Archivi categoria: i due satyricon in concorrenza

Fellini Satyricon

FELLINI - SATYRICON - Film (1969)

1969. Quattro mesi prima era uscito in tutta fretta il “Satyricon” prodotto da Alfredo Bini, ma pare che non fu solo un’azione prettamente concorrenziale e in cerca di facili incassi, quanto piuttosto la risposta piccata a uno sgarbo: era da tempo che il produttore parlava con Federico Fellini della possibilità di fare del Satyricon un film ma quando il regista stipula un accordo con un altro produttore, Alberto Grimaldi, decide di andare avanti con un suo personale Satyricon da fare uscire nelle sale prima di quello di Fellini, per bruciarne l’uscita. La storia del cinema ci dice che invece accadde il contrario e fu lui a restare bruciato: l’orgoglio è quasi sempre un cattivo consigliere.

Federico Fellini e Alberto Grimaldi

D’altro canto Federico Fellini già dall’anno prima aveva stabilito un proficuo rapporto con Alberto Grimaldi quando il produttore gli aveva chiesto di dirigere l’episodio “Toby Dammit” nel film a episodi “Tre passi nel delirio” da tre racconti di Edgar Allan Poe, gli altri due diretti da Roger Vadim e Louis Malle. Per il produttore la collaborazione con Fellini, che già da un decennio era un regista internazionalmente apprezzato che praticamente a ogni uscita veniva candidato all’Oscar, sarebbe stato il definitivo riconoscimento come produttore di film d’autore e di qualità. Aveva debuttato producendo il misconosciuto “L’ombra di Zorro” e poi colpito da “Per un pugno di dollari” col quale Sergio Leone stava rinnovando il genere western (ma per lui la fama di maestro era di là da venire e gli spaghetti-western erano considerati film di serie B) produsse i due seguiti che formeranno “La trilogia del dollaro”: “Per qualche dollaro in più” e “Il buono, il brutto, il cattivo”. Quindi, dopo aver preso parte alla coproduzione italo-francese di “Tre passi nel delirio” stese davanti a Fellini tappeti rossi, come si dice, dandogli praticamente carta bianca, come si dice, perché realizzasse il suo Satyricon, che arriverà nelle sale come “Fellini Satyricon” per distinguerlo dalla concorrenza, che come la concorrenza, però, altrettanto incapperà nelle maglie della censura.

CHE REBUS QUEL REBIS… – L'Archipendolo
L’Ermafrodito

Fellini lo scrive insieme a Bernadino Zapponi, che aveva voluto come sceneggiatore del suo episodio in “Tre passi nel delirio” dopo aver letto una sua raccolta di racconti fantastici, “Gobal”, e sarà l’inizio di una lunga e proficua collaborazione. Per questo Satyricon la vena fantastica e gotica di Zapponi unita alla visionarietà di Fellini sforna una sceneggiatura meno fedele al libro e a cui aggiunge scene totalmente nuove, come quelle dell’oracolo ermafrodita e del Minotauro. Nel complesso il film che Fellini realizza, e da disegnatore creando anche dei bozzetti per la scenografia realizzata da Danilo Donati che firma anche i costumi, è un Satyricon frammentario in cui la storia dei protagonisti si mette insieme per accumulo di sequenze – e non ha la logica narrativa del precedente film; dell’altro Satyricon non ha neanche la satira ridanciana e divertita, ancorché volgare, ed è piuttosto un film cupo e letargico, ricco di una visionarietà simbolica, e dove l’altro semplificava per offrirsi a un pubblico di massa questo di Fellini si fa esoterico e si offre alla lettura di pochi, e il viaggio a tappe dei protagonisti, anziché spudorato e satiresco, diventa un percorso di conoscenza iniziatico pervaso dal senso incombente di morte.

