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Mahler – la Perdizione

Curiosa ispirazione per questo film decisamente minore di quel geniaccio che fu Ken Russell, ma ne parlerò alla fine. Più che altro proseguo il discorso sui film biografici introdotto con “Anton Čechov” e proseguito con “Whitney – una voce diventata leggenda” – benché mi fossi già occupato di altre biografie cinematografiche in “Biografie e Storie Vere”. Ken Russell, nel prendersi carico di scrivere e dirigere un film su Gustav Mahler, sapeva esattamente come e dove mettere le mani, benché a modo suo. A inizio carriera, dopo aver fatto di tutto ma soprattutto fu pilota della RAF e poi coreografo per finire col fare il fotografo, attività che lo introdusse al cinema. Avendo cominciato a girare dei cortometraggi coi quali si fece conoscere nell’ambiente, trentenne entrò alla BBC per la quale girò alcune biografie – Richard Strauss, Isadora Duncan, Claude Debussy fra gli altri – dal taglio assai originale in contrasto con le produzioni standard dell’epoca e dell’emittente incentrate sulle facili spettacolarizzazioni. Debutta dieci anni dopo come regista cinematografico ma è col suo terzo film che raggiunge la fama internazionale: “Donne in amore” che gli valse la candidatura per l’Oscar, cui segue “L’altra faccia dell’amore” biografica russelliana di Pëtr Il’ič Čajkovskij, cui segue – sempre restando nel tema delle biografie – “Messia selvaggio” sul pittore e scultore francese Henri