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Vogliamo i colonnelli – rivisto in tv

1973. Mario Monicelli dirige un film scritto con Age e Scarpelli e interamente percorso da un istrionico Ugo Tognazzi, un film grottesco di fanta-politica che però dalla politica reale prende molto, a cominciare dalla rissosa seduta in parlamento d’apertura. Un film che viene da cineasti pienamente ascritti alla commedia all’italiana che qui però fanno qualcosa in più: attraverso la lente deformante della satira raccontano la vera politica italiana come oggi non sarebbe più possibile, perché essendo quella un’epoca in cui i politici erano seri azzimati e credibili, e non se ne conoscevano le private debolezze, era facile volgerli al ridicolo; oggi i politici si mettono alla berlina da sé, dal bunga bunga al papeete, per cui non è più possibile fare satira su figure che si sono già consegnate al ridicolo; inoltre “Vogliamo i colonnelli” è una sorta di instant movie sui recentissimi (dell’epoca) tentativi di golpe, dal “Piano Solo” filocominista del generale Giovanni De Lorenzo del 1964 al filofascista “Golpe Borghese” che il principe Junio Valerio (Scipione Ghezzo Marcantonio Maria) Borghese tentò un paio di anni prima, nel 1970. Il film ha dei riferimenti espliciti ai due tentati colpi di stato, e nel titolo richiama la dittatura dei colonnelli instaurata in Grecia fra il 1967 e il 1974. Anni quantomai incerti, quelli, considerando pure che appena sei mesi dopo l’uscita del film in Italia, in Cile Augusto Pinochet rovescia con un golpe il governo di Salvador Allende, con l’aiuto degli Stati Uniti, i quali erano anche “a conoscenza” dei tentati colpi di stato italiani.

Nel marzo 1973, quando uscì il film, il governo italiano era guidato da un fragile esecutivo, presieduto da Giulio Andreotti, guidato dalla Democrazia Cristiana con altri due partiti-stampella, i Social-Democratici e il Partito Liberale, e che rimase in carica per 1 anno e 12 giorni: all’epoca i governi non duravano quasi mai l’intera legislatura. Sono gli anni di piombo: nel 1969 alle lotte studentesche subentrano quelle dei lavoratori e si coniò il termine autunno caldo. I fascisti Franco Freda e Giovanni Ventura di “Ordine Nuovo” mettono bombe su 8 diversi treni causando 12 feriti. Il 19 novembre 1969 si avrà quella che per diversi storici è la prima vittima degli anni di piombo, l’agente di polizia Antonio Annarumma; il 12 dicembre, in meno di un’ora, ci sono stati in Italia 5 attentati, il più grave dei quali è quello di Piazza Fontana a Milano. Le stragi alzano il livello di manifestazioni e agitazioni fino alla guerriglia urbana. Nel dicembre 1970 abortisce il già detto “Golpe Borghese” e la società italiana, politica e civile, verrà presa in quella che in seguito verrà definita strategia della tensione, ovvero una strategia che si sarebbe basata su una serie preordinata di atti terroristici, da attribuire indistintamente ad anarchici comunisti o reazionari fascisti, secondo la teoria false flag, con l’intento di diffondere nella popolazione insicurezza e paura, così da giustificare svolte politiche di stampo autoritario. Che è quello che accade nel finale del film: il fallito colpo di stato dei fascisti viene cavalcato dal ministro democristiano che instaura un stato d’emergenza nazionale, autoritario e restrittivo, tanto quanto quello auspicato dal protagonista che finirà col riciclarsi come organizzatore a pagamento di colpi di stato in terre straniere.

Un film che nel suo tempo, con la sua contemporaneità, seppur mediata dalla forte carica ironica, non dev’essere piaciuto molto al pubblico, se non si piazza neanche fra i primi cento: un box office, che allora si diceva hit parade, che vede in testa “Altrimenti ci arrabbiamo” con Bud Spencer e Terence Hill che è anche protagonista di “Il mio nome è nessuno” piazzato al 5° posto: il segno è che la gente andando al cinema voleva rilassarsi.

Il film è bello, intelligente, corrosivo, ben fatto. Con la voce narrante di Riccardo Cucciolla che imita il tono stentoreo del fine dicitore dei cinegiornali, proprio come un cinegiornale si svolge, la narrazione di un fatto reale con tanto di nomi e cognomi, professioni e cariche pubbliche, arti e mestieri; un cinegiornale che fa la cronaca del tentato colpo di stato messo in opera dall’onorevole fascista Giuseppe Tritoni che mette insieme alti esponenti militari e delle forze dell’ordine insieme ai villici fascistoidi che si allenano in campi paramilitari e nobili romani che tradendo la fede nella corona si spostano in massa verso i partiti della destra più conservatrice e reazionaria. Cose che sono accadute nella storia reale con altri nomi e che il film racconta facendosene beffe, con nomi e fatti fittizi che riecheggiano assai da vicino quelli reali: Giorgio Almirante diventa Mazzante, il generale De Lorenzo diventa De Vincenzo, l’infarto mortale del presidente della repubblica richiama il colpo aploplettico del presidente Antonio Segni e la palestra di pugilato che fa da base all’operazione richiama quella dove Borghese riuniva in suoi uomini, così come il campo di addestramento paramilitare si rifà ai campi che furono scoperti in Sicilia a Menfi e Zafferana Etnea.

Ascrivibile al filone della commedia all’italiana di cui il regista Mario Monicelli è uno degli autori di punta, il film si porta dietro il gravoso lascito del neorealismo che ha raccontato il dopoguerra con i suoi interpreti presi dalla vita reale, storie perlopiù drammatiche dove i non-attori rifacevano se stessi recitando in presa diretta; un’abitudine, questa di prendere facce assai espressive fra i non professionisti per poi farli doppiare da professionisti, che si trascina nella commedia all’italiana, il cui tipo più famoso è stato il sardo Tiberio Murgia erroneamente creduto siciliano perché sempre doppiato in sicilianese (ovvero un inesistente siciliano da cinema). In “Vogliamo i colonnelli” il doppiaggio è stato fatto anche spingendo con voci da cartone animato per rendere più estremo il grottesco dei caratteri; questo, insieme all’uso tutto italiano di inserire nel cast degli attori stranieri, sempre da doppiare, oggi toglie qualcosa alla godibilità del film, benché siano peccati professionali largamente in uso all’epoca.

Il brutto della storia è che la storia si ripete, con altre maschere e altri metodi, da un lato più sofisticati e dall’altro più sfacciatamente palesi, e che i reazionari sono sempre all’opera con altre bandiere ma slogan sempre uguali.