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Il Maestro e Margherita

La Russia è di nuovo nelle prime pagine di tutto il mondo con il colpo di coda delle mai sopite e anacronistiche velleità imperiali del suo ennesimo oligarca. Parlando qui di cinema mi viene spontaneo tornare a vedere il cinema internazionale derivato dalla letteratura russa, che esprime una creatività sempre fuori dagli schemi che le si vogliono imporre in patria, perché si sa che nei Paesi in cui impera la censura – la creatività è sempre all’avanguardia perché deve trovare vie alternative alla propria espressione.

Come era avvenuto per “Il Dottor Zivago” anche il romanzo “Il Maestro e Margherita” subisce i pesanti effetti della censura russa. Michail Bulgakov nasce a Kiev, oggi capitale di quell’Ucraina sotto attacco da parte dell’imperialista Putin che sembra voler riportare lo scacchiere europeo al 1800. Bulgakov è considerato uno dei più grandi romanzieri del ‘900 benché la maggior parte delle sue opere viene pubblicata postuma, compreso questo romanzo, anche perché muore 49enne nel 1940 di nefroangiosclerosi maligna. Dalla sua morte fino al 1963 nessuna sua opera verrà più pubblicata, fino a quando scoppia in Russia quello che è stato definito fenomeno Bulgakov, un periodo di circa sei anni dopo il quale scende di nuovo l’oblio sull’autore, per poi riaccendersi negli anni ’80.

Bulgakov, che si era laureato in medicina e aveva praticato la professione, diviene famoso in vita con “I racconti di un giovane medico” pubblicati prima su una rivista e solo nel 1963 in una raccolta in volume. Pubblica anche il romanzo “La guardia bianca” ambientato nella sua Kiev durante la guerra civile russa del 1918-19. Per un brevissimo felice periodo fu anche uno degli scrittori preferiti di Josif Stalin, ma durò poco perché Bulgakov aveva il difetto di ragionare con la sua testa e ben presto cominciò a scrivere contro il regime, arrivando a schernirlo nel romanzo “Cuore di cane” da cui nel 1976 Alberto Lattuada diresse un film con Max Von Sydow e Cochi Ponzoni. Nel 1929 Bulgakov venne messo al bando e non poté pubblicare più nulla, ma gli era andata pure bene dato che altri scrittori e intellettuali erano stati imprigionati e uccisi. Lo stile dello scrittore è quello grottesco-fantastico, un genere e uno stile spesso adottati sotto i regimi repressivi per aggirare la censura attraverso le metafore e criticare il potere attraverso la lente deformante del paradosso, e paradossalmente si può affermare che proprio sotto le dittature fiorisce un certo tipo di creatività eversiva.

“Il Maestro e Margherita” fu riscritto più volte. Ne cominciò la stesura nel 1928 ma due anni dopo lo bruciò nella stufa quando apprese che il suo romanzo sarebbe stato censurato a causa dei suoi contenuti fortemente ispirati alla cabala e al pensiero religioso in genere. Comincia a riscriverlo l’anno dopo averlo bruciato, inserendo la critica alla società letteraria di cui era esponente e vittima, ma poiché il romanzo continua a non essere pubblicato lui continua a rimaneggiarlo, alla fine aiutato dalla sua terza moglie, Elena Šilovskaja, che gli faceva da dattilografa e consigliera, e che dopo la sua morte fu una strenua sostenitrice della sua memoria artistica; sarà lei a completare il romanzo nel 1941, che appare in versione censurata su una rivista negli anni ’60 e solo nel 1973 verrà pubblicata una prima versione estesa ma non definitiva. Il nucleo originario del romanzo si divide in due tracce narrative: La Storia di Pilato, che è quella che il Maestro ha scritto per il palcoscenico, e Il Diavolo a Mosca che racconta la vicenda personale del Maestro, della sua storia d’amore con Margherita, e soprattutto dell’aiuto che riceve da Satana in persona per superare i conflitti con la censura e la società letteraria. Due piani narrativi dunque: quello della Mosca degli anni ’30 in cui il Maestro, come da tutti viene chiamato il protagonista, va incontro alla censura della sua opera teatrale “Ponzio Pilato” quando i funzionari di partito si rendono conto che parla di argomenti ritenuti scomodi: nel film si allarmano subito alla battuta “che cos’è la verità?”. Quando poi un il Maestro affronta un critico teatrale che ha stroncato la sua opera che non aveva mai visto perché mai andata in scena, quello gli risponde: “Non c’è bisogno di vedere certi lavori per esprimere la censura, la massa non deve essere confusa, dobbiamo tener conto che anche il popolo ha un’anima.” E il film si chiude con la battuta “Il potere è soltanto violenza sugli uomini.” Detto molto sinteticamente il romanzo mette in campo diversi dualismi: il bene e il male, il razionale e l’irrazionale, l’innocenza e la colpa, l’autorità e la libertà di pensiero. Eugenio Montale definì il romanzo “un miracolo che ognuno deve salutare con commozione” e ha ispirato Salman Rushdie per i suoi “Versetti satanici” e i Rolling Stones per “Simpathy for the Devil”.

