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Diabolik – 1968

1968. Il fumetto Diabolik nato sei anni prima è già un grande successo e dunque la trasposizione cinematografica fa gola ai produttori, soprattutto dopo che Kriminal, nato dopo Diabolik, è già diventato un film e un sequel è in allestimento nonostante il tiepido successo che, in ogni caso, ha portato a casa le spese con gli interessi: non c’è aspirazione al capolavoro ma l’obiettivo è piazzare un buon action-noir fra i tanti spaghetti-western e i film con Franco e Ciccio. Dino De Laurentiis, ancora per pochi anni padrone di Dinocittà a Roma prima di trasferirsi definitivamente negli USA, acquista i diritti dalle Sorelle Giussani e inizialmente, lui che è un grande scopritore di talenti a basso costo, affida la regia al debuttante Tonino Cervi figlio del divo Gino Cervi, ma qualcosa non funziona perché dopo appena una settimana il neo regista viene licenziato, probabilmente perché ha una forte personalità e vuole avere un maggior controllo sul film; tant’è che quello stesso anno debutta con uno spaghetti-western di cui è anche produttore e co-sceneggiatore con Dario Argento: “Oggi a me… domani a te”, che fu pure un successo, tanto da venire distribuito negli USA.

Mario Bava

Lo screzio deve aver irritato non poco De Laurentiis che non se lo aspettava e ora non ha un degno sostituto; si fa avanti un amico delle sciurette fumettiste, anche sceneggiatore dell’uomo mascherato, l’appassionato di cinema e specificamente di cinema horror Corrado Farina, già regista di cortometraggi amatoriali che hanno ricevuto consensi nei festival nazionali ed esteri; De Laurentiis però non se la sente di affidargli una macchina complessa e milionaria come Diabolik e Farina, per nulla offeso dai dubbi, gli consiglia come regista il re dell’horror Mario Bava. Il film necessitava di parecchi effetti speciali e Bava ne era maestro dato che aveva iniziato a lavorare nel cinema proprio come effettista, divenendo poi direttore della fotografia e operatore di macchina prima di passare alla regia: dunque conosceva molto bene il mestiere e nonostante la lunga e variegata carriera sapeva sempre mettersi al servizio dei progetti, poiché spesso abituato a lavorare con bassi budget in tempi stretti e cast non sempre all’altezza, e confezionando comunque film dignitosi anche se inevitabilmente di serie B – molti dei quali oggi divenuti del cult. Per De Laurentiis era il regista perfetto: gli offrì il budget più alto che il regista avesse mai avuto a disposizione, duecento milioni di lire, che per il produttore erano però spiccioli, abituato com’era a produrre kolossal hollywoodiani come “Guerra e pace” di King Vidor, “Barabba” di Richard Fleischer e “La Bibbia” di John Huston, tanto per citare i più noti; e Bava era così abituato a ottimizzare che i duecento milioni non li spese neanche tutti e De Laurentiis ne fu così contento che subito gli propose di firmare per il sequel, ma il regista gli diede un due di picche perché irritato dal fatto che il produttore gli aveva imposto di non girare scene troppo violente perché intimorito dalla censura, scene che Bava riteneva necessarie in quanto più fedeli al fumetto e alla sua visione del progetto. Il regista ha dichiarato: “Mi ha chiamato per dirigere il seguito. Gli ho fatto dire che sono ammalato, invalido a letto, permanentemente”. Come oggi sappiamo il film non fu un gran successo e non ci fu nessun sequel.

