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Cinecittà Babilonia: sesso, droga e camicie nere

Un documentario che gli appassionati di cinema non possono perdere. Passato a suo tempo su Rai1 è oggi disponibile su Sky, è l’ennesima prova filmica del giornalista critico cinematografico Marco Spagnoli, attento ricercatore, che ha già all’attivo “Hollywood sul Tevere” e biografie di Anna Magnani e Giuliano Montaldo. Qui mette per la prima volta insieme filmati d’archivio dell’Istituto Luce e del Centro Sperimentale di Cinematografia, aprendo il film con l’inaugurazione di Cinecittà voluta da Benito Mussolini.

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Ma cos’era il cinema italiano prima di Cinecittà? C’era stato il glorioso periodo del cinema muto, con la prima società di produzione italiana, la Alberini & Santoni fondata a Roma nel 1905, che realizzò il primo film italiano a soggetto: “La presa di Roma”, girato per celebrare il 35° anniversario dell’ingresso delle truppe italiane nella futura capitale dello Stato unitario. Con l’arrivo di nuovi finanziatori, l’anno dopo, la Alberini & Santoni si trasforma nella Cines, che fu una delle più importanti società di produzione, che realizzava in proprio la pellicola vergine, e che per colpa di quella pellicola, altamente infiammabile, subì un primo incendio nel 1907 e un secondo, definitivo per le sorti della casa, nel 1935.

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Bisogna ricordare che l’epoca del muto fu gloriosa per le produzioni italiane, con il primo kolossal che divenne il più famoso nel mondo, “Cabiria – Visione storica del terzo secolo a.C.” dell’inusitata durata di quasi tre ore, regia di Giovanni Pastrone e didascalie di Gabriele D’Annunzio alla ricerca di soldi facili; che rimase in cartellone a New York per dieci mesi e fu il primo film ad essere proiettato alla Casa Bianca del poco noto presidente William Howard Taft; la pellicola, come si chiamava allora, ma anche la film, fu prodotta dalla Itala Film Torino, e il capoluogo piemontese era all’epoca una delle città in cui si producevano più film, insieme a Roma, Milano e Napoli; ma si produceva anche a Genova, Brescia, l’Aquila, Sanremo, Firenze, Venezia, Cagliari, in pratica si facevano film in tutta Italia, e in quanto siciliano devo ricordare Palermo con la Astrale Film e la Lucarelli Film, Catania che schierava Etna Film, Jonio Film, Sicula Film, Trinacria Film e Katana Film, senza dimenticare la Cephaledia Film di Cefalù, Messina.

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Vittorio Mussolini

Negli Anni Venti questa produzione diffusa entrò in crisi, surclassata dal cinema espressionista tedesco e, non è storia nuova, da quello americano che produceva i colossal di D. W. Griffith e le comiche di Buster Keaton e Charlie Chaplin. Per fronteggiare questo disastro, il capo del governo Benito Mussolini varò nel 1931 una legge che penalizzava le importazioni per stimolare la produzione nazionale, ma fu con il definitivo incendio della Cines che il progetto di Cinecittà prese il via. Mussolini, che amava il cinema e ben ne prefigurava le potenzialità propagandistiche, aveva un valido braccio destro nel suo secondogenito Vittorio, il quale aveva trasformato la sua giovanile passione per il cinema in una vera professione, apparentemente scevra dalla visione politica del padre; nel 1937 era volato negli Stati Uniti, nella fascinosa Hollywood, per allacciare rapporti commerciali con le major; ma per il nome che portava fu accolto con ostilità, un’ostilità che lo stupì e addolorò, data la sincerità della sua passione per il cinema, e ignorando il fatto che suo padre stava in quei giorni costituendo con Adolf Hitler l’Asse Roma-Berlino per sostenere Francisco Franco nella presa della Spagna – o forse aveva ritenuto che una cosa sarebbe rimasta disgiunta dall’altra. Nonostante l’infelice trasferta americana continuò ad ammirare quel sistema produttivo e aveva scritto in un intervento sulla gloriosa rivista “Cinema”: “Per la nostra cinematografia seguire la scuola americana può dir molto; non accodiamoci al cinema europeo di oggi.” Dirigerà poi quella rivista dal 1938 al 1943 e sarà anche sceneggiatore e produttore con lo pseudonimo anagrammatico di Tito Silvio Mursino.

