Archivi categoria: E PER LA PRIMA VOLTA SULLO SCHERMO…

Gioventù bruciata – e per la prima volta sullo schermo Dennis Hopper

Appena due anni prima, nel 1953, Michelangelo Antonioni aveva composto il suo film a episodi “I vinti” ispirandosi a fatti di cronaca, un film rigorosamente specchio della realtà nell’intenzione dell’autore, ma poco apprezzato da pubblico e critica che solitamente amano essere solleticati con prodotti più accattivanti; là Antonioni parlava di “generazione bruciata” ed era un concetto che girava nell’aria se due anni dopo, appunto, i distributori italiani intitolarono “Gioventù bruciata” il film che nell’originale è “Rebel Without a Cause” il cui titolo rimanda al libro che lo psichiatra Robert Lidner aveva pubblicato nel ’44, “Ribelle senza causa: analisi di uno psicopatico criminale” in cui studiava lo psicopatico come qualcuno “incapace di compiere sforzi per il bene altrui”, non empatico diremmo oggi, riferendosi al caso reale di un ragazzo di nome Harold allora detenuto in Pennsylvania. La Warner Bros. aveva subito acquisito i diritti per svilupparne un film che nel corso degli anni e delle riscritture aveva alla fine una narrazione che più nulla conservava del libro se non il titolo, e il progetto finì momentaneamente in un cassetto. Ma l’argomento “giovani ribelli” era nell’aria e furono messi in cantiere vari progetti fra cui spiccarono in quella prima metà degli anni ’50 “Il selvaggio” con Marlon Brando diretto dall’ungherese László Benedek e “Il seme della violenza” con Glenn Ford diretto da Richard Brooks. Così Nicholas Ray, attento agli umori del botteghino, rispolverò il suo soggetto la cui sceneggiatura conclusiva la firmò Stewart Stern qui alla sua prima prova importante: era amico di James Dean e in qualche modo veicolò la sua scrittura attorno alla figura del giovane attore emergente, chiamando James-Jimmy il suo personaggio. Stern due anni dopo l’improvvisa morte di Dean scrisse il documentario “La storia di James Dean” diretto da un giovane Robert Altman già sceneggiatore per la tv ma non ancora regista cinematografico.

Primo giorno di lettura della sceneggiatura. In senso orario da sinistra in basso: di spalle dietro al paralume Nicholas Ray e Stewart Stern, poi James Dean con gli occhiali (era fortemente miope), accanto lui un uomo non identificato, poi l’attore Jim Backus e Natalie Wood. Saltando un uomo e una donna, con la camicia a quadri Sal Mineo.

Il film di Ray si distingue dagli altri perché per la prima volta esamina il contesto dei giovani ribelli non più come espressione delle classi disagiate ma anche all’interno dell’alta borghesia, un contesto in cui gli adulti erano colpevoli quanto e forse più dei ragazzi. Con la scrittura di Stern si definirono le influenze chiavi del film: Ray auspicava un tono classico e senza tempo per la sua storia, guardando a “Romeo e Giulietta”“la migliore commedia scritta su giovani delinquenti” aveva detto, mentre lo sceneggiatore dal canto suo considerava il film una rilettura di Peter Pan; di fatto entrambi hanno attinto alle proprie vite, e Stern in particolare prese ispirazione dal rapporto conflittuale con i suoi genitori: “Ray aveva terribili rimorsi di coscienza su sé stesso come padre, e io ero terribilmente furioso con me stesso come figlio” ha ricordato lo sceneggiatore. Il resto del cast: Edward Platt è il poliziotto assai comprensivo, Jim Backus, Ann Doran e la veterana Virginia Bissac sono i genitori e la nonna del protagonista; William Hopper e Rochelle Hudson sono i genitori della ragazza; Marietta Candy è la mamie, e Corey Allen è il capo dei “bravacci” che sfida il protagonista nella corsa mortale; nel gruppo debutta Dennis Hopper.

Mentre il film era in scrittura, nel 1947 venne convocato negli studios il 23enne Marlon Brando, già giovane ribelle emergente nelle produzioni teatrali, a cui furono date alcune pagine di una sceneggiatura incompleta per sostenere un provino col regista, al quale bastarono solo cinque minuti per decidere che il ruolo sarebbe andato a lui, facendolo debuttare sul grande schermo; senonché, non essendoci ancora una vera sceneggiatura completa da valutare, il giovanotto che aveva già le idee molto chiare preferì continuare a fare teatro e quell’anno trionfò in “Un tram che si chiama Desiderio” di Tennessee Williams, dramma che avrebbe poi recitato al cinema nel suo secondo film del 1951: aveva debuttato l’anno prima con “Il mio corpo ti appartiene” di Fred Zinneman. Per gli appassionati di Brando quel provino è inserito in un’edizione speciale del DVD del 2006 di “A Streetcar Named Desire”. Quando nel 1950 fu conclusa la sceneggiatura definitiva Marlon Brando era ormai irraggiungibile, oltre a essere fuori parte per ragioni anagrafiche dato che aveva 31 anni e il personaggio ne aveva 16, e produzione e regista appuntarono la loro attenzione sul 24enne James Dean già star con “La valle dell’Eden” di Elia Kazan.

Natalie Wood già attrice bambina

La vera 17enne Natalie Wood (all’anagrafe Natal’ja Nikolaevna Zacharenko, figlia di immigrati ucraini) era all’epoca un’ex attrice bambina che con questo film rilanciò la sua carriera come adulta, benché avesse seriamente rischiato di non ottenere la parte perché secondo il regista aveva l’aria da brava ragazza per niente ribelle e, come ella stessa raccontò nella sua autobiografia, solo quando finì in ospedale per un incidente d’auto dopo una serata con gli amici e Nicholas Ray andò a trovarla – e c’è molto di romanzato a mio avviso in questo racconto: il dottore l’aveva apostrofata “dannata delinquente giovanile” e lei urlò subito al regista: “Hai sentito come mi ha chiamato, Nick?! Mi ha chiamato un dannata delinquente giovanile! Ora me la dai la parte?!”

Il 16enne Sal Mineo, figlio di immigrati siciliani (il padre Salvatore senior era un costruttore di bare) aveva debuttato lo stesso anno in “La rapina del secolo” interpretando Tony Curtis da ragazzo; anche sua sorella Sarina e i fratelli Michael e Victor erano stati avviati al palcoscenico dalla madre che evidentemente covava sogni artistici, e il ragazzino si era fatto notare nelle messa in scena del 1951 di “La rosa tatuata” di Tennessee Williams, dramma che l’autore aveva scritto per la nostra Anna Magnani che però declinò l’offerta perché non riteneva il suoi inglese abbastanza buono da potersi esibire in teatro, e avrebbe recitato il personaggio nel film di quattro anni dopo diretto da Daniel Mann; Sal continuò in teatro come principino nel musical “Il Re ed Io”, libretto di Oscar Hammerstein II e musiche di Richard Rodgers, con Yul Brinner nel ruolo del protagonista che avrebbe ripreso nel film diretto da Walter Lang nel 1956.

Nella prima inquadratura vediamo che Plato, il personaggio di Sal Mineo, portava i calzini scompagnati: nel sinistro senza scarpa ha un calzino rosso…
…nell’inquadratura successiva il piede sinistro col calzino rosso ha la scarpa ed è il destro col calzino blu ad essere scalzo.

Il film, venduto come un torbido dramma generazionale, riscosse grande successo in patria e all’estero, ma in realtà è un gran pasticcio pieno di superficialità e retorica che sfiorano il ridicolo, nonché di madornali errori. Comincia presentando i tre giovani ribelli che si incontrano a un posto di polizia: James Dean, fermato per ubriachezza molesta, rivela un tormentato rapporto con la famiglia ultra borghese, ma poi a casa si attacca un paio di volte alla bottiglia del latte, espediente narrativo per far capire al pubblico che in fondo è un bravo ragazzo; Natalie Wood, fermata perché coinvolta in una rissa dei suoi amici definiti dal doppiaggio italiano “bravacci” con memoria leopardiana, perché i bulli e il bullismo sono di là da venire; anche la ragazza è in piena crisi generazionale: essendo divenuta adolescente non è più la cocca di papà del quale cerca ancora imbarazzanti baci e abbracci, e il pover’uomo fatica a staccarsela di dosso per non sembrare un maniaco; Sal Mineo è stato abbandonato da entrambi i genitori alle cure della mamie negra e poverino fa il ribelle sparando agli animaletti. Psicologia da strapazzo e caratteri sbozzati con l’accetta, e la critica non fu tutta benevola: il film, altrove lodatissimo, fu tacciato di superficialità e rozzezza espressiva, i personaggi e le situazioni quasi da cartone animato, mentre di James Dean si arrivò a dire che aveva copiato lo stile recitativo di Marlon Brando con una malignità che pescava nei retroscena della vita segreta dei due…

Mineo ha un ruolo fortemente ambiguo: il suo personaggio si lega a quello del protagonista, spinto a parole da una forte ammirazione prossima all’idolatria, ma nei fatti sembra spinto da una forte attrazione omoerotica e Nicholas Ray preme il pedale in questo senso e in molte inquadrature, come del resto in tutta la sceneggiatura, il ragazzino è sempre lì a fare da terzo incomodo fra James Dean e Natalie Wood, quasi un ménage à trois.

In un’intervista del 1972, quattro anni prima della sua tragica morte, l’attore – che aveva già dichiarato la sua bisessualità (come compromesso per non dichiararsi pienamente omo) in un’epoca ancora fortemente omofoba – spiega che quel suo personaggio “è stato, in un certo senso, il primo adolescente gay nei film. Lo guardi ora, sai che aveva una cotta per James Dean. Lo guardi ora, e tutti sanno della bisessualità di Jimmy, quindi è come se lui avesse avuto una cotta per Natalie e me. Ergo, io dovevo essere fatto fuori”. Fu tristemente profeta: aveva 37 anni e stava interpretando in teatro il ruolo di un ladro omosessuale in “P.S. Your Cat Is Dead!” spettacolo che da San Francisco si stava spostando a Los Angeles: fu accoltellato al cuore mentre rientrava a casa dalla prova generale; l’immediata supposizione fu quella di un reato omofobo ma venne arrestato un fattorino di pizze a domicilio colpevole di diversi rapine nella zona il quale dichiarò di non sapere chi fosse la vittima; ma Mineo non era stato derubato quindi di suppose ancora che il delitto fosse maturato nell’ambiente della droga di cui l’attore era consumatore abituale; in ogni caso il movente restò insoluto.

Il film fu censurato nel Regno Unito e addirittura bandito in Nuova Zelanda, e Spagna dove poi uscì nel 1964. Ricevette tre nomination agli Oscar del 1956: miglior soggetto a Nicholas Ray e migliori non protagonisti Sal Mineo e Natalie Wood che però si aggiudicò il Golden Globe, mentre quell’anno James Dean ebbe una candidatura postuma – la prima nella storia degli Oscar – nella sezione protagonisti per il precedente dello stesso anno “La valle dell’Eden”. Nomination ai britannici BAFTA per il miglior film e il protagonista. Con tutte le sue imperfezioni il film è stato inserito fra i 100 migliori americani ed è diventato un cult grazie anche alla sua fama di film maledetto per la tragica fine dei suoi tre protagonisti: di Mineo ho detto; e come si sa Dean era morto in un incidente sulla sua Porsche 550 Spyder “Little Bastard” mentre finiva di girare il suo ultimo film “Il gigante” che uscì postumo, e anche quando uscì “Gioventù bruciata” nell’ottobre del ’55, Jimmy era già morto da un mese.

Natalie Wood morì 43enne in un incidente nautico che tutt’oggi rimane misterioso: all’epoca l’autopsia rivelò che l’attrice era morta annegata cadendo dal gommone del suo yacht, e nel suo sangue furono ritrovate importanti tracce di alcol e psicofarmaci; la sera prima aveva litigato col marito Robert Wagner perché lei flirtava col collega Christopher Walken, ospite sull’imbarcazione, col quale lei stava girando il fantascientifico “Brainstorm” diretto da Douglas Trumbull e uscito postumo; diverse circostanze e dettagli fecero pensare che si trattasse di uxoricidio passionale, e le indagini sono state riaperte un paio di volte in anni più recenti però senza mai giungere a ulteriori risultati specifici. Nel 2004 Peter Bogdanovich diresse la miniserie TV “Il mistero di Natalie Wood”.

Appena finite le riprese del film Dean, Mineo e il debuttante Dennis Hopper saranno di nuovo scritturati per “Il gigante”. Hopper, benché in ruoli secondari si fece notare come ribelle e come tale continuò per qualche anno, passando per la factory di Andy Warhol e partecipando a un suo filmetto sperimentale, prima di posare per una delle sue opere photo-pop. Hopper aveva davvero un animo da ribelle, da ribelle secondo la borghesissima morale dell’epoca, e per il breve periodo hippie che percorse gli anni ’60 ne fu esponente, prima di debuttare in regia con “Easy Rider” nel 1969 in cui esprime proprio quella cultura, controcorrente e assolutamente pacifista.