Nella consapevolezza di dover raccontare un’epoca remota della quale umanamente non sappiamo nulla – se non dal materiale morto degli scritti e delle immagini, pitture mosaici sculture monete ceramiche – piuttosto che vivificare i personaggi in un contesto realistico e verosimile, ne fa delle maschere inserite in un mondo onirico e fantastico, spesso inceppati in gesti meccanici e ripetitivi, spesso salmodianti in lingue morte o sconosciute, latino o greco antico o dialetto africano, inseriti in scenari lunari che a volte sembrano installazioni d’arte contemporanea, installazioni che suggeriscono – senza banalmente descrivere – un mondo e un’epoca; altrettanto i personaggi non sono altro che maschere di trucco che nascondono altre maschere, ovvero gli attori, che Fellini vede – e vedrà in futuro – solo come vuote marionette che vivificano i suoi bozzetti, bellissimi o bruttissimi senza via di mezzo, senza volti resi anonimi dalla normalità, maschere con un fascino esasperato dal trucco o portatrici di una bruttezza congenita, di lineamenti imperfetti e membra distorte ricercati con cura fra i figuranti in cui Fellini inserisce i freak, nani e deformi e mutilati, in una fantasmagoria, però, in cui anche la bellezza è freak, un capriccio non della natura ma d’autore.

Fellini - Satyricon | Trailers and reviews | Flicks.com.au

Per Fellini gli attori, dunque, non sono altro che maschere e burattini, siano essi professionisti o gente presa dalla strada, stranieri o italiani, poco importa: per lui sono solo i suoi bozzetti che prendono vita tridimensionalmente, ai quali fa recitare anche una sequenza di numeri a cui poi darà un senso in sala doppiaggio. Un grande regista burattinaio, un Mangiafuoco che per decenni ha dato smacco ai professionisti volto-voce, che nell’utilizzare i suoi tipi presi dalla strada ha snaturato la pratica espressionista e stilistica del cinema del neorealismo che per rappresentare le sue storie vere in risposta al cinema manierato cercava i suoi interpreti fra la gente vera. Fellini è, suo malgrado e inconsapevolmente, un antesignano del cinema digitale dove i personaggi si creano con la computer grafica: lui prendeva le persone reali, analogiche, e attraverso il trucco e il doppiaggio le faceva diventare i suoi personaggi virtuali; una pratica che nel suo caso, poiché indiscutibile Maestro, era una componente del suo stile, ma che in molti altri casi era diventato un malcostume. Una pratica oggi resa assai più difficile grazie a una legislatura che impone la presa diretta per i film di produzione italiana, dove anche gli stranieri devono perciò recitare in italiano, cui però si aggiunge una nuova deriva: quella degli interpreti presi dalla strada che biascicano incomprensibilmente a prescindere dal loro dialetto.

Encolpio e Ascilto sono interpretati da due baldi giovani e sconosciuti stranieri, Martin Potter e Hiram Keller, che spesso percorrono in perizoma un film in cui il nudo è ancora più esibito che nel primo Satyricon offerto alle masse: lì restava funzionale alle scene erotiche e non si mostrava più che mezza chiappa o un seno vedo e non vedo; Fellini fa del nudo, anche integrale in campo lunghissimo, una cifra stilistica del suo film. Lo schiavetto Gitone, impersonato da Max Born, è meno presente ma più scollacciato e, benché sembri un adolescente è già diciottenne. Il 25enne inglese Martin Potter continuerà la carriera di attore fra cinema e tivù senza altri grossi exploit, mentre il coetaneo americano Hiram Keller, già modello adolescente che aveva avuto un piccolo ruolo nel precedente film di Fellini “Giulietta degli spiriti”, avrà una carriera fatta di ruoli secondari quando non addirittura marginali e si ritirerà nel 1982; morirà di cancro 53enne. Per Max Born il Satyricon rimane un’esperienza occasionale e oggi è un cantautore folk.

Fellini-Trimalchio | Doppiozero
Salvo Randone

Il poeta e parassita Eumolpo ha la mimica del grande siracusano Salvo Randone, qui doppiato da Renato Turi, e va specificato che avendo fatto molto cinema è stato qualche volta doppiato probabilmente a causa dei suoi impegni teatrali che costringendolo in tournée lo tenevano lontano dalle sale di doppiaggio romane; rimane indimenticato il suo Innominato nei “Promessi Sposi” Rai e anche lui purtroppo, come tanti altri professionisti dello spettacolo grandi e piccoli, finirà i suoi anni in miseria e gli verrà riconosciuto l’appannaggio della Legge Bacchelli.

