel passato per dare spessore al nostro presente. Frankenstein è famosissimo nell’immaginario cinematografico e popolare, per certi versi più dell’originale letterario da cui proviene, e i sequel le parodie e i remake e le citazioni non si contano. Ma la cosa più sorprendente è che ormai chiamiamo Frankenstein il mostro, o la creatura come è stata definita, mentre in realtà è il nome del suo creatore, che così ha traslato il suo cognome, per sempre e nell’immaginario collettivo, alla creatura che ha creato, come da un padre a un figlio: così l’utopia doppiamente immaginaria, quella dell’autrice del romanzo e nel romanzo quella del creatore, è diventata realtà.

L’inizio del quinto capitolo del manoscritto di Mary Shelley: “It was on a dreary night of November that I beheld my man completed…

Il mito racconta che tutto ebbe inizio in una notte buia e tempestosa. Di fatto, come ricorda Mary Shelley “Fu un’estate piovosa e poco clemente, la pioggia incessante ci costrinse spesso in casa per giornate intere.” Difatti quel 1816 fu “l’anno senza estate” detto anche “l’anno della povertà” poiché l’anomalia climatica distrusse i raccolti in Europa e in tutto il continente nord americano. Oggi si ritiene che ciò fu dovuto alla potente e duratura eruzione vulcanica del Tambora in Indonesia, fenomeno che aggravò la cosiddetta “piccola era glaciale”, un raffreddamento generale del pianeta che dal medioevo si protrasse fino a metà ‘800.

Così quell’estate in Svizzera nevicò. Ma costrinse in casa chi? Lei è Mary Wollstonecraft Godwin, figlia di una femminista morta di parto nel darla alla luce e di un politico assai progressista che già nel 1793 vedeva nell’istituto del matrimonio una forma di repressivo monopolio da parte di un uomo su una donna: molto avanti! La ragazza, cresciuta in quel clima assai liberale e dalle idee progressiste, a 16 anni dichiarò il suo amore al poeta Percy Shelley che frequentava la loro casa in quanto pupillo di suo padre; Shelley, che era un soggetto assai fascinoso e dal sentire profondo era però, secondo gli standard dell’epoca, alquanto instabile psichicamente economicamente e socialmente e, cosa non meno importante, era anche sposato con prole; ma si sa che l’amore non conosce ostacoli e quando anche il di lei padre si oppose all’unione accantonando per amore della figlia le sue belle idee anticonvenzionali, la novella coppia fuggì all’estero per poi fare ritorno in patria quando finirono i soldi. Lei restò incinta ma perse la bambina, lui continuava a scrivere poemi e per sua fortuna gli morì il nonno lasciandogli una cospicua eredità.

Di nuovo con le tasche piene, la coppia andò in vacanza di qua e di là, mise al mondo il secondogenito, e arriviamo al dunque: nel maggio del 1816 partirono per Ginevra insieme a Claire, la sorellastra di lei, per raggiungere l’amico poeta George Gordon Byron noto come Lord Byron, che aveva messo incinta Claire: l’intento della doppia coppia era quello di pianificare il da farsi riguardo il futuro neonato, dato che si trattava, come Mary e Percy, di un’altra coppia non sposata. E fu in quel periodo che lei cominciò a farsi chiamare Mary Shelley. Il terzetto aveva preso in affitto una casa nei pressi di quella Villa Diodati dove risiedeva Byron che aveva come ospite l’amico, anche segretario e medico personale, John William Polidori, un brillante medico londinese di padre italiano (a sua volta segretario di Vittorio Alfieri) che si era laureato con una tesi sul sonnambulismo. “Ma fu un’estate piovosa e poco clemente, la pioggia incessante ci costrinse spesso in casa per giornate intere.” scriverà Mary, e il clima influirà sull’andamento della vacanza e la creazione di un paio di capolavori gotici dell’orrore.

I cinque personaggi come li racconta Ken Russell nel film “Gothic” del 1986

Erano cinque giovani che oggi definiremmo non più che ragazzi. il più grande era Byron con i suoi 28 anni, seguiva Percy Shelley con 24 anni, Polidori ne aveva 21 e si era laureato a 19, Mary ne aveva 19 e Claire 18; ma era anche un’epoca in cui nel Regno Unito l’aspettativa media di vita era intorno ai 40 anni, più che nel resto dell’Europa dove si moriva mediamente intorno ai 35 anni. L’eccentrico quintetto che si era composto passava le oziose giornate e le interminabili serate discettando di argomenti altrettanto eccentrici: Polidori, in particolare, raccontò degli esperimenti condotti il secolo prima da Erasmus Darwin, nonno del più famoso evoluzionista Charles, il quale aveva affermato di essere riuscito a rianimare la materia morta tramite il galvanismo: un procedimento che aveva preso il nome dall’anatomista Luigi Galvani, il quale aveva sperimentato come scosse di corrente elettrica facessero contrarre dei muscoli morti: ma da quello a pensare di potere ridare la vita è tutto un altro discorso; di fatto Galvani rimane noto perché scoprì l’elettricità biologica negli esseri viventi, quella che verrà definita nei secoli a seguire elettrobiologia. La sera poi, davanti al fuoco del caminetto in villa, l’allegra brigata si divertiva a raccontarsi storie di fantasmi – chi di noi non l’ha fatto a quell’età? – e fu a quel punto che Byron propose un gioco che era anche una sfida: ognuno avrebbe dovuto scrivere una storia di fantasmi. Il regista Ken Russell ha raccontato quella serata nel suo film “Gothic”.

Ovviamente quella sera furono solo creati degli abbozzi, presero forma idee e spunti di storie da sviluppare in seguito, e solo due di loro portarono a compimento l’opera: Mary Shelley creò “Frankenstein, ovvero il moderno Prometeo” pubblicato anonimo nel 1818. Come poi scrisse, era stata impressionata e ispirata dai racconti sul galvanismo: “Vedevo – a occhi chiusi ma con una percezione mentale acuta – il pallido studioso di arti profane inginocchiato accanto alla “cosa” che aveva messo insieme. Vedevo l’orrenda sagoma di un uomo sdraiato, e poi, all’entrata in funzione di qualche potente macchinario, lo vedevo mostrare segni di vita e muoversi di un movimento impacciato, quasi vitale. Una cosa terrificante, perché terrificante sarebbe stato il risultato di un qualsiasi tentativo umano di imitare lo stupendo meccanismo del Creatore del mondo.” L’altro grande personaggio fu creato da Polidori, e il suo racconto breve “Il vampiro” fu pubblicato su una rivista nel 1819 ma erroneamente attribuito a Byron che smentì tempestivamente, ma data la notorietà letteraria del poeta a fronte dell’incognito nome di Polidori, l’errore di attribuzione prese consistenza, tanto che perfino Goethe affermò che si trattava di uno dei migliori lavori del poeta. Polidori ha scritto “Il vampiro” ispirandosi proprio alla figura di Byron, e partendo da un di lui scritto incompiuto che conosceremo come “La sepoltura – un frammento”: è il primo vampiro della letteratura inglese e online è possibile trovare e scaricare il PDF in lingua originale. Il più iconico Dracula verrà creato da Bram Stoker sul finire di quell’Ottocento.

Le critiche al Frankenstein furono subito sfavorevoli perché il romanzo non veicolava nessuna condotta morale; ovviamente si speculò sull’identità del misterioso autore di quella “orribile storia movimentata” che di fatto sarà un best seller a dispetto dei critici e della morale, e quando nella seconda edizione viene rivelato il nome dell’autrice gli ex detrattori scriveranno: “Per un uomo era eccellente ma per una donna è straordinario”. Mary Shelley, con il Dottor Frankenstein e la sua Creatura ha creato due personaggi mitici portatori di diverse istanze culturali: la paura che all’epoca si aveva della tecnologia, ma anche la solitudine e la diversità dell’individuo, il mito della creazione, la sperimentazione spinta ai limiti della morale e dunque la bioetica, la ribellione al proprio destino, il senso di responsabilità che il creatore dovrebbe avere verso la sua creatura, e il concetto – traslato da Rousseau – dell’innata innocenza che viene corrotta dalla società: e tutto questo a soli 19 anni. Le 19enni di qualche decennio fa scrivevano robetta come “Volevo i pantaloni” subito film omonimo, e “Cento colpi di spazzola” subito messo in film col titolo di “Melissa P.” che era lo pseudonimo dell’autrice. Le 19 di oggi scrivono solo sui social e raccontano per video e immagini le loro esistenze fatte di riflessi collettivi. Con le dovute eccezioni.