Questo film del 1972 prende forma per volontà del regista serbo Aleksandar Petrović nato vissuto e morto Parigi ma attivo artisticamente, e anche politicamente, nella sua terra d’origine, la penisola balcanica, in quella che fra il 1929 e il 2003 è stata definita Jugoslavia e che oggi è suddivisa in 7 stati: Bosnia-Erzegovina, Croazia, Macedonia del Nord, Montenegro, Serbia, Slovenia, Kosovo. Petrović, che ha nel carnet anche due candidature agli Oscar e un premio a Cannes (“Ho incontrato anche zingari felici” 1967) nel 1973 è stato costretto a lasciare il suo posto alla Belgrade Film Academy per le sue idee anti regime comunista. Va da sé il suo interesse per l’antisovietico “Il Maestro e Margherita” per il quale, diventando una coproduzione Italia-Francia, scrive la sceneggiatura insieme alla coppia di vita e di scrittura Amedeo Pagani e Barbara Alberti; e forse questo, la necessità di una coproduzione che a sua volta necessita di attori noti, danneggia il suo processo creativo e confeziona un film senza mordente che banalizza la visione fantastica e grottesca del romanzo e toglie forza alla sua stessa visione cinematografica fino a quel momento apprezzata e premiata. I momenti migliori sono l’interpretazione del francese Alain Cuny – che cannibalizza il protagonista – nel ruolo del professor Woland, nome germanico per Satana che Goethe usa nel suo “Faust”; il professore si presenta come esperto in magia nera, e i suoi due accoliti, i demoni Koroviev e Azazello, sono visti come due clown senza faccia colorata ma assai inquietanti; altro momento ben riuscito è la follia collettiva a teatro, quando Woland fa cadere dall’alto sul pubblico abiti all’ultima moda occidentale, salvo poi farli sparire lasciando tutti nudi; per il resto rimane appena accennata e davvero incomprensibile la storia d’amore con Margherita e benché Ugo Tognazzi si metta volenterosamente al servizio, il suo personaggio rimane statico per difetto di scrittura.

Margherita è interpretata dall’americana Mimsy Farmer che si è accasata in Italia sposando lo scrittore Vincenzo Cerami e divenendo una diva nostrana del genere giallo-thriller degli anni ’70 avendo appena interpretato “4 mosche di velluto grigio” di Dario Argento l’anno prima di questo film. Conclusa il suo matrimonio, negli anni ’80 si trasferisce a Parigi abbandonando praticamente la recitazione ma non i set, dove ritorna come pittrice e scultrice che dalle scenografie teatrali lavora alle decorazioni di film internazionali a grosso budget come “Troy”, “Marie Antoniette”, “La fabbrica di cioccolato” “La bussola d’oro”. I due diavoli-clown sono interpretati da due volti assai noti in patria, Pavle Vuijsic e Bata Živojinović.

Alain Cuny, Bata Živojinović e Pavle Vuijsic

Altri film dal romanzo. Nel 1970 c’era stato il finlandese “Pilatus” che raccontava solo le vicende bibliche del romanzo. Del 1990 c’è una versione ungherese modernizzata. Nel 2011 l’italiano Giovanni Brancale scrive e dirige una sua versione che trasferisce la vicenda nella Firenze odierna, un film distribuito solo in home video e che dal trailer reperibile on line si evidenzia come un lavoro approssimativo e velleitario. Del 2017 è un’altra versione francese che trasferisce l’azione da Mosca a Parigi. Ma anche la Russia ha le sue produzioni cinematografiche: il primo è del 1986 ma piuttosto che prendere spunto dal romanzo narra le vicende che si svolgono attorno a un adattamento teatrale del romanzo; poi ci sono due “Master i Margarita” del 1994 e del 1996 ma entrambi, chissà come, non sono mai stati distribuiti. Più fortuna ha avuto la miniserie tv russa del 2005.

Il film ha avuto una fiammata in sala grazie alla colonna sonora di Ennio Morricone, che come nel caso del successo radiofonico di “Il Tema di Lara” di Maurice Jarre per “Il Dottor Zivago” che ha portato la gente al cinema, la musica di Morricone ha fatto altrettanto, con la differenza che il passaparola del pubblico ha premiato il primo e affondato il secondo. Che quell’anno, il 1972, se l’è anche dovuta vedere con tutta una serie di capolavori: “Cabaret” di Bob Fosse, “Corvo Rosso non avrai il mio scalpo” di Sydney Pollack, “Il Caso Mattei” di Francesco Rosi, “Il Padrino” di Francis Ford Coppola, “Mimì metallurgico ferito nell’onore” di Lina Wertmüller, “Roma” di Federico Fellini e “Ultimo tango a Parigi” di Bernardo Bertolucci. E scusate se è poco.

Su YouTube il film completo in italiano sottotitolato in spagnolo.