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Abbasso il zio – Marco Bellocchio al suo primo cortometraggio

Il film completo

Il giovane Marco Bellocchio, di cui abbiamo appena visto il documentario autobiografico “Marx può aspettare”, finiti gli studi alla scuola dei Salesiani (famiglia alto borghese assai cattolica) avendo già mostrato vivo interesse per il cinema (girava già filmini in famiglia) lascia la nativa Bobbio in provincia di Piacenza per trasferirsi a Roma a iscriversi nel 1959 al Centro Sperimentale di Cinematografia dove trova come insegnante quell’Andrea Camilleri assurto alla fama nella sua terza età come autore di successo della serie tv sul Commissario Montalbano dai suoi romanzi, lui che già aveva scritto molto altro e lavorava in teatro da anni. Questo primo cortometraggio, la cui data di uscita è il 1961, il ventenne Bellocchio lo ha girato nell’estate tra il primo e il secondo anno del biennio accademico.

Cos’è questo breve film? non più che un esperimento, l’associare una narrazione alle immagini – lui che già le immagini in movimento le aveva ampiamente sperimentate in famiglia – e in questo suo primo cimento professionale non ha ancora i mezzi narrativi, o forse non sente la necessità, di esprimere una trama: da un lato c’è un suo racconto, anche abbastanza letterario, reso da una voce fuori campo, e dall’altro le immagini che scorrono di pari passo al racconto, quasi un documentario che va a girare dalle sue parti, la Val Trebbia, filmando quattro ragazzini di estrazione sottoproletaria, ricordandoci che allora gli steccati fra le parti sociali erano ancora abbastanza netti e Pier Paolo Pasolini ci innestò praticamente tutta la sua cinematografia, oltre al pensiero filosofico-politico-sociale.

Anche il crocifisso come giocattolo fra le ossa dei morti racconta già la distanza che l’autore prende dal pensiero religioso

Perché è importante l’accento sull’estrazione sociale dei ragazzini? perché Bellocchio viene da un altro mondo, quello benestante e borghese, a ha per quei ragazzini un occhio da entomologo, da osservatore curioso ma anche intimamente timoroso, come deve essere stato da bambino ben vestito e infiocchettato che per i suoi coetanei – scapestrati, scalzi, liberi di gironzolare, di atteggiarsi a grandi fumando sigarette sui muretti – deve avere avuto ammirazione e timore insieme, perché loro erano liberi di fare quello che nel suo mondo non si fa: in questo suo primo cortometraggio li racconta come li vede, da lontano e senza scendere fra loro, attraverso il filtro del suo racconto intellettuale. Filosofeggia sulla vita e sulla morte mentre i ragazzini vanno a scoperchiare vecchie tombe e giocano coi resti di scheletri scomposti, e ne è affascinato, tanto che sta per saltare la barricata e da regista verrà immediatamente considerato un ribelle perché sin da subito metterà in discussioni quei modelli sociali e familiari in cui è cresciuto: non sarà mai uno di loro, e neanche fingerà di esserlo come Pasolini ha tentato di fare, ma negli anni che verranno sarà in prima fila nelle battaglie sociali che probabilmente in quella provincia assolata e oziosa del suo primo cortometraggio non arriveranno mai. E in molte di quelle battaglie salì sulle barricate – solo in termini di impegno civile, mai fisicamente – proprio insieme a Pasolini, a suo fratello Piergiorgio e gli altri intellettuali sinistroidi dell’epoca.

Evidente è il gusto per la composizione delle immagini fra ombre e luce naturale

Dai titoli vediamo che produce Giorgio Pàtara, un altro intellettuale vicino all’ambiente sperimentale che fra le varie cose (si cimenterà anche nella regia di documentari corti) produrrà poche cose ma soprattutto “Nostra Signora dei Turchi” di Carmelo Bene. Come aiuti registi (così nei titoli, invece del più corretto aiuto registi) è affiancato da Gustavo Dahl, suo compagno d’appartamento e del corso di cinematografia, un brasiliano che aveva ricevuto una borsa di studio dal Governo Italiano e che tornerà in patria a fare il regista e il critico cinematografico; e da Sandro Franchina, ex attore bambino (“Europa ’51” di Roberto Rossellini) figlio dell’artista visivo, scultore e illustratore, Nino Franchina, che cinematograficamente resterà legato al mondo dell’arte come regista di documentari su quel mondo, fra i quali si inserisce un unico film di narrazione sempre con l’arte sullo sfondo: “Morire gratis” del 1968. Le musiche sono già di rango, del maestro Armando Trovaioli che dopo si firmerà Trovajoli. Lo stesso Bellocchio molto più avanti ricorderà: “Era una storia di bambini che giocano passando da un cimitero moderno a uno antico, per cercare frammenti d’ossa in quel luogo abbandonato. Alla freddezza e alla mediocrità del nuovo cimitero si contrappone la malinconia, la nostalgia dell’antico nello spirito di Giovanni Pascoli, un poeta che mi ha molto influenzato”. Ma già nel titolo, Abbasso il zio, è chiaro che il suo intento era quello di guardare con occhio distante e critico un mondo rurale che coi suoi strafalcioni linguistici gli era culturalmente lontano: abbasso il zio non ha attinenza col film e sembra riportare una frase orecchiata. Essere intellettuali ha questo lato della medaglia: restare sempre altro rispetto alla realtà che si osserva e a cui anche onestamente si partecipa. Quattro anni dopo Marco Bellocchio dirigerà il suo primo lungometraggio che sarà subito un successo: “I pugni in tasca”.

Pier Paolo Pasolini, Marco Bellocchio, Ninetto Davoli, Elda Tattoli (attrice per Bellocchio in “La Cina è vicina”) e Alberto Moravia in uno scatto del 1969 di Carlo Bavagnoli per Close-up Life