Fellini-Trimalchio | Doppiozero

Per il ruolo del liberto arricchito Trimalcione, che nei frammenti del Satyricon di Petronio è il passaggio più ampiamente conservato, Fellini avrebbe voluto Bud Spencer che però rifiutò essendo prevista una scena di nudo, scena che poi nel film non ci fu più lasciando a Bud Spencer l’amaro in bocca. Nel film di quattro mesi prima Trimalcione è una figura centrale che dà a Ugo Tognazzi l’occasione di gigioneggiare e giganteggiare, ma nel film di Fellini il personaggio è ridimensionato e prende più spazio il rito orgiastico della cena.

Il ristorante romano “Al Moro” com’è oggi, che ricorda nella gigantografia il suo fondatore

Per questo personaggio Fellini ha il suo lampo di genio nello scritturare un oste romano, tale Mario Romagnoli proprietario del ristorante “Al Moro” e come Il Moro accreditato nel film: Fellini disse che era stato colpito dal suo sguardo “sabbioso” da “Onassis tetro”, e questo la dice lunga su quanto fosse evidente la sua visione cupa del Satyricon, in contrasto a quello solare colorato e ridanciano della concorrenza. Lo farà doppiare da Corrado Gaipa.

A fare da contorno a Trimalcione, e a metterlo in ombra con le loro danze orgiastiche e i loro baci lesbo, sono Fortunata Trifena e Scintilla; la prima è impersonata dalla francese Magali Noël venuta in Italia a interpretare ruoli di femme fatale, e che per Fellini aveva recitato in “La dolce vita” e di nuovo sarà in “Amarcord” con l’indimenticabile patetico dolce ruolo della Gradisca. Trifena, che percorre il film in altre scene, ha la bellezza statuaria della modella franco-svizzera Capucine, al secolo Germaine Hélène Irène Lefebvre, poi attrice a tempo pieno anche a Hollywood. Scintilla è la jugoslava Danika La Loggia, nata Pajovic e coniugata con un italiano, caratterista per un ventennio nel cinema italiano, chiude la sua carriera nel 1987 facendo letteralmente perdere le sue tracce.

Martin Potter - Rotten Tomatoes
Eumolpo e Lica mimano un matrimonio omosessuale

Il francese Alain Cuny, attore di gran classe con lunga frequentazione del cinema italiano, già con Fellini in “La dolce vita” è qui nel ruolo dell’ambiguo pirata Lica che ammaliato dalla bellezza di Eumolpo mette in scena un matrimonio omosex, graziosamente indossando un velo da sposa sul suo volto quadrato e segnato che ha dato e ancora darà vita a molti personaggi drammatici e complessi per registi come Michelangelo Antonioni, Louis Malle, Luis Buñuel, Francesco Rosi, Marco Ferreri, nonché interprete dell’unico film da regista del controverso scrittore Curzio Malaparte.

Un personaggio al giorno: FANFULLA | Commedia italiana

Al comico Fanfulla, all’anagrafe Luigi Visconti e nessuna parentela col regista Luchino, Fellini affida il ruolo di Vernacchio, il capocomico di una compagnia di attori che mettono in scena i vizi e i vezzi della Roma Imperiale in cui vivono, unico momento di satira in linea con il testo petroniano, la rappresentazione di una satira beninteso, ché a Fellini non importa fare satira né tanto meno essere storicamente accurato: i frammenti dell’antico testo sono per lui ispirazione per un film fantasy in cui l’immagine, l’estetica, i personaggi-marionette e le scene-contenitori, sono più importanti del testo stesso che diviene un percorso iniziatico per noi spettatori, dove ognuno può pure trovare quello che crede: sia una nuova ispirazione per ulteriori fantasie che una risposta ai propri dubbi e ai propri demoni. Fanfulla, che ha una sua compagnia di avanspettacolo con la quale gira l’Italia, è stato usato poco e male nel cinema dove ha recitato in ruoli secondari quando non del tutto marginali. Fellini è l’unico a dargli spazio e con questo film, benché anche lui doppiato, da Carlo Croccolo, vince il Nastro d’Argento come Attore non Protagonista ex aequo con Umberto Orsini per “La caduta degli dei” di Luchino Visconti; il terzo concorrente rimasto a bocca asciutta era Alberto Sordi per “Nell’anno del Signore” di Luigi Magni. Fanfulla lavorerà ancora con Fellini l’anno dopo in “I Clowns” ma finite le riprese morì d’infarto mentre era in tournée, a soli 57 anni.