E ora le chiacchiere e i pettegolezzi. Nel 2016 è stato pubblicato il libro, scandalistico sin dallo stile della copertina, “James Dean: Tomorrow Never Come”, scritto da Darwin Porter e Danforth Prince, entrambi abitualmente scrittori di libri e guide per viaggiatori che qui pare abbiano tentato il salto “Hot, Unauthorized, and Unapologetic!” nel mondo delle biografie più o meno bollenti, non autorizzate e men che meno apologetiche. Nel libro parla a ruota libera un vecchio amico di Dean, Stanley Haggart, altro autore di libri di viaggi e vacanze, che ha riferito che Jimmy Dean aveva incontrato per la prima volta il suo idolo Marlon Brando allorché quello era andato a New York perché curioso di sentirlo durante un incontro col pubblico e la stampa. I due si incrociarono per pochi istanti, sufficienti perché Jimmy dichiarasse a Marlon la sua grande ammirazione e anche il suo amore, e gratificato da tanta attenzione Marlon rispose baciandolo sulla bocca: fu l’inizio di una relazione bollente dai risvolti sadomaso col più anziano e macho che si divertiva a manipolare e umiliare il più giovane e fragile, usandolo come oggetto sessuale, e pare anche che gli spegnesse addosso le cicche di sigarette, e più Jimmy gli mostrava di aver perso completamente la testa, più Marlon lo umiliava in un cortocircuito di omofobia all’interno di un rapporto omosessuale. “Avevo l’impressione che Jimmy avesse una relazione da gatto e topo con Brando, Brando era il gatto, ovviamente. Sembrava giocare con Jimmy per divertimento, lo usava sadicamente e Jimmy lo seguiva come un cane, con la lingua fuori” ha rivelato Haggart che ha aggiunto che Brando costringeva Dean a fare da spettatore passivo mentre lui se la spassava con altri, oppure lo lasciava “come un cucciolo di cane” ad aspettare fuori dalla porta che lui si decidesse a farlo entrare. Marlon amava solo sé stesso: “Mi comandava sempre mentre facevamo l’amore” confessava Jimmy agli amici. Nel libro parla anche il compositore Alec Wilder che fu amico di entrambi gli attori: “Erano sicuramente una coppia. Ma si potrebbe dire che la ‘fedeltà sessuale’ non facesse parte del loro vocabolario”. In età matura Brando ha dichiarato: “Come un gran numero di uomini, ho avuto esperienze gay e non me ne vergogno. Non ho mai prestato molta attenzione a ciò che la gente pensa di me”.

Brando mostra il dito medio ai fotografi che lo immortalano accanto a Dean.

La stella di James Dean brillò con tre soli film in un solo anno e la sua morte tragica e improvvisa contribuì a creare il suo mito fra i giovani, e anche fra i meno giovani, che all’epoca non volevano sentir parlare di omosessualità. Jonathan Gilmore, ex attore bambino diventato giornalista scandalistico, fu il primo a parlare pubblicamente dell’omosessualità di Jimmy nel suo libro “The Real James Dean” ma nessuno gli credette e anzi fu etichettato come uno sporco profanatore di tombe. La giovane sfortunata star ebbe un solo amore femminile: l’italiana Anna Maria Pierangeli, adottata a Hollywood come Pier Angeli, la quale aveva avuto un affaire sentimentale col collega Kirk Douglas incontrato sul set dell’episodio “Equilibrio” nel film a episodi “Storia di tre amori”.

I due, disadattati ognuno a suo modo, si incontrarono nell’estate del 1954 mentre lei stava girando “Il calice d’argento” nel set della Warner accanto a quello dove lui girava “La valle dell’Eden”. Elia Kazan, regista di lui, dichiarò in un’autobiografia di averli sentiti fare l’amore nel camerino di lui. Lei, emigrata a Hollywood, non si era ancora del tutto integrata; lui era di suo fragile e disadattato, in cerca di un amore assoluto che sapesse accoglierlo con tutte le sue imperfezioni: “Sono un essere malvagio, altrimenti mia madre non sarebbe morta (era morta di cancro all’utero quando lui aveva 9 anni e il padre lo aveva mandato a vivere presso parenti) e mio padre non m’avrebbe abbandonato” aveva confessato a un sacerdote che poi, tanto per cambiare, si era approfittato sessualmente di lui. Jimmy e Pier si intesero subito, e subito lui avrebbe voluto sposarla. Ma la madre di lei, cattolicissima, si oppose perché lui era di famiglia quacchera, oltre a tutte le altre chiacchiere di corridoio; la rigidissima signora, che metteva bocca su tutto nella vita della figlia, avrebbe voluto invece accasarla col macho Marlon Brando, ignorando le intime digressioni del divo. Come fu, come non fu, alcuni mesi dopo lei sposò il cantant’attore italo-americano Vic Damone, e la rottura improvvisa che seguì all’improvviso matrimonio, contribuirono ad acuire il senso di auto distruzione dell’attore, che finì come finì: fra i documenti personali trovati nel cruscotto dell’auto c’era un foglio con la formula matrimoniale e sopra, scritto a penna, il nome di Anna Maria Pierangeli. Alla morte di lui, lei cadde in una profonda depressione tanto che fu ricoverata in una clinica in Italia e per lei seguì una vita sentimentale fatta di fallimenti, così come la carriera andò via via in discesa. Morì suicida a 39 anni per overdose da psicofarmaci, quindici anni dopo la morte di lui. Subito dopo la sua morte venne ritrovata una sua lettera destinata a James Dean che si concludeva: “A te, mio unico, grande amore”.

Oggi diventa illuminante ciò che Jimmy aveva detto di sé: “Essere un attore è la cosa più solitaria del mondo. Sei completamente da solo con la tua concentrazione e con la tua immaginazione, e quello è tutto ciò che hai… Credo ci sia una sola forma di grandezza per l’uomo. Se un uomo può colmare il vuoto tra la vita e la morte. Voglio dire, se riesce a vivere anche dopo che è morto, allora forse quello era un grand’uomo. Per me l’unico successo, l’unica grandezza, è l’immortalità”. 

La Porsche 550 Spyder sulla quale Dean perse la vita fu prodotta fra il 1953 e il 1957, e fu proprio lui a soprannominarla affettuosamente “Little Bastard” per le sue performance. Inizialmente fu impiegata dalla Porsche nelle corse professionali come Le Mans e poi con alcune modifiche fu proposta agli acquirenti privati, quei ragazzacci come James Dean o Steve McQueen in cerca del brivido delle corse più o meno legali su strada. La Warner Bros. aveva espressamente vietato all’attore sotto contratto, che amava anche scorrazzare in moto, di fare corse: aveva appena finito di girare “Gioventù bruciata” era già impegnato sul set di “Il gigante” – ma Dean disattese il divieto. George Barris, il suo meccanico, si incaricò di recuperare la vettura gravemente danneggiata e mentre veniva caricata su un rimorchio un sostegno si spezzò e finì per fratturare l’anca e una gamba a un meccanico: comincia lì la sinistra ma affascinante fama di auto maledetta intorno alla quale sorsero chiacchiere e leggende, ma alcuni fatti sono reali, riportati dalla stampa con tanto di nomi e cognomi. Barris aveva tenuto in garage telaio e carrozzeria rivendendo alcuni pezzi. Il motore venne acquistato da un altro di quei piloti dilettanti in cerca di fama ed emozioni, e ne ebbe a sufficienza quando durante una gara perse il controllo dell’auto e finì per travolgere e uccidere un commissario tecnico e ferire un medico. Un altro pilota dilettante montò un semiasse della Little Bastard e finì coinvolto in un gravissimo incidente; un altro ancora, che acquistò gli pneumatici rischiò di perdere la vita. Pare che addirittura un ragazzino avesse tentato di rubare un pezzo dell’auto dal garage di Barris ma col telaio si tagliò un braccio in modo così da grave da dover essere amputato, storia non documentata dai giornali quest’ultima, ma le vere storie raccapriccianti continuarono: la “bastardina” fu utilizzata per una campagna itinerante di sensibilizzazione contro la velocità: pagando un biglietto si poteva salire sull’auto accartocciata, dove un cartello con la scritta “questo incidente poteva essere evitato” fungeva da ulteriore scoraggiamento; ma giunta a Sacramento, il telaio dell’auto cedette e fracassò l’anca di un visitatore. Poi, durante la trasferta verso la tappa successiva, il camion che la trasportava venne tamponato, i portelloni si aprirono e la Porsche scivolò fuori uccidendo un uomo a bordo di un’altra auto. Ma non finisce qui: giunta a New Orleans, in seguito alla rottura della pedana di sostegno l’auto si spaccò in undici pezzi: ce n’era abbastanza e terrorizzati gli addetti ai lavori decisero di rispedire i rottami a Los Angeles tramite un mezzo più sicuro: il treno. E la macabra storia si conclude con un mistero: l’auto scomparve nel nulla durante il viaggio e non fu mai più ritrovata. Vennero anche ingaggiati degli investigatori privati e addirittura fu messa una taglia di un milione di dollari che molti cercarono di incassare con delle imitazioni, ma ancora oggi dove sia finita la Little Bastard rimane un mistero. Un mito macabro all’interno di un mito romantico.

Oh, mia bella Matrigna – Sabina Ciuffini protagonista

Correva l’anno 1976 e nel cinema italiano era in gran voga la commedia sexy inopinatamente inaugurata nel ’68 dal debuttante Salvatore Samperi col suo “Grazie zia” che era partito come film politico e rivoluzionario, seguito ideale di un altro debutto eccellente, il Marco Bellocchio di “I pugni in tasca”, ma che si è sedimentato nelle fantasie del pubblico e nella nostra storia del cinema come precursore di quel genere pruriginoso nel prolifico sottogenere della commedia sexy inter familiare che, tranne poche eccezioni di qualità fra le quali annotare i successivi impegni di Samperi, resta un genere assolutamente di serie B di cui questa bella matrigna è un esempio lampante.

Ne è protagonista indiscussa a cominciare dal manifesto e dai titoli quella Sabina Ciuffini che tutti gli italiani già conoscevano come garbata e spiritosa valletta di Mike Bongiorno a “Rischiatutto”: una valletta di nuovo genere, parlante e non più solo decorativa, una scelta produttiva che in pratica mandò in soffitta la figura della valletta e inaugurò quella della co-conduttrice, però sempre da affiancare alle più autorevoli (!) figure maschili, fino ai giorni nostri in cui a condurre un programma, ancorché sportivo, che siano o uomini o donne o di genere non più binario poco importa, vivaddio. Ma c’è di più sul piano sociale ed estetico: con Sabina Ciuffini, la Rai sdoganò nelle case degli italiani la scandalosa minigonna che però era già una realtà nelle strade e nella vita reale; mentre lei, la valletta parlante, come ragazza votata allo spettacolo, devota alle ciglia finte, era in assoluta controtendenza rispetto alle sue coetanee dell’epoca che litigavano in famiglia, anche per la minigonna, e facevano la rivoluzione: il divorzio era cosa recente, legalizzato nel 1970, e per l’aborto bisognava aspettare ancora un paio d’anni fino al 1978, anche anno funesto del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro e delle lotte armate di destra e sinistra, con le camionette dell’esercito schierate nelle strade di tutte le città a presidiare i luoghi del potere. Sul caso Moro sollecito l’attenzione al film di Marco Bellocchio “Esterno notte”, cinque ore divise in due film per le sale e in sei puntate per la Rai ancora disponibili su RaiPlay.

Ma in tivù, fra un carosello e l’altro, la vita è tutta un sogno; la Rai manda in onda l’esotico “Sandokan” e lo sceneggiato “I tre moschettieri” nell’ironica versione di Paolo Poli con sua sorella Lucia Poli, Marco Messeri e Milena Vukotic; per l’intrattenimento musicale il giovane cantautore Renato Zero si racconta in un documentario, e non fa scandalo perché la sua alterità è raccontata come espressione artistica; ma c’è anche Oriana Fallaci nel programma di approfondimento “Un fatto, come e perché” che interviene nel dibattito sull’aborto.

Tornando a Sabina Ciuffini, le cronache mondane raccontano che la graziosa figliola, che all’epoca della prima delle cinque edizioni di “Rischiatutto” aveva vent’anni, fosse stata notata da Mike Bongiorno in persona all’uscita del liceo Giulio Cesare di Roma, e verrebbe da chiedersi: ma davvero cotanto presentatore se ne stava fuori dai licei a spiare le ragazzine? In realtà già da una decina d’anni la ragazza frequentava i teatri di posa girando pubblicità per “Carosello” e certo s’era fatta strada e scavata la sua propria trincea fra gli studi e gli uffici della tentacolare tentatrice Rai, dove le belle ragazze così come i bei ragazzi sono sempre apprezzati e tenuti da conto. E bisogna anche mettere in conto che Sabina era figlia dell’attrice di una sola stagione Yvonne Giannini che annovera nel suo carnet tre soli film girati nel 1943, dei quattro diretti dal di lei padre il poliedrico Guglielmo Giannini, più giornalista e politico conservatore che cineasta; mentre il padre di Sabina, Augusto Ciuffini, era il pubblicitario che l’aveva introdotta nei caroselli: insomma, la fanciulla non era una debuttante assoluta, anche se per avere il ruolo dovette sottoporsi a un provino nel quale pare surclassò l’altra concorrente di rango Claudia Rivelli, sorella della più famosa Ornella Muti, che poi diverrà star dei fotoromanzi Lancio.

Per non farsi mancare niente, e dato che all’epoca pagavano un fottio di soldi mentre oggi tutte e tutti si spogliano gratis, Sabina nel 1974 si spogliò parzialmente per “Playboy”, dando sfogo alle segrete fantasie dei padri di famiglia e dei loro brufolosi figli maschi (le lesbiche non esistevano…) e dando vita a uno scandalo ad arte secondo il quale, disperata per quelle foto inopportune, querelò la rivista; ma fu solo un’ulteriore mossa pubblicitaria, della serie prima pecco e poi mi pento, dato che una querela non poteva stare in piedi essendoci un regolare contratto. E proprio perché voleva continuare a pentirsi di aver peccato, due anni dopo è protagonista di questo film dove da contratto mostra più che sulla rivista benché mai mostrando il pube, quello no. Rimarrà il suo unico ruolo da protagonista e in pratica anche il suo debutto cinematografico se non contiamo la partecipazione con piccolissimi ruoli non accreditati ad altri due precedenti film: il pruriginoso “I giovani tigri” ultimo film di Antonio Leonviola, e l’ecumenico “Tralci di una terra forte” di Giuseppe Rolando, sulla vita della suora Maria Domenica Mazzarello proclamata santa nel 1951. Dopo quest’esperienza, che curiosamente si dimenticherà di citare quando in tempi recenti le si è chiesto di ricordare la sua carriera, e anzi dichiarando di non aver mai fatto cinema per quello strano fenomeno psicologico della memoria selettiva. Da allora ha continuato a fare televisione diradando negli anni la sua presenza; oggi, bella signora 72enne scrive e, finalmente abbandonata la minigonna di lustrini, dà voce alle cause delle donne, meglio tardi che mai, sul suo blog qui sulla piattaforma WordPress unaqualunque.it che è scivolato sul generalista.

