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Processo e morte di Socrate

Processo e morte di Socrate (1939) - IMDb

Un’occasione più unica che rara per gettare uno sguardo sul teatro ottocentesco di cui Ermete Zacconi è uno degli ultimi rappresentanti ancora attivi nella prima metà del Novecento: il film è del 1939 e lui è già 82enne, acclamato prim’attore che aveva recitato, in Italia e all’estero, anche con la coetanea Eleonora Duse, colei che fu detta la “Divina” da Gabriele D’Annunzio e che morì 66enne nel 1924. Come lei è stato un precursore del verismo interpretativo svecchiando lo stile enfatico che caratterizzava la recitazione.

Paul van Yperen's Blog, page 87

Ma va considerato, oggi, che quel verismo interpretativo, ispirato al movimento letterario promosso sul finire dell’Ottocento da Giovanni Verga e Luigi Capuana fra i capofila, è espressione del suo tempo, perché la naturalezza interpretativa degli attori di teatro, e oggi anche di cinema tv e web, è di fatto lo specchio della società, del linguaggio che evolve nei tempi. Ermete Zacconi ha svecchiato lo stile aulico e pomposo delle precedenti generazioni di attori – di cui purtroppo non possiamo avere testimonianze audio e video, e che possiamo solo immaginare – ma visto e sentito oggi, egli stesso, appare pomposo perché la lingua parlata si è evoluta – ma anche involuta per altri versi – verso moduli ancora più semplificati e insieme anche meno precisi nella dizione e nell’articolazione delle sillabe: oggi è un tripudio del parla come magni come si dice a Roma, o del parlare pisciato come si dice in palcoscenico, con descrizione onomatopeica di una dizione imprecisa e biascicata. Per un esempio di questo tipo di parlata – che ormai è un’espressione che bisogna ritenere disgiunta dall’arte recitativa – basta andare a vedere “Favolacce” dei Fratelli D’Innocenzo, o una delle tante interviste che gli stessi gemelli hanno rilasciato.

La sillaba - Docsity

Va riconosciuto, oggi, che nella recitazione di Zacconi non si perde una sola sillaba insieme al fatto, però, che il parlato è fluido e discorsivo, pur nell’assoluta difficoltà dei testi platonici che non sono certo una chiacchierata al bar fra amici, che lui rende con la medesima naturalezza, tuttavia, pur appoggiando l’accento su ogni sillaba; personalmente mi ricorda certi vecchi professori o avvocati della mia gioventù, che si esprimevano con la medesima enfasi trattenuta ed erano naturali al contempo. Un modello di espressione che oggi non esiste più e che possono ricordare solo i miei coetanei figli del baby boom degli anni Sessanta.

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Del film va ricordato che l’attore aveva interpretato Socrate in palcoscenico nei “Dialoghi Platonici” proprio l’anno prima della realizzazione del film, è quindi plausibile ritenere che l’ispirazione cinematografica nasce proprio dalla sua interpretazione teatrale che ebbe anche una tournée in America. E il film, poi, di ritorno, influenzò le successive rappresentazioni teatrali. Ma la critica lo giudicò molto severamente: impacciato, scolastico e tecnicamente povero. Di fatto, sceneggiato dallo stesso regista Corrado D’Errico, è la trasposizione di un monologo teatrale, interpuntato da occasionali dialoghi e inserito in un contesto scenografico decisamente teatrale, dove la cartapesta e i fondali dipinti sono assai evidenti; più ricchezza visiva si ha nel raccordo fra la prima e la seconda parte – il film è diviso in tre parti seguendo pedissequamente i dialoghi “Apologia” “Critone” e “Fedone” – momento filmico in cui delle sacerdotesse eseguono un’improbabile danza intorno a un fuoco sacro, a mo’ dei siparietti da varietà.

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Per il resto il regista fa un buon lavoro, a mio avviso, cambiando spesso le inquadrature per dare al film un suo movimento interno in un’epoca in cui la cinepresa non si muoveva ancora, e usa tutta la tecnica fotografica disponibile: i primi piani, i campi medi e quelli lunghi, il campo e il controcampo e tutta una serie di interessanti prospettive e punti di vista. Fra gli altri interpreti un giovanissimo Rossano Brazzi che diventerà uno dei protagonisti del cinema di regime, e altri quotati interpreti dell’epoca fra cui Luigi Almirante, zio di quel Giorgio Almirante che fu capo di gabinetto del MinCulPop e poi fra i fondatori del Movimento Sociale Italiano.