Meno di un secolo dopo, nel 1910, la nascente industria cinematografica, nello specifico la Edison Studios dell’imprenditore Thomas Edison, anche inventore della lampada a incandescenza, la lampadina, utilizzò il soggetto per farne un cortometraggio girato in tre giorni. Creduto perso, se ne ritrovò una copia alla fine degli anni ’70 che, benché deteriorata, era ed è ancora visibile come nella pubblicazione YouTube qui sotto.

Venti anni dopo ancora, con l’avvento del sonoro l’industria cinematografica andò incontro a una colossale rivoluzione. Il fondatore della Universal Studio, l’immigrato tedesco Carl Laemmle, nonostante la sua iniziale ritrosia volle dare credito al figlio, Carl Laemmle jr. appassionato di storie horror, e nel 1931 produsse “Dracula” diretto da Tod Browning con il romeno Bela Lugosi nel ruolo del romeno Dracula; il film fu un grande successo e Carl jr. ebbe carta bianca per i suoi successivi progetti, creando di fatto quelli che verranno definiti “I mostri della Universal”. Seguì immediatamente, lo stesso anno, questo “Frankenstein” per la cui sceneggiatura gli autori si ispirarono sia al romanzo originale che a un paio di diversi adattamenti teatrali.

Padiglione espressionista di Bruno Taut all’esposizione di Colonia del 1914

Oggi diciamo che il film appartiene alla corrente espressionista, un movimento artistico che si propagò prima in Europa a partire dalla Germania, come reazione all’imperante naturalismo e all’impressionismo in ambito pittorico e artistico in genere: lo sguardo oggettivo che guarda la natura e la realtà e le ripropone così come sono, viene rivolto verso l’interno dell’animo del creatore che così guarda ed esprime la realtà in soggettiva, esprimendo il suo punto personale di vista, espressionista appunto. In questo modo l’espressionismo, attraverso “gli occhi dell’anima” produce una ribellione della vita spirituale contro quella materiale. L’espressionismo si manifestò nelle arti figurative, in architettura, in musica, in letteratura e di seguito nel teatro dove la corrente si espresse soprattutto nello stile recitativo degli attori che ricorsero alla ricerca di effetti vocali e di gestualità innaturali per creare dei personaggi mistici e simbolici; anche la scenografia ebbe un importante ruolo nell’espressionismo teatrale, cercando di trasportare lo spettatore dalla concretezza della realtà all’interno della visione dell’autore. Dal teatro al cinema il passo è breve.

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Esempio di scenografia espressionista tedesca ridisegnata oggi da Jeronimo Sochaczewski
Scorcio scenografico dal film “Frankenstein”

La scenografia del film, firmata da Charles Hall, è in realtà creata in stretta collaborazione col regista, James Whale, che era anche un esperto scenografo e insieme crearono la fantastica torre al cui interno si colloca il laboratorio del dottor F., un’ambientazione gotica piena di angoli e ombre; il laboratorio, in particolare, venne creato da Kenneth Strickfaden, che da semplice elettricista divenne poi scenografo e creatore di effetti speciali, che per l’occasione riuscì addirittura ad assicurarsi una bobina di Tesla, un trasformatore in grado di creare fulmini, costruita dallo stesso Nikola Tesla; e tutti gli impianti di quel laboratorio furono riutilizzati come elementi di scenografia fino a tutti gli anni ’70; anche le scenografia esterna ed interna del mulino di legno che va a fuoco nel finale, in stile con la visione gotica-espressionista, fu molto impegnativa, così che poi si risparmiò sullo scenografia della camera di Elizabeth, la fidanzata del dottore, per la quale fu riutilizzato un vecchio fondale dipinto.

La prima locandina creata preventivamente con il nome di Bela Lugosi

Per il cast fu subito riconfermato Bela Logosi, protagonista dell’immediato precedente “Dracula”, per il ruolo del dottor Frankenstein, ma il regista Robert Florey pensava che il talento e la fama di Lugosi sarebbero stati meglio al servizio della Creatura; i produttori, indecisi, ordinarono che fosse girata una bobina di pellicola come provino, mentre venivano contattati Bette Davis e Leslie Howard per i ruoli della fidanzata e dell’amico. Ma il mostro sviluppato nella sceneggiatura non diceva una parola e Bela Lugosi si rifiutò di interpretare quel ruolo muto, pesantemente coperto di trucco e che, a suo parere, non era altro che un oggetto di scena: lui si reputava troppo affascinante e famoso per quel ruolo. A essere onesti, quel ruolo, per come è stato effettivamente realizzato, sarebbe stato un grosso passo indietro per uno che aveva spopolato, anche in teatro prima che al cinema, come Dracula. Dopo che la star romena lasciò il film, il regista fu licenziato dalla produzione perché la sua visione della Creatura era quella di un mostro programmato per uccidere senza nessun approfondimento psicologico.

Bela Lugosi e Boris Karloff posano come amici, finti

Carl Laemmle jr. in sostituzione scritturò il regista inglese James Whale che stimava molto, tanto da lasciargli carta bianca. Whale, con la sua nuova visione della storia, si liberò anche delle ipotesi Bette Davis e Leslie Howard e rifece il cast da zero. Per cominciare invertì i nomi di battesimo di Viktor Frankenstein e del suo amico Henry Moritz, perché Henry sarebbe stato più banalmente in linea con la cultura popolare americana. Per il nuovo ruolo di Henry Frankenstein volle il connazionale Colin Clive che aveva già diretto in patria; per il ruolo di Elizabeth scelse un’altra attrice con la quale aveva già lavorato, Mae Clarke. Il compagno del regista, per il ruolo della Creatura, suggerì il nome di un altro inglese, William Henry Pratt che col nome d’arte Boris Karloff aveva cominciato a recitare nel Nuovo Mondo, dove rimasto orfano si era trasferito; aveva già lavorato in una ottantina di film muti e l’anno prima si era fatto notare con uno dei primi film sonori, “Codice penale” di Howard Hawks. Karloff, che a differenza di Lugosi considerava la recitazione un lavoro e non una missione artistica, accettò il ruolo muto e il resto è storia. Oggi il suo nome, insieme a quello del rivale Bela Lugosi, e dei successivi Peter Cushing, Christopher Lee e Vincent Price, viene ricordato fra i grandi interpreti del cinema horror. Da lì in poi la carriera di Bela Lugosi, purtroppo anche a causa del suo forte accento, fu tutta in declino e dovette accontentarsi di ruoli di supporto da caratterista, con paghe assai più contenute rispetto agli ingaggi che riusciva ad avere Karloff; come beffa del destino recitò nel secondo sequel di Frankenstein dopo “La moglie di Frankenstein” in cui la Creatura aveva finalmente parlato; in “Il figlio di Frankenstein”, con un Lugosi appannato perché già stanco del personaggio che, colpito da un fulmine ha perso di nuovo l’uso della parola, Lugosi dà spessore al personaggio di Ygor, deus-ex-machina del racconto che fu scritto appositamente per lui; questo non lo salvò dal declino e finì col recitare in alcune parodie, finendo con l’interpretare il mostro nel brutto film “Frankenstein contro l’Uomo Lupo”.