Era il momento di chiudere il cast. Con Mario Bava alla regia, che firmava anche la sceneggiatura a 4, decadde il nome del francese Jean Sorel che era stato scelto da Tonino Cervi e De Laurentiis fu felice di sostituirlo con l’americano John Phillip Law che già aveva sotto contratto per il contemporaneo “Barbarella” di Roger Vadim che stava subendo dei ritardi nella lavorazione, così con un piccolo incentivo spostò l’attore da un set all’altro – Mario Bava però alla fine non ne fu contento perché ritenne l’attore troppo insulso. Come Eva Kant la prima scelta era stata una sconosciuta modella in quanto amichetta di qualcuno della produzione, però dopo appena una settimana di girato fu licenziata perché evidentemente non sapeva recitare, non sapremo mai il suo nome, e al suo posto arrivò sul set nientemeno che Catherine Deneuve: una francese per il francese Jean Sorel che era stato fatto fuori, dato che era una coproduzione Italia-Francia, girata però in lingua inglese guardando al mercato internazionale. Ma anche la Deneuve durò pochi giorni perché non voleva girare le scene di nudo e si era scontrata col regista. C’era bisogno di un’attrice più disponibile e venne chiamata l’austriaca Marisa Mell (Marlies Theres Moitzi sulla carta d’identità) già regina della dolce vita romana da quando Mario Monicelli l’aveva importata per il suo “Casanova ’70”, film che però era del ’65…. sarà che andava di moda portarsi avanti con gli anni, forse anche auto consegnarsi una patente di innovatori, dato che già nel 1962 era uscito “Boccaccio ’70” e quello stesso 1968 usciranno “Montecristo ’70” “Manon ’70” e “Gangsters ’70”. Per l’onore e i soldi della Francia scese in campo il divo Michel Piccoli come Ispettore Ginko, mentre per il nostro Adolfo Celi fu addirittura creato un personaggio ex novo, il cattivo Ralph Valmont, dato che Celi si era appena messo in luce nel cinema internazionale come cattivo in “Agente 007: operazione tuono” (1965) cui erano seguiti altri importanti ruoli oltreoceano – qui però l’attore è doppiato da Emilio Cigoli, la nota voce profonda con un leggero birignao di John Wayne. John Phillip Law fu doppiato da Giancarlo Maestri, Michel Piccoli da Gigi Proietti e Claudio Gora da Roberto Villa. Non si ha notizia della doppiatrice di Marisa Mell.

Il film di Mario Bava è ispirato al fumetto “Sepolto vivo” e si chiude con un finale aperto che lascia presupporre un sequel come un seguito c’è nel fumetto, e benché il film sia vecchio più di mezzo secolo, rispetto al Diabolik odierno dei Manetti Bros. è senz’altro più spettacolare e ancora godibilissimo perché è un gioiellino assai visuale di cinema pop molto in tendenza con l’avanguardia artistica dell’epoca che era optical, psichedelica e neo-futurista; è molto colorato e per questo assai distante dal fumetto, non perché il fumetto sia in bianco e nero ma perché è denso di atmosfere cupe che nel film diventano un esplosivo caleidoscopio. Distanti dal fumetto anche i due personaggi principali che, in questa sceneggiatura, diventano comprimari del vero protagonista: Ginko. Il Diabolik di John Phillip Law è funzionale, con un trucco che lo fa assomigliare molto al personaggio, anche se per lui il regista inventa addirittura una tuta bianco argento; mentre Marisa Mell, che potenzialmente poteva essere molto somigliante a Eva Kant, sembra però spiazzata e spiazzante, come fuori parte e non a suo agio; indossa sempre lisce parrucche biondo cenere e mai l’iconico chignon, look che la rende iper-moderna ma poco Eva; inoltre, in linea con lo stile, indossa striminziti e coloratissimi abitini nude-look che la signora dei fumetti, benché assai sensuale, non indossava – tuttalpiù qualche vertiginosa scollatura. I due performano scenette sexy con dei nudi vedo-non-vedo e sembrano più provenire dal mondo del “Barbarella” in contemporanea produzione che dai fumetti delle Sorelle Giussani.

L’ispettore Ginko interpretato da Michel Piccoli fece molto discutere perché per molti fan non somigliava affatto al personaggio mentre le stesse creatrici intervennero in difesa (e ci mancherebbe!) dell’attore dichiarando: “Ginko si riconosce per quello che fa, non per il suo volto” e Michel Piccoli lo fa con grande naturalezza, da attore quotato che interpreta un centrato commissario di polizia in un noir, a prescindere dal criminale cui dà la caccia che solo accidentalmente è l’iconico Diabolik e solo casualmente il film è un concentrato di pop art, e la sua interpretazione pervade l’intero film divenendone il vero protagonista. Il cattivo di Adolfo Celi è da antologia e a lui vanno le battute migliori del film. Riuscitissima anche l’interpretazione dell’attore brillante inglese Terry Thomas nei panni del ridicolo ministro delle finanze, doppiato da Renzo Palmer che poi lo sostituisce in figura sulla poltrona da ministro nel film, mentre l’ex ministro delle finanze si ricicla come ministro dell’interno nelle porte girevoli dei palazzi della politica, nella finzione filmica ispirata alla pratica reale. Claudio Gora è l’immancabile ispettore di polizia sempre al seguito del ministro, mentre in ruoli minori sono da segnalare il camionista raggirato da Eva Kant interpretato da Carlo Croccolo, l’anziana lady vittima del furto clamoroso che è Caterina Boratto, Lidia Biondi come poliziotta e Lucia Modugno come prostituta, mentre l’ex pugile Tiberio Mitri è uno sgherro del cattivo Valmont. La colonna sonora fu firmata da Ennio Morricone ma rimase inedita e venne pubblicata in due CD solo nel 2001; l’unico brano che si affacciò sul mercato discografico fu “Deep Down” come lato B di un 45 giri interpretato da Christy (Maria Cristina Brancucci), il cui lato A era “Amore amore amore amore” tratto dalla colonna sonora del film “Un italiano in America” di e con Alberto Sordi: strano destino per una canzone di Morricone.