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Ma come mai la critica fu così severa? Come ricordo in “Cinecittà Babilonia” sono gli anni in cui il cinema passa dal muto al sonoro e in Italia prende forma il regime fascista. Il regista Corrado D’Errico era integrato nel regime ed ebbe anche un incarico nel MinCulPop, il Ministero per la Stampa e la Propaganda detto anche Ministero della Cultura Popolare da cui l’abbreviazione usata anche come termine spregiativo; fu corrispondente per il Cinegiornale Luce in Etiopia, e lì contrasse una malattia tropicale che gli fu fatale. Il cinema di quegli anni è quello che vuole il regime fascista, un cinema spensierato e sentimentale, quello dei cosiddetti telefoni bianchi, che porta sullo schermo anche quei drammi storici in cui esso si possa riconoscere e che lo possa esprimere e propagandare: in questo film su Socrate c’è un passaggio in cui una folla di figuranti fa il saluto romano altrimenti detto fascista. Ma probabilmente non basta, e poiché non ci sono note storiche che associano Ermete Zacconi al fascismo, è probabile che la critica ingenerosa sia un attacco indiretto al vecchio mattatore che non si è lasciato inquadrare. Certamente il film è, come dice la critica, impacciato, scolastico e tecnicamente povero, ma l’impaccio è più di alcuni comprimari del prim’attore, scolastico è il contenuto e non può essere altrimenti, tecnicamente povero senz’altro ma è solo uno sfondo in cui si è fatto muovere un grande mattatore. Per me, poi, che non ho mai letto Platone, è anche una ghiotta occasione culturale.

Con “I Dialoghi di Platone” l’80enne Ermete Zacconi calcò per l’ultima volta la scena e farà ancora cinque film prima di morire 91enne nella sua casa di Viareggio, lui che era nato emiliano. “Alle ore 14,40 di ieri, – dice il manifesto fatto affiggere dall’amministrazione comunale – nella sua casa nei Giardini d’Azeglio, si è spento un astro fulgido, Ermete Zacconi. Per più di mezzo secolo questo nome, divenuto a Viareggio concittadino e famigliare, ha rappresentato nel mondo non solo il prestigio dell’arte drammatica più nobile e pura, ma la potenza dell’animo italiano capace di orizzonti profondi e di elevazioni senza pari nell’interpretazione dell’eroismo, della gioia e della umana sofferenza.”

Il giornalista viareggino Adolfo Lippi ricorda una “fotografia” mai scattata: in una caldissima sera del 1946 al tavolo di un bar sedevano e chiacchieravano tre prim’attori di generazioni diverse, e l’uno erede dell’altro: Ermete Zacconi, suo genero Renzo Ricci che aveva sposato l’attrice Margherita Bagni figliastra ma forse figlia naturale di Zacconi, e il di lui genero Vittorio Gassman che aveva sposato l’attrice Nora Ricci; tutti i tre sono legati a Viareggio: Zacconi che l’ha eletta a città patria, Renzo Ricci che grazie al suocero vi iniziò una strabiliante carriera, e Gassman che sarà sempre di casa nella cittadina toscana, tanto che in un cortocircuito persona-personaggio dirà “Io a Viareggio sono di casa” in “Il sorpasso”. Viareggio, con l’innesto di Ermete Zacconi che vi attirò i suoi amici, divenne meta del bel mondo artistico e culturale: vi soggiornarono Eleonora Duse e la sua amica danzatrice Isadora Duncan, i fratelli De Filippo che portarono in teatro “Natale in casa Cupiello”, teatro in cui si esibì anche Ettore Petrolini, e a Viareggio si stabilì anche un vecchissimo Leopoldo Fregoli che vi venne a morire, mentre Luigi Pirandello vi soggiornò amoreggiando con Marta Abba. Memorie da enciclopedia dello spettacolo che un film d’epoca inevitabilmente suscita, dove un nome tira l’altro in una ricerca di curiosità che potrebbe non avere fine…

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