Il regista posa accanto alla Creatura che si fuma una sigaretta

Alla prima uscita del film, la Universal aggiunse un prologo recitato da Edward Van Sloan che nel film interpreta l’anziano dottor Waldman, il mentore di Henry Frankenstein, e che era stato Van Helsing in “Dracula”; il prologo era una sorta di “avvertenze al pubblico” nel timore che il film risultasse troppo forte. Qui di seguito il testo in italiano del prologo e a seguire il video originale.

“Buonasera. Il signor Carl Laemmle ritiene che non sia opportuno presentare questo film senza due parole di avvertimento: stiamo per raccontarvi la storia di Frankenstein, un eminente scienziato che cercò di creare un uomo a sua immagine e somiglianza, senza temere il giudizio divino. È una delle storie più strane che siano mai state narrate, tratta dei due grandi misteri della creazione: la vita e la morte. Penso che vi emozionerà, forse vi colpirà, potrebbe anche inorridirvi! Se pensate che non sia il caso di sottoporre a una simile tensione i vostri nervi, allora sarà meglio che voi… be’, vi abbiamo avvertito!”

In effetti dopo la prima uscita un paio di scene furono tagliate perché il pubblico si era impressionato ai primi piani delle iniezioni fatte al mostro, fu anche terrorizzato dai primi piani del mostro quando l’assistente gobbo Fritz (interpretato da Dwight Frye, anch’egli nel cast di “Dracula”) lo tormenta con la torcia, e soprattutto restò sconvolto quando la Creatura getta la bambina in acqua. Riguardo a quella scena, Karloff tentò di far cambiare la sceneggiatura perché non voleva eseguire quell’azione che riteneva troppo violenta: secondo lui il mostro doveva solo mostrare la sua innocenza giocando con la bambina senza farle del male, ma il regista gli spiegò: “Fa tutto parte del rituale. Deve accadere per spiegare la tragedia del mostro” e alla fine Karloff si convinse. Ma poiché al primo ciak la bambina era rimasta a galla, il regista le chiese di ripetere la scena e la piccola accettò a patto che lui le regalasse una dozzina di uova sode, patto che il regista mantenne. La bambina Marlyn Harris recitò per alcuni anni come attrice bambina e da adulta fece la doppiatrice.

Lo storico del cinema Rudy Behlmer ha recentemente scritto: “Nel 1931, molte delle cose mostrate e dei temi trattati nel film erano nuovi e insoliti per il pubblico. Erano argomenti mai affrontati prima d’allora, o cose a cui la gente inconsciamente non voleva pensare. C’è il tonfo della terra che cade sulla cassa da morto. Cose mai apparse sullo schermo. Il giustiziato che tirano giù dalla forca, cadaveri, rianimazioni. Tutto questo è difficile da capire oggi, per via degli eccessi a cui ci sottopongono da decenni, ma nel 1931 fu una cosa che fece scalpore.” Anche la frase del dottor Frankenstein “Oh, nel nome di Dio! Ora so cosa significa essere Dio!” creò molti problemi tra diversi gruppi religiosi e fu rapidamente censurata, coperta da un tuono.

Integro o censurato il film fu un clamoroso successo registrando un incasso lordo di circa 13 milioni di dollari dell’epoca, e considerato dai critici uno dei migliori del 1931, nonché in seguito uno dei più grandi film di tutti i tempi. A tutt’oggi la parodia più celebre rimane “Frankenstein Junior” di Mel Brooks del 1974, mentre i remake non si contano, il più blasonato dei quali è il film del 1994 “Frankenstein di Mary Shelley” che già nel titolo riconduce la storia al romanzo originale; diretto da Kenneth Branagh anche interprete del dottor Frankenstein con Robert De Niro nel ruolo della Creatura e Helena Bonham Carter nel ruolo di Elizabeth.

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Birds of Prey e la fantasmagorica rinascita di Harley Quinn

Questo è uno di quei casi in cui davvero posso dire: io l’avevo detto. Anzi scritto, parlando di “Suicide Squad”: “Però il personaggio più riuscito è Harley Quinn, spalla del Joker nei fumetti qui promossa a super protagonista: bella, sexy, ironica, simpatica e psicopatica è un mix perfetto che tiene testa a tutti i personaggi ed è la vera anima del film, dato che gli altri della squadra non sono così sexy e ironici e psicopatici come dovrebbero essere. Data la riuscita del personaggio, scrittura più interpretazione, non mi stupirei se ai piani alti stessero già pensando di promuoverla protagonista di uno spin-off .” Detto, fatto.

GiovedìFilm: Birds of Prey (e la Fantasmagorica Rinascita di Harley Quinn)  (2020)

Incassato il Critics’ Choise Awards per la sua fantasmagorica Harley Quinn, Margot Robbie non è stata con le mani in mano e dal 2016, anno di uscita di “Suicide Squad” ha fatto otto film in quattro anni, fra cui “Tonya” sulla vicenda della pattinatrice su ghiaccio Tonya Harding coinvolta nell’aggressione a una sua rivale sportiva, un personaggio complesso e sgradevole che le valse la candidatura all’Oscar. E’ stata poi la Regina Elisabetta I in “Maria Regina di Scozia” dove si è imposta sulla collega Saoirse Ronan nel ruolo del titolo, con candidature ad altri premi (BAFTA, Screen Actors Guild Awards, AACTA, Satellite Awards, mentre la Ronan, seppur bravissima, è andata a bocca asciutta. Ed ha interpretato Sharon Tate nella rivisitazione del dramma in cui la moglie di Roman Polanski fu assassinata, nell’imperfetto – per me – “C’era una volta a… Hollywood” di Quentin Tarantino.

Ma poi questo film tutto suo nell’universo DC Comics tanto atteso – ha disatteso le aspettative: il personaggio che funzionava nel giocattolo corale qui non funziona più. L’esplosione di colorata fantasmagoria e il mix perfetto della bella sexy ironica simpatica e psicopatica, dilatati in un film intero mostrano la corda, come si dice: si diceva dei tappeti e dei tessuti pregiati come il broccato o il velluto che invecchiati e lisi mostravano la trama dell’incordatura. E’ come se il film mostrasse le rotelle di un marchingegno inceppato.

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La bella psicopatica parla al pubblico, si sbaglia, torna indietro, e invece di divertire ci confonde e diventa fastidiosa. Le scene di lotta acrobatica, figlie del glorioso kung-fu di Bruce Lee, sono sfacciatamente delle coreografie messe lì perché devono stare lì, e come lo straparlare della protagonista diventano ridondanti. L’antagonista Black Mask è interpretato da un Ewan McGregor che sembra più annoiato di me, mentre fa meglio il suo braccio destro in odor di relazione omo, Chris Messina come Victor Szasz.

Il cattivone Roman Sionis che poi indossa la maschera nera è il tipico boss che gestisce un locale dove ci sono i suoi uccellini, come li chiama lui, le belle ragazze che animano le serate. Ma una di queste, la cantante, è Black Canary, l’unica nel film ad avere un superpotere: una voce che atterra gli avversari. Per il resto fa a botte come tutti, anzi: tutte. Eh sì, perché il film è dichiaratamente un manifesto femminista e attorno all’antieroina si raccolgono, insieme a Black Canary, la Cacciatrice, la poliziotta Renee Montoya già debitamente bullizzata da superiori e colleghi, e la giovanissima sbandata Cassandra Cain, tutti personaggi apparsi nei fumetti DC Comics e che qui sono insieme per la prima volta in un allegro e manesco gruppo di donne che da uccellini si trasformano in uccelli predatori, birds of prey, un pacchetto pronto per diventare protagonista del prossimo spin-off.

In 'Birds of Prey,' the ladies are flying together: Harley Quinn is back  with a group of badass women to save the day
Renee Montoya, la Cacciatrice, Harley Quinn, Cassandra Cain e Black Canary

Spiace dirlo, il pacchetto femminista non funziona. E non perché sia femminista ma perché si è messa troppa carne al fuoco e, restando nell’ambito dei modi di dire, il troppo storpia. E’ zuccheroso fino alla nausea, è politicamente scorretto fino alla noia, è caotico fino a perdere il controllo del caos controllato che il giocattolone dovrebbe essere. Resta sempre godibile, come nella costola da cui è stato generato, la coloratissima parte visiva: costumi, scene, luci, effetti.

