Archivi categoria: ugo tognazzi e carlo croccolo, i cadetti di guascogna

E per la prima volta sullo schermo… Ugo Tognazzi, ma anche Carlo Croccolo

Il film completo

Il film viene oggi ricordato come il debutto cinematografico di Ugo Tognazzi e passa in secondo piano la notizia che fu anche il debutto di Carlo Croccolo: entrambi caratteristi secondo la vecchia classificazione di genere, ma il primo si accreditò come uno dei nostri divi nel trentennio 1960-1990, mentre il secondo restò in secondo piano, proprio come caratterista, seppur di lusso, e principalmente spalla e poi anche doppiatore di Totò quando il principe della risata divenne praticamente cieco e non riusciva più a leggere le battute in sala di doppiaggio, giacché i film non venivano girati in presa diretta. In seconda istanza fu anche il debutto sullo schermo della coppia radiofonica Billi e Riva, già attiva negli spettacoli di rivista e, separatamente, già attori cinematografici.

Il 28enne Tognazzi, che cinque anni prima aveva sfiorato il debutto da professionista accanto a Wanda Osiris, è già un affermato attore comico del varietà, un genere di spettacolo leggero oggi scomparso che, come dice il nome, era uno spettacolo di arte varia con numeri musicali eseguiti dal vivo da un’orchestrina, canzoni, balletti, scenette, imitazioni e quant’altro, condotti da un presentatore che di solito era anche il capocomico e con la presenza di almeno una soubrette, il cui compito era cantare e ballare ma soprattutto mettere in mostra centimetri di pelle nuda, come il resto del corpo di ballo.

Il varietà si era affermato in Italia alla fine degli anni ’30 come evoluzione dal café-chantant incorporando artisti di strada e anche circensi, fantasisti imitatori e facce toste d’ogni genere – come quelli che oggi si esibiscono sui social – i quali, andando in scena dovunque, dal rinomato teatro agli spazi aziendali ai cine-teatri agli angoli nei caffè – sulle prime francesizzavano i nomi degli interpreti per richiamarsi all’originale forma di spettacolo importata da oltralpe e creare un richiamo da vedette internazionale soprattutto alla soubrette, termine mutuato dal teatro brillante francese ottocentesco, che in quella lingua stava per servetta, ruolo teatrale malizioso e brillante, e proprio col termine brillante venne rinominata la soubrette dal nostro fascismo che aborriva i termini stranieri, e in quell’autarchia linguistica non mancarono gli adattamenti subretta e subrettina; nella nostra rivista era in realtà era la regina dello spettacolo, la più attesa dal rumoroso pubblico principalmente maschile, con entrate in scena spettacolari, costumi e trucco vistosi, andamento sinuoso e ancheggiante, atteggiamento fortemente seduttivo; un ruolo di cui la Osiris fu l’esponente più di spicco e anche l’ultima del suo genere, poiché proprio negli anni Cinquanta si affermò un nuovo tipo di soubrette, più moderna e meno appariscente, quasi da ragazza della porta accanto, professioniste che sapevano cantare ballare e recitare in modo assai più professionale: Delia Scala, Lauretta Masiero, Sandra Mondaini, Marisa Del Frate, ragazze che dalla morente rivista teatrale passarono alla nascente rivista televisiva.

Fra i vari numeri della rivista, oltre al presentatore che poteva anche essere un comico o un imitatore come pure un cantante, c’erano il finedicitore che del fine dicitore di testi classici faceva la parodia, il giocoliere o illusionista, i comici, solisti o in coppia, i balletti di fila spesso sgangherati ed eseguiti da ballerine seminude che fuori dal palcoscenico arrotondavano col mestiere più antico del mondo, fino alla specialità tutta italiana della macchietta, un genere che mischiava la canzone brillante e satirica al monologo comico: il termine definiva sia il genere che i personaggi, i quali erano sempre esasperazioni caricaturali di tipi come il guappo, lo sciupafemmine, la femminista (en travesti e dunque in chiave fortemente satirica) il politico o l’ignorante, maschere che esprimevano quasi sempre doppi sensi osceni ma anche riletture surreali e grottesche della società. Il varietà viveva anche dell’improvvisazione nata dallo scambio di battute, spesso salaci, fra gli artisti e il pubblico esigente e irriverente. Esempi di macchiette che al meglio dell’espressione del genere divennero famose, sono il Gastone di Ettore Petrolini e il Ciccio Formaggio di Nino Taranto, passando per il Felice Sciosciammocca di Eduardo Scarpetta che però divenne anche personaggio di commedie a tutto tondo e che Totò portò sugli schermi dei cinema. Nelle lezioni di recitazione si spiega che un personaggio ha tre dimensioni (le stesse su cui Luigi Pirandello imbastì la gran parte della sua produzione letteraria) ovvero: come il personaggio è, dunque il chi è, il come appare ovvero come esso si rappresenta o come viene percepito, e come si sviluppa nell’arco dell’azione scenica. La macchietta invece, come le maschere della commedia dell’arte, non ha profondità né sfaccettature: è piatta, uniforme e unidirezionale.