Come già detto la forza del film è, oltre che nel ritmo, nella parte visiva e va rivelato che Mario Bava, già creatore di effetti speciali e direttore della fotografia, ha inventato per il film degli straordinari effetti visivi: il famoso rifugio-caverna di Diabolik era in realtà un set vuoto e quando Law arrivò per girare la scena con Eva e la Jaguar, rimase sorpreso non vedendo nulla, così chiese al regista dove fosse la scenografia e Bava lo condusse dietro la macchina da presa mostrandogli cosa aveva preparato: pezzi di plastica e vetro colorati che in proiezione sarebbero diventati la scenografia fisicamente inesistente: se non è genio questo! De Laurentiis fu ovviamente piacevolmente sorpreso da quei semplici ma efficaci effetti visivi a costo prossimo allo zero, e compiaciuto dichiarò: “Dirò alla Paramount che questo set ci è costato 200.000 dollari!“. Anche le scene all’interno dell’appartamento seguono la stessa linea creativa.

Con 200 milioni di budget di cui una parte non spesa, il film incassò appena 265 milioni ma ci fu poi un ulteriore ritorno dal mercato estero dove il film, che piacque molto più che in Italia, uscì col titolo “Danger: Diabolik”. La rivista francese Cahiers du Cinéma scrisse: “Gli effetti anamorfici, gli sbandamenti di ordine percettivo in ogni inquadratura, la costante discontinuità spazio temporale, concorrono alla costruzione di un universo dalla bellezza prorompente, improbabile e autoritaria“. E il severissimo americano Roger Ebert, commentò: “Forse perché è meno pretenzioso, Diabolik ha avuto più successo di Barbarella, ed è anche più divertente“. E concludo col mio ben più modesto parere: è molto più divertente del nuovo Diabolik dei Manetti Bros. Il film è disponibile su YouTube.

Diabolik – dal primo fumetto all’ultimo film

Tanto per cominciare lo pronunciamo tutti, anche nel film, Diabòlik, seguendo l’accentatura dell’italiano diabolico, mentre secondo le intenzioni delle autrici e secondo il sito ufficiale – http://www.diabolik.it – la pronuncia dovrebbe essere Diabolìk seguendo l’accentatura del francese diabolique, ma vabbè, vox populi vox dei.

Creato nel 1962 dalle sorelle Angela e Luciana Giussani, di fatto fu inizialmente ideato da Angela, bella signora milanese che dopo aver calcato le passerelle come modella, sposa l’editore Gino Sansoni e comincia a lavorare nella di lui casa editrice Astoria Edizioni che si era specializzata nelle riviste chiuse, pubblicazioni con la copertina chiusa che contenevano materiale per adulti, racconti foto e fumetti, che per essere lette bisognava tagliarne la copertina: dunque non era possibile darci un’occhiata veloce in edicola e andavano comprate; ovviamente la produzione non era tutta lì e la signora Angela si occupò di una collana per ragazzi, salvo poi volere una propria casa editrice per avviare progetti tutti suoi, e dato che era stata regolarmente assunta si licenziò e con la liquidazione creò l’Astorina, sorta di costola dell’Astoria la cui sede venne creata all’interno del vasto appartamento che già ospitava l’Astoria. La signora comincia l’avventura editoriale pubblicando giochi in busta e importando dagli Stati Uniti un fumetto su un pugile, Big Ben Bolt, al quale poi affianca un nuovo progetto ispirato da un romanzo che aveva trovato in treno, Fantômas, un noir rigorosamente francese pubblicato in avventure seriali su uno spietato criminale abilissimo nei travestimenti e dotato di intelligenza diabolica. Nasce così l’italiano Diabolik, con un nome fantasy che non proviene da nessuna lingua, un anglo-francese maccheronico: da noi, a quell’epoca, aggiungere una kappa significava conferire una nota di pericoloso esotismo a nomi altrimenti troppo italiani e dunque banali; sono gli anni in cui vengono creati anche Satanik e Kriminal, il meno noto Zakimort e a seguire arrivano le parodie: Cattivik di Bonvi e il film “Arriva Dorellik” interpretato dal cantantattore Johnny Dorelli e diretto da Steno.