Lucia Bosè morta di polmonite: addio alla star del cinema italiano e madre  di Miguel

Lucia Bosè, già gran diva del cinema italiano dopo essere stata incoronata Miss Italia nel 1947 sbaragliando altre bellezze che come lei si daranno al cinema, nell’ordine di prossimità al podio: Gianna Maria Canale, Gina Lollobrigida, Eleonora Rossi Drago e Silvana Mangano. Insieme al misconosciuto e poi sparito nel nulla Joseph Wheeler di cui resta traccia un secondo film, “Gradiva” del 1970, unica regia cinematografica di Giorgio Albertazzi, Lucia Bosè è protagonista di un quadro in cui una coppia patrizia si suicida bevendo veleno da coppe dorate per sottrarsi alle rappresaglie del nuovo imperatore, poiché fedeli sostenitori del vecchio regime. Anche qui, come per la satira nel quadro dedicato al teatro, Fellini mette in scena un’azione politica, politica insita nella satira petroniana ma del tutto occasionale e solo rappresentativa nel film. Egli vede la coppia con distaccato rispetto, quasi reverenziale, filmando la loro dignitosa pacatezza e mettendoli in scena, unici in tutto il film, senza fronzoli e senza un trucco esagerato, facendo risaltare la naturale bellezza di Lucia Bosè e l’avvenenza del suo sconosciuto compagno di scena.

Completano il cast l’ex culturista americano Gordon Mitchell, qui nel ruolo di un predone ma nel nostro cinema protagonista di tanti peplum della serie di Maciste e di tanti poliziotteschi e spaghetti-western. L’altrettanto aitante Luigi Montefiori, che abbiamo già visto in “Bordella” di Pupi Avati del 1976 e che con lo pseudonimo di George Eastman avrà anche lui una proficua carriera nel nostro cinema di serie B, qui interpreta un gladiatore travestito da Minotauro che, dopo aver lottato sconfiggendo l’imbelle Encolpio, chiede di salvarne la vita all’imperatore, imperatore che Fellini fa impersonare en travesti alla francese Tanya Lopert.

Le tre vite di Marcella: uomo, donna nel fulgore della sua bellezza come appare nella copertina della biografia, e infine anziana serena signora

Il proconsole dell’imperatore è affidato alla mimica di Marcello Di Folco, un nome che merita una specifica messa a fuoco. Qui è al suo debutto cinematografico, scoperto da Fellini mentre si aggirava a Cinecittà per consegnare una lettera, che lo prende sotto la sua ala protettiva e facendosene in qualche modo pigmalione. Marcello era un estroverso omosessuale protagonista delle trasgressive notti romane che ruotavano attorno al Piper Club. Fu l’inizio di una carriera cinematografica fatta per lo più di piccoli ruoli equamente divisi fra cinema di serie A e B, da “In nome del popolo italiano” di Dino Risi a “Quant’è bella la Bernarda, tutta nera, tutta calda” di Lucio Dandolo. Fellini lo volle di nuovo in “Roma” e soprattutto in “Amarcord” dove interpretò il principe Umberto di Savoia cui si offre la Gradisca di Magali Noël con la leggendaria frase “Signor principe… gradisca.” Questo ruolo gli fece guadagnare quello di protagonista nella miniserie Rai “L’età di Cosimo de’ Medici” firmata da Roberto Rossellini. Ma viveva una forte depressione a causa della sua disforia di genere e nel 1980 si risolse al gran passo e volò a Casablanca per cambiare sesso: in quegli anni era attivamente impegnato nel Movimento Italiano Transessuali che si batteva per fare approvare in Italia una legge sul cambio di sesso, approvata nel 1982. Come donna lavora per l’ultima volta con Fellini in “La città delle donne”, 1980. Intraprende la carriera politica e fu eletta consigliere comunale a Bologna nel 1995, prima donna al mondo eletta a una carica pubblica ad essere nata maschio. Morirà 67enne di tumore nel 2010. Nel 2014 le viene dedicato il film documentario-biografico di Simone Cangelosi “Una nobile rivoluzione” di cui ho parlato in questo blog. Nel 2019 esce il libro “Storia di Marcella che fu Marcello” scritto da Bianca Berlinguer. Per la sua carriera cinematografica ha recuperato il cognome Di Falco che un errore di trascrizione all’anagrafe aveva trasformato in Di Folco.