Margot Robbie si impegna anche nella produzione su una sceneggiatura di Christina Hodson e Cathy Yan alla regia, prima donna cinese (naturalizzata americana va sa sé) alla regia di un film di supereroi, che è anche il suo secondo lungometraggio dopo il debutto con “Dead Pigs” un film drammatico ambientato a Shangai che dimostra il talento eclettico della regista, che qui firma un lavoro confuso perché è confuso a monte il progetto. Jurnee Smollett-Bell è Black Canary, Mary Elizabeth Winstead è la Cacciatrice, Ella Jay Basco è Cassandra Cain, mentre nei panni della detective Renee Montoya ritroviamo in un ruolo appetitoso la Rosie Perez che nel già lontano 1994 è stata candidata all’Oscar per “Fearless – Senza Paura” di Peter Weir.

Joker e Harley Quinn saranno protagonisti di un film dedicato a loro

In questo fantasmagorico racconto sconclusionato c’è un grande assente: l’ex fidanzato di Harley Quinn, il Joker dai capelli verde smeraldo di Jared Leto che in “Suicide Squad” davvero non ho amato. A parte il mio giudizio su quel Joker c’è che l’attore, che ricordiamo premio Oscar per “Dallas Buyers Club”, è in rotta con la Warner Bros perché si è sentito tradito quando la casa produttrice di “Suicide Squad” ha avviato il progetto del “Joker” con Joaquin Phoenix il cui successo è stato clamoroso. Così Jared Leto ha rifiutato anche di essere nel cast del sequel “The Suicide Squad” programmato nelle sale USA, pandemia permettendo, per il prossimo agosto, in contemporanea streaming su HBO Max. Tornerà però, senza capelli verdi e tatuaggi in faccia e dunque un look rinnovato, e incupito, in un altro progetto frutto di controversie legali: “Zach Snyder’s Justice League”, in pratica il director’s cut del film del 2017 che fu un insuccesso a causa di una serie di eventi sfavorevoli che portarono all’avvicendamento del regista Zach Snyder con Joss Whedon. Rimasto l’amaro in bocca a Snyder e ai tanti suoi fan e sostenitori, anche fra i membri della troupe e della produzione, alla fine Warner Bros consentì il director’s cut per il quale il regista ha anche ricevuto del soldi per girare nuove scene; fra queste c’è l’inserimento del Joker di Jared Leto, assente nella precedente versione del film, e che segna il ritorno dell’attore col suo travagliato e controverso personaggio. Dunque è tutto bene quel che finisce bene? Staremo a vedere.

Jared Leto: il Joker imita Gesù Cristo nell'immagine della Justice League
Il nuovo Joker di Jared Leto che imita il Cristo in “Zach Snyder’s Justice League”

Pinocchio – Benigni uno e due

Pinocchio siamo tutti noi, sempre sospesi fra il bene e il male, i buoni propositi e le tentazioni, l’altruismo e l’autogratificazione. Non sorprende quindi l’affetto che proviamo per questo personaggio che per la maggior parte – io in primis – conosciamo dai derivati della storia originale, un racconto per l’infanzia ottocentesco che in pochi abbiamo letto per intero: “Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino” di Carlo Collodi.

Il primo a farne una storia per lo schermo, nel 1940, fu il cartoonist americano Walt Disney che per ispirarsi guardava spesso alle mitologie e alle favore europee, consapevole che tutta la cultura americana, veicolata dai popoli, venivano dal Vecchio Continente; nello specifico la sua famiglia veniva dalla Francia e Disney non è altro che l’anglicizzazione di D’Isigny. Forte del successo del suo primo lungometraggio “Biancaneve e i Sette Nani” produsse “Pinocchio” raddoppiando il budget, ma non ebbe altrettanto successo, soprattutto nella vecchia Europa. Fu però il suo primo film a vincere due Oscar, colonna sonora e canzone originale, e recentemente è stato inserito nella top ten dei capolavori cinematografici. Niente di strano che la favoletta rimaneggiata e adattata da Disney sia stato il nostro punto di riferimento e l’unico Pinocchio di immediata lettura per decenni.

Dobbiamo arrivare al 1972 per avere una produzione italiana col televisivo in sei puntate “Le avventure di Pinocchio” che, nel largo respiro della serie, rende merito al complesso racconto di Collodi: un’opera, così va definita, di eccellenza, che soppianta per sempre nel nostro immaginario il grazioso burattino disegnato da Disney: un capolavoro che rimarrà per sempre nei bambini di allora il punto di riferimento e di confronto per tutto quello che verrà. Anche la sigla di Fiorenzo Carpi resterà impressa nella nostra memoria.

La regia era di Luigi Comencini, Geppetto era Nino Manfredi, la Fata Turchina: Gina Lollobrigida, il Gatto e la Volpe: il duo comico Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, Il Giudice: Vittorio De Sica, Lionel Stander: Mangiafuoco, Mario Scaccia e Jacques Herlin: i due dottori, Mario Adorf: il direttore del circo, e potrei continuare con una pletora di grandi caratteristi italiani dell’epoca. Pinocchio, interpretato dal bambino Andrea Balestra, è stato reinventato in un burattino di legno quando era monello, ma che si trasformava in bambino quando faceva il bravo. L’ambientazione era quella povera e rurale della provincia italiana fine Ottocento che restituiva la storia ai suoi luoghi naturali e a Pinocchio il suo accento toscano.

Nel 2002 arriva il “Pinocchio” di Roberto Benigni che con i suoi 45 milioni di euro di budget rimane il film italiano più costoso, prodotto dalla Melampo di Nicoletta Braschi, moglie e musa di Benigni. In concomitanza dell’uscita del “Pinocchio” di Matteo Garrone il film torna in tv dove lo rivedo senza neanche arrivare al finale, confermando e rafforzando l’opinione che ne ebbi allora: è un film egocentrico ed esorbitante, frutto del successo internazionale e degli Oscar per “La vita è bella” come miglior film straniero, miglior protagonista e miglior musica a Nicola Piovani. Un successo che dà alla testa e per il quale ora Benigni guarda all’America e di cui copia gli sforzi produttivi e un certo stile narrativo. Non a caso il film si apre con la carrozza della Fata Turchina trainata da un esercito di topolini bianchi che sembra uscita da un film Disney. Poi prosegue con una riuscitissima sequenza in cui un ciocco di legno caduto da un carretto prende vita e rotola per le vie del paesello con una serie di gag da comiche del cinema muto. Ma non appena il Geppetto di Carlo Giuffrè finisce di creare il suo Pinocchio si capisce subito che è un Pinocchio “pro domo sua”: non c’è traccia del burattino di legno e Benigni recita il suo Pinocchio, con accento toscano, certo, ma con la vocina e la gestualità di un bambino che in un cinquantenne è davvero imbarazzante, per non dire irritante. Già all’inizio avevamo avuto un assaggio dell’andazzo con la Fata Turchina di Nicoletta Braschi che si atteggia e fa la vocina come una bambina che recita, male, alla recita scolastica. Si salva tutto il contesto: scenografia e costumi premiati col Nastro d’Argento e la musica sempre di Piovani. Si salva il corollario dei caratteristi: Kim Rossi Stuart: Lucignolo, Peppe Barra: il Grillo Parlante, il duo comico I Fichi d’India come Gatto e Volpe, Mino Bellei: Medoro, Corrado Pani: il Giudice, Alessandro Bergonzoni: il direttore del circo, Tommaso Bianco come Pulcinella e Stefano Onofri come Arlecchino fra i burattini del Mangiafuoco di Franco Javarone. Ovviamente il film è un successo al botteghino ma viene stroncato dalla critica e, cosa ancora peggiore, è un flop in quell’America per il quale era stato segretamente pensato.