Il primo numero di Diabolik è interamente scritto da Angela Giussani con i disegni del misterioso Angelo Zarcone detto “il tedesco” perché portava in redazione il biondissimo figlioletto avuto da una relazione con una tedesca, che inoltre andava in giro indossando pantaloncini e zoccoli proprio come un turista tedesco. All’epoca disegnava per l’adulta Astoria il fumetto sexy “Alboromanzo Vamp” e, com’era in uso, gli autori, scrittori e disegnatori, non si firmavano per non essere rintracciati dal fisco; oltre a questo, di Zarcone si sa poco perché era un tipo assai sfuggente: l’editore Sansoni doveva appostarsi sotto la pensione nella quale viveva per costringerlo a farsi consegnare le tavole, puntualmente sempre in ritardo; mentre a sua insaputa stava disegnando anche la nuova creatura d’esordio della di lui consorte, solo che, appena consegnato il lavoro sparì senza lasciare traccia e inutili furono le ricerche. L’albo uscì il 1° novembre del 1962 con la copertina disegnata da Brenno Fiumali, e quando due anni dopo vennero ristampati a grande richiesta i primi 17 numeri, Marchesi ridisegnò il numero uno del misteriosamente scomparso Angelo Zarcone.

Nel 1982, a vent’anni da quel numero uno, le sorelle Giussani ingaggiarono addirittura l’investigatore americano Tom Ponzi per trovarlo, ma senza successo; solo nel 2005 Brenno Fiumali incontra Zarcone, non si sa come e dove, e in seguito ne disegnerà a memoria il volto, mentre la ragione della sua sparizione resterà un mistero, poi indagata dal regista Giancarlo Soldi nel docufilm “Diabolik sono io” in cui si ipotizza un incidente cui è seguita un’amnesia dissociativa – ma oltre le ipotesi la verità resterà un enigma. I Manetti Bros. autori di questo film del 2021, sono presenti come testimonial ed esperti di Diabolik nel docufilm visibile a pagamento su YouTube; qui di seguito il trailer.

Il numero 1

Angela Giussani, con piglio da moderna imprenditrice, condusse un’informale indagine di mercato osservando in prima persona i pendolari alla stazione ferroviaria non lontana da casa: i lavoratori durante lo spostamento leggevano per lo più romanzi gialli, di facile presa; e anche nella rivista allora per eccellenza, Grand Hotel, le storie che avevano più seguito erano quelle a tinte forti, per non dire che i titoli di maggior successo della casa editrice del marito erano quelli con copertine sessualmente allusive e titoli morbosi: dunque erano quelle le tracce su cui muoversi e di suo, la signora, ebbe la brillantissima intuizione del formato tascabile, che entrasse appunto nelle tasche e nelle borse, formato che avrà moltissimi epigoni, di lettura facile e veloce ma che soprattutto doveva costare poco, 150 lire, meno di 2 euro odierni. Il numero 1 non è lo sperato successo commerciale e per il numero 2, pensando anche al risparmio, chiama la sorella Luciana alla co-scrittura della storia che, sparito Zarcone, fa disegnare all’amica modista Kalissa Giacobini. Ed è nel fatidico numero 3, “L’arresto di Diabolik” che entra in scena e nella vita del criminale la fascinosa Eva Kant che deve l’invenzione del suo cognome al filosofo Immanuel Kant su cui Angela aveva fatto la sua prima tesina al diploma magistrale.