Il film, se visto senza considerare il contesto dell’epoca e i riferimenti ad altre realtà, è solo una cosetta senza senso da vedere mentre si stira o si pulisce la verdura, in cui saltano all’occhio, oltre ai corpi svelati di Sabina Ciuffini e di Gloria Piedimonte che ci regala anche il pube nel ruolo di un’amica che il figliastro usa per ingelosire la matrigna, salta all’occhio dicevo il modo in cui viene raccontato in quell’immaginario cinematografico patriarcale il ruolo della moglie giovane e bella: sfacciato motivo di vanto per l’attempato piacione, da non lasciare mai in casa da sola, non sia mai che senza uomo a prendersi cura di lei, la disgraziata non sappia neanche respirare. Nell’insieme questi filmetti o filmacci di serie B si pongono in controtendenza a tutto ciò che tenta di esprimere la società reale. E da contratto ogni tot di minuti c’è una scena di nudo o di seduzione e vediamo la povera Sabina in uno di questi siparietti indossare leziosamente della preziosa biancheria intima, che uno pensa che ci sarà una scena di sesso, e invece si veste solo per andare a lavorare, e con la faccia di quella che pensa “cosa mi tocca fare per la pagnotta”: zero erotismo. Per il resto fa quello che può: non sappiamo se recita perché, nonostante sia abituata a parlare in pubblico, è doppiata da Vittoria Febbi, ma le sue espressioni sono a tratti più che convincenti, segno che la ragazza si è impegnata, anche se questo non significa nulla: esprimere col volto e poi con la parola sono due cose completamente diverse anche se complementari, e ancora oggi abbiamo nella generalista televisione italiana ormai a più reti, ma sempre attenta ai giovani talenti, vari esempi di interpreti piacenti che appena aprono bocca dio li perdoni.

Gianfranco De Angelis con Paola Pitti in un fotoromanzo Lancio

Il personaggio del figliastro comincia con degli spunti assai interessanti: soffre di un forte dilaniante complesso edipico ai limiti della psicopatia, ma poi nella sceneggiatura che il regista Guido Leoni ha scritto con suo fratello non c’è altro: manca il talento per fare di uno spunto una vera storia e sviluppano una pizza mal lievitata dove il tema portante è il pruriginoso che non prude affatto. Presta il volto a questo figlio-figliastro il belloccio Gianfranco De Angelis di due anni più giovane della Ciuffini, anche se nel film non vengono dichiarate le età dei personaggi; e specifico, presta il volto, perché anche lui è doppiato, dall’omonomo Manlio De Angelis con nessuna parentela, e presta il suo volto, simpatico e accattivante quanto basta, in una girandola di espressioni che nel gergo artistico si dice attori che fanno le facce, facce che il giovanotto ha imparato sui set dei fotoromanzi Lancio, attività che rimane quella più di successo in una carriera decisamente inconcludente: aveva cominciato con piccoli ruoli nel cinema e nella televisione, poi passando per i fotoromanzi si inventa anche cantante fino a incidere un brano che sarà una sigla di Radio Monte Carlo e partecipando nel 1980 anche al Festival di Sanremo dove fu subito eliminato, e per la cronaca vinse Totò Cutugno. Questo film rimane per l’interprete, interprete ma non attore, il suo gradino più alto perché, spiace dirlo, oltre alla faccia non c’è niente: il fisico che mostra è da mingherlino che non fa sognare le donne né può essere un modello per gli uomini; non ha la follia interpretativa di Lou Castel, non è neanche un ragazzino imberbe e malizioso come era di moda nei filmetti sexy familiari dell’epoca, tipo Giusva Fioravanti o Alessandro Momo, e per finire non sprizza testosterone da maschio alfa come il suo collega dei fotoromanzi Franco Gasparri che ebbe altre fortune al cinema col trittico di “Mark il poliziotto” ma anche altre sfortune con un grave incidente che gli troncò la carriera. De Angelis nei decenni si è arrabattato recitando anche a teatro e lavorando dietro le quinte nelle produzioni cinematografiche, dove è tornato sullo schermo nel già lontano 1994 con un ruolo secondario in un film secondario.

Nel terzetto del cast principale il francese Maurice Ronet (doppiato da Giuseppe Rinaldi) all’epoca glorioso attore ed ex giovane intellettuale tormentato nella cinematografia in patria, che qui cede il passo e indossa il parrucchino nel ruolo dell’improvvido marito-padre che lascia la mogliettina alle cure del simpaticamente perverso figliolo. Concludono l’esiguo cast: la già nominata Gloria Piedimonte, cantante showgirl e attrice di fotoromanzi, che deve la sua fama anche a Gianni Boncompagni che la mise nella sigla di Discoring, 1978; e nel ruolo della servetta giovane e piacente che però non sviluppa altri intrecci erotici, ed è un peccato perché nell’inconcludenza del film è un’occasione mancata, c’è la meteora Crippy Jocard, improbabile nome d’arte di Cristina Amodei, modella e attrice di una sola stagione. Una sola stagione anche per questo genere di film di sesso in famiglia, benché numerosi quanto ripetitivi.

E per la prima volta sullo schermo… Ugo Tognazzi, ma anche Carlo Croccolo

Il film completo

Il film viene oggi ricordato come il debutto cinematografico di Ugo Tognazzi e passa in secondo piano la notizia che fu anche il debutto di Carlo Croccolo: entrambi caratteristi secondo la vecchia classificazione di genere, ma il primo si accreditò come uno dei nostri divi nel trentennio 1960-1990, mentre il secondo restò in secondo piano, proprio come caratterista, seppur di lusso, e principalmente spalla e poi anche doppiatore di Totò quando il principe della risata divenne praticamente cieco e non riusciva più a leggere le battute in sala di doppiaggio, giacché i film non venivano girati in presa diretta. In seconda istanza fu anche il debutto sullo schermo della coppia radiofonica Billi e Riva, già attiva negli spettacoli di rivista e, separatamente, già attori cinematografici.

Il 28enne Tognazzi, che cinque anni prima aveva sfiorato il debutto da professionista accanto a Wanda Osiris, è già un affermato attore comico del varietà, un genere di spettacolo leggero oggi scomparso che, come dice il nome, era uno spettacolo di arte varia con numeri musicali eseguiti dal vivo da un’orchestrina, canzoni, balletti, scenette, imitazioni e quant’altro, condotti da un presentatore che di solito era anche il capocomico e con la presenza di almeno una soubrette, il cui compito era cantare e ballare ma soprattutto mettere in mostra centimetri di pelle nuda, come il resto del corpo di ballo.

Il varietà si era affermato in Italia alla fine degli anni ’30 come evoluzione dal café-chantant incorporando artisti di strada e anche circensi, fantasisti imitatori e facce toste d’ogni genere – come quelli che oggi si esibiscono sui social – i quali, andando in scena dovunque, dal rinomato teatro agli spazi aziendali ai cine-teatri agli angoli nei caffè – sulle prime francesizzavano i nomi degli interpreti per richiamarsi all’originale forma di spettacolo importata da oltralpe e creare un richiamo da vedette internazionale soprattutto alla soubrette, termine mutuato dal teatro brillante francese ottocentesco, che in quella lingua stava per servetta, ruolo teatrale malizioso e brillante, e proprio col termine brillante venne rinominata la soubrette dal nostro fascismo che aborriva i termini stranieri, e in quell’autarchia linguistica non mancarono gli adattamenti subretta e subrettina; nella nostra rivista era in realtà era la regina dello spettacolo, la più attesa dal rumoroso pubblico principalmente maschile, con entrate in scena spettacolari, costumi e trucco vistosi, andamento sinuoso e ancheggiante, atteggiamento fortemente seduttivo; un ruolo di cui la Osiris fu l’esponente più di spicco e anche l’ultima del suo genere, poiché proprio negli anni Cinquanta si affermò un nuovo tipo di soubrette, più moderna e meno appariscente, quasi da ragazza della porta accanto, professioniste che sapevano cantare ballare e recitare in modo assai più professionale: Delia Scala, Lauretta Masiero, Sandra Mondaini, Marisa Del Frate, ragazze che dalla morente rivista teatrale passarono alla nascente rivista televisiva.

Fra i vari numeri della rivista, oltre al presentatore che poteva anche essere un comico o un imitatore come pure un cantante, c’erano il finedicitore che del fine dicitore di testi classici faceva la parodia, il giocoliere o illusionista, i comici, solisti o in coppia, i balletti di fila spesso sgangherati ed eseguiti da ballerine seminude che fuori dal palcoscenico arrotondavano col mestiere più antico del mondo, fino alla specialità tutta italiana della macchietta, un genere che mischiava la canzone brillante e satirica al monologo comico: il termine definiva sia il genere che i personaggi, i quali erano sempre esasperazioni caricaturali di tipi come il guappo, lo sciupafemmine, la femminista (en travesti e dunque in chiave fortemente satirica) il politico o l’ignorante, maschere che esprimevano quasi sempre doppi sensi osceni ma anche riletture surreali e grottesche della società. Il varietà viveva anche dell’improvvisazione nata dallo scambio di battute, spesso salaci, fra gli artisti e il pubblico esigente e irriverente. Esempi di macchiette che al meglio dell’espressione del genere divennero famose, sono il Gastone di Ettore Petrolini e il Ciccio Formaggio di Nino Taranto, passando per il Felice Sciosciammocca di Eduardo Scarpetta che però divenne anche personaggio di commedie a tutto tondo e che Totò portò sugli schermi dei cinema. Nelle lezioni di recitazione si spiega che un personaggio ha tre dimensioni (le stesse su cui Luigi Pirandello imbastì la gran parte della sua produzione letteraria) ovvero: come il personaggio è, dunque il chi è, il come appare ovvero come esso si rappresenta o come viene percepito, e come si sviluppa nell’arco dell’azione scenica. La macchietta invece, come le maschere della commedia dell’arte, non ha profondità né sfaccettature: è piatta, uniforme e unidirezionale.

L’invenzione della macchietta è dovuta al napoletano Nicola Maldacea, un canzonettista fine ‘800 che introdusse all’interno della canzonetta dei momenti recitati per rafforzare la caricatura del personaggio: “Come un disegnatore, mi ripromettevo di dare al pubblico un’impressione immediata schizzando il tipo, segnandolo rapidamente, rendendone i tratti salienti. Da ciò l’origine della parola macchietta, che è propria dell’arte figurativa: schizzo frettoloso, che renda con poche pennellate un luogo o una persona in modo da darne un’impressione efficace con la massima spontaneità caricaturale.” da “Le memorie di Nicola Maldicea” pubblicate da Bideri nel 1933. A lui si deve l’invenzione della macchietta del viveur, ovvero il bello dalla testa vuota; e al massimo della sua fama interpretò macchiette scritte per lui, in anonimo, anche da Trilussa e Salvatore Di Giacomo. Macchietta, schizzo, sinonimo dell’inglese sketch.

Lo spettacolo di varietà, di natura ruspante, fu rinominato spettacolo di rivista quando ad organizzarlo furono veri impresari teatrali, con piglio professionale e dispendio di mezzi per scene e costumi oltre che con la scrittura di artisti di prima grandezza, in un contenitore che non era più una sequenza di numeri slegati ma aveva un filo conduttore e pertanto c’era anche un copione scritto, benché lo spazio per l’improvvisazione fosse sempre in campo. Altro genere di spettacolo che derivò dal varietà fu l’avanspettacolo, che in pratica era il fratello povero della rivista; esso si creò in risposta ai provvedimenti del regime fascista degli anni ’30, come gli sgravi fiscali per quei teatri che si convertivano in cinematografo nel segno dichiarato della modernità: ma l’intento non dichiarato era quello di togliere voce a un certo tipo di comicità, perché la comicità è (o era, e sempre dovrebbe essere) eversiva e libera da imposizioni – mentre il cinema, con le nascenti pellicole edulcorate dei telefoni bianchi e le produzioni dichiaratamente propagandistiche, era un perfetto megafono per l’ordine costituito.

Una compagnia di avanspettacolo sullo spazio antistante lo schermo cinematografico

L’avanspettacolo raccoglieva gli scarti delle compagnie di varietà allo sbando e trovò spazio, con assoluta povertà di mezzi, come intrattenimento per quel pubblico ancora più rumoroso e distratto che conveniva nella sala per assistere al film, anzi al filmo o alla filma, dato che la ricercata italianità fascista aborriva i termini che non finissero con una vocale perché di oscura matrice straniera; anche i nomi propri dovevano adattarsi a quella regola così che, fra i tanti, Renato Rascel divenne Rascele e Wanda Osiris divenne Osiri. La dura esperienza dell’avanspettacolo formò però artisti di prima grandezza come Totò e in generale grandi professionisti del palcoscenico. Il declino dell’avanspettacolo portò su quegli arrangiati spazi scenici donne sempre più denudate fino a introdurre definitivamente il numero dello spogliarello in concomitanza a un certo genere di produzioni cinematografiche che si stavano avviando verso il filone dei film sexy, poi soft-core e infine hard-core, trasformando definitivamente le vecchie sale cinematografiche di periferia in cinema porno. Mentre il più nobile fratello maggiore, il teatro di rivista, morì d’inedia con l’avvento della televisione nei cui spettacoli di varietà del sabato sera convennero i vari artisti; con il cinema, come in questo caso, che celebrava un genere di cui non si sapeva ancora che era un morto che cammina, e che oggi ritroviamo come documento di archeologia teatrale.

Questo film nasce, come l’anno prima “I pompieri di Viggiù”, dal successo di una canzonetta orecchiabile scritta da Armando Fragna, autore ricordato soprattutto per le colonne sonore dei film di Totò, che fu anche direttore d’orchestra per la Rai che allora era solo radio nazionale con diverse sedi sul territorio e diverse orchestre che facevano il giro delle sedi, le più note delle quali furono le orchestre dirette dai maestri Cinico Angelini, Pippo Barzizza, Lelio Luttazzi. L’orchestra del maestro Fragna aveva fra i suoi cantanti fissi Claudio Villa, il Quartetto Cetra e questa Clara Jaione per la cui voce brillante il maestro scrisse alcuni brani che divennero celebri. La televisione non esisteva ancora e la radio, nelle versioni più economiche, era ormai praticamente in ogni casa, dove era considerata un apparecchio lussuoso con la sua elegante struttura in legno, quando non nella più ricca radica, se non addirittura come mobiletto vero e proprio; un apparecchio che aveva già versioni più economiche in bakelite, una resina termoindurente che fu la mamma della plastica. Dunque, se una canzone arrivava al successo veniva mandata in onda per anni perché non era ancora l’epoca delle hit-parade e poi delle top-list che hanno contribuito a bruciare i brani prima in pochi mesi e infine in un paio di settimane. Ho un personale ricordo di mia madre che ancora canticchiava “I cadetti di Guascogna”, una canzonetta pacifista che parla di tre cadetti che, benché di Guascogna, territorio francese, vengono dalla Spagna e sono diretti a Bologna, solo per giocare sul suono GN, promettendo pace a amore a chi quella canzone canterà.