Un altro debutto è quello del 19enne Alvaro Vitali, un elettricista con la passione per il ballo e il canto, che Fellini mette sul palcoscenico del capocomico Vernacchio come imperatore bamboccio e fantoccio: non più che una figurazione di pochi secondi ma bastevoli a farci riconoscere il suo inconfondibile viso dall’espressione eternamente smarrita. Fellini lo userà ancora in “I Clowns”, “Roma” dove finalmente potrà ballare il tip-tap come ballerino d’avanspettacolo, e “Amarcord”; mentre per conto suo si avvia a una brillante carriera con piccoli ruoli da caratterista in film importanti: “Che?” di Roman Polanski, “La Tosca” di Luigi Magni, “Rugantino” di Pasquale Festa Campanile, “Polvere di stelle” di Alberto Sordi… Lo nota il produttore di film di genere Luciano Martino e decolla la sua carriera come spalla in commedie più o meno sexy e poi protagonista della serie di Pierino. Concluso quel filone oggi lamenta di essere stato dimenticato.

Altri interpreti in piccoli ruoli: Carlo Giordana, fratello minore del più noto Andrea, nel ruolo di un capitano di vascello; e come figuranti il comico americano Richard Simmons e un ragazzo che risponde al nome di Renato Fiacchini e che impareremo a conoscere come Renato Zero. La critica dei decenni posteriori è divisa nel considerare questo film un capolavoro o al contrario uno dei film minori di Federico Fellini. Io propendo per la definizione di capolavoro imperfetto perché decisamente non si può considerare minore data la sua sontuosità ma neanche perfetto per tutta una serie di annotazioni che ognuno può personalmente trovare. Di fatto fu un successo commerciale che l’anno dopo avrà una parodia a firma Mariano Laurenti con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia e intitolato “Satiricosissimo”. Ovviamente Fellini ebbe anche la nomination come Miglior Regista all’Oscar 1971, insieme a Ken Russell per “Donne in amore”, Robert Altman per “M*A*S*H”, Arthur Hiller per “Love Story” e Franklyn J. Shaffner che vinse con “Patton, generale d’acciaio”. Ma adesso sono curioso di vedere il film a episodi al quale ha partecipato: “Tre passi nel delirio”.

Satyricon – ma non è Fellini

eMoviePoster.com: 1w016 SATYRICON linen Italian 1p '68 sexy orgy montage  art by Averardo Ciriello!

Era il 1969. Si sparge la voce che Federico Fellini, già pluricandidato all’Oscar come sceneggiatore e regista, e ne riceverà uno onorario nel 1993, sta preparando il suo prossimo film dal Satyricon attribuito a Petronio Arbitro, e si scatenano gli appetiti. Dell’opera, che immaginiamo assai ampia poiché sono giunti fino a noi pochi frammenti relativi ai Libri XIV e XVI, si sa che è sporcacciona e soprattutto mette in cattivissima luce la bella società della Roma Imperiale, due ragioni per le quali probabilmente gli scritti sono stati distrutti già all’epoca, ma oggi ce n’è abbastanza per ricostruire il contesto e, soprattutto, far correre l’immaginazione.

Satiro - Nonciclopedia

Per Satyricon si intende una raccolta di racconti satireschi, ovvero dei satiri, deità minori che si accompagnano a Dioniso, quindi amanti del vino e delle orge, protettori della fertilità maschile e dediti alla lascivia, spesso raffigurati con una vistosa erezione. Come tale il Satyricon racconta le disavventure del giovane Encolpio che si accompagna al suo amato efebo Gitone e all’amico-nemico Ascilto, e insieme ne fanno, come si dice oggi, di ogni, passando dai riti priapei ai bordelli e alle orge, perdendosi e ritrovandosi in una fantasmagorica girandola di disavventure sempre licenziose e satiriche – facendo attenzione a non assimilare al termine satiro la satira, la cui etimologia viene dal latino satura lanx, ovvero il vassoio colmo di primizie da offrire agli dei; la satira era, e ancora dovrebbe essere, un genere di narrazione, e in generale di comunicazione, che si caratterizza per l’attenzione critica verso la società e i suoi protagonisti, mettendone a nudo le contraddizioni le debolezze e i vizi con l’intento di promuovere un cambiamento sociale attraverso una forma di denuncia che passa dal paradosso e dal grottesco mettendo in ridicolo persone e situazioni. Per queste sue caratteristiche eversive la satira non è mai stata amata dai tiranni ed è sempre indigesta a qualsiasi regime. Il Satyricon è satirico a cominciare dalla forma narrativa che imita e volgarizza l’Odissea, trasformando il viaggio esperienziale e iniziatico di Ulisse in un viavai grottesco e licenzioso di Encolpio fra riti iniziatici priapei, prostitute, matrone lascive, cene luculliane e disinvolti amori omosessuali. Figura centrale è l’arricchito liberto Trimalcione che ostentando con eccentricità la sua ricchezza, ma anche la sua ignoranza, è una dichiarata critica a certe personalità pubbliche dell’epoca.