Onestamente non sentivo la necessità di un altro Pinocchio ma quando ho saputo che il progetto era di Matteo Garrone sono rimasto in fiduciosa attesa. Avevo apprezzato moltissimo i suoi “L’imbalsamatore” del 2002 e “Primo amore” del 2004. Nel 2008 “spacca” con “Gomorra” dal libro di Roberto Saviano e che ispirerà la serie tv omonima da una cui costola prende vita il recente “L’Immortale”. Del 2018 è il premiatissimo “Dogman” ma questo “Pinocchio” si inserisce nel percorso avviato con “Il Racconto dei Racconti” ispirato al seicentesco “Lo Cunto de li Cunti” di Giambattista Basile: siamo quindi alla radice della narrativa italiana. E, come quell’altro film, questo “Pinocchio” mi sembra, altrettanto, grandioso e imperfetto.

Ha il merito di riportare il racconto nell’Italia rurale fine ‘800 e di rimettere al centro della storia un burattino di legno. Anche la Fata Turchina torna alle sue origini e come nella storia di Collodi la sua prima apparizione è come fata bambina. Purtroppo la caratteristica di Garrone che ha fatto grandi altri suoi film, in questo genere favolistico risulta essere un difetto: parlo della sua mancanza di empatia coi personaggi, del distacco col quale li racconta, e come per il film tratto da Giambattista Basile questo che ritorna a Collodi è a tratti emozionante e anche pauroso, nell’ottica del bambini, ma assolutamente privo di trasporto emotivo, quasi troppo freddo e razionale nel trattare queste grandi favole: è meritevole l’intento di ridare vita ai classici italiani ma il suo approccio analitico, vincente altrove, toglie smalto alle storie.

Sbagliati il Gatto e la Volpe assegnati a Massimo Ceccherini e a Rocco Papaleo: è evidente che fra i due non c’è feeling e non scatta quella scintilla che c’era fra le coppie comiche di comprovata esperienza come Franco e Ciccio o i Fichi d’India; la francese Marine Vacht è un’intensa e dolcemente seduttiva Fata Turchina che da bambina è Alida Baldari Calabria; Gigi Proietti restituisce grandiosità e burbera umanità a Mangiafuoco e Paolo Graziosi ridà vita a Mastro Ciliegia; Massimiliano Gallo è il Direttore del circo; la cabarettista Maria Pia Timo è la Lumaca e Maurizio Lombardi è il Tonno filosofo che nuota dentro il gran Pesce-Cane (che in Disney è una balena) qui disegnato sui bestiari medievali; Teco Celio è il Giudice, Enzo Vetrano è il Maestro e Domenico Centamore è il pastore; il nano Davide Marotta è il Grillo Parlante in un insieme di compagnia di nani come intelligente scelta registica per la compagnia dei burattini. Il burattino è il bambino Federico Ielapi pesantemente truccato come fosse legno, da premiarne la paziente sopportazione, e sempre credibile nella sua naïveté. Geppetto, dopo la prima ipotesi di Toni Servillo, è naturalmente Roberto Benigni, con un “naturalmente” dal doppio significato: primo, per la sua toscanità, e secondo perché dopo essere stato un improbabilissimo Pinocchio qui è finalmente nel giusto ruolo che gli compete, per età e per divismo: è dimesso e misurato come la regia richiede ma qua e là, si vede, è più forte di lui, gli brilla l’occhio del monello che è.

Joker, o della follia come ancora di salvezza

Ce n’è da dire!

Joker, come personaggio dei fumetti, ha la stessa età di Batman: sono dei giovanotti del 1940. E’ apparso come antagonista dell’Uomo Pipistrello nel primo numero della serie e, attraversando molteplici vicende e fortune, è sempre tornato a sfidare la sua nemesi fino a rubargli la scena in “Il Cavaliere Oscuro” di Christopher Nolan, secondo capitolo di un trittico con il quale è stato ridisegnato Batman, interpretato da Christian Bale: poiché Batman è un super eroe senza super poteri ma solo tanti soldi da spendere in gadget e marchingegni, se ne è riscritta la sua umanità rendendolo un personaggio più realistico, un uomo tormentato, con un suo lato oscuro, che alla fine della saga sacrifica la sua immagine pubblica di eroe mascherato per non macchiare quella dell’eroe di Gotham City, il tutore dell’ordine Harvey Dent che era divenuto il folle Due Facce: Batman si fa carico dei suoi crimini e sparisce come eroe caduto da dimenticare.

Nel secondo film sul nuovo Batman di Nolan finalmente entra in scena il Joker, e che Joker! Tutti abbiamo ancora nel cuore e nella mente l’interpretazione di Jack Nicholson, che col suo ghigno naturale (vedi “Shining” di Kubrick) è sempre stato un po’ Joker. Il film era “Batman” diretto da Tim Burton, con Michael Keaton nel ruolo del protagonista. Dicono le cronache che Nicholson volle che venisse riscritto il suo personaggio, pretese un tempo limitato per le sue riprese e un contratto da 6 milioni di dollari che diventeranno 60 grazie alla percentuale sugli incassi che aveva chiesto e ottenuto: un brand a parte all’interno del film.

Anche il Joker di Nolan, come Batman, fa un bagno di realismo: è un criminale sociopatico che verrà interpretato dalla giovane star in ascesa Heath Ledger che si è lasciato ispirare, oltre che dai fumetti, ovviamente, dal “vizioso” Sid Vicious, batterista punk dei Sex Pistols con la passione per le droghe, tanto da morirne, e da Alex DeLarge, il personaggio protagonista di “Arancia Meccanica” di Stanley Kubrick, i cui interessi principali sono “lo stupro, l’ultraviolenza e Beethoven”: dal romanzo di Anthony Burgess. L’interpretazione di Heath Ledger è magistrale e gli varrà un Oscar postumo dato che alla fine delle riprese l’attore muore, anche lui di overdose, ma di farmaci regolarmente (e con molta leggerezza?) prescritti; il referto medico dichiara: “Mr Heath Ledger è morto per un’intossicazione acuta provocata dagli effetti combinati di ossicodone, idrocodone, diazepam, temazepam, alprazolam e doxilamina”, un cocktail letale di sonniferi, ansiolitici e analgesici: che l’ispirazione fosse diventata troppo realistica?

Va annotato anche il commento ingeneroso di Jack Nicholson all’uscita del film che definì l’interpretazione di Heath Ledger “senza spirito” e criticò la produzione per non aver chiesto il suo parere: evidentemente con i suoi 60 milioni di dollari si riteneva l’unico tenutario del marchio Joker. Chissà cosa avrà detto oggi?

Nasce in quegli anni e da quelle esperienze il Joker odierno. in contemporanea alla riscrittura realistica di Nolan anche gli autori dei fumetti lavorano su un’identica linea realistica creando “The Joker”, protagonista del fumetto sganciato da Batman. Un’idea che il regista Todd Phillips fa sua riscrivendo ex novo il background del personaggio per sganciarlo ancor più dai fumetti della DC Comics e dagli altri film, e ne fa un film potente sul male di vivere. Questo Joker è Arthur Fleck, un comico senza talento che si guadagna da vivere facendo il pagliaccio per un’agenzia che lo manda in giro come uomo-cartello pubblicitario o animatore per bambini. Soffre, oltre che di depressione, di un grave disturbo neuro-psichiatrico, un’incontinenza emotiva che nei momenti di rabbia e stress gli fa scattare una risata involontaria e tragica, angosciante. Scopriremo, insieme a lui, che il disturbo è causa di un trauma di cui è rimasto vittima nella prima infanzia. Inoltre le cure che riceve dal dispensario pubblico vengono interrotte per la sospensione dei fondi e Arthur imparerà a fare i conti con la sua diversità: accoglierà nella sua coscienza questa sua “follia”, indotta per trauma, e non più curata per il disinteresse della gestione della sanità pubblica: ne farà la sua dirompente personalità finalmente libera da costrizioni mediche e fraintendimenti pseudo morali: nasce il Joker.

