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Lei mi parla ancora

Dico subito che non ho mai visto un film di Renato Pozzetto né al cinema né in televisione, benché già lo avessi apprezzato in tivù negli ormai lontani anni fra la fine dei Sessanta e la metà dei Settanta in coppia con Cochi Ponzoni nel duo Cochi e Renato. E’ che non riesco a farmi piacere i comici al cinema dato che apprezzo la loro comicità solo concentrata nel piccolo schermo e mai dilatata nel tempo di un film e sul grande schermo, tanto più che in genere si ripetono nel genere film commerciale per famiglie e dintorni. I film di Pupi Avati però li ho sempre visti.

“Lei mi parla ancora”, produzione 2121, esce direttamente in tivù causa protrarsi pandemia e, in questa fame di cinema, crea un piccolo caso proprio per la partecipazione dell’ottantenne Renato Pozzetto, qui al suo primo ruolo drammatico e, per di più, in cattive condizioni di salute, dato che visibilmente ha gravi problemi di deambulazione.

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La storia è quella del tardivo unico romanzo del farmacista Giuseppe Sgarbi, padre del mercuriale critico d’arte Vittorio e dell’editrice Elisabetta, in cui l’uomo racconta, a 93 anni, della moglie Caterina, il suo perduto amore di una vita, 65 anni di vita insieme, andato in stampa con l’editrice Skira col titolo “Lungo l’argine del tempo: memorie di un farmacista” e ripubblicato, dopo il film, come “Lei mi parla ancora” appunto. Libro immaginato e voluto dalla figlia che vive nel mondo dell’editoria, e che come il film racconta, ingaggia un ghostwriter per scrivere le memorie del padre che continua a parlare con la moglie anche dopo la di lei dipartita: non vede un fantasma ma piuttosto, semplicemente, continua a parlarle per dissipare la sua improvvisa e dolorosa solitudine dopo un’intera vita trascorsa insieme. E il film, andando oltre il romanzo di cui pare tralasci molte memorie (non l’ho letto) narra – alternando le memorie del passato – il difficile rapporto tra il vecchio e lo scrittore che si vende solo con la prospettiva di vedere pubblicato un proprio romanzo, un do ut des con la figlia editrice.

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Chiara Caselli ed Elisabetta Sgarbi

Elisabetta Sgarbi, da gran signora qual è, fa le cose per bene: non sappiamo se ha rispettato il patto con lo scrittore fantasma pubblicandogli il libro, ma nel dare alla stampa il libro del padre evita di farlo con la sua casa editrice “La Nave di Teseo”, evitando il conflitto di interessi, e si rivolge agli amici di “Skira” che, in quanto casa editrice di libri d’arte, fa uno strappo alle regole e pubblica il romanzo-memoria.

Chiara Caselli, Passione
“Passione” di Chiara Caselli

La interpreta, con altrettanto garbo e fine intensità, Chiara Caselli, un’attrice decisamente sofisticata e talentuosa che con successo si è data alla fotografia dato che in Italia, dopo i 40-50 anni, per le attrici sono rari i ruoli interessanti. E non c’è neanche da pensare subito all’America e a Meryl Streep perché basta varcare le Alpi e trovare nella cinematografia francese film costruiti attorno a magnifiche attrici âgée, a cominciare dalla 78enne ancora splendida Catherine Deneuve.

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Stefania Sandrelli e Renato Pozzetto

Stefania Sandrelli, che interpreta il piccolo ruolo della moglie del farmacista, ha 75 anni, e anche lei ormai da qualche decennio non fa un film da protagonista assoluta. Il suo ruolo da giovane lo interpreta la palermitana Isabella Ragonese che ha la stessa solarità della giovane Sandrelli. Il napoletano Lino Musella, molto teatro e ruoli secondari al cinema, presta il suo volto e un’interpretazione partecipe e delicata al personaggio di Pozzetto da giovane.