Enrico Viarisio e Anna Magnani in “Tempo Massimo”

Va da sé che il successo della canzone deve essere sfruttato anche per riempire le sale cinematografiche, allora era facile impresa, e il film viene scritto in quattro e quattr’otto da Vittorio Metz, umorista sceneggiatore e già autore di riviste, con l’ineffabile coppia Age e Scarpelli, ovvero Agenore Incrocci e Furio Scarpelli, e col prolificissimo eclettico Marcello Marchesi. Alla regia la mano sicura di Mario Mattoli, già impresario teatrale che ben conosceva la materia: con la sua compagnia “Spettacoli Za-Bum” aveva avuto la brillante intuizione di scritturare per la rivista dei già affermati attori di prosa, che dopo quell’esperienza passarono subito al cinema, e sono nomi come Vittorio De Sica, Alberto Sordi, Aldo Fabrizi, Anna Magnani ed Erminio Macario. Salto di genere che fece anche l’impresario Mattoli allorquando, poiché con la sua agenzia aveva cominciato anche a produrre film, all’improvvisa indisposizione del regista Carlo Ludovico Bragaglia debuttò come regista con “Tempo massimo” nel 1934, con un cast di attori che già aveva sotto contratto, protagonisti Vittorio De Sica e la cantante Milly (Carolina Mignone), sorella dell’attrice Mity (Gaetana Mignone) che era moglie del regista-produttore, e nel ruolo di una cameriera c’era anche la 26enne Anna Magnani al suo terzo film.

Ma torniamo a Ugo Tognazzi. Già attore comico e organizzatore di spettacoli di rivista amatoriali, alla fine della guerra, nel 1945 tenta la sorte e dalla sua Cremona va a Milano a esibirsi in un concorso per dilettanti, dove trionfa e da gran vincitore e ottiene la sua prima scrittura professionale in una compagnia di giro dove viene notato dall’entourage della Wandissima e subito scritturato per la prossima rivista della Osiris, contratto per il quale rompe il precedente pagando una pesante penale; poco male perché nell’attesa che il nuovo progetto prenda forma lui è comunque stipendiato, ma i tempi si allungano a dismisura e alla fine, nel marasma dell’immediato dopo guerra, l’impresario svanisce nel nulla e la compagnia, fin lì pagata, si scioglie senza neanche essersi artisticamente formata. Fu così che Ugo Tognazzi non lavorò con Wanda Osiris. Ma il giovane comico era ormai nel giro e viene scritturato per la rivista “Viva le donne” scritta da Marcello Marchesi per la soubrette Erika Sandri; e da lì in poi il successo del giovanotto è tutto in crescita e girerà l’Italia con le riviste di Erminio Macario e Lauretta Masiero. A quel punto il passaggio al cinema è solo questione di tempo e di opportunità, e questa occasione arriva con questa banda scarruffata di cadetti militari dove viene messo in coppia con uno che viene dagli stessi palcoscenici del varietà, anch’egli trionfatore al concorso milanese per amatoriali, ma benché più giovane di Ugo di due anni, Walter Chiari ha già cinque film all’attivo e un Nastro d’Argento come miglior attore esordiente tre anni prima per il sentimentale “Vanità” diretto da Giorgio Pàstina: è lui il nome di punta della produzione e certamente quello più pagato; seguono tre comici di più lungo corso, due dei quali, Billi e Riva, formano una coppia, e per arrivare al nome di Tognazzi bisogna andare oltre il titolo per trovarlo staccato sugli altri comprimari.

La coppia di comici, che non si erano mai incontrati in palcoscenico, funziona bene, così come la coppia è funzionale a un film che nel suo animo è corale; ma proprio in questa coralità il duo Chiari-Tognazzi perde forza perché le situazioni in cui vengono messi – due amici innamorati della stessa donna, che bonariamente litigano e si fanno i dispetti – vivono di battute fiacche e i due comici mancano di quell’affiatamento e anche di quella faccia tosta che li avrebbe potuti portare oltre il copione scritto, e cedono il passo a vecchie volpi che sul set fanno quello che gli pare: la più matura coppia Billi e Riva, Mario Billi e Riccardo Riva, già separatamente artisti di rivista che insieme formarono una coppia comica di grande successo radiofonico; c’è poi il cantant’attore Carlo Campanini che nel ruolo del burbero (si fa per dire) sergente del battaglione dei coscritti alla leva fa davvero di tutto e di più inventando per il suo personaggio un’interminabile sequela di strafalcioni linguistici per una comicità oggi vecchia ma che aveva senso all’epoca, quando l’Italia era ancora una nazione dove l’analfabetismo totale sfiorava il 15% della popolazione con l’eccezione della Sardegna che arrivava quasi al 70%, in un contesto dove non esisteva ancora la scuola dell’obbligo, un progetto di riforma che nel dopoguerra si era arenato per le ostruzioni degli associazionismi di professori e maestri, e solo nella seconda metà degli anni ’50 maturò la consapevolezza sociale, e di riflesso politica, della necessità di formare culturalmente nuove generazioni nell’ottica di uno sviluppo economico che porterà al boom degli anni ’60, con classi scolastiche anche di quaranta alunni. Dunque, in quel contesto di ignoranza diffusa, le gag con strafalcioni a raffica erano divertenti perché esasperazione di un’esperienza collettiva reale ma oggi, se non si contestualizza quel tipo di comicità, può risultare stucchevole, come davvero stucchevole è tutta la prima parte del film con i qui pro quo dei due brillanti amici che devono cedere il passo al belloccio di turno, con i rimbrotti familiari alla brava ragazza da molti contesa, e la vita di caserma dove le battute militaresche scritte a tavolino lasciano il tempo che trovano. Resta l’incontro sul set di artisti che diverranno amici e continueranno a divertirsi e a divertire in coppie stagionali, come quelle formate in tv da Walter Chiari e Carlo Campanini o dello stesso con un Ugo Tognazzi in libera uscita dalla solida coppia formata con Raimondo Vianello.

Il tenore Ferruccio Tagliavini, del quale apprezzo più la cravatta che le doti canore

Il film prende il volo nella seconda parte, quando il battaglione di allegri commilitoni che si erano autonominati “I Cadetti di Guascogna” in omaggio alla note canzone che canticchiano mentre marciano, per una serie di eventi che ha una punta di diamante che dirò, organizzano un loro spettacolo di varietà per salvare dalla bancarotta la compagnia di professionisti che era incorsa in un incidente – e qui il film diventa veramente divertente perché porta sullo schermo, allora come oggi, uno spaccato degli spettacoli di varietà che allora non erano frequentati dalle grandi masse che invece si potevano permettere il prezzo del biglietto del cinema, e che oggi sono documento di una forma di spettacolo che non esiste più. A coronare il trionfo della compagnia amatoriale dei militari arriva nientemeno che il grande tenore, come dice il manifesto, Ferruccio Tagliavini, che già era stato protagonista al cinema con “Voglio vivere così” sempre diretto da Mario Mattoli, proseguendo sempre da protagonista con una serie di sette musicarelli; il tenore all’epoca formò insieme a Tito Schipa e Beniamino Gigli un trio fra i più noti, ma non ci fu nessun impresario a metterli insieme come accadde alla fine del Novecento coi “Tre Tenori” Placido Domingo, José Carreras e Luciano Pavarotti. Insieme a lui si esibisce nell’improvvisata rivista il suo amico pianista classico Luciano Sangiorgi, meno noto e dunque non in cartellone. E il lieto fine è servito.

E veniamo alla promessa punta di diamante. Nell’imminenza dell’organizzazione della serata evento, Riccardo Billi che interpreta un militare che già fu artista di varietà, raggira il padre della bella figliola al centro della contesa sentimentale, spacciandosi per Anna Magnani in una riuscitissima divertentissima imitazione, un siparietto messo nel film per la sua specificità, con battute fulminanti, come quando il raggirato, insolentito dalla donna che però gli sembrava la sua amata Nannarella, dice fra sé: “Ma guarda che screanzata!… SCREANZATA?… Ma allora è LEI!” e più avanti la finta Magnani, a una parolaccia che a lui sfugge, si schernisce: “Ma io ce campo co ‘e parolacce!”. Anna Magnani, coetanea di Riccardo Billi, quello stesso 1950 sarebbe andata nelle sale col controverso “Vulcano” diretta da William Dieterle in risposta a “Stromboli” dove il suo recente ex Roberto Rossellini dirigeva la sua nuova fiamma Ingrid Bergman, dando vita a quella che dalla stampa venne definita “la guerra dei vulcani”. Ed era già una stella di prima grandezza, basta ricordare fra i suoi titoli “L’onorevole Angelina” di Luigi Zampa e “Assunta Spina” dello stesso Mario Mattoli, tanto da meritarsi un’imitazione, che insieme è omaggio e sberleffo.

E infine Carlo Croccolo, debuttante 23enne che in quel 1950 iniziò alla grande partecipando a un’altra cinquina di film e girandone addirittura 12 l’anno dopo. A mio avviso il suo debutto è quello meglio riuscito, perché non fa parte di una coppia affiatata, Billi e Riva, né è accoppiato per l’occasione, Chiari e Tognazzi, ma è un solista che riesce a spiccare sui tanti commilitoni con la sua interpretazione del soldato Pinozzo, tontolone del nord Italia a cui lui, napoletano verace, dà un convincente accento che sembra veneto ma viene poi detto torinese, e vabbè, un personaggio così ben riuscito che lui lo conserverà nel suo repertorio di macchiette. Se alla quantità avesse preferito la qualità avrebbe probabilmente fatto un altro tipo di carriera perché aveva i numeri giusti, ma è andata così, ha fatto da spalla e supporto a Totò, ha doppiato Oliver Hardy dopo che Alberto Sordi ha lasciato l’impegno, e quando ci fu necessità doppiò addirittura entrambi i personaggi della coppia comica Stanlio e Ollio.

Il resto del cast. Nel ruolo del giovane militare bello che ruba la bella alla coppia dei giovani comici effettivamente meno belli, c’è Gianni Musy accreditato col nome d’arte Gianni Glori, attore il cui viso diverrà subito più scavato riservandogli ruoli da antagonista, come Tognazzi lo impiegò nella sua prima regia “Il mantenuto”. La ragazza contesa è la graziosa Fulvia Mammi che non sfondando al cinema ha recitato in teatro e in tv e si è dedicata al doppiaggio e all’insegnamento; il padre e la zia sono i caratteristi Virgilio Riento, che è la vittima della finta Magnani, e Ada Dondini. Nel ruolo della soubrette al centro di un equivoco c’è Diana Dei, nella vita inseparabile compagna di Mario Riva. Fra i commilitoni troviamo il recentemente scomparso Enzo Garinei e, non accreditati, nonostante i ruoli sostanziosi, ci sono Aldo Giuffrè e Arnoldo Foà come militari in carriera. L’attore e regista Mario Landi scrisse su “Film d’oggi”: “Purtroppo l’ovvietà delle battute e delle situazioni non ha permesso ai migliori, Chiari e Tognazzi, di apparire a fuoco e così tutto il sostegno comico della vicenda si appoggia alla dozzinale disinvoltura di Billi e Riva.” Landi era un intellettuale laureato in giurisprudenza che aveva frequentato l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, che fra il 1954-59 dirigerà in tv la coppia Tognazzi-Vianello, e il suo giudizio, benché poco generoso con la coppia dei più anziani comici, fotografa una verità. Il film fu un clamoroso successo che diede a Billi e Riva nuovo fulgore.

E per la prima volta sullo schermo… Zeudi Araya

Oltre che per ricordare un altro debutto cinematografico, ha senso parlare di questo film del 1972 non per il film in sé, che è un prodotto di genere, ma per quel genere che oggi non esiste più: l’erotico, che insieme al sexy conducevano ai cinema, meglio ancora se di terza visione, vagonate di sbarbatelli allupati e adulti nostalgici e/o sognatori e/o guardoni. Mentre il sexy si esprimeva meglio nella commedia scanzonata e spesso becera delle poliziotte delle supplenti e delle infermiere che puntualmente tornavano sugli schermi in tutte le combinazioni possibili mostrando delle belle di turno quanto più possibile – l’erotico si esprimeva sempre in trame drammatiche, spesso pensose ed esistenziali, anche con pretese intellettuali, e oltre a mostrare le grazie delle belle di turno intessevano atmosfere dense di tensione erotica, appunto, dove il vedo-non-vedo è più importante del vedo-tutto. Erotico e sexy che furono l’anticamera del porno, col dilagare del quale proprio in quegli anni, andarono via via scemando fra le produzioni nazionali, e mentre alcune attrici alla Edwige Fenech continuarono nel filone sexy che s’insinuò con successo nella commedia all’italiana, altre, come Lilli Carati ad esempio, scivolarono irrimediabilmente nel porno, e come ebbe a dichiarare lei stessa: solo perché aveva bisogno di soldi per pagarsi gli stupefacenti di cui era dipendente.