È dal 14esimo numero che Luciana viene ingaggiata stabilmente nella creazione degli albi e nella conduzione della casa editrice, e insieme racconteranno di essersi ispirate per la creazione di Diabolik a un fatto di cronaca nera accaduto a Torino nel 1958: un 27enne venne trovato nel suo letto in una pozza di sangue con i segni di diciotto coltellate sul petto; le indagini presero anni creando un mistero che appassionò l’opinione pubblica, fino a che l’assassino non inviò un biglietto al commissariato di polizia in cui si firmava Diabolich, a sua volta probabilmente ispirato dal Diabolic protagonista del romanzo “Uccidevano anche di notte” del giallista Italo Fasan che si firmava Bill Skyline. Il fantomatico Diabolich non fu mai catturato e alla sua vicenda pare si sia ispirato anche l’americano Assassino dello Zodiaco. Realtà e finzione che si ispirano a vicenda, perché forse gli psicopatici assassini hanno bisogno da dare un senso alto, un significato superiore, alle loro azioni, mentre scrittori ed editori hanno bisogno della cruda realtà per rendere più scandalosamente emozionanti le loro storie. E col terzo numero arrivarono i guai giudiziari: l’editrice, per promuovere la sua nuova creatura, ebbe l’idea di distribuire copie omaggio ai ragazzi delle scuole medie, ma questo venne visto come un tentativo di traviare la sana gioventù; ne seguì un processo nel quale Angela Giussani fu assolta perché nella copertina Diabolik compariva con i polsi incatenati e davanti a una ghigliottina a monito per le sue indicibili colpe. Resta da svelare come fu creato il nome dell’Ispettore Ginko: fu semplicemente inserita una K, tanto per non cambiare, all’interno del nome Gino, che era Gino Sansoni marito di Angela.

Il primo film su Diabolik è del 1967 diretto dal maestro degli effetti speciali Mario Bava, che non fu un gran successo commerciale ma che negli anni è divenuto, come spesso accade, un cult. Bisogna aspettare più di mezzo secolo perché un’altra produzione cinematografica si metta in moto su idea dei Manetti Bros., Marco e Antonio, anche direttori della fotografia, produttori e sceneggiatori oltre che registi: registi di genere, appassionati di cultura pop anni ’70 e di horror misto a un gusto dissacrante che vira nella commedia grottesca, un po’ alla Quentin Tarantino de noantri, e nelle loro prime produzioni mischiano generi che tutti insieme non hanno fatto presa al botteghino anche perché i nostri, pur essendo dei cineasti rifiniti, non hanno il genio e la visione dei maestri. E questo loro Diabolik ne è la prova.

Scrivono la sceneggiatura con Michelangelo La Neve, loro amico e assiduo collaboratore che fu anche – fu perché è morto 62enne in questo 2022 – sceneggiatore di fumetti come Dylan Dog, Martin Mystère oltre che Diabolik. Nel cast la scelta più infelice, anzi di più, disastrosa, è quella di Luca Marinelli che interpreta il suo Diabolik leggendolo in chiave psicoanalitica e dimenticandosi di avere a che fare con una maschera, un personaggio da fumetto nato nei primi anni ’60, a cui la profondità psicologica è sconosciuta e aliena; ne fa un lugubre psicopatico che a tratti si muove anche come un automa, e gli manca del tutto la caratteristica primaria: quel fascino magnetico foriero di tanti pericoli che il nostro uomo mascherato dagli occhi di ghiaccio possiede; e a dirla tutta Marinelli è anche poco somigliante e appare anche ridicola l’attaccatura a punta sulla fronte. Più centrati e somiglianti i comprimari: Miriam Leone è fascinosa come abbiamo sempre percepito Eva Kant, ma il lavoro migliore lo fa Valerio Mastrandrea come Ginko perché ha dalla sua una recitazione asciutta che non cerca a vuoto facili effetti che non ci sono. Miriam Leone passa l’esame perché fa quello che le riesce meglio, essere credibile, senza però mai arrivare a una vera interpretazione da attrice raffinata che controlla i suoi mezzi espressivi inserendo nel personaggio sfumature che non ha: è bella e fa la bella che sa essere ambigua e seducente, tutto il resto non le compete. Basta guardare l’interpretazione del cameo di Claudia Gerini per capire di che parlo, una vera attrice che interpreta – lei sì – una maschera in commedia, un personaggio inesistente creato da Eva Kant con una maschera di lattice: una sciura milanese con la R moscia che accende lo schermo per la breve durata del suo intervento, e quando Eva Kant si leva la maschera e torna Miriam Leone finisce l’incanto.

