Archivi categoria: il grande addio

Il grande addio – l’ultimo film sui bambini afro-italiani del dopoguerra

Renato Polselli nel film come regista di un musicarello

Il film è del 1954, a dieci anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, ed è un tentativo di raccontare quei fatti e quegli anni attraverso la lente deformante degli stili che si accavallavano all’epoca, il neorealismo e lo strappalacrime come detto dal pubblico, o melodramma, o neorealismo d’appendice come definito più recentemente; sta di fatto che l’autore, Renato Polselli, anche soggettista e sceneggiatore, non rinuncia proprio a nulla e ci mette dentro di tutto, anche il siparietto musicarello con un intero balletto pseudo esotico con ballerini dipinti di marrone a rappresentare un accampamento di negri in cui arriva lo schiavista bianco armato di frusta. Per il resto è tutto un fiorir di retorica e luoghi comuni spinti fino all’eccesso, che però non danneggiano la scorrevolezza di un film di mestiere assai ben eseguito e piacevole alla visione: è il documento di un’epoca, di un modo di fare cinema di serie B che invano aspira alla serie A dei Rossellini e dei De Sica, perché sempre alla ricerca di troppo facili espedienti narrativi sempre volti a emozionare lo spettatore, senza dargli tregua, ammirevoli per la fantasia narrativa che esprime in un film corale che non si sofferma su nessuna delle sequenze di cui è composto e procede per accumulo di scene strappalacrime che oggi fanno sorridere per l’ingenuità dell’intento e dell’assunto. Come si può vedere nella locandina che ritrae tutti i protagonisti, si contano ben sei momenti distinti di un film che non vuole deludere nessuno.

L’intento, almeno all’inizio, è quello di raccontare la realtà dei bambini mulatti che sono nati dagli amori tempestivi e passeggeri di certe italiane – la maggior parte donne di facili costumi, non necessariamente prostitute per mestiere, come anche ingenue e illuse ragazze di quartieri sottoproletari che vedevano come ricchi principi azzurri i sottoproletari americani che portavano in dono caffè e cioccolata, e nello specifico parliamo dei neri perché i frutti dei loro lombi furono più scandalosamente evidenti, ma anche i bianchi ebbero la loro parte. Nel film l’intento di narrare il dramma di quei bambini, spesso ripudiati e lasciati negli orfanotrofi perché troppo ingombranti da portare in giro, si perde però in una narrazione più complessa per meglio appassionare le platee cinematografiche, che però accolsero sempre tiepidamente questo genere di pellicole; è chiaro che i cineasti dell’epoca, anzi meglio definirli cinematografari in quanto gente di mestiere, produttori sceneggiatori e registi – che non aspiravano, e neanche potevano, all’arte – hanno cavalcato una realtà senza riuscire a produrre film esemplari in una produzione che si è conclusa nel giro di pochi anni, quando la curiosità delle masse per i bambini afro-italiani andò scemando.

Come si legge dal logo in basso a destra, il film è passato in prima assoluta su Cine34 del pacchetto Mediaset, un film di cui sul web sono quasi introvabili notizie e dettagli, e men che meno immagini; tutte le foto del film che pubblico in questo articolo sono scatti dello schermo tv.

Nei titoli di testa Angelo, senza cognome, è il primo nome, da protagonista assoluto, come in realtà non è; seguono Luisa Rossi, da sola, e poi Dante Maggio e John Kitzmiller insieme, chiudono l’elenco dei coprotagonisti le straniere Virginia Belmont e Ludmilla Dudarowa, e infine con Jacques Sernas. Il film, nella sua finzione narrativa, lascia invariati i nomi di alcuni personaggi-interpreti sfiorando anche la realtà biografica: il piccolo Angelo, nato a Napoli nel 1945, è realmente un figlio del peccato inter-etnico abbandonato alla nascita; l’attore Dante Maggio, che con la sorella Pupella è il più famoso di una famiglia di teatranti che conta anche Enzo Beniamino e Rosalia, adottò il trovatello, cosa che fa anche nel film dove lui rimane col suo nome Dante, e interpreta un attore di successo il cui figlio maggiore che trova il piccolo trovatello si chiama Enzo, come realmente si chiama suo figlio Enzo Maggio; c’è poi l’aviatore americano John interpretato dal vero militare John Kitzmiller, e la realtà che si sovrappone alla finzione finisce lì.