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Lino Musella e isabella Ragonese


Fabrizio Gifuni interpreta lo scrittore che nella sceneggiatura degli Avati padre e figlio, Pupi e Tommaso, acquista una preponderante dignità narrativa che arriva a indagare le sue inquietudini personali e familiari su un altro piano narrativo e che a mio avviso distrae dal plot principale, la storia d’amore infinita fra Nino E Rina, di cui rimane ben poco, tanto che alla fine mi avanza la domanda: ma che cosa mi ha raccontato questo film? Resta la frase di Cesare Pavese che nei suoi “Dialoghi con Leucò” dice: “L’uomo mortale non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia.” che è l’adagio su cui il protagonista costruisce le sue memorie.

Pupi Avati ancora una volta esplora i luoghi della sua memoria e della sua provincia emiliana con la delicatezza che gli è congeniale anche nella direzione degli attori, differentemente da tanti altri registi che si preoccupano solo della parte tecnica lasciando che gli attori facciano da sé il proprio lavoro. E’ un maestro nel muoversi all’interno del suo mondo, rurale e magico anche con incursioni nel gotico, raccontando il diavolo delle paurose tradizioni contadine, quel diavolo che, come lui fa notare, non è più nominato neanche dalla Chiesa e sta via via scomparendo dall’immaginario collettivo. Un mondo magico e terragno da cui a volte dirazza nel sociale e nel sentimentale senza mai dimenticare, però, il sapore delle sue origini. E’ un maestro nel dirigere gli attori – fra i quali nel tempo sceglie i suoi interpreti feticcio: Lino Capolicchio, Gianni Cavina, Carlo Delle Piane – e con i quali instaura un rapporto di proficua continuità, lanciando volti nuovi e recuperando glorie appannate.

Qui continua a dirigere Alessandro Haber nell’importante ruolo del cognato morto, ruolo che sembra soffrire lo spazio limitato che la sceneggiatura gli concede. Torna a lavorare anche con l’ormai ultrasessantenne Serena Grandi sul cui volto gonfio d’età resta la triste traccia del silicone, qui impensabile in una contadina degli anni ’60. Il pugliese Nicola Nocella è il tuttofare di casa, già protagonista per Avati in “Il figlio più piccolo” nel 2010 che gli valse il Nastro d’Argento, che doppiò l’anno dopo come protagonista del corto “Omero bello-di-nonna”. Gioele Dix compare come agente letterario mentre Vittorio Sgarbi ha il volto di Matteo Carlomagno.

Di Renato Pozzetto la critica dice un gran bene, della direzione di Pupi Avati si scrive che ha lavorato di sottrazione: un modo elegante per dire che si poteva fare meglio. Con l’assoluto rispetto che si deve a un ottantenne che male si regge sulle gambe e che si mette in gioco con abnegazione, confermo che non è, come non è mai stato, un grande attore, e presta la sua maschera stralunata di sempre a questo vecchio addolorato e sognatore che suscita grande simpatia e a tratti anche commozione, ma con la consapevolezza che le prestazioni attorali sono un’altra cosa. E sul lato emozionale Avati è sempre mirabilmente attento a non spingere quel pedale e a non cercare mai facili reazioni emotive con stratagemmi retorici.

Dunque applausi sempre convinti al regista, un po’ meno allo sceneggiatore, stavolta. Ricordiamo però che Pupi Avati è anche un prolifico e sapiente scrittore la cui ultima uscita è “L’archivio del diavolo”, un’altra delle sue storie gotiche di provincia. “Il meraviglioso e l’orrendo sono contigui – dice in un’intervista – sono forme della dismisura del pensiero che mi attraggono fortemente. – E continua: – La narrazione della cultura contadina era estremamente sorprendente e improbabile” e “ognuno di noi ha una specie di mondo archetipale che coincide con l’incontro con le cose e con le persone nei primi anni di vita. Anche se faccio un film ambientato nell’oggi ha sempre un riverbero della stagione in cui ho incontrato le cose per la prima volta.”