Terza visione, accennavo, perché era un’epoca in cui le sale cinematografiche delle grandi città (e va detto che allora al cinema si entrava in qualsiasi momento, anche a film iniziato) venivano catalogate così: in prima visione, ovvero i cinema più eleganti, avvenivano le prime uscite dei film, che dopo un certo periodo di sfruttamento commerciale passavano in seconda visione, a prezzo ridotto e qualità della sala – struttura, poltrone, audio e video – ancora dignitosi; quando il film, ovvero la pellicola come allora veniva ancora chiamata essendo fisicamente una pellicola di celluloide, esauriva questo segmento di mercato passava in terza visione, che erano le salette più in periferia o più defilate, quelle già fatiscenti, con le poltroncine di legno, il telone dello schermo giallo ocra per quanto erano impregnati di fumo, eh già perché allora si fumava ancora nei cinema, e la pellicola che a volte saltava perché nelle precedenti due visioni si era rotta ed era stata rattoppata. Fra i cinema di terza visione venivano inserite anche le sale parrocchiali la cui programmazione, però, era limitata alle scelte del gestore, dunque niente sesso.

Succedeva, è successo a me da ragazzo, che avendo pochi soldi in tasca si aspettava che il film cui eravamo interessati arrivasse in seconda o terza visione, ma a volte accadeva che quel film fosse troppo “intellettuale” e dopo pochi giorni in prima visione cessasse di girare, mentre al contrario arrivavano già in seconda visione i filmetti di scarso valore o considerati tali da gestori e distributori miopi, spesso produzioni internazionali con nomi sconosciuti che erano stati costretti ad acquistare nel pacchetto che comprendeva il film di richiamo, e qualche volta vi si trovavano delle perle che sarebbero diventati film di culto nella propria nicchia; nelle terze visioni, specialmente quelle parrocchiali, si davano invece programmazioni cicliche e perenni dei classici di Totò e Franco e Ciccio, perché non ancora in tutte le case c’era la televisione, e se c’era aveva una programmazione che andava dal mattino alla sera e durante le ore notturne chiudeva i battenti. Perché pare che una delle ragioni del tramonto delle sale di seconda e terza visione sia stata proprio la diffusione della televisione, e subito a seguire del VHS, l’home video che ci permetteva di registrare dalla tivù qualsiasi cosa, oppure acquistare e/o affittare il film dai negozi specializzati che sorsero come funghi, quelli che poi si riconvertirono coi DVD e DVX e che con l’avvento di internet veloce dove ora si può vedere di tutto, chiusero anche loro i battenti.

Il pregio più grande di “La ragazza dalla pelle di luna” è proprio il suo titolo, un non-sense fortemente evocativo e poetico, senza un’effettiva logica che però concede a chiunque la possibilità di cercarne una propria, davvero come accade con il verso enigmatico di un poeta ermetico. L’altro pregio è ovviamente la ragazza debuttante che si porterà dietro quella descrizione da “pelle di luna” quando riviste e rotocalchi parleranno di lei, e ne parleranno diffusamente, ne erano piene le copertine, perché l’Italia era ancora lontana dall’essere un paese multietnico e l’italiano medio non aveva mai visto bellezze del genere. Solo i nostri padri e i nostri nonni, quelli che nel 1935-36 avevano partecipato alla guerra Italo-Abissina, potevano guardare Zeudi Araya e ricordarsi – o rimpiangere – bellezze simili.

Zeudi Araya era nipote dell’ambasciatore etiope a Roma e 18enne aveva vinto il concorso di Miss Eritrea che come premio aveva proprio una vacanza nella nostra capitale. In realtà la ragazza aveva 16 anni e si era data due anni in più proprio per poter partecipare al concorso di bellezza; l’inganno era stato possibile perché all’epoca, parliamo del 1969, in quel paese ancora scosso da guerriglie locali che negli anni a venire sarebbero diventate battaglie sanguinarie, non esisteva una vera e propria anagrafe e i documenti non erano richiesti perché di fatto inesistenti. Il suo destino era segnato davvero nelle stelle: fra i suoi otto fratelli e sorelle lei era l’unica che aveva studiato l’italiano in un istituto fondato dagli italiani un secolo prima, all’epoca del primo tentativo italiano di colonizzazione quel territorio, quando nell’800 le potenze europee pensarono di espandersi sul continente africano. Così quando venne a Roma, sentendola parlare un fluente italiano la gente la guardava incredula, perché era troppo scura per essere italiana e le persone di colore venivano additate.

LeVar Burton nel ruolo di Kunta Kinte

Io stesso posso testimoniare un fatto. Era il 1978 e Zeudi Araya era già una star del nostro cinema; la Rai stava mandando in onda, con grande seguito di ascolto, la serie “Radici”. Io passeggiavo col mio nipotino di due anni il quale, vedendo sul marciapiedi opposto un ragazzo nero, il primo che anche io vedevo in città, lo indicò gridando gioioso “Kunta Kinte!” che era il nome del protagonista della serie tratta da un romanzo di successo. Per dire quanto davvero fossimo poco avvezzi a vedere fra noi gente di altri colori, e Zeudi parlava pure come noi.

Mentre era in un ristorante con un’amica romana fu avvicinata da un cortese signore che le disse: “Vorrei fare un suo ritratto, mi chiamo Renato Guttuso” e fu l’inizio di un’amicizia e di una collezione di ritratti che restano nella collezione privata di Zeudi. E sempre in un ristorante fu avvicinata da un tizio che chiedendole a bruciapelo “Vuoi fare cinema?” divenne il suo agente, e già l’indomani la chiamò per presentarle un regista, questo Luigi Scattini che oltre a questo film la diresse in altri due rigorosamente di genere erotico: “La ragazza fuoristrada” e “Il corpo”. Col suo debutto dalla pelle di luna la ragazza fece ovviamente scandalo in terra natia: suo padre, che era governatore della provincia, e dunque uomo in vista, comprò tutti i mille biglietti del cinema dove avrebbe dovuto essere proiettato il film e per il quale erano arrivati in città i contadini dai villaggi vicini; venne però organizzata un’altra proiezione a Decamerè, la città natale di Zeudi, e lì il governatore si dovette arrendere, subendo l’onta degli amici che lo apostrofavano: “Poveretto, come ti compiangiamo, chissà la vergogna che stai provando”.

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Sul film c’è ben poco da dire, a essere troppo critici si rischia di sparare sul morto. Lo sceneggiatore e regista Luigi Scattini (padre dell’attrice Monica, brillante caratterista di successo morta a 60 anni per melanoma) era partito alla grande portando agli Oscar del 1962, l’anno in cui Sophia Loren vinse con “La Ciociara”, il suo documentario “La via del carbone”, ma in seguito si perse nel girone dei film di genere, firmandone 14 in tutto fino al 1977, per poi dedicarsi al lavoro di produzione, fino ad assestarsi come adattatore dialoghista dei film stranieri di cui ha diretto anche il doppiaggio. Per chi volesse approfondirne la conoscenza su questa piattaforma è stato creato un blog in sua memoria: https://luigiscattini.wordpress.com/

La storia è quella di una coppia alto borghese, di quelle che nei primi anni ’70 si potevano permettere le vacanze all’estero, lui ingegnere lei fotografa di moda, che decidono di fermarsi in quella che avrebbe dovuto essere solo una tappa di passaggio: le Seychelles, isole da sogno che gli italiani scopriranno grazie a questo film e le agenzie turistiche proporranno in pacchetti “tutto compreso” anche per le limitrofe Maldive, Zanzibar, Mauritius… La coppia scoppia quando incontrano la bella isolana che con lui si rotolerà nuda sul bagnasciuga in lunghe sequenze commentate dal gorgheggio di una soprano su musiche di Piero Umiliani simil Morricone. Lui, pensoso e compreso nel ruolo, è Ugo Pagliai, genero di Vittorio Gassman, interprete teatrale e belloccio degli sceneggiati Rai che qui bamboleggia sbattendo le ciglia più delle colleghe, consapevole che l’attore di rango è lui, con la sua recitazione manierata che andava bene in Rai ma che qui sfiora il ridicolo, colpevoli anche i dialoghi zeppi di profondità che però restano sul margine delle banalità. Lei è la jugoslava Beba Loncar (Desanka Lončar) già con seri trascorsi cinematografici in patria e poi a Hollywood allorché quei produttori venivano a cercare volti nuovi in Europa per contenere i costi cui li costringevano le loro star; arrivò in Italia perché il nostro cinema era sempre affamato di bellezze più o meno esotiche, e bastava che non parlassero correntemente l’italiano (sistemava tutto il doppiaggio) perché fossero subito scritturate; e lei oltre che bella era anche brava, come dimostra in questo film dove è la più centrata e misurata fra i quattro interpreti: aveva cominciato con film d’autore e da festival diretta da calibri come Mauro Bolognini, Pietro Germi, Carlo Lizzani e Mario Monicelli; ma forse consapevole che non sarebbe mai stata un’attrice completa perché sempre doppiata, preferì scivolare nel meno complesso film di genere.

La bella dalla pelle di luna, come la coppia la descrive con un’intuizione estemporanea mentre cercano una frase per definirla, fa di più che circuire il marito e, poiché portatrice di uno sbandierato libero amore che si pratica sull’isola (e per la quale i ragionieri italiani sarebbero partiti in massa con o senza mogli) con sguardi lunghi e vellutati tesse una trama di fascino erotico anche attorno alla moglie che, fotografa di moda, pensa di lanciarla come modella e la accarezza e ne indaga le nudità con la fotocamera Nikon in palese pubblicità. Qui un’altra digressione sull’epoca: gli scatti della fotografa sono diapositive, tecnologia anch’essa caduta in disuso con l’avvento del digitale; si potevano vedere attraverso piccoli visori portatili o tramite proiettore su schermo, e molti abbiamo memoria di certe serate letali dove i padroni di casa che erano stati in vacanza, rigorosamente all’estero per suscitare ancora più invidia, invitavano amici e parenti alla proiezione sulla parete bianca del salone delle centinaia di soporifere diapositive minuziosamente descritte una per una fino a fare notte.

Ma non succede nulla fra le due donne, forse perché troppo scontato o perché troppo oltre per le capacità narrative di sceneggiatori e regista. E così la bella signora si concede una sveltina con un avventuriero, scrittore di racconti che nessuno legge, cui da volto, e amara credibilità di fallito, l’italo-scozzese Giacomo Rossi Stewart, padre dell’oggi più quotato Kim Rossi Stuart. All’epoca del film coi suoi ben portati 47 anni è il più maturo del quartetto. Passato dall’Actor Studio di New York girerà in Italia più di cento film in quarant’anni e nonostante sia stato protagonista in film di ogni genere – cappa e spada, peplum, western, fantasy, horror, spionaggio ed erotico, appunto – non è mai passato al livello di credibile protagonista in film di serie A, anche lui perché sempre doppiato da altri professionisti. Qui mostra un naso malamente rifatto, nonostante sia ancora il 1972 e pochi uomini a quel tempo facevano ricorso alla chirurgia estetica: probabilmente non è riuscito a essere il bello che voleva essere. Nel film è anche accreditato come aiuto regista.

Il film, approfittando dell’ambientazione, inopinatamente tenta anche la via del reportage mostrando spaccati di ambienti e usi e costumi che però si fermano sulla superficie del folkloristico; azzarda con una scena di mattanza di pescecani, in realtà cuccioli di pescecani – allora li chiamavamo ancora così, avremmo imparata a chiamarli squali un paio d’anni dopo quando Steven Spielberg terrorizzò il mondo col suo squalo, jaw in originale, ma anche shark, termini il cui labiale caratterizzato dalla A come unica vocale si adatta al doppiaggio proprio con squalo; infilzando e squartando dal vero i piccoli pescecani il film tenta un timido approccio a certo cinema degli anni ’70 detto di exploitation, un genere ricco di sottogeneri che meriterebbe un approfondimento a parte, e che è andato a finire nello splatter, quando è andata bene, e negli snuff movie per dire il peggio. Erano film approssimativamente con taglio da documentario, o che fingevano di esserlo, in cui venivano sfruttate ambientazioni esotiche per fare film principalmente scandalistici spacciando scene di nudo tribale e/o sesso esplicito e/o rituale, e/o atti di violenza su persone e animali, per narrazione divulgativa, ma in realtà solo pornografica nel senso più ampio del termine. Il regista Umberto Lenzi in “Il paese del sesso selvaggio”, 1972, mostra scene di vero cannibalismo e la cannibal-exploitation ebbe così tanto successo che Ruggero Deodato girò nel 1977 “Ultimo mondo cannibale” e nel 1980 “Cannibal Holocaust”, film di produzione italiana che finalmente avevano grande distribuzione all’estero. Restando sull’erotico italiano che occhieggiò al genere ci sono due film della serie su Emmanuelle Nera, a cui lo stesso Giacomo Rossi Stuart prese parte: “Emmanuelle Nera – Orient Reportage” e “Emmanuelle e gli ultimi cannibali”.

Nel 1975 Zeudy Araya, che si trovava a Los Angeles per studiare la lingua e le abitudini di Hollywood, incontra il produttore Franco Cristaldi che era lì per seguire la candidatura all’Oscar di “Amarcord” di Fellini, e lei gli chiede se avesse potuto procurargli un biglietto per la serata. Lui, che era solo – si stava separando da Claudia Cardinale che lo aveva lasciato per il regista Pasquale Squitieri – la invita ad accompagnarlo e poiché “Amarcord” vince come miglior film straniero, lei viene nominata seduta stante portafortuna di lui, e cominciano a frequentarsi (lui è di 27 anni più anziano) per poi sposarsi nel 1983. Cristaldi la avvierà verso un cinema più dignitoso ma senza grossi exploit e lei, dopo avere recitato in altri cinque film si ritira dai set preferendo stare accanto al marito, forse anche consapevole che non sarebbe mai diventata una star di prima grandezza. Dopo la scomparsa del marito ha preso in mano le redini dell’azienda di produzione cinetelevisiva, e oggi bellissima 70enne, naturalizzata italiana, è diventata un simbolo di successo ed emancipazione nel suo paese d’origine. Nessuno ha mai pensato di farle girare ciò che in qualche modo è stata: una Cenerentola Nera.

E per la prima volta sullo schermo… Ornella Muti

1970. Damiano Damiani è uno dei registi di punta del cinema di impegno civile di quegli anni, che si concesse un’incursione nell’horror americano con “Amityville Possession”, 1982, al seguito del produttore Dino De Laurentiis (che intendeva colonizzare Hollywood ed è riuscito a lasciare una sua traccia permanente); ma che quando l’impegno civile cinematografico ebbe il suo declino continuò con i polizieschi segnando i suoi ultimi grandi successi col televisivo “La Piovra”, 1984, e il cinematografico “Pizza Connection” del 1985, e poi avviandosi al declino fino ad “Alex l’ariete” del 2000 che segnò lo sfortunatissimo debutto cinematografico di Alberto Tomba. E’ morto 90enne nel 2013.