Ma non mancano i riferimenti al mondo DC Comics: la città è sempre Gotham, l’ospedale è sempre l’Arkham Asylum e il magnate che amministra la città, che fa mancare i fondi alla sanità, e che si presenta alla carica di sindaco è Thomas Wayne, il padre del piccolo Bruce che diverrà Batman quando un delinquente assassinerà davanti a lui i suoi genitori per derubarli. Ma il Thomas Wayne che altrove è sempre stato un magnate buono e generoso, qui rivela un lato oscuro più in linea con una realtà dove i magnati non sono mai angeli. Todd Phillips recupera anche uno dei vari passati del Joker che i fumetti hanno variamente raccontato: è di nuovo un clown fallito. Qui è anche ammiratore del comico Murray Franklin che ha un suo programma tv nel quale sogna di esibirsi: per questo personaggio autore e interprete, Robert De Niro, si sono dichiaratamente ispirati a “Re per una notte” di Martin Scorsese dove De Niro ammirava fino al delirio la sua star tv lì interpretata da Jerry Lewis. Ancora, la cronaca ci dice delle frizioni fra De Niro e Phoenix a causa del differente approccio al copione e alle prove: classico e metodico il primo, irrituale il secondo.

C’è di nuovo che il Joker ha una mamma, una vecchia signora che passa le sue giornate fra depressione e nostalgie, fra divano e letto, sempre davanti alla tv accesa, tenutaria di segreti che si riveleranno diversi da come lei li racconta, o li tace: perché si sa che la memoria inganna, e certi inganni possono anche rivelarsi letali. C’è di nuovo che il disagio del Joker, amplificato da un’imboscata tv, viene inteso dai derelitti della città come una chiamata alle armi della riscossa, uguale a una di quelle che hanno fatto la nostra storia civile: il popolo che si ribella a chi li governa con troppi bastoni e poche carote. Qui però indossano maschere da clown e inneggiano al folle che ha indicato la via della follia come salvezza dalle miserie quotidiane.

Il film ha vinto il Leone d’Oro a Venezia e, a mio avviso, Joaquin Phoenix si sarebbe meritato il premio come Miglior Attore che è andato, invece, a Luca Marinelli protagonista di “Martin Eden” che, per carità, se lo è meritato, ma qui siamo davvero su un altro pianeta: Phoenix ha perso 24 chili e ha definito la sua risata studiando persone affette da quel disturbo; per approcciarsi alla personalità del Joker ha studiato le biografie di famosi attentatori alla vita di altri famosi. Aveva definito il progetto come “unico, un mondo a parte”, “la cosa più spaventosa” su cui dedicare il suo lavoro di attore, e non ci resta che inchinarci a questa sua interpretazione che, finalmente dovrebbe portargli quell’Oscar che gli è già sfuggito tre volte per “Il Gladiatore”, “The Master” e la biografia di Johnny Cash “Quando l’amore brucia l’anima”.

Accanto a Joaquin Phoenix e Robert De Niro c’è Frances Conroy nel ruolo della madre, attrice rivelatasi al grande pubblico tv come matriarca della serie dark “Six Feet Under” e poi star ricorrente nell’antologia horror “American Horror Story”. Zazie Beetz è la donna dei sogni di Arthur/Joker e Brett Cullen è Thomas Wayne mentre Glenn Fleshler è il collega clown finto amico che, come tutti in questo film tranne il protagonista, hanno sempre un pensiero diverso da quello che invece dichiarano: tutti mentono, tranne il folle che, come i bambini, dice sempre la verità.

Contrariamente a quello che ha dichiarato il regista, che dice che questo film non è l’inizio di una nuova saga, io, da spettatore, mi auguro il contrario. Nota a margine sul mondo del Joker: è on line una serie web liberamente ispirata ai personaggi della DC Comics che, avviata come un divertissement fra amici, è via via cresciuta fino ad aggiudicarsi premi internazionali, fra cui quello al miglior regista (che è anche interprete e autore) a Bruno Mirabella: “Like me, like a Joker” per non perdere nulla sull’affascinante mondo dei folli.

Dumbo, di Tim Burton o della Disney?

La domanda, si dice, sorge spontanea: come verrà ricordato questo Dumbo fra 10-20 anni? sarà un film di Tim Burton o l’ennesima produzione Disney di cui non sarà ricordato neanche il regista? dicendo del film precedente che ha avuto ben sei registi oggi sconosciuti.

Intanto cominciamo col dire che è l’ulteriore salto in avanti della tecnica dei cartoni animati. Il Dumbo originale era del 1941 e i cartoni animati erano quelli che ci hanno accompagnato fino alla fine del secolo scorso, piatti e senza prospettiva. Solo negli ultimi decenni si erano avvalsi del disegno computerizzato che sostituendo quello fatto a mano arricchiva di dettagli i prodotti. Poi, con un salto tecnico in avanti, il cartoon ha acquistato profondità rotondità e prospettiva, e in qualche caso tridimensionalità, e tutto sembrava più vero. Ora siamo arrivati al Live Action, una tecnica straordinaria che fa sembrare le creazioni computerizzate così vere e vive da potere essere tranquillamente mischiate agli attori in carne e ossa senza vederne la differenza. Personalmente, attendendo il remake in live action di “Che fine ha fatto Roger Rabbit?”, mi chiedo quale sarà lo sviluppo successivo, tenendo presente che il 3D non ha del tutto conquistato il mercato. Con il live action un paio di anni fa la Disney ha rifatto, e molto ben fatto, “Il libro della giungla” il cui precedente era del 1967 e sono in uscita un Aladino e un Re Leone. In pratica è la stessa tecnica che crea mostri e navicelle spaziali e scenari immaginifici nei film di fantascienza e forse davvero, se sarà economicamente vincente, un giorno potremo veder rivivere in digitale le star del passato.

Tornando a Dumbo, del film del ’41 rimane ben poco oltre il protagonista dagli immancabili occhioni blu: solo la citazione degli elefanti rosa fatti con le bolle di sapone. Per il resto, avendo a disposizione attori veri, si è creata una trama avvincente facendo sfoggio di star per adulti per invogliare i genitori a portare al cinema i pargoletti a cui è veramente rivolto il film che, sono sincero, ho trovato abbastanza stucchevole. E qui torniamo inevitabilmente a Tim Burton dato che nel cast non c’è nessuno dei suoi soliti attori, neanche un’ombra delle sue atmosfere dark e nonostante siamo in un circo nessuno dei suoi freak. Solo Danny De Vito, il proprietario del circo, col suo metro e 47 di altezza potrebbe considerarsi un freak e, ovviamente, Dumbo con le sue grandi orecchie lo è. Tutto qui. Al contrario il film è molto rassicurante ed è giusto che lo sia trattandosi di un prodotto per bambini… ma allora che c’è andato a fare Tim Burton? In qualche modo è tornato a casa perché si è fatto le ossa proprio alla Disney ma poi se n’era andato perché a lui piacevano gli scheletri e le regole della casa gli stavano strette. Ma devo dirlo: è tornato a casa senza lasciare una traccia di sé e questo “Dumbo” live action è un altro prodotto Disney che avrebbe potuto dirigere chiunque.

In questo circo Colin Farrell, eroe mutilo della Grande Guerra, siamo nel 1920, è il padre dei due bambini che scoprono il talento dell’elefantino, Nico Parker e Finley Hobbins; Michael Keaton fa il cattivo col parrucchino di traverso quando le cose non andranno per il suo verso e il vegliardo Alan Arkin, star del cinema indipendente degli anni ’70, qui è il banchiere più cattivo del cattivo; Eva Green è la trapezista dal passato oscuro ma dal cuore d’oro; Sharon Rooney è la sirena cicciona che insieme a Joseph Gatt che fa da guardia del corpo del cattivo, possono essere ascritti fra i freak per la ciccia dell’una e la calvizie da alopecia dell’altro… ma proprio a voler cercare il freak a tutti i costi.

