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“Mia Madre”, gran film che zoppica un po’

Nanni Moretti, 12 lungometraggi in quasi 40 anni, aggiunge un secondo inatteso capitolo al suo personale cinema del dolore che inaugurò nel 2001 col bellissimo “La stanza del figlio” Palma d’Oro a Cannes e David di Donatello in cui raccontava il dolore di una famiglia borghese per la perdita accidentale del figlio e in cui immagino – poiché tutto il suo cinema è biografia o biografia traslata o biografia romanzata – abbia voluto raccontare in fiction i suoi personali tormenti di un padre che teme la perdita del/la proprio/a figlio/a: chi è padre, anche solo putativo o immaginario come me, sa di cosa parlo. Oggi invece Moretti racconta e romanza la perdita reale della madre avvenuta nel 2010, quella signora Agata Apicella da cui lui prese il cognome per il suo più longevo alter ego cinematografico, il Michele Apicella che è tornato sotto varie spoglie in “Io sono un autarchico”, “Ecco Bombo”, “Sogni d’oro”, “Bianca” e “Palombella rossa”. Agata Apicella compare fisicamente nel suo “Aprile” in cui Moretti smette i panni di Michele Apicella per essere davvero se stesso in quel film/documentario in tre episodi e dedicato al figlio Pietro. In “Mia Madre” Agata diventa invece Ada pur restando una ex professoressa di lettere e latino e Nanni, da vero artista, si mette da parte nel forte ruolo del fratello della protagonista alla quale trasferisce il suo ruolo di regista cinematografico nevrotico che così riesce anche a prendere anche in giro ironizzando su vezzi e manie: il gioco della trasfigurazione riesce perfettamente grazie anche all’eccellente interpretazione di Margherita Buy, nevrotica quanto basta fra set e vita reale e profondamente tormentata da quei sensi di colpa che ci prendono di fronte alla perdita di un genitore: quello che di sbagliato abbiamo fatto e quello che di buono abbiamo tralasciato di fare per leggerezza o noncuranza. Moretti racconta il suo dolore dolore personale, come è sempre personale tutta la sua cinematografia, in modo da farne dolore universale in cui riconoscere gli stessi dolori e tormenti cui siamo passati anche noi. La madre sofferente è interpretata da Giulia Lazzarini che non è al suo debutto cinematografico ma è come se lo fosse per l’assoluta perfezione della sua interpretazione da quella grandissima attrice che è ma che pochi conoscono: intorno a me sentivo dei meravigliati commenti positivi che si possono riassumere in: “Ma è davvero brava sta vecchia, ma chi è?” perché pochi ne conoscono la carriera. Nel film ci sono però grossi difetti e quello che mi salta subito agli occhi è il personaggio dell’attore americano affidato a uno spaesato e poco convinto John Turturro che si presta a fare la star simpaticona ma arrogante di cui alla fine scopriremo però le reali debolezze: non ce n’era bisogno. Capisco che il personaggio serve al film per raccontare la vicenda professionale della regista Margherita (la Buy col suo vero nome a riprova del fatto che Moretti pensava proprio a lei scrivendo il film) e anche per tessere dei siparietti da alleggerimento alla trama principale, ma la sensazione è che il personaggio dell’attore americano abbia un po’ cannibalizzato l’intero film e il risultato è un pasticcio poco gustoso e ancor meno digeribile che anziché alleggerire spezza il ritmo di un racconto che avrebbe potuto (dovuto?) essere asciutto e rigoroso come è stato “La stanza del figlio”. L’altro punto debole del film è il montaggio disordinato (ma si dice ellittico) di momenti diversi: flashback dal passato in cui Margherita rivive momenti con la madre che non potrà più cambiare mischiati a sogni notturni e visioni diurne di incubi e timori sempre relativi a sua madre… sta di fatto che fra flashback e sogni e visioni alla fine non ci si raccapezza più e la sensazione è che il montaggio non segua il rigore di una sceneggiatura quanto piuttosto l’incollatura estemporanea ed emotiva di pezzi girati all’occasione, e ancora faccio riferimento ai commenti in sala: “Scusa ma secondo te è lei che lo sta pensando o è quello che invece sta succedendo davvero e lei non lo sa?” il riferimento è alla scena, bella in sé, in cui la Madre esce dall’ospedale in camicia da notte e si perde nella città, un po’ come il Michel Piccoli di “Habemus Papam”. Ma se è un’autocitazione è incollata male, se invece è un timore della figlia intrappolata sul set non si capisce. Ma tant’è, il film risulta più faticoso che doloroso e si riscatta solo per le belle interpretazioni, compresa quella di Moretti che per me non è mai stato un grande attore, e per l’universalità dei momenti dolorosi che aprono una porta di speranza sul bellissimo finale affidato a una frase della madre e che qui non ripeto per non togliere quest’ultima bellezza al film che merita comunque grande attenzione.