Franca Viola; e Filippo Melodia, con i complici, dietro le sbarre nell’aula del processo

E’ di cinque anni avanti la vicenda della prima donna che rifiutò il matrimonio riparatore facendo cronaca storia e legislatura. La quindicenne Franca Viola, di Alcamo in provincia di Trapani, si fidanzò col consenso dei genitori col maggiorenne e maggiorente di bell’aspetto Filippo Melodia, rampollo di una rispettata famiglia mafiosa, e all’inizio erano tutti felici e contenti perché la famiglia di contadini di lei aveva tutto da guadagnare da quell’unione, rispetto e benessere, e fin qui il film ricalca fedelmente la vicenda della fascinazione che la ragazzina provò per il giovane uomo ben vestito e dallo sguardo assassino. Senonché, il giovane uomo, che era davvero un assassino, finì momentaneamente al fresco per un semplice furto e papà Viola, orgogliosamente, ruppe il fidanzamento. Ma erano luoghi e tempi in cui l’orgoglio di un contadino non aveva valore e perciò subì minacce e devastazioni. Franca Viola sulla sua vicenda ebbe parole che oggi sembrerebbero banali ma che allora suonavano rivoluzionarie: “Io non sono proprietà di nessuno, nessuno può costringermi ad amare una persona che non rispetto, l’onore lo perde chi le fa certe cose, non chi le subisce” senza dimenticare che ci sono angoli del mondo dove ancora queste cose accadono. L’aggressore fu condannato a dieci anni di carcere con due di soggiorno obbligato a Modena, dove alla scadenza della pena venne raggiunto da un anonimo colpo di lupara.

La sceneggiatura devia dalla storia originale per darsi l’opportunità di raccontare altre realtà: la fidanzata bambina oggetto comincia a vedere l’uomo per quello che è, un arrogante maschilista che non la rispetta perché pensa di doverla possedere, perché possedere è tradizione di famiglia, e lei allora rompe il fidanzamento, nel film senza l’appoggio della famiglia, e la sceneggiatura dà spazio drammatico al padre che si maledice per non avere avuto il coraggio di schierarsi con la figlia, raccontando con questa scena una realtà sottesa: quella della diffusa complicità per ignavia e paura, sottomissione socio-culturale. Nella realtà e nel film la ragazza viene rapita e violentata per essere poi costretta a un matrimonio riparatore, per salvare il suo onore e quello della sua famiglia, pena l’isolamento sociale con il marchio di svergognata e un destino da zitella. E all’epoca, la legislazione italiana, con l’articolo 544 del codice penale, dichiarava: “Per i delitti preveduti dal capo primo e dall’articolo 530, il matrimonio, che l’autore del reato contragga con la persona offesa, estingue il reato, anche riguardo a coloro che sono concorsi nel reato medesimo; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”; con parole più comprensibili l’articolo ammetteva la possibilità che si potesse estinguere il reato di violenza carnale, anche ai danni di una minorenne, qualora fosse stato seguito dal cosiddetto “matrimonio riparatore”, visto come forma di contratto tra l’accusato e la persona offesa; questo accadeva perché la violenza sessuale era allora considerata oltraggio alla pubblica morale e non reato contro la persona. Va da sé che il caso di Franca Viola sollevò forti polemiche divenendo oggetto di numerose interpellanze parlamentari. Quell’articolo del codice penale sarà abrogato con una legge del 1981, a sedici anni di distanza dalla conclusione della vicenda, e solamente nel 1996 lo stupro da reato contro la morale sarà riconosciuto in Italia come un reato contro la persona.

Luisa Rivelli

Per interpretare i due protagonisti Damiano Damiani sceglie due convincenti debuttanti: la 15enne Francesca Rivelli e il 25enne Alessio Orano, e impone a lei il nome d’arte di Ornella Muti da sue reminiscenze dannunziane: Ornella è un personaggio de “La figlia di Jorio” ed Elena Muti è la protagonista de “Il piacere”; nome d’arte, a dire del regista pigmalione, necessario per distinguerla dall’attrice Luisa Rivelli, che in realtà è molto più anziana e in quegli anni già a fine carriera. La coppia di giovani e belli farà coppia nella vita e alla maggiore età di lei convolano a nozze, quando lei era già madre di Naike, la cui paternità non verrà mai dichiarata. In quegli anni lui darà il meglio in film horror e thriller e lei, come sappiamo, diverrà una delle interpreti più celebrate del nostro cinema, nonostante sia sempre stata doppiata da altre professioniste e solo in anni più recenti ha recitato con la sua vera voce, concedendosi pure un paio di interpretazioni teatrali. Qui è doppiata da Loretta Goggi e lui è doppiato da Michele Gammino. Il padre è interpretato da Gaetano Cimarosa che nel film conserva il suo vero nome, Tano Cimarosa, mentre la protagonista Franca sarà Francesca, anche vero nome dell’attrice. Nel ruolo del tenente dei carabinieri l’interessante e purtroppo prematuramente scomparso, a 36 anni, Pierluigi Aprà; mentre interessante è la partecipazione, nel ruolo di un contadino dibattuto fra l’imperativo morale e il dovere sociale-mafioso, del cantante Joe Sentieri, esponente negli anni ’60 di quel gruppo detto “degli urlatori”, genere che ebbe anche una sua propria filmografia composta da un trittico, gruppo cui appartenevano anche Tony Dallara, Adriano Celentano e Little Tony e a cui si aggiungerà il giovanissimo Gianni Morandi. In quegli anni molti cantanti hanno tentato la via del cinema al di fuori e oltre il genere musicarello degli anni ’60, ma solo due di loro sono riusciti a ritagliarsi delle carriere di tutto rispetto: l’ex urlatore Adriano Celentano e l’ex crooner Johnny Dorelli, entrambi star della commedia, il primo con quelle venature surreali che lo contraddistinguono dato che fu anche sceneggiatore e regista, il secondo più a suo agio nel genere scollacciato con incursioni nella commedia di costume d’autore.

Ornella Muti, dopo questo folgorante debutto, ebbe numerose offerte di lavoro, anche dalla Spagna e, come piano B nel caso la carriera cinematografica non avesse decollato, cominciò anche a lavorare nei fotoromanzi insieme alla sorella maggiore, Claudia Rivelli, già star della Lancio; ma non ebbe il tempo di continuare su questa strada perché il cinema la fagocitò, dapprima con ruoli da adolescente inquieta (le adolescenti, nel cinema di ogni epoca e latitudine, sono sempre inquiete, forse perché inquietano i pensieri dei maschi che fanno quel cinema…) e questo genere avrebbe potuto essere la sua tomba professionale, finché Marco Ferreri non la volle protagonista insieme a Gerard Depardieu del discusso e disturbante “L’ultima donna” del 1976, anno in cui Ornella ricevette anche la Targa d’Oro ai David di Donatello per il complesso delle sue interpretazioni; e l’anno successivo, recitando con Ugo Tognazzi in “la stanza del vescovo” di Dino Risi, diede una svolta definitiva alla sua carriera.

Il film, parlando di verginità e dunque obbligatoriamente collocato nella Sicilia cinematografica di allora, fa subito pensare a un film di tre anni prima, “Assicurasi vergine” con la meno espressiva Romina Power, altra storia ispirata a una vicenda realmente accaduta ma in quel caso raccontata con toni da commedia boccaccesca benché qua e là fotografasse comunque una Sicilia dai toni realistici: tutt’altra atmosfera rispetto a questo solido dramma che si apre, comunque, perché il set è la Sicilia, col suono metallico del marranzano, perché la Sicilia è sempre marranzano, anche se a firmare la colonna sonora stavolta c’è Ennio Morricone che, a mio avviso, qui mette insieme spezzoni inutilizzati altrove col solito assolo della sua soprano Edda Dell’Orso, senza scrivere pagine memorabili.

A Franca Viola il poeta palermitano (di Bagheria) Ignazio Buttitta dedicò dei versi che il cantautore-cantastorie calabrese Otello Profazio mise in musica.

Qui il film completo:

E per la prima volta sullo schermo… Alberto Tomba

Alex l'ariete - Il cast

Correva l’anno 2000, il campione dello sci italiano internazionalmente noto come “Tomba la Bomba” aveva vinto tutto quello che c’era da vincere: cinquanta gare in Coppa del Mondo, una Coppa del Mondo assoluta, quattro Coppe del Mondo di slalom gigante e quattro di slalom speciale. Ispirati da cotanto atleta, quei genitori che potevano mandavano i figli a sciare, come più recentemente hanno mandato le bambine a lezioni di nuoto dopo i successi di Federica Pellegrini; di fatto, alla fine degli anni novanta, smessi gli sci e la divisa dei Carabinieri sotto la cui bandiera aveva gareggiato, per tre anni ha attraversato l’Europa con il “Tomba Tour” per lo sviluppo dello sci giovanile; e poiché il giovanotto era anche simpatico, oltre che di bell’aspetto, divenne di casa nei salotti televisivi. E dalla tv al cinema il salto è breve, o per lo meno a qualcuno sembra breve, e pure indolore, perché da noi è sempre valsa la convinzione che a recitare sono buoni tutti, e del resto non gli si chiedeva di vincere il David di Donatello ma solo di far fare al produttore un sacco di soldi.

Oggi il film è un cult del cinema spazzatura per quanto è brutto, e io stesso ho fatto fatica a vederlo dall’inizio alla fine, sostenuto in quest’immane impresa solo dal gusto di poterne qui parlare male, ma con cognizione di causa. Trionfalisticamente uscito con lo slogan “Il primo slalom cinematografico dell’ex sciatore Alberto Tomba” uscì nelle sale a fine luglio e restò in cartellone solo un fine settimana, visto in tutta Italia solo da 285 spettatori, di cui un terzo nella sola provincia bolognese natia; nelle sale romane del circuito Cecchi Gori, che lo aveva prodotto, restò per un’altra settimana accumulando alla fine ben 597 spettatori: il peggio del peggio in termini commerciali, che è la congrua risposta al peggio del peggio sul piano produttivo. A caldo Alberto Tomba commentò che “d’estate al cinema non ci va nessuno” ma non era così dato che “Mission: Impossible 2” ha incassato in Italia due milioni e 300mila euro. Solo qualche anno dopo in un’intervista ha confessato di avere “ricordi belli, ma lontani” ammettendo poi “la mia inesperienza ha contato” e infine, secondo lui, il vero problema era stato che “mi sono fidato di chi mi ha offerto l’ingaggio, ma il montaggio non è stato fatto come doveva, tre ore di film dovevano essere lavorate e trasformate in una fiction di un’ora e non lasciate così com’erano. La sceneggiatura non funzionava, e il regista, Damiano Damiani, bravo ma di una certa età poverino… La verità di fondo è che non volevano che un olimpionico facesse l’attore: non mi hanno diretto né lanciato nel modo giusto. Senza contare che il film è entrato in sala a fine luglio, in piena estate: era ovvio che dopo dieci giorni ne uscisse!”

Lungi dal conoscere i retroscena devo convenire che il poverino ha ragione: non so quanto ci fosse di realmente persecutorio perché quando c’è da fare soldi sono sempre tutti contenti, e prima di lui in Italia avevamo avuto un altro eclatante esempio di ex sportivo, il campione di nuoto Carlo Pedersoli diventato attore come Bud Spencer. E negli USA c’è Dwayne Johnson che col titolo di The Rock era stato un campione di wrestling, e dopo di lui tanti altri sportivi da differenti discipline si sono dati alla recitazione tra cinema e tv: non si chiedono loro raffinate interpretazioni ma solo di fare e far fare soldi. La carriera di Bud Spencer fu costruita con molta attenzione: gli fu affiancato Terence Hill (Mario Girotti) che non era l’ultimo arrivato e crearono una coppia vincente in film di intrattenimento ben costruiti. Alberto Tomba vinse il premio “Cinepernacchie” come peggiore attore protagonista con la motivazione: “Perché, Tomba, perché?” 

TV Sorrisi & Canzoni - Michelle Hunziker - Official Website

La mia sensazione è che Alberto Tomba fu mandato allo sbaraglio e qui recupero la domanda “Perché” rivolgendola idealmente ai produttori di allora, Vittorio Cecchi Gori e gentile consorte Rita Rusic, che da lì a poco avrebbero divorziato; e il luglio dell’anno dopo lui avrebbe anche ricevuto un avviso di garanzia per riciclaggio, cui seguì una perquisizione dell’appartamento – alla presenza di Valeria Marini che all’epoca era sua convivente – e gli trovarono in cassaforte una grossa quantità di cocaina che lui, ripetutamente, si ostinò a definire “zafferano”: una commedia grottesca e surreale come le tante che lui e suo padre Mario avevano sempre prodotto con successo. Ma cosa ha realmente portato Vittorio Cecchi Gori a produrre “Alex l’Ariete” non lo sapremo mai. Come si intuisce dalle dichiarazioni di Tomba il film era stato inizialmente pensato per la tv, Mediaset, due puntate da 90 minuti dal titolo “Turbo” e dato che anche Michelle Hunziker era stata inserita nel cast i due posarono per TV Sorrisi e Canzoni. Ma poi la fiction fu cancellata e la sceneggiatura fu ripensata per il film.

Cinque (8): le cinque migliori scene di “Alex l'ariete” – RumoreWeb

Tomba ha anche, un po’ ingenerosamente, dichiarato che il regista aveva una certa età, poverino: era vero, Damiano Damiani aveva 78 anni ed era al suo penultimo film, e sappiamo che molti registi, con l’età che avanza, non chiudono in bellezza la propria carriera; della sua bisogna ricordare che è stata piena di successi nel filone poliziesco che era seguito a un primo impegno nel cinema politico e civile, e basta ricordare due titoli su tutti: “Il giorno della civetta” e “Pizza Connection”, senza però dimenticare la sua incursione nell’horror americano con “Amityville Possession”. Per quanto vecchio e stanco possa essere stato il regista si sarà certamente accorto che la sceneggiatura era terribile e vi si sarà dedicato, come si dice nel gergo dell’ambiente, solo per fare una marchetta, e di fatto anche tutti gli ottimi caratteristi, che fanno da supporto all’improbabile duetto protagonista, sembrano distratti e svogliati, con un atteggiamento da prendi i soldi e scappa.