L’invenzione della macchietta è dovuta al napoletano Nicola Maldacea, un canzonettista fine ‘800 che introdusse all’interno della canzonetta dei momenti recitati per rafforzare la caricatura del personaggio: “Come un disegnatore, mi ripromettevo di dare al pubblico un’impressione immediata schizzando il tipo, segnandolo rapidamente, rendendone i tratti salienti. Da ciò l’origine della parola macchietta, che è propria dell’arte figurativa: schizzo frettoloso, che renda con poche pennellate un luogo o una persona in modo da darne un’impressione efficace con la massima spontaneità caricaturale.” da “Le memorie di Nicola Maldicea” pubblicate da Bideri nel 1933. A lui si deve l’invenzione della macchietta del viveur, ovvero il bello dalla testa vuota; e al massimo della sua fama interpretò macchiette scritte per lui, in anonimo, anche da Trilussa e Salvatore Di Giacomo. Macchietta, schizzo, sinonimo dell’inglese sketch.

Lo spettacolo di varietà, di natura ruspante, fu rinominato spettacolo di rivista quando ad organizzarlo furono veri impresari teatrali, con piglio professionale e dispendio di mezzi per scene e costumi oltre che con la scrittura di artisti di prima grandezza, in un contenitore che non era più una sequenza di numeri slegati ma aveva un filo conduttore e pertanto c’era anche un copione scritto, benché lo spazio per l’improvvisazione fosse sempre in campo. Altro genere di spettacolo che derivò dal varietà fu l’avanspettacolo, che in pratica era il fratello povero della rivista; esso si creò in risposta ai provvedimenti del regime fascista degli anni ’30, come gli sgravi fiscali per quei teatri che si convertivano in cinematografo nel segno dichiarato della modernità: ma l’intento non dichiarato era quello di togliere voce a un certo tipo di comicità, perché la comicità è (o era, e sempre dovrebbe essere) eversiva e libera da imposizioni – mentre il cinema, con le nascenti pellicole edulcorate dei telefoni bianchi e le produzioni dichiaratamente propagandistiche, era un perfetto megafono per l’ordine costituito.

Una compagnia di avanspettacolo sullo spazio antistante lo schermo cinematografico

L’avanspettacolo raccoglieva gli scarti delle compagnie di varietà allo sbando e trovò spazio, con assoluta povertà di mezzi, come intrattenimento per quel pubblico ancora più rumoroso e distratto che conveniva nella sala per assistere al film, anzi al filmo o alla filma, dato che la ricercata italianità fascista aborriva i termini che non finissero con una vocale perché di oscura matrice straniera; anche i nomi propri dovevano adattarsi a quella regola così che, fra i tanti, Renato Rascel divenne Rascele e Wanda Osiris divenne Osiri. La dura esperienza dell’avanspettacolo formò però artisti di prima grandezza come Totò e in generale grandi professionisti del palcoscenico. Il declino dell’avanspettacolo portò su quegli arrangiati spazi scenici donne sempre più denudate fino a introdurre definitivamente il numero dello spogliarello in concomitanza a un certo genere di produzioni cinematografiche che si stavano avviando verso il filone dei film sexy, poi soft-core e infine hard-core, trasformando definitivamente le vecchie sale cinematografiche di periferia in cinema porno. Mentre il più nobile fratello maggiore, il teatro di rivista, morì d’inedia con l’avvento della televisione nei cui spettacoli di varietà del sabato sera convennero i vari artisti; con il cinema, come in questo caso, che celebrava un genere di cui non si sapeva ancora che era un morto che cammina, e che oggi ritroviamo come documento di archeologia teatrale.