L’antefatto del film racconta che l’aviatore sgancia per errore una bomba su una giostra piena di bambini scambiandola per un accampamento nemico e poi, benché tormentato dal rimorso, si accompagna alla facile Wanda, evidentemente sganciando ben diverso ordigno che con un salto temporale di dieci anni si personifica nello sciuscià Angelo che, nonostante la madre vesta dignitosamente e sfoggi addirittura un abito elegante quando va in balera, lui è inopinatamente ed esageratamente coperto di stracci rattoppati perché nelle intenzioni dell’autore deve suscitarci estrema pietà. Angelo, per il colorito della sua pelle, è ovviamente deriso dagli altri bambini, tranne dalla piccola Lalla che gli è amica e lo vuole sposare.

Quando Tonio, lo sfruttatore di Wanda torna dalla macchia e trova in casa il bambino, dichiaratamente lo odia e lo maltratta, e poiché è anche un malvivente dedito a furti e intrallazzi finisce in galera insieme a Wanda accusata di favoreggiamento. Il piccolo, trovatello cencioso che vaga per le vie, viene così accolto in casa da Dante e da sua moglie Franca, e quando Wanda esce di prigione va subito a recuperare il bambino, ma già nella prima inquadratura la vediamo che tossisce ed è chiaro che “la tisi non le accorda che poche ore” per dirla col dottore de “La Traviata”. In un duro, si fa per dire, confronto con la madre adottiva, Wanda decide di lasciare il figlio in quella famiglia benestante e va via dicendo: “Se domandasse chi è la madre risponda che è morta, non è una bugia, mi rimane poco tempo… Non si faccia chiamare mamma, mi lasci almeno questo!” e a quel punto noi pubblico dovremmo già versare copiose lacrime; e da questo punto di vista al personaggio di Wanda è scritto il meglio del meglio: quando il bambino le aveva chiesto con le lacrime agli occhi “Perché mi chiamano bastardo, mamma?” lei aveva risposto “Era il nome di tuo padre!”. Queste due battute per esemplificare l’intero tono del film. Renato Polselli non rinuncia neanche a fare documento inserendo certe inquadrature in cui il soldato John, diventato frate John per espiare il senso di colpa, passeggia fra i ruderi della città distrutta dai bombardamenti ma anche con le gru delle ricostruzioni in lontananza; e quando nel finale – che non svelo – l’uomo è preso da un parossismo nervoso che gli fa perdere il controllo, il regista spinge l’attore in esagerate risate nervose e malefiche manco fosse un mostro da B movie americano.

Angelo, divenuto legalmente Angelo Maggio, dai 5 ai 9 anni compare in cinque film e nei primi due è protagonista: “Il mulatto” e “Angelo tra la folla” entrambi diretti da Francesco De Robertis, già sottotenente di vascello della Regia Marina, che per i suoi trascorsi artistici e teatrali venne nominato direttore del centro cinematografico del Ministero della Marina col compito di girare documentari di propaganda, e scrive e supervisiona il debutto alla regia di Roberto Rossellini “La nave bianca”; nel 1949 De Robertis abbandona la carriera militare e da civile prosegue come regista cinematografico facendo debuttare il piccolo afro-italiano. Per Angelo questo “Il grande addio”, nomen omen, è l’ultimo film e darà l’addio al mondo cinematografico. La sua parabola è simile a quella di un altro bambino di colore, il somalo Ali Ibrahim Sidali, che fu il primo attore bambino di colore che partecipò a due soli film del periodo fascista coloniale incarnando il buon selvaggio che di buon cuore accetta l’opera civilizzatrice di cultura italica. In Germania ci fu la piccola Elfie Fiegert, anch’ella abbandonata e adottata, che divenne famosa per un film ispirato alla sua vera vicenda e che anche da adulta ebbe una breve carriera cinematografica.