Intervista allo sceneggiatore Dardano Sacchetti - il Davinotti

E ancora mi chiedo: perché la produzione ha portato avanti un simile progetto? Il difetto primario è nella terribile sceneggiatura che andava cestinata subito, licenziando in tronco lo sceneggiatore che, pure, non era nato ieri: Dardano Sacchetti aveva cominciato a scrivere per Dario Argento e, fra polizieschi e horror, fra cui anche l’Amityville di Damiani, si era fatto un nome nel glorioso cinema di serie B. Da dove viene tanta inconsistenza e tanta banalità narrativa? sembra che le battute di lei siano scritte da una di quelle ragazzine che leggevano Cioè e le battute di lui da un ragazzino appassionato di Lanciostory, per non parlare della trama che fa il verso alle commedie d’azione brillanti americane ed è una stiracchiata inconcludente sequela di luoghi comuni. Non so quanto danno abbia potuto fare il montaggio, a leggere lo sfogo di Tomba, ma c’era davvero poco da cavare da una tale sceneggiatura, e regista e cast al completo se ne devono essere accorti. Solo gli inesperti protagonisti sono caduti dal pero, come si dice, e il produttore che ha avallato il progetto forse perché troppo distratto dall’aroma dello zafferano.

I PEGGIORI film da vedere durante la quarantena - ScreenWEEK.it Blog

La Hunziker, che dopo ha fatto solo qualche cinepattone, ha poi ironizzato dicendo che “Alex l’Ariete” l’avevano visto solo lei sua nonna e sua zia. Nei fatti lei fa peggio di Alberto Tomba perché, venendo dalla tv delle paillettes e in generale dal mondo dello spettacolo, ci si aspetta che abbia un’infarinatura di recitazione, invece è totalmente stonata e fa tutte quelle appoggiature su verbi e avverbi e aggettivi che ormai non fanno più neanche gli amatoriali ma solo i bambini alla recita dell’asilo: per essere credibile avrebbe dovuto avere le treccine e il cestino col pranzo.

ALEX L'ARIETE – CINEMA ZOO
Ramona Badescu e Alberto Tomba prima degli artistici bacetti

Anche lui non ha fatto nulla per prepararsi al salto nel vuoto: avevamo imparato a sentirlo parlare in tv e non ci saremmo aspettati da lui una bella dizione e una cadenza pulita dal regionalismo, e quando nel film discetta del più e del meno è assai più naturale di lei: solo quando deve metterci dei sentimenti più forti – la rabbia, lo stupore, l’avvilimento, l’ironia – è evidente che non sa dove trovare quei sentimenti perché gli avranno detto sii te stesso e andrà tutto bene, che è quello che si dice sempre ai principianti impreparati: ma Alberto Tomba non è Alex Corso l’Ariete e se n’è accorto sul set, a cose fatte. Dirà delle scene d’amore dove si sbaciucchia con Ramona Badescu che lui era impacciato perché quelle cose lì le sapeva fare solo in privato…

In quanto al privato, il ragazzone, anzi stavolta ragazzaccio, era apparso nudo nel 1995 su un servizio di Evatremila che lo aveva addirittura messo in copertina con lo zizì, come all’epoca la rivista vezzeggiava l’intimo maschile, coperto da una patina da grattare via con una monetina: gratta e vinci lo zizì di Alberto Tomba, pienamente esposto nelle pagine interne. Seguì polemica non si sa quanto costruita a tavolino perché l’intento sembrava proprio quello di “spogliare” Tomba dalla divisa del carabiniere e dalla tuta dello sciatore per consegnarlo alle masse del pettegolezzo prima del suo debutto sullo piccolo o grande schermo e lanciare una nuova carriera.

Così la critica: Maurizio Porro sul Corriere della Sera: “Tutto ha l’aria di essere al limite della presa in giro, i livelli narrativi sono di guardia, l’epica espressiva dei comprimari da manuale. Tomba è Tomba, un non attore consapevole di esserlo e che gioca il suo fascino”. Luca Bottura sull’Unità: “Il film che ha fatto pentire i fratelli Lumière di aver inventato il cinema”. Enrico Magrelli sul sito FilmTv.it definisce “distratta” la regia di Damiani e giudica la sceneggiatura “meno probabile di certi fumetti del Monello” commentando causticamente che il film aspira “ad un posto d’onore di quel cinema stracult che, nonostante il nome da cenacolo di disperati, resta brutto, abborracciato, scritto da analfabeti reali o da finti illetterati, interpretato da disoccupati male organizzati”.

Assolutamente contenti del clamoroso insuccesso favoleggiarono pure di un sequel: “La gara di Alex”, protagonista stavolta Valentino Rossi, ma non se ne fece nulla ed è un peccato perché oggi io avrei avuto un’altra perla da raccontare. Ma sinceramente, in conclusione, come Bud Spencer ha avuto i suoi successi, star di un cinema per il quale non ho mai speso una lira, scritti appositamente intorno a lui, anche Alberto Tomba avrebbe potuto avere un suo percorso cinematografico con film per famiglie se solo fosse stato circondato da persone intelligenti e lungimiranti. Michelle Hunziker no, per carità, che rimanga a fare la Striscia la Notizia!

E per la prima volta sullo schermo… Eleonora Duse

Per l’unica volta, a dire il vero, in “Cenere” del 1916, dal romanzo di Grazia Deledda. All’inizio di quell’anno l’Italia era già da sette mesi in una guerra che era scoppiata in Europa diciassette mesi prima. Sarà l’ultima guerra dei corpo a corpo e la prima con i carri armati, la guerra antica contro la guerra moderna che lascerà sul campo, oltre ai morti, un numero impressionante di mutilati coi quali le società e le nazioni dovranno fare i conti nel loro futuro. E’ un’epoca in cui nelle famiglie si teme l’arrivo della cartolina precetto per gli uomini abili, figli e mariti, e in cui a Trento e Gorizia, in territorio Austro-Ungarico, vige il “regime bianco”, ovvero il razionamento del latte riservato solo a malati e bambini.

Prima guerra mondiale: grande vittoria o inutile strage?

Il cinema italiano dell’epoca, che non aveva le sale cinematografiche come le conosciamo oggi ma luoghi anche itineranti allestiti per l’occasione in spazi preesistenti o sotto tendoni da circo, ha inizialmente invaso gli schermi di pellicole patriottiche, ma con l’arrivo delle disastrose notizie dal fronte, quelle eroiche gesta di un alpino o di un bersagliere che da solo sgomina un intero reggimento di crucchi, faceva solo ridere, se non fosse che la gente non aveva nessuna voglia di ridere; e mentre il Ministero degli Interni attivò una censura più attenta su questo genere di film gloriosamente spacconi, i produttori fecero un salto al secolo prima e si buttarono nella narrazione di quel Risorgimento dove i nemici erano sempre gli odiati Austriaci ma con altre divise.

Nello stesso anno, il 1916, escono film come “Avatar” che niente ha a che vedere col kolossal fantasy di James Cameron ma narra di un amore tragico dal romanzo di Théophile Gautier; c’è poi una “Cavalleria Rusticana” da Giovanni Verga; un “Come le foglie” da Giuseppe Giacosa; “La fiaccola sotto il moggio” da Gabriele D’Annunzio; e a parte il film sperimentale futurista scritto da Filippo Tommaso Marinetti, tutta una sequela di film di genere molti del quali tratti da opere letterarie, appunto. L’Italia è in guerra ma la produzione cinematografica ferve, anche perché le città non erano coinvolte nel conflitto, come accadrà dalla prossima guerra in poi, e i soldati si scontravano quasi esclusivamente sui campi di battaglia, fra le montagne del nord e sulle rive del Piave.

La sarda Grazia Deledda, Premio Nobel 1926, che raccontava la sua terra attraverso i temi di amore e morte, dolore e peccato, espiazione e castigo, un’umanità primitiva in preda al fato, fu dalla critica che sempre necessita di etichette per meglio esprimersi, definita sia verista che decadentista come anche semplicemente regionalista. In controtendenza il critico letterario Natalino Sapegno, che per molti di noi è solo il Sapegno della Storia della Letteratura Italiana, scrisse di Deledda: “Da un’adesione profonda ai canoni del verismo troppe cose la distolgono, a iniziare dalla natura intimamente lirica e autobiografica dell’ispirazione, per cui le rappresentazioni ambientali diventano trasfigurazioni di un’assorta memoria e le vicende e i personaggi proiezioni di una vita sognata. A dare alle cose e alle persone un risalto fermo e lucido, un’illusione perentoria di oggettività, le manca proprio quell’atteggiamento di stacco iniziale che è nel Verga, ma anche nel Capuana, nel De Roberto, nel Pratesi e nello Zena.”

La prima pagina del manoscritto

Il romanzo “Cenere” è del 1904 e narra la storia di una donna che ha un figlio, bastardo come si definiva all’epoca, da un uomo sposato; nell’assoluta indigenza cui la sua condizione di peccatrice l’ha condannata, decide di lasciare il bambino settenne davanti la porta della casa paterna e poi sparire; da adulto il figlio rintraccerà la madre della cui mancanza ha sempre sofferto, e proprio perché vorrà prendersene cura perderà la donna amata che non vuole in casa una vecchia disonorata.

Eleonora Duse - Film "CENERE" 1916 - La magia di un'isola

Il film, del regista e interprete principale Febo Mari, mostra all’inizio questo cartello: “A Eleonora Duse. Cenere è la storia di una povera donna di Sardegna che, abbandonata dal primo uomo che amò, cacciata di casa, raccolta dalla pietà di un’altra donna, dopo anni di miseria riconduce il figlio della sua colpa fino alla porta del padre di lui, perché solo il padre può dargli un avvenire di bene: e lei sparisce nell’ombra. Affido a Lei, cara amica, questa storia di amore e di dolore perché Lei sola può illuminarla con la luce della sua anima e viverla con la sua grande arte sincera. Grazia Deledda.” Con questo incipit, e secondo la nostra visione di cinema, moderna, ci si immagina un film che renda omaggio alla grande attrice, invece la Duse è solo una coprotagonista senza neanche il tributo di un “con la partecipazione straordinaria” come si usa oggi, e Febo Mari fa della sua film, un veicolo per la sua primattorialità. Il taglio delle inquadrature che usa risente della cultura teatrale perché, senza mai usare il primo piano, mostra sempre le figure intere in campo medio e poche volte in mezza figura, quello che verrà definito piano americano. Nella prima parte che racconta l’infanzia del protagonista, la madre che lo accompagna, evidentemente la stessa Duse, ha il capo e il viso coperti da un fazzoletto bianco, per nasconderne l’età avanzata, e perché evidentemente all’epoca non si pensava ancora all’espediente di un’altra interprete per le scene “da giovane”. La vediamo in piena figura solo dopo 10 minuti dei 37 e rotti di durata totale.

La pessima abitudine di fare dei tre puntini di sospensione un trenino di puntini ha radici lontane.

Il film ha sicuramente molte qualità, oltre a quello di immortalare Eleonora Duse. Sul piano tecnico i cartelli che accompagnano la narrazione visiva sono di gran qualità, come possiamo dedurre dall’ombra che lettere in rilievo proiettano, dicendoci che non sono solo stampate ma incollate a rilievo sullo sfondo: solo oggi abbiamo in word la possibilità di ombreggiare i nostri scritti con un solo clic. Sul piano artistico il regista spende le sue carte con grande gusto visivo: il cinema è muto e parla per immagini, il primo incontro fra il figlio adulto e la vecchia madre è privo di cartelli e possiamo intuire quello che si dicono dai loro atteggiamenti; inoltre, essendo un cinema di immagini, ne crea di molto belle, esplicative e poetiche insieme: come quando l’ombra del bambino appena abbandonato dalla madre si allunga sull’interno del mulino della proprietà paterna; o l’ombra delle braccia della madre che si proiettano sotto la finestra per sparire non appena il bambino di affaccia. Sono visioni di un cinema fatto di sola visione e che oggi, con tutta la tecnologia disponibile, nessun regista sa immaginare più.

Antica Messina - Febo Mari (Alfredo Giovanni Leopoldo... | Facebook

Il messinese Febo Mari, all’anagrafe Alfredo Giovanni Leopoldo Rodriguez, la cui famiglia vantava una lontana baronia di origine spagnola come ogni famiglia con cognome spagnolo potrebbe vantare, cominciò a lavorare a Milano come recensore teatrale ma ben presto saltò il fosso per seguire in prima persona la sua passione, e affermandosi come attor giovane presso importanti compagnie, ben presto ebbe la direzione del Teatro Manzoni di Milano, a 27 anni, e già nel primissimo cinema muto divenne un acclamato divo. Fattosi sceneggiatore e regista, al suo secondo film dirige nel 1915 “L’emigrante” con Ermete Zacconi, qui visto in “Processo e morte di Socrate”; Mari l’anno dopo si toglie lo sfizio di dirigere anche la Duse in questo “Cenere”. Muore improvvisamente a 58 anni nel 1939, probabilmente di colpo apoplettico. Eleonora Duse era morta 66enne nel 1924 a Pittsburgh, di polmonite, durante una tournée.

I film muti erano accompagnati in sala da un narratore che leggeva i cartelli per il pubblico analfabeta, e da un pianista che commentava dal vivo le sequenze. La versione oggi conservata e visibile su YouTube ha le musiche della compositrice Francesca Badalini.

E per la prima volta sullo schermo… Shirley MacLaine

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Shirley, che deve il suo nome in omaggio alla diva bambina Shirley Temple, da bambina era un maschiaccio, giocava nella squadra maschile di baseball e, iscritta a danza, interpretava ruoli maschili, sia a causa della sua altezza sopra la media delle sue coetanee sia per per la mancanza di ballerini; poi studia recitazione e protagonista di un musical viene notata da un produttore e messa sotto contratto con la Paramount, con la quale debutta, ventenne, in questo eccentrico film dell’eccentrico regista inglese naturalizzato americano Alfred Hitchcock.