Questo film nasce, come l’anno prima “I pompieri di Viggiù”, dal successo di una canzonetta orecchiabile scritta da Armando Fragna, autore ricordato soprattutto per le colonne sonore dei film di Totò, che fu anche direttore d’orchestra per la Rai che allora era solo radio nazionale con diverse sedi sul territorio e diverse orchestre che facevano il giro delle sedi, le più note delle quali furono le orchestre dirette dai maestri Cinico Angelini, Pippo Barzizza, Lelio Luttazzi. L’orchestra del maestro Fragna aveva fra i suoi cantanti fissi Claudio Villa, il Quartetto Cetra e questa Clara Jaione per la cui voce brillante il maestro scrisse alcuni brani che divennero celebri. La televisione non esisteva ancora e la radio, nelle versioni più economiche, era ormai praticamente in ogni casa, dove era considerata un apparecchio lussuoso con la sua elegante struttura in legno, quando non nella più ricca radica, se non addirittura come mobiletto vero e proprio; un apparecchio che aveva già versioni più economiche in bakelite, una resina termoindurente che fu la mamma della plastica. Dunque, se una canzone arrivava al successo veniva mandata in onda per anni perché non era ancora l’epoca delle hit-parade e poi delle top-list che hanno contribuito a bruciare i brani prima in pochi mesi e infine in un paio di settimane. Ho un personale ricordo di mia madre che ancora canticchiava “I cadetti di Guascogna”, una canzonetta pacifista che parla di tre cadetti che, benché di Guascogna, territorio francese, vengono dalla Spagna e sono diretti a Bologna, solo per giocare sul suono GN, promettendo pace a amore a chi quella canzone canterà.

Enrico Viarisio e Anna Magnani in “Tempo Massimo”

Va da sé che il successo della canzone deve essere sfruttato anche per riempire le sale cinematografiche, allora era facile impresa, e il film viene scritto in quattro e quattr’otto da Vittorio Metz, umorista sceneggiatore e già autore di riviste, con l’ineffabile coppia Age e Scarpelli, ovvero Agenore Incrocci e Furio Scarpelli, e col prolificissimo eclettico Marcello Marchesi. Alla regia la mano sicura di Mario Mattoli, già impresario teatrale che ben conosceva la materia: con la sua compagnia “Spettacoli Za-Bum” aveva avuto la brillante intuizione di scritturare per la rivista dei già affermati attori di prosa, che dopo quell’esperienza passarono subito al cinema, e sono nomi come Vittorio De Sica, Alberto Sordi, Aldo Fabrizi, Anna Magnani ed Erminio Macario. Salto di genere che fece anche l’impresario Mattoli allorquando, poiché con la sua agenzia aveva cominciato anche a produrre film, all’improvvisa indisposizione del regista Carlo Ludovico Bragaglia debuttò come regista con “Tempo massimo” nel 1934, con un cast di attori che già aveva sotto contratto, protagonisti Vittorio De Sica e la cantante Milly (Carolina Mignone), sorella dell’attrice Mity (Gaetana Mignone) che era moglie del regista-produttore, e nel ruolo di una cameriera c’era anche la 26enne Anna Magnani al suo terzo film.

Ma torniamo a Ugo Tognazzi. Già attore comico e organizzatore di spettacoli di rivista amatoriali, alla fine della guerra, nel 1945 tenta la sorte e dalla sua Cremona va a Milano a esibirsi in un concorso per dilettanti, dove trionfa e da gran vincitore e ottiene la sua prima scrittura professionale in una compagnia di giro dove viene notato dall’entourage della Wandissima e subito scritturato per la prossima rivista della Osiris, contratto per il quale rompe il precedente pagando una pesante penale; poco male perché nell’attesa che il nuovo progetto prenda forma lui è comunque stipendiato, ma i tempi si allungano a dismisura e alla fine, nel marasma dell’immediato dopo guerra, l’impresario svanisce nel nulla e la compagnia, fin lì pagata, si scioglie senza neanche essersi artisticamente formata. Fu così che Ugo Tognazzi non lavorò con Wanda Osiris. Ma il giovane comico era ormai nel giro e viene scritturato per la rivista “Viva le donne” scritta da Marcello Marchesi per la soubrette Erika Sandri; e da lì in poi il successo del giovanotto è tutto in crescita e girerà l’Italia con le riviste di Erminio Macario e Lauretta Masiero. A quel punto il passaggio al cinema è solo questione di tempo e di opportunità, e questa occasione arriva con questa banda scarruffata di cadetti militari dove viene messo in coppia con uno che viene dagli stessi palcoscenici del varietà, anch’egli trionfatore al concorso milanese per amatoriali, ma benché più giovane di Ugo di due anni, Walter Chiari ha già cinque film all’attivo e un Nastro d’Argento come miglior attore esordiente tre anni prima per il sentimentale “Vanità” diretto da Giorgio Pàstina: è lui il nome di punta della produzione e certamente quello più pagato; seguono tre comici di più lungo corso, due dei quali, Billi e Riva, formano una coppia, e per arrivare al nome di Tognazzi bisogna andare oltre il titolo per trovarlo staccato sugli altri comprimari.