La parte migliore del film per me sono le scene e i costumi: le prime ispirate alla visionarietà futurista dello stile decò dell’epoca e i secondi che vestono e caratterizzano con ricchezza ogni personaggio in questa favola dove anche i poveri sono abbigliati con stile. Solo qui, in questo “dietro le quinte” c’è il tocco di Tim Burton che dal suo mondo si è portato dietro lo scenografo Rick Heinrichs e la costumista Colleen Atwood che hanno avuto l’Oscar per il burtoniano “Il Mistero di Sleepy Hollow”.

Dunque, restando in attesa delle meraviglie dei prossimi Live Action resto anche in attesa dei prossimi scheletri del Tim Burton doc di cui ho amato alla follia “La Sposa Cadavere” e “Nightmare Before Christmas” realizzati con la tecnica antica dell Stop Motion. Preistoria.

Jurassic World, il regno distrutto

Tutto cominciò nel 1993. In Italia era scoppiata Tangentopoli e io ero a Londra a imparare l’inglese. Uscì questo film, “Jurassic Park” del mio amato Steven Spielberg, con nientepopodimenoché i dinosauri redivivi! e benché il mio inglese non fosse all’altezza andai comunque al cinema, e c’è da dire che non era necessario capire i dialoghi per godere il film. Godere, proprio. Perché Spielberg è un marchio di garanzia oltre che uno stile: le onde che s’increspavano ne “Lo Squalo” qui sono i cespugli che tremano, e dietro o sotto c’è sempre un mostro in agguato. Il film era basato sull’omonimo romanzo di Michael Crichton.

Seguirono “Jurassic Park, Il mondo perduto” e ritroviamo nel cast i personaggi di Jeff Goldblum e Richard Attemborough; in “Jurassic Park III” invece tornano i personaggi di Sam Neill e Laura Dern, qui Steven Spielberg resta come produttore e lascia la regia a Joe Johnston. Dopo ben 14 anni, quando non si sperava più in un altro sequel, arriva “Jurassic World”, regia di Colin Trevorrow, con un cast completamente rinnovato ma in cui torna il personaggio interpretato da B.D. Wong, un manipolatore di DNA giurassico chiamato a creare l’Indomitus Rex, una nuova specie geneticamente modificata, ovviamente intelligentissima oltre che ferocissima.

Con “Il Regno Distrutto”, regia di Juan Antonio Bayona, oltre che una riuscita commistione col catastrofico, insieme ai dinosauri ritroviamo gli ultimi protagonisti: Chris Pratt, eroe sbruffone senza macchia e senza paura, e Bryce Dallas Howard, come scienziata bella e buona che prende in eredità i ruoli che furono di Laura Dern e Julianne Moore. E tornano il genetista B.D. Wong e l’ormai ingrigito Jeff Goldblum che tristemente e lucidamente predice la catastrofe. Per la quota “nerd” occhialuto pauroso ma geniale c’è Justice Smith, che fa coppia con la coraggiosa Daniella Pineda, mentre in quota “bambini coraggiosi e intraprendenti” c’è Isabella Sermon. I cattivi di turno sono Rafe Spall, Toby Jones e Ted Levine che fanno la fine di tutti i cattivi nei film con mostri. James Cromwell è il vecchio idealista e se ad aprire la porta del suo castello, come governante, c’è una vecchia (ormai) gloria come Geraldine Chaplin di sicuro c’è sotto qualcosa di grosso. Concludendo, sul piano del casting, Chris Pratt, belloccio ex teenager sovrappeso, in queste ultime stagioni è praticamente in tutti i blockbusters, ma si attende per lui il salto di qualità come interprete serio in film d’autore.

Del 1993 a Londra ricordo che il pubblico inglese, un cinema strapieno di ragazzi, rumoreggiava con esclamazioni di terrore e sorpresa tipo “wow” che sonoramente ondeggiavano in sala come le “ola” degli stadi, manifestazioni di divertimento e paura, nei sempre trattenuti inglesi, come mai accade nei cinema italiani, dato che noi siamo normalmente rumorosi; e io stesso ho sobbalzato più d’una volta nella poltrona che tremava per il nuovissimo “surround”. Anche stavolta, (il sequel è previsto per il 2021, date da fantascienza per me del secolo scorso) in quest’ultimo capitolo la scena iniziale è di puro “cacazzo”. E scusate il francesismo.

Ready Player One, l’uovo di pasqua virtuale

Il titolo riprende la schermata iniziale dei primi videogiochi degli ormai lontani anni ’80, dunque siamo in pieno nel mondo dei nerd, ma non solo, perché l’intricatissima trama è anche materia per cinefili, sempre quelli cresciuti negli anni ’80. Il film è tratto da un romanzo di Ernest Cline, che a lungo ha lavorato nel sottobosco informatico, dei nerd appunto, con una sua personale passione per la cultura pop che riversa appieno in questa sua fantasia distopica.

2045. Come in tutti i mondi futuristici, mai ottimisti (chissà perché!), il pianeta Terra è alla frutta, ammesso che in giro ci sia il lusso della frutta fresca: sovrappopolazione, inquinamento, forte divario fra le classi sociali, estremo sfruttamento delle risorse energetiche e degli esseri umani indigenti: una proiezione realistica di quanto stiamo vivendo oggi. E la gente che fa? quello che fa oggi: gioca. Non ci saranno più i gratta-e-vinci statali, né le slot machine mangia pensioni gestite dalla mafia, né tantomeno i web casinò che già creano dipendenza, e il partito politico costruito online è solo il primo passo di quello che sarà: ognuno potrà vestire virtualmente i panni di un ministro, e se vince – vincerà anche nella vita reale. Una volta si beveva per dimenticare, sul finire dello scorso secolo ci si drogava con qualsiasi cosa: la droga odierna, e quella dell’immediato futuro, è il gioco, meglio ancora se gioco di ruolo virtuale dove ognuno può più che sognare, può “essere” qualsiasi/chiunque alterità.

Da questo punto di vista niente di nuovo, abbondano i film sui mondi virtuali e le società futuristiche dove per sopravvivere devi vincere i giochi di ruolo: la trilogia di “Hunger Games”, la trilogia dei “Divergent”, senza dimenticare la trilogia di “Matrix” e riandando indietro nel tempo: “Rollerball” del 1975 remaked nel 2002 e “Tron” del 1982 con un sequel nel 2010.

Oasis, il mondo qui immaginato da Cline, è praticamente Second Life, la realtà virtuale creata all’inizio di questo nuovo secolo e la cui immediata diffusione ha riempito per un po’ giornali e telegiornali, creando dipendenze, rotture sentimentali e guai familiari; oggi, pur continuando ad esistere, si è ridimensionato. Ma anche lì come in Oasis si possono fare soldi virtuali che possono diventare reali, se sei davvero bravo. Detto questo è inutile parlare della trama, che è davvero complessa e tutta da scoprire insieme ai tanti rimandi per veri intenditori dei videogiochi e dell’immaginario cinematografico pop, che va da “Shining” e “La Febbre del Sabato Sera”, i film più ampiamente citati e riconoscibili, a “Ritorno al Futuro”, “King Kong”, “Jurassic Park” dello stesso Steven Spielberg che firma questa regia e il quale, con grande senso della misura, ha preteso che venissero tolti, ove possibile, tutti i riferimenti ai suoi film che la sceneggiatura, co-firmata dallo stesso romanziere, e gli autori delle creature virtuali, hanno disseminato dappertutto: bisognerebbe rivedere il film a casa, in slow motion, per scoprire tutti gli omaggi a film e personaggi dell’ultimo trentennio: c’è Chucky la bambola assassina, ma anche il Joker con Harley Quinn, come anche Lara Croft, un Gremlin e tantissimi altri.