Il film, che segue il plot del fumetto n° 3, è un buon prodotto ma non un capolavoro, laddove ai Bros. non è dato creare capolavori: manca un’idea specifica, una chiave di lettura autorale, e si rimane nel film di genere, a tratti anche noioso perché troppo parlato senza avere dialoghi particolarmente brillanti. Se i Fratelli avessero saputo azzardare avrebbero potuto realizzare un film in un tagliente bianco e nero per richiamarsi alle tavole originali del fumetto o, sempre in quest’ottica, montare una serie di inquadrature ferme come fosse appunto una sequenza di tavole disegnate, salvo creare un movimento esasperato nelle scene di azione – invece muovono la cinepresa come se stessero girando né più né meno che un film per la tivù.

Notevolissima, invece, la colonna sonora degli storici collaboratori dei fratelli registi, Pivio (Roberto Pischiutta) e Aldo De Scalzi, che in ogni circostanza del film creano sempre la giusta atmosfera in puro stile anni Sessanta; si aggiungono due canzoni originali di Manuel Agnelli che è l’unico a vincere su 11 candidature ai David di Donatello. Ma sono notevoli anche l’ambientazione tutta in stile italiano, come nei fumetti, con scritte e insegne in italiano nonostante la collocazione sia nella fantasiosa Clerville: un pastiche fantasy pensato e voluto dalle Sorelle Giussani, che colloca le azioni in un immaginario paese estero senza allontanarsi dalla cultura popolare italiana; scenografia di Noemi Marchica, costumi di Ginevra De Carolis, trucco e parrucco di Francesca Lodoli.

Fra gli altri interpreti il ruolo più corposo, quello dell’ambiguo vice ministro innamorato di Eva Kant, è andato a un altro fedelissimo dei fratelli, l’Alessandro Roia (alterimenti Roja) assurto alla notorietà come Dandi nella serie tv “Romanzo criminale” e, proprio perché i Fratelli non pensano a dirigere gli attori, anche lui fa del suo meglio senza convincere del tutto nonostante il personaggio sia molto ben scritto e accattivante. Centrati, invece, tutti gli altri ruoli assegnati a caratteristi di lungo corso che nei loro curriculum hanno anche dei ruoli da protagonisti: Serena Rossi è l’ignara prima compagna di Diabolik che nel fumetto finirà al manicomio, Vanessa Scalera è la compiacente segretaria del vice ministro e Luca Di Giovanni è il cameriere di cui Diabolik indossa la maschera e che è costretto a replicare l’automa a cui Luca Marinelli ha dato vita (si fa per dire!); Roberto Citran è l’azzimato direttore d’albergo, Antonino Iuorio l’ebete direttore del carcere, Daniela Piperno l’adeguata (dis)funzionale direttrice di banca; Urbano Barberini nel piccolo ruolo di un politicante e Pier Giorgio Bellocchio (figlio del regista Marco) interpreta un poliziotto nel tempo libero che gli rimane dall’impegno principale, quello di produttore esecutivo per la Mompracem dei Manetti e per Rai Cinema.

Anche questo film è incappato nelle chiusure della pandemia: la prima uscita era prevista per il 31 dicembre 2020 ed è stata posticipata di un anno, e nonostante la distribuzione accidentata ha avuto ottimi incassi, tanto da far mettere in cantiere addirittura due sequel che gli autori hanno pensato durante il lockdown. Luca Marinelli però è fuori gioco, non si sa se per coscienziosa scelta personale o scelta della produzione: la versione ufficiale è che aveva altri impegni. E a indossare la calzamaglia di Diabolik sarà l’italiano naturalizzato canadese Giacomo Gianniotti che è assurto alla notorietà come dottor Andrew DeLuca nella serie “Grey’s Anatomy” dove era doppiato da Marco Vivio; ma dato che Gianniotti parla anche l’italiano, sentiremo la sua vera voce nei Diabolik numero due e tre? A proposito di voci: quelle di Marinelli e Mastrandrea hanno all’inizio un impatto negativo perché troppo leggere: siamo abituati, viziati, a sentire i personaggi in calzamaglia e in genere quelli iconici con le voci pastose e profonde dei nostri doppiatori, anche riconoscibili di film in film e di serie in serie; ma mentre Mastrandrea nel corso del film risulta accettabile perché convincente è la sua interpretazione, il tenorile biascichio di questo primo Diabolik risulta davvero penoso: archiviato. E ricordandoci che è del 1968 il primo film su Diabolik diretto da Mario Bava, per il futuro non ci resta che attendere.

Giacomo Gianniotti