La coppia di comici, che non si erano mai incontrati in palcoscenico, funziona bene, così come la coppia è funzionale a un film che nel suo animo è corale; ma proprio in questa coralità il duo Chiari-Tognazzi perde forza perché le situazioni in cui vengono messi – due amici innamorati della stessa donna, che bonariamente litigano e si fanno i dispetti – vivono di battute fiacche e i due comici mancano di quell’affiatamento e anche di quella faccia tosta che li avrebbe potuti portare oltre il copione scritto, e cedono il passo a vecchie volpi che sul set fanno quello che gli pare: la più matura coppia Billi e Riva, Mario Billi e Riccardo Riva, già separatamente artisti di rivista che insieme formarono una coppia comica di grande successo radiofonico; c’è poi il cantant’attore Carlo Campanini che nel ruolo del burbero (si fa per dire) sergente del battaglione dei coscritti alla leva fa davvero di tutto e di più inventando per il suo personaggio un’interminabile sequela di strafalcioni linguistici per una comicità oggi vecchia ma che aveva senso all’epoca, quando l’Italia era ancora una nazione dove l’analfabetismo totale sfiorava il 15% della popolazione con l’eccezione della Sardegna che arrivava quasi al 70%, in un contesto dove non esisteva ancora la scuola dell’obbligo, un progetto di riforma che nel dopoguerra si era arenato per le ostruzioni degli associazionismi di professori e maestri, e solo nella seconda metà degli anni ’50 maturò la consapevolezza sociale, e di riflesso politica, della necessità di formare culturalmente nuove generazioni nell’ottica di uno sviluppo economico che porterà al boom degli anni ’60, con classi scolastiche anche di quaranta alunni. Dunque, in quel contesto di ignoranza diffusa, le gag con strafalcioni a raffica erano divertenti perché esasperazione di un’esperienza collettiva reale ma oggi, se non si contestualizza quel tipo di comicità, può risultare stucchevole, come davvero stucchevole è tutta la prima parte del film con i qui pro quo dei due brillanti amici che devono cedere il passo al belloccio di turno, con i rimbrotti familiari alla brava ragazza da molti contesa, e la vita di caserma dove le battute militaresche scritte a tavolino lasciano il tempo che trovano. Resta l’incontro sul set di artisti che diverranno amici e continueranno a divertirsi e a divertire in coppie stagionali, come quelle formate in tv da Walter Chiari e Carlo Campanini o dello stesso con un Ugo Tognazzi in libera uscita dalla solida coppia formata con Raimondo Vianello.

Il tenore Ferruccio Tagliavini, del quale apprezzo più la cravatta che le doti canore

Il film prende il volo nella seconda parte, quando il battaglione di allegri commilitoni che si erano autonominati “I Cadetti di Guascogna” in omaggio alla note canzone che canticchiano mentre marciano, per una serie di eventi che ha una punta di diamante che dirò, organizzano un loro spettacolo di varietà per salvare dalla bancarotta la compagnia di professionisti che era incorsa in un incidente – e qui il film diventa veramente divertente perché porta sullo schermo, allora come oggi, uno spaccato degli spettacoli di varietà che allora non erano frequentati dalle grandi masse che invece si potevano permettere il prezzo del biglietto del cinema, e che oggi sono documento di una forma di spettacolo che non esiste più. A coronare il trionfo della compagnia amatoriale dei militari arriva nientemeno che il grande tenore, come dice il manifesto, Ferruccio Tagliavini, che già era stato protagonista al cinema con “Voglio vivere così” sempre diretto da Mario Mattoli, proseguendo sempre da protagonista con una serie di sette musicarelli; il tenore all’epoca formò insieme a Tito Schipa e Beniamino Gigli un trio fra i più noti, ma non ci fu nessun impresario a metterli insieme come accadde alla fine del Novecento coi “Tre Tenori” Placido Domingo, José Carreras e Luciano Pavarotti. Insieme a lui si esibisce nell’improvvisata rivista il suo amico pianista classico Luciano Sangiorgi, meno noto e dunque non in cartellone. E il lieto fine è servito.