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Ma torniamo a Cinecittà. Tale Carlo Roncoroni, deputato della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, aveva dapprima acquistato gli studi della funzionante Cines che, come detto, vennero definitivamente distrutti da un incendio nel 1935, e rimangono i dubbi sulla reale natura dell’incendio. Sta di fatto che Roncoroni, grazie a un generosissimo contributo di 4 milioni di lire del Ministero delle Finanze, aveva preventivamente acquistato a sud della città, lungo la via Tuscolana, in piena campagna, un’area di circa 600mila metri quadrati dove, guarda caso, fu decisa la realizzazione della nuova città del cinema con tutte le modernità tecniche e i conseguenti nuovi metodi produttivi appresi a Hollywood e per fare concorrenza a Hollywood. Il 30 gennaio del 1936 fu posta la prima pietra e già quindici mesi dopo, il 28 aprile del ’37, Cinecittà fu inaugurata.

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Si inaugura così la cosiddetta epoca cinematografica “dei telefoni bianchi” quando l’oggetto comune nelle case comuni, seppur benestanti borghesi, era fatto di nera bakelite: il telefono bianco è dunque sinonimo di un’altra società, più alta società, socialmente e geograficamente non ben definita, dove venivano raccontati commedie e drammi sentimentali in stile feuilleton, romanzi d’appendice, atti a far sognare le masse con quelle messinscena scintillanti quanto inesistenti: la guerra è vicina. Quelle storie, dette anche “commedia all’ungherese” per via delle trame che spesso erano tratte dalla letteratura, allora in voga, di quel paese, erano comunque ambientate genericamente nell’Est Europa dato che trattavano argomenti come tradimenti e divorzi che non potevano essere veicolati come comportamenti italici. E va detto che la censura fu in quel periodo assai blanda dato che gli autori si auto censuravano, preventivamente e compiacentemente. Divi di quel cinema, ispirato principalmente alle commedie glamour dell’americano Frank Capra (nato Francesco Rosario Capra a Bisaquino, periferia di Palermo), furono principalmente Rossano Brazzi, Gino Cervi, Vittorio De Sica, Amedeo Nazzari, come protagonisti di un cinema storicamente e necessariamente maschilista. L’intento di questo documentario è rendere omaggio alla bellezza e al talento, e qualche volta al coraggio, della controparte femminile, una serie di dive oggi ingiustamente dimenticate per quel loro essere state protagoniste di un cinema maschile e misogino. Con questo intento l’autore immagina delle testimonianze dirette delle varie Clara Calamai, Maria Denis, Elsa De Giorgi, Carla Del Poggio, Doris Duranti, Luisa Ferida, Isa Miranda, Alida Valli, facendole interpretare alle allieve del Centro Sperimentale di Cinematografia, vestite da Maurizio Millenotti con i costumi Tirelli, e truccate dal premio Oscar Manlio Rocchetti appena prima della sua scomparsa. E questa parte fiction è la più debole del film, perché per fare fiction bisogna prima saperla scrivere e poi saper dirigere gli interpreti: Marco Spagnoli confeziona per le ragazze dei monologhi che mettono insieme reali testimonianze imbastite in una narrazione dallo stile che rimane giornalistico, con eccesso di verbi e avverbi, e ognuna delle interpreti con quel materiale fa quel che può, qualcuna facendo meglio, altre facendo del loro meglio. La voce narrante è quella di Vinicio Marchioni, il Freddo della serie tv “Romanzo Criminale”, da cui proviene l’altra voce, Alessadro Roja (il Dandi), che dà il suo timbro troppo giovanile e la sua dizione da rivedere a scuola, a Vittorio Mussolini.

In chiusura voglio ricordare che di quella schiera di attrici che il documentario omaggia, quelle che ebbero una carriera duratura, fino alla vecchiaia, furono Elsa Merlini, nata nell’austro-ungarica Trieste come Elsa Tscheliesnig, che forte di una carriera teatrale, e anche come cantante, non si lascia coinvolgere dal sistema cine-fascio e torna al palcoscenico per poi approdare alla televisione.

L’altra diva dalla lunga carriera fu la statuaria e bellissima Alida Valli, nata nell’italica Pola oggi in Croazia come Alida Maria Altenburger von Marckenstein und Frauenberg: antifascista, esce allo scoperto nel 1943 rifiutando di trasferirsi nella Repubblica di Salò per continuare la carriera nei film di propaganda, e rimane a Roma nascondendosi alle retate. Alla fine della guerra si trasferisce a Hollywood su invito per del produttore David O. Selznick che voleva lanciarla come la Ingrid Bergman italiana; ma dopo pochi film, fra cui “Il Caso Paradine” di Hitchcock, non sopportando le regole imposte dal produttore rescisse il contratto pagando una forte penale. Negli ultimi anni si darà al teatro.