L’americano John Kitzmiller era giunto in Italia nel luglio del 1943 partecipando allo sbarco in Sicilia con le Forze Alleate, ed avendo una laurea in ingegneria era sbarcato con il grado di capitano. Durante la guerra, in patria erano morti entrambi i suoi genitori e per questa ragione, unitamente alle difficoltà presenti all’epoca (come oggi e sempre) negli USA per gli afroamericani, si convinse a prolungare la ferma nell’esercito, e dopo la fine della guerra restò in Italia partecipando da ingegnere, sotto il comando americano, alla ricostruzione di strade e ponti distrutti dai bombardamenti. Fu il produttore Carlo Ponti a coinvolgerlo nel cinema allorché stava cercando l’interprete di un soldato americano fuggito da un campo di prigionia tedesco per il film “Vivere in pace” del 1947 diretto da Luigi Zampa; e poiché il non-attore si dimostrò un buon attore cominciarono a fioccargli altre proposte, anche in ragione del fatto che essendo da noi l’unico attore di colore aveva praticamente il monopolio di quei ruoli, e di conseguenza si stabilì definitivamente in Italia, mentre sul piano professionale arrivò addirittura a ottenere nel 1957 il Gran Premio per il migliore attore a Cannes con il film “la valle della pace” dello sloveno France Štiglic, battendo la concorrenza di star come Gary Cooper (“La legge del Signore” di William Wyler) e Max Von Sydow (“Il settimo sigillo” di Ingmar Bergman), premio che gli valse l’attenzione internazionale e un ruolo nel primo 007; il suo ultimo film fu “La capanna dello zio Tom” dell’ungherese Géza von Radványi. Morì 51enne di cirrosi epatica.

La milanese Luisa Rossi già 16enne si trasferì a Roma per inseguire il sogno della carriera cinematografica, e le andò bene, e sono maligno nel volere immaginare come: debuttò subito dopo un provino fatto con Giovacchino Forzano, che era amico di Mussolini il quale gli aveva fornito mezzi e aiuti perché acquistasse gli stabilimenti cinematografici della toscana Tirrenia Film che lui ribattezzò Pisorno unendo i nomi di Pisa e Livorno dato che gli studi vi si trovavano a metà strada, e che in quel 1934 fu la prima città del cinema italiana poiché Cinecittà sarebbe stata costruita nel 1937. Luisa Rossi, come tanti altri coetanei, segue i corsi di recitazione di Alessandro Fersen e poi recita anche in teatro e in televisione; con gli anni della maturità la si ritrova in film prevalentemente brillanti con ruoli di secondo piano, fino alla sua ultima interpretazione dove è madre di Nanni Moretti in “Ecce bombo”. Muore 59enne per cause non specificate dalla cronaca, ma data l’età è intuibile un tumore.

Dante Maggio in una scena del film dove il teatrino dei pupi diventa allegoria della vita

Di Dante Maggio resta ancora da dire che fu un giovane scapestrato che finì anche in riformatorio ma che poi mette la testa a posto e si avvia al lavoro in palcoscenico anche come tecnico nella compagnia del padre Mimì. Ri-debutta in cinema nel dopoguerra dopo un fallimentare esperimento nel 1940, ritagliandosi una carriera da caratterista che, essendo ben assai remunerata, lo allontana dal palcoscenico, dove tornerà in sempre più rare occasioni; partecipa anche a qualche spaghetti-western col nome, secondo la moda americaneggiante, di Dan May, esatta traduzione del suo vero nome. Muore 83enne.