Per i non avvezzi ai linguaggi tecnici da nerd c’è da spiegare: “easter egg”, ovvero uovo di pasqua, è una sorpresa che i creatori dei software nascondono all’interno del gioco, e che qui è l’ambitissimo premio finale; il “cubo di Zemeckis” non è altro che il cubo puzzle di Rubik degli anni ’80, rinominato col nome di Robert Zemeckis non si sa perché: forse un omaggio a un altro degli immaginifici registi citati nel film (e a cui in un primo tempo era stata offerta la regia) o forse, e qui mi sono fatto ricercatore di indizi come il protagonista del film, “Zemeckis” è una distorsione pop di Zemdegs, dall’australiano Feliks Zemdegs detentore di 7 record mondiali per la soluzione del diabolico cubo. Comunque sia sono cose da addetti ai lavori.

Per noi spettatori il film scorre veloce e il fatto che non ci dia tempo di pensare a tutti i riferimenti fa parte del gioco, ma è un gioco, questo gioco virtuale, di cui siamo solo spettatori passivi mentre il film racconta quanto e come siano attivi i protagonisti nel loro mondo virtuale: uno specchio che ci rimanda un falso messaggio. Che poi la sceneggiatura sia arrivata al maestro Steven Spielberg dopo diversi passaggi di mani, non è che un bene, anche se in qualche modo si intuisce che questo film per lui è un prodotto e non una delle sue creature. Quello che avrebbe potuto essere l’ennesimo film fracassone – ed è anche questo ma non solo – diventa un divertissement più o meno raffinato, tanto quanto raffinato è il gusto dello spettatore, e in questa linea compone il suo cast.

Padre nobile e deus ex machina è Mark Rylance, Oscar in “Il Ponte delle Spie” e poi “Grande Gigante Gentile”: c’è dunque da pensare che l’eccellente attore inglese sia diventato il suo nuovo alter ego dopo il Richard Dreyfuss degli anni ’70, “Lo Squalo” “Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo” e “Always” e l’Harrison Ford dagli anni ’80 a fine millennio con tutti gli “Indiana Jones”. Il protagonista giovane, che come quasi tutti si alterna dal vero al virtuale, è Tye Sheridan, mentre il cattivo di turno è Ben Mendelsohn, un eccellente caratterista con una lunga carriera che qui se la gode alla grande; fra i buoni c’è un altro caratterista inglese, Simon Pegg, rilanciato nel cinema statunitense come parte dell’equipaggio di “Star Trek” e braccio destro di Tom Cruise in “Mission Impossible”; la buona ma “bella non troppo” – con un occhio attento alle tante nerd al femminile – è Olivia Cooke e completano la squadra dei nerd combattenti Lena Waithe, Philip Zhao e Win Morisaki. La bella e cattiva è Hannah John-Kamen e Il comico T.J. Miller è accreditato come voce del personaggio virtuale i-R0k, ma poiché non lo vediamo mai dal vero citiamo il suo doppiatore Marco Vivio.

In sala molta gioventù, ma non quella dei film fracassoni coi super eroi belli e fashion, bensì quelli coi brufoli e gli occhiali, i nerd appunto, con le loro moltiplicazioni all’ennesima potenza dei trenta-quarantenni. E poi, in ordine sparso, i battitori liberi come me. Il divertimento è assicurato esclusivamente a chi ama il genere.

La forma dell’acqua, o la bella (muta) e la bestia (acquatica)

Nell’omonimo racconto di Camilleri la forma dell’acqua è quella del recipiente che la contiene e che nella sua storia diventa metafora di contenenti e contenuti, mentre qui è solo una suggestione poetica per una favola molto bella. Bella per chi ama le favole.

L’autore, Guillermo Del Toro, si è imposto all’attenzione internazionale con l’altro bellissimo “Il Labirinto del Fauno” – da recuperare per chi lo avesse perso – e la sua filmografia è tutta fatta di fantasy e horror e proviene direttamente dalla sua infanzia, quando fu ammaliato dal film “Il Mostro della Laguna Nera” di cui questo film avrebbe dovuto essere un rifacimento ma che poi è diventato un soggetto originale conservando la figura centrale della creatura acquatica che nel suo immaginario si fa da mostro a principe azzurro, ribaltando l’immaginario collettivo anche in linea coi tempi revisionisti e politically correct. Ma nulla di tutte queste mie considerazioni appesantisce il film che, anzi, contrariamente agli altri suoi lavori tutti in noir, ha lo stato di grazia della leggerezza e riesce a fondere perfettamente il dramma alla commedia nella linea precaria del surreale che ci introduce in un bel sogno, il sogno della protagonista muta che conduce una vita solitaria fra un lavoro poco gratificante, un vecchio amico vicino di casa omosessuale e l’autoerotismo nella vasca da bagno: se in questo film vogliamo necessariamente trovare “la forma dell’acqua” questa è senz’altro quella della sua vasca da bagno, dove accoglierà la creatura in fuga dal laboratorio pseudo-scientifico di pseudo-ricerca, e dove con lui troverà finalmente l’amore.

Doug_Jones_2015

“Il Labirinto del Fauno” fa coppia con questo film per l’attore che sotto il pesante trucco interpreta la creatura, qua come là, Doug Jones, attore e mimo specializzato in ruoli fantasy. Per Guillermo Del Toro si è travestito anche in “Crimson Peak” e il secondo capitolo di Hellboy “The Golden Army” ed è stato anche Silver Surfer in “I Fantastici 4 e Silver Surfer”. Ma, ancora, il film col Fauno e questo con l’Uomo Anfibio sono legati anche dalla tematica che li ispira: la contrapposizione al potere costituito, lì il franchismo spagnolo e qui le sperimentazioni governative in un pesante clima di guerra fredda; e la collocazione temporale, lì gli anni ’40 e qui i primi anni ’60, comunque epoche ormai lontane in cui è più agevole collocare l’immaginario di una favola moderna di cui noi possiamo sentirci figli o nipoti.

Riguardo all’autore c’è da aggiungere che, affascinato dal fantasy, per dieci anni ha studiato make up, e da qui la dettagliata bellezza delle maschere dei suoi personaggi che oggi gli hanno fruttato prima il Leone d’Oro come miglior film alla Mostra di Venezia e poi gli Oscar come Miglior Film, Miglior Regista, Miglior Scenografia e Miglior Colonna Sonora ad Alexandre Desplat al suo secondo Oscar dopo “Gran Budapest Hotel”.

Poiché al momento del bacio inter-razziale fra i due protagonisti c’è stato un brusio in sala bisogna ricordare che, da questo punto di vista, il film è figlio anche del classico “La Bella e la Bestia” visto e rivisto in tante salse, e se lì non c’è raccapriccio e qui sì ciò probabilmente dipende dalla “credibilità” della storia di Del Toro. Ma ci sono almeno altri due capostipiti a cui risalire: “La Bestia” di Walerian Borowczyk, del 1975, e “Possession” di Andrzej Żuławski, e senza aggiungere altro non posso non notare che i due registi sono polacchi.

Incantevoli tutti i personaggi, sia i buoni che i cattivi. La londinese Sally Hawkins è la dimessa protagonista, già candidata all’Oscar per “Blue Jasmine” di Woody Allen e superpremiata in Europa per “La Felicità Porta Fortuna” di Mike Leigh. Michael Shannon, due candidature Oscar, è il militare supercattivo che vuole vivisezionare la Creatura; Michael Stuhlbarg è il russo doppiogiochista che con Michael Shannon ha già ricevuto lo Screen Actors Guild Award per il Miglior Cast nella Serie TV Drammatica “Boardwalk Empire”; il veterano Richard Jenkins è l’anziano amico vicino di casa, candidato come Non Protagonista; Octavia Spencer è la necessaria amica, candidata Non Protagonista.

Fra premi avuti e altri mancati questo film non può mancare del premio al botteghino.