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Nelle immagini due famose inquadrature del film: il cadavere trovato dal bambino all’inizio del film e poi lo stesso a cui un barbone ha sottratto le scarpe, con quei coloratissimi calzini tipicamente inglesi.

E’ il 1955. Il titolo italiano, come raramente accade, è più accattivante dell’originale “The trouble with Harry” dove l’Harry che crea il problema è il cadavere che viene ritrovato appena fuori il tranquillo villaggio di Highwater nel montagnoso Vermont. Sappiamo dal titolo che sono tutti innocenti ma ognuno della piccola comunità si ritiene colpevole della morte di Harry, con motivazioni e circostanze diverse: è un giallo all’incontrario che sovverte le regole narrative alla Agatha Christie, dove in genere in un piccolo gruppo di persone si indagano motivazioni e circostanze diverse per trovare il/la/i colpevole/i. E non a caso il giallo, comico e grottesco, da cui è tratta la sceneggiatura, è di un inglese, che l’inglese Hitchcock si era divertito a leggere. Forte dei successi dei thriller “La finestra sul cortile” e “Caccia al ladro” il regista volle rischiare facendo un film pesantemente intriso di homour inglese, che gli americani scrivono humor, e che non capirono, facendone un fiasco; andò meglio nel vecchio continente più incline a comprendere l’umorismo britannico. Il film, col suo coloratissimo VistaVision, gli splendidi scorci montani, la piccola comunità fatta di bislacche personalità, e infarcito di battute tipo “Da vivo era uguale, solo che era in verticale”, oppure “La morte di vostro padre è stata dolorosa? – E’ stato maciullato da un trebbiatrice.” col suo umorismo nero oggi sembra più un film per ragazzi e rimane comunque una piacevole serata tv.

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Il cast, non avendo protagonisti assoluti ed essendo un film corale, non schiera grandi star ed è affidato a solidi caratteristi: John Forsythe, che deve la sua notorietà ai televisivi “Charlie’s Angels” dove era Charlie, e “Dynasty” dove è stato Blake Carrington, ha lavorato di nuovo con Hitchcock in “Topaz”. L’ottantenne inglese Edmund Gwenn era invece una vecchia conoscenza del regista, col quale aveva lavorato sin dal 1931. Di gran classe la caratterista di lungo corso Mildred Natwick, candidata all’Oscar nel 1968 per “A piedi nudi nel parco” dove era la madre di Jane Fonda; importante il suo ultimo ruolo, Madame de Rosemont in “Le Relazioni pericolose”, 1988.

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In questo quartetto spicca la bellezza insolita della debuttante Shirley MacLaine: è l’epoca delle grandi dive tormentate o mangiauomini, da Ava Gardner a Joan Crawford, da Laureen Bacall a Rita Hayworth; delle comedians eleganti alla Grace Kelly, Audrey Hepburn, Katharine Hepburn (che devono lo stesso cognome a una lontanissima parentela: erano cugine al 19° grado e non si conobbero mai prima di diventare famose); era anche l’epoca dell’irrequieta Elizabeth Taylor e della fragile Marilyn Monroe, e delle dive italiane approdate in America come Sophia Loren e Anna Magnani. Shirley, che come cognome adattò quello materno, MacLean, in questo suo debutto porta una zazzeretta corta, quasi maschile, niente onde o boccoli o chiome fluenti e avvolgenti delle dive in voga; del suo talento si può dire poco, il personaggio non richiede grandi doti, ma lo dimostrerà negli anni accumulando un Oscar (“Voglia di tenerezza” 1984), 4 Golden Globe, 2 Bafta, un Emmy, 2 Coppe Volpi a Venezia e 2 Orsi d’Argento a Berlino. Scarse le notizie sulla sua vita privata, senza pettegolezzi e scandali, né uscite pubbliche o impegni filantropici. Si sa che è la sorella maggiore, di tre anni, di un altro divo, Warren Beatty, che come cognome adottò il paterno Beaty raddoppiando la T; non hanno mai lavorato insieme e, quando di recente, sono stati sollecitati sull’argomento, lui si è espresso con un possibilista e mondano “Non è una cattiva idea!” mentre lei è stata più specifica e diretta: “Oh, non credo che saremmo una bella accoppiata!”, e anche io, viste le carriere dei due, non riesco a immaginarli insieme in un film, e in che genere di film. Ce ne faremo una ragione.

Però vale la pena fare una carrellata di attori e attrici che hanno recitato in famiglia. Ryan O’Neal con la figlia Tatum, che ha vinto l’Oscar, in “Paper Moon”, 1973. Henry Fonda con la figlia Jane in “Sul lago dorato”, 1981. Martin Sheen e il figlio Charlie in “Wall Street”, 1987. Nel 1997 in “Good Will Hunting” si riuniscono i fratelli Casey e Ben Affleck. Fratello e sorella Gillenhaal, Jake e Maggie, recitano in “Donnie Darko”, 2001. Sempre nel 2001 Angelina Jolie è col padre Jon Voight in “Lara Croft: Tomb Raider”. Anno pieno il 2001 per le riunioni familiari: i fratelli Wilson, Owen e Luke, in “I Tenenbaum”. Gwineth Paltrow recita con la madre Blythe Danner in “Sylvia” nel 2003. Bruce Willis è con la figlia Rumer nel 2005 in “Hostage”. Will Smith col figlio Jaden in “La ricerca della felicità”, 2006. Donald Sutherland fa da spalla al figlio Kiefer in “Il fuoco della giustizia”, 2015. Meryl Streep con la figlia Mamie Gummer sono addirittura a quota tre film: “Affari di cuore” 1986, “Un amore senza tempo”, 2007, dove la figlia interpreta sua madre da giovane, e “Dove eravamo rimasti”, 2015.

E per la prima volta sullo schermo… Arnold Schwarzenegger

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1976. Questo film viene accreditato come il debutto cinematografico di Schwarzenegger, ma è falso perché il Mister Universo austriaco è già stato protagonista nel 1970 di un B-movie, “Ercole a New York” e poi nel ’73 ha fatto un piccolo ruolo in “Il lungo addio” di Robert Altman; nel primo è stato doppiato a causa del suo forte accento e presentato come Arnold Strong per il cognome impronunciabile, nel secondo era uno scagnozzo sordomuto, e quindi oggi questi due film non vengono considerati come veri debutti.

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Il film in questione, col suo titolo originale “Stay Hungry” dal romanzo omonimo di Charles Gaines rende più fedelmente lo spirito del racconto, sorta di storia di formazione che nella sceneggiatura mantiene ben poco della trama del romanzo. E’ conosciuto in Italia anche col titolo “Un autentico campione” ma anche come “Il gigante della strada” pone l’attenzione sul culturista come se fosse il protagonista assoluto del film, e così non è, anche perché il suo personaggio è stato ridimensionato nella sceneggiatura. C’è di buono che Schwarzy parla con la sua voce e il suo accento austriaco, perché il personaggio è stato ridisegnato su di lui, e parla anche molto, contrariamente ai film successivi, “Terminator” in testa, ed è anche simpatico e sorridente, come non lo vedremo quasi più nella sua gloriosa carriera di muscoloso eroe sempre accigliato. Già questo vale la visione del film. Che, purtroppo va detto, non è fra i migliori di cotanto regista, Bob Rafelson, che ci aveva già dato due piccoli capolavori del cinema esistenzialista americano: “Cinque pezzi facili” (1970) e “Il re dei Giardini di Marvin” (1972); dopo questo “Stay Hungry” dirigerà nel 1981 il torbido successo di “Il postino suona sempre due volte” sempre col suo attore feticcio Jack Nicholson, e poi nel 1987 torna con l’altrettanto torbido “La vedova nera” ma è già nella fase calante della sua carriera.

Nel film, Jeff Bridges, figlio d’arte e star in ascesa, è il rampollo di una ricca famiglia di speculatori immobiliari, che va per comprare una palestra da radere al suolo e invece si appassiona alla vita dei culturisti che lì si allenano, oltre che innamorarsi della graziosa Mary Tate interpretata dall’altrettanto giovane star in ascesa Sally Field; va da sé che si schiera con gli sportivi e manda all’aria i contorti rapporti familiari, avviandosi verso il lieto fine con la sua amata: molta retorica, musica triste sui tristi ricordi, commedia agrodolce con diversi momenti macchiettistici abbastanza forzati e fuori luogo, che davvero non si capisce cosa ci voglia raccontare – al contrario del romanzo che, leggo, ha un finale amaro e una profondità narrativa che nel film non c’è. Ma Schwarzenegger fa la sua bella figura, sia mostrando i muscoli che come attore, e questo basta.

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Sally Field e Jeff Bridges di nuovo insieme sul red carpet nel 2012

Jeff Bridges girerà subito dopo il “King Kong” con Jessica Lange (Oscar speciale a Carlo Rambaldi che farà una tripletta con “Alien” e “E.T.”) e inanellerà una lunga serie di candidature fino all’Oscar e Golden Globe nel 2010 per “Crazy Heart”. Sally Field arriverà prima agli Oscar, due, nel 1979 con “Norma Rae” e nel 1984 con “Le stagioni del cuore”. I due reciteranno di nuovo insieme nel 1982 nella commedia “C’è… un fantasma tra noi due” di Robert Mulligan, inutile remake del successo brasiliano “Donna Flor e i suoi due mariti” del 1976.

Arnold Schwarzenegger vincerà con questa sua interpretazione il Golden Globe come Migliore Attore Esordiente e poi accumulerà molti altri premi secondari per una carriera che è impossibile ignorare, e che lo condurrà al governatorato della California. Niente male per uno che a 21 anni, già detentore del titolo di Mister Universo più giovane della storia, è stato anche un clandestino. Era cresciuto in Austria andando bene a scuola e distinguendosi negli sport: calcio, curling, nuoto, pugilato, getto del peso e lancio del giavellotto; poi a 14 anni intraprende la carriera del culturista e a 18 anni, mentre era sotto il servizio militare, diserta per andare a vincere il titolo di Mister Europa juniores. Fattosi un paio di settimane di carcere militare, ma c’è chi dice un paio di mesi, continua a vincere altri titoli e poi, concluso il servizio militare, vola a Londra per partecipare a Mister Universo 1966, dove arriverà secondo. Ma viene notato da un giudice e riceve ospitalità e un training mirato che l’anno dopo gli farà vincerà l’agognato titolo. Col suo rudimentale inglese si trasferisce a New York e quando gli scade il visto d’ingresso rimane come clandestino. Continua ad allenarsi e, rimesse a posto le pendenze legali, a 23 anni vince il titolo di Mister Olympia, che manterrà per i successivi sei anni, e siccome è un bravo ragazzo molto volenteroso, si iscrive anche all’università, in economia aziendale. Nel 1977 trovò anche il tempo di scrivere e pubblicare la sua autobiografia nonché guida all’allenamento fisico dal titolo “Arnold: The Education of a Bodybuilder” che ebbe grande successo. Come si fa a non tifare per lui? Fisico di ferro e volontà d’acciaio!

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Ma come entrò in politica, e soprattutto perché nel conservatore Partito Repubblicano, quando notoriamente la gente di spettacolo è di idee liberali? Si dichiarò repubblicano durante le elezioni presidenziali del 1988 schierandosi con George W. Bush, ottenendo poi la nomina a presidente del Consiglio Presidenziale per lo Sport e l’Attività Fisica. Successivamente ricoprì il ruolo di presidente del consiglio del governatore della California per lo sport e l’attività fisica: si preparava a scendere in campo come governatore lui stesso. Al convegno nazionale repubblicano del 2004 spiegò le ragioni, puramente sentimentali, della sua affiliazione politica: “Arrivai finalmente qui nel 1968. Fu un giorno speciale. Ricordo che arrivai qui con le tasche vuote ma piene di sogni, piene di determinazione, piene di desiderio. La campagna presidenziale era in piena attività. Ricordo di aver guardato la battaglia presidenziale tra Nixon e Humphrey alla tv. Un mio amico che parlava tedesco e inglese tradusse per me. Sentii Humphrey dire cose che suonavano come socialismo, che io avevo appena lasciato. Ma poi sentii parlare Nixon: stava parlando della libera impresa, di lasciarsi il vecchio governo alle spalle, di abbassare le tasse e rinforzare l’esercito. Ascoltare Nixon parlare sembrava più un respiro d’aria fresca. Dissi al mio amico, dissi: “di che partito è lui?” Il mio amico disse: “è un repubblicano”. Dissi “allora io sono un repubblicano”. E da quel momento sono stato un repubblicano.” Ma sarà un repubblicano con un’anima liberal: si è battuto contro il razzismo, l’inquinamento e il riscaldamento climatico, nel maggio del 2004 e del 2007 è stato inserito nella lista “Time 100” come una delle cento persone più influenti impegnate per aiutare il mondo. All’inizio degli anni novanta si era già impegnato nella promozione delle “Olimpiadi Speciali” con l’intento di promuovere l’attività fisica e l’indipendenza delle persone affette da disturbo mentale. E’ stato commissario esecutivo degli “Inner City Games”, organizzati per il recupero dei giovani sfortunati nati alla periferia della metropoli californiana. In seguito a questa esperienza ha creato la fondazione “After School All Stars”, grazie alla quale oltre 600 scuole statunitensi hanno potuto giovare di fondi per la creazione di programmi doposcuola. Nel 2002 ha ideato e proposto la legge 49, poi approvata in tutta la California, grazie alla quale le scuole dello Stato hanno ricevuto contributi per realizzare programmi di recupero e borse di studio. Negli anni ha avuto incarichi politici nel settore della promozione all’attività fisica, durante la prima amministrazione Bush e durante quella di Clinton. Più liberal di così!

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“Faccio film che alla gente piacciono. È così semplice. Basta fare in modo che i film rimangano impressi nella memoria, non semplicemente fare un film in più. Bisogna avere il giusto sesto senso e saper estrarre il meglio come “Hasta la vista, baby” oppure “Ti ho mentito!”. Si supera un po’ il limite. La gente adora tutto ciò, i bambini lo adorano. Si fa poi qualcosa di atletico, un po’ di palestra e le persone pensano che tu sia figo.”