Sernas con la moglie

Il quarto nome di peso è quello del naturalizzato francese Jacques Sernas lituano di nascita col nome Jokūbas Bernardas Šernas. A un anno rimase orfano del padre, Jokūbas Šernas, che era stato uno dei firmatari nel 1918 dell’atto d’indipendenza della Lituania dall’allora impero teutonico. La madre, col piccolo, si trasferì in Francia e si risposò, e fu quando Jacques era adolescente che la Francia fu invasa dalla Germania nazista, così il ragazzo entrò nel movimento di resistenza partigiana; venne anche arrestato e condotto nel campo di concentramento di Buchenwald da dove uscirà solo grazie alla liberazione degli alleati. Tornato a casa riprese poi gli studi in medicina e per mantenersi svolse diversi lavori compreso quello di corrispondente per il giornale Combat durante il processo di Norimberga. Il giovanotto a tempo perso si allenava nelle palestre di boxe e lì venne notato da Jean Gabin che lo fece debuttare con lui in un piccolo ruolo nel noir “Maschera di sangue”; ancora una volta fu notato da un grande del cinema, l’italiano Pietro Germi, che lo volle fra i protagonisti di “Gioventù perduta” un noir italiano del 1948, film per quale ottenne il Nastro d’Argento; nel frattempo non si lasciò sfuggire l’occasione dei facili guadagni posando per i fotoromanzi, attività che portò avanti fino agli anni Settanta e, va da sé, si accasò da noi sposando la giornalista Maria Stella Signorini. Nonostante il debutto italiano di qualità si impegnò nei filoni peplum e avventurosi, all’esaurirsi dei quali si proiettò nelle produzioni internazionali senza più ottenere grandi successi, così che 45enne si mise, diciamo così, in aspettativa, rallentando l’attività e cominciando a lavorare in tv. Morì poco prima di compiere 90 anni.

Nel ruolo di Franca, la madre adottiva, Ludmilla Dudarowa che era nata in Turchia da genitori romeni e anche lei giunta in Italia per prendere parte al luminoso mondo della cinematografia prendendo parte a una ventina di film; delle notizie frammentarie sulla sua vita si ignorano tutte le date, si sa che raggiunta la maturità lasciò il cinema e l’Italia, salvo poi ritrovarla nel 1970 colo ruolo di una russa nel cast di “Lettera al Kremlino” di John Huston. Virginia Belmont nel ruolo della seconda donna gestita da Tonio, all’anagrafe era Virginia Califano arrivata in California da bambina coi genitori; dopo aver fatto la sigaraia al Mocambo, come ne abbiamo viste nei film, intraprende la carriera di attrice con piccoli ruoli; nel 1941 sposa il ristoratore italo-americano Albert Califano, probabilmente cugino, e dopo la guerra, sempre probabilmente a causa dei dissesti economici in cui li crisi mondiale li aveva coinvolti, la coppia si traferisce a Roma dove lei comincia a lavorare nelle nostre produzioni strappalacrime mentre il marito si reinventa come corrispondente di The Hollywood Reporter; alla fine degli anni ’50 lascia la recitazione, e probabilmente anche il marito, per tornare negli USA dove trovò lavoro come addetta alle vendite alla United Airlines.

Dell’autore Renato Polselli resta da dire che dopo aver realizzato diversi melodrammi, negli anni ’60 alterna i film drammatici agli horror-gotici per passare negli anni ’70 al genere erotico con titoli esemplari come “Rivelazioni di uno psichiatra sul mondo perverso del sesso” film falso documentaristico e pseudo-sociologico con l’inserto di una vera orgia probabilmente recuperando il materiale da un porno che deve aver girato sotto altro nome, e Polselli vanta diversi pseudonimi; nel 1973 gira un film con Marina Lotar che a causa della censura esce solo nel 1980 col titolo “Oscenità” direttamente nel circuito a luci rosse. Nel 2000 esce il suo ultimo film “Frida – professione manager”, ed è facile immaginare che tipo di manager fosse Frida, un erotico girato con pochissimi soldi e pochissimo senso del cinema, di qualsiasi genere esso potesse essere. Recentemente, come sempre accade, la sua filmografia è stata oggetto di rivisitazione da parte della critica, che si è focalizzata sulle produzioni horror e barocche degli anni settanta, tanto da assegnargli la fama di “autore maledetto”. E per uno che aveva cominciato coi film strappalacrime è assolutamente un bel divenire, della serie: dopo morti c’è per tutti un posto in paradiso.