E veniamo alla promessa punta di diamante. Nell’imminenza dell’organizzazione della serata evento, Riccardo Billi che interpreta un militare che già fu artista di varietà, raggira il padre della bella figliola al centro della contesa sentimentale, spacciandosi per Anna Magnani in una riuscitissima divertentissima imitazione, un siparietto messo nel film per la sua specificità, con battute fulminanti, come quando il raggirato, insolentito dalla donna che però gli sembrava la sua amata Nannarella, dice fra sé: “Ma guarda che screanzata!… SCREANZATA?… Ma allora è LEI!” e più avanti la finta Magnani, a una parolaccia che a lui sfugge, si schernisce: “Ma io ce campo co ‘e parolacce!”. Anna Magnani, coetanea di Riccardo Billi, quello stesso 1950 sarebbe andata nelle sale col controverso “Vulcano” diretta da William Dieterle in risposta a “Stromboli” dove il suo recente ex Roberto Rossellini dirigeva la sua nuova fiamma Ingrid Bergman, dando vita a quella che dalla stampa venne definita “la guerra dei vulcani”. Ed era già una stella di prima grandezza, basta ricordare fra i suoi titoli “L’onorevole Angelina” di Luigi Zampa e “Assunta Spina” dello stesso Mario Mattoli, tanto da meritarsi un’imitazione, che insieme è omaggio e sberleffo.

E infine Carlo Croccolo, debuttante 23enne che in quel 1950 iniziò alla grande partecipando a un’altra cinquina di film e girandone addirittura 12 l’anno dopo. A mio avviso il suo debutto è quello meglio riuscito, perché non fa parte di una coppia affiatata, Billi e Riva, né è accoppiato per l’occasione, Chiari e Tognazzi, ma è un solista che riesce a spiccare sui tanti commilitoni con la sua interpretazione del soldato Pinozzo, tontolone del nord Italia a cui lui, napoletano verace, dà un convincente accento che sembra veneto ma viene poi detto torinese, e vabbè, un personaggio così ben riuscito che lui lo conserverà nel suo repertorio di macchiette. Se alla quantità avesse preferito la qualità avrebbe probabilmente fatto un altro tipo di carriera perché aveva i numeri giusti, ma è andata così, ha fatto da spalla e supporto a Totò, ha doppiato Oliver Hardy dopo che Alberto Sordi ha lasciato l’impegno, e quando ci fu necessità doppiò addirittura entrambi i personaggi della coppia comica Stanlio e Ollio.

Il resto del cast. Nel ruolo del giovane militare bello che ruba la bella alla coppia dei giovani comici effettivamente meno belli, c’è Gianni Musy accreditato col nome d’arte Gianni Glori, attore il cui viso diverrà subito più scavato riservandogli ruoli da antagonista, come Tognazzi lo impiegò nella sua prima regia “Il mantenuto”. La ragazza contesa è la graziosa Fulvia Mammi che non sfondando al cinema ha recitato in teatro e in tv e si è dedicata al doppiaggio e all’insegnamento; il padre e la zia sono i caratteristi Virgilio Riento, che è la vittima della finta Magnani, e Ada Dondini. Nel ruolo della soubrette al centro di un equivoco c’è Diana Dei, nella vita inseparabile compagna di Mario Riva. Fra i commilitoni troviamo il recentemente scomparso Enzo Garinei e, non accreditati, nonostante i ruoli sostanziosi, ci sono Aldo Giuffrè e Arnoldo Foà come militari in carriera. L’attore e regista Mario Landi scrisse su “Film d’oggi”: “Purtroppo l’ovvietà delle battute e delle situazioni non ha permesso ai migliori, Chiari e Tognazzi, di apparire a fuoco e così tutto il sostegno comico della vicenda si appoggia alla dozzinale disinvoltura di Billi e Riva.” Landi era un intellettuale laureato in giurisprudenza che aveva frequentato l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, che fra il 1954-59 dirigerà in tv la coppia Tognazzi-Vianello, e il suo giudizio, benché poco generoso con la coppia dei più anziani comici, fotografa una verità. Il film fu un clamoroso successo che diede a Billi e Riva nuovo fulgore.