Laceno d'Oro 2015, Alfredo Bini "ospite inatteso" - Avellino Zon
Alfredo Bini

Nessuno immagina cosa ne farà Fellini, anche se a guardare la sua immaginifica cinematografia è chiaro che straborderà in ricercate fantasie. Alfredo Bini, produttore stimato colto e coraggioso, spesso anche in controcorrente (e per le cronache rosa marito felice dell’attrice Rosanna Schiaffino) avvia questo suo progetto sul Satyricon dopo aver prodotto solo film colti e d’autore: ha debuttato producendo “Il bell’Antonio” da Brancati diretto da Mauro Bolognini e poi produce tutti i film di Pier Paolo Pasolini che vanno da “Accattone” a “Edipo Re”; non c’è quindi da stupirsi che l’opera di Petronio rientri nei suoi progetti. Affida la sceneggiatura a un maestro della commedia all’italiana, Rodolfo Sonego di cui basta ricordare un titolo fra tanti: “La ragazza con la pistola” regia di Mario Monicelli con Monica Vitti; e lo sceneggiatore cerca di restare il più fedele possibile ai frammenti disponibili, dando un senso logico alla vicenda e immaginando un contesto plausibile, con qualche caduta di stile qua e là dato il non facile spinoso argomento, congiunto alla necessità di confezionare un film che possa attirare il pubblico. Alla regia viene chiamato Gian Luigi Polidoro, curriculum da bravo documentarista – nel 1959 era stato candidato all’Oscar con un cortometraggio documentario – e che si era più recentemente messo in luce dirigendo Alberto Sordi in “Il diavolo”, scarso successo di pubblico ma vincitore dell’Orso d’Oro al Festival di Berlino del 1963.

Don Backy come appare nel film, fra Ninetto Davoli e il modello caravaggesco

Il cast è in linea con questa scelta che oggi definiremmo populista: protagonista è il cantante Don Backy (all’anagrafe Aldo Caponi) già molto attivo come attore anche compositore delle musiche dei film, una faccia giusta a metà strada fra Ninetto Davoli e il modello di Caravaggio. L’infido Ascilto è Franco Fabrizi, un protagonista-antagonista del cinema dell’epoca che incarna il tipo del rubacuori di provincia, dell’amico inaffidabile ma seduttivo, sempre cinico e sempre fascinoso; e se Don Backy coi suoi trent’anni ben portati è bene in parte, Fabrizi coi suoi altrettanto ben portati 53 anni risulta meno credibile. Credibilissimo, quanto discutibile e discusso, il 14enne Francesco Pau nel ruolo della schiavetta da talamo Gitone che presto si rivela un maschietto che non disdegna le attenzioni delle matrone viziose.

La presenza nel cast del 14enne attirò gli strali della censura già allertata dal plot narrativo: il film fu sequestrato e seguirono varie controversie perché in effetti il ragazzo era stato coinvolto in scene sessualmente esplicite, esplicite nell’argomento non nell’azione, beninteso, ché i film mainstream con scene di sesso esplicito sono ancora lontane nel futuro. C’è da dire che il ragazzo debuttante è davvero bravo e mostra una consapevolezza seduttiva assai precoce e, guardata da questo punto di vista, anche abbastanza disturbante: attraversa le scene di seduzione, omo ed eterosessuali, con una naturalezza che può venire solo dall’incoscienza o da una precoce e innaturale maturità sessuale. Sta di fatto che il film fece parlare per il sequestro e le censure e le polemiche mettendo in ombra gli aspetti positivi che non mancano, ancorché in un film imperfetto: sceneggiatura frettolosa, recitazione approssimativa, regia che indulge troppo in una visionarietà di maniera sfornando una carrellata di tipi tutti con troppi ombretti e rossetti anche fra il volgo dei figuranti che affollano le scene. Di Francesco Pau si sa che fece altri tre film fino all’età adulta e poi sparì dal mondo cinematografico.

Pinterest
Franco Fabrizi, Don Backy, Francesco Pau e Mario Carotenuto nei triclini della cena di Trimalcione
Satyricon | Filmscoop
Ugo Tognazzi – Trimalcione

Notevole l’ambientazione fra borghi, incastellamenti e passaggi perigliosi, molto tipici e pittoreschi, che viene voglia di sapere dove si trovano. Molto divertente la megera interpretata da un uomo brutto doppiato con voce chioccia femminile. Positiva la presa diretta per la franco-americana Tina Aumont, qui nel ruolo di Circe, che ebbe una proficua carriera nel cinema italiano fino a tutti gli anni ’70. Recita con la sua voce anche Graziella Granata nel ruolo della viziosa matrona Antonia, attrice bella e brava che ebbe una carriera circoscritta nel tempo fra gli anni 1959-1972. Nel ruolo di cerimoniere di Trimalcione, scheggia impazzita o checca impazzita che dir si voglia (non è una nota omofoba ma solo divertita) recita col suo accento spagnolo il mimo danzatore Tito Le Duc che ritroveremo in “Bordella” di Pupi Avati e soprattutto come componente del trio televisivo Le Sorelle Bandiera. Il film fa un decisivo salto di qualità quando entra in azione l’anziano caratterista Mario Carotenuto, volto noto della Rai e spalla di lusso in un centinaio di film, qui nel ruolo di Eumolpo, sedicente poeta più a suo agio come ruffiano e parassita, che a metà film conduce il terzetto alla Cena, maiuscola, dell’arricchito ex schiavo Trimalcione, interpretato con gusto dal sornione Ugo Tognazzi, unico nome di spicco nel cast: una presenza centrale di mezzora in un film di due ore che, insieme a Carotenuto, danno sostanza a questo film condannato all’oblio dalle vicende giudiziarie e, soprattutto, dall’arrivo nelle sale quattro mesi dopo dell’altro Satyricon, quello di Fellini, che sarà tutta un’altra storia e tutto un altro Satyricon.

Tornando al produttore Alfredo Bini va detto che con questo suo Satyricon chiude la sua gloriosa casa di produzione Arco Film fondata nel 1960 e dopo una ventina di film, certamente per il dissesto finanziario che il film gli ha procurato. Credeva molto in questo suo progetto, che idealmente si inseriva nel filone dei suoi film controcorrente, dall’impotenza virile narrata nel “Bell’Antonio” al debutto cinematografico dello scomodo Pier Paolo Pasolini, i cui film a tema religioso, “La ricotta” e “Il Vangelo secondo Matteo” gli costano guai giudiziari perché ritenuti blasfemi. Quando il suo Satyricon viene accusato di oscenità Bini risponde con il pamphlet “Appunti per chi ha il dovere civile, professionale e politico di difendere il cinema italiano” e, come produttore cinematografico, fonda altre case di produzione con le quali avvia, tranne pochi casi, la realizzazione di film di serie B, anche di genere erotico tipo “Il Decamerone nero”: quando l’arte non paga. Anche il suo matrimonio con Rosanna Schiaffino naufraga nel 1980 e nel 1983 chiude la sua carriera di produttore con uno scatto di orgoglio coproducendo il kolossal italiano “I paladini: storia d’armi e d’amore” ispirato a “Orlando innamorato” del Boiardo e “Orlando furioso” dell’Ariosto con regia di Giacomo Battiato. Ma la sua parabola umana è sempre più in discesa e a 82 anni è in miseria assoluta e riceve il vitalizio previsto dalla Legge Bacchelli, 400 euro al mese; scrivendo la sua biografia morirà due anni dopo. Per chi volesse approfondire è possibile leggere on line o scaricare il suo pamphlet in questo link:
https://ui.codk.site/download.php?file=appunti+per+chi+ha+il+dovere+civile%2C+professionale+e+politico+di+difendere+il+cinema+italiano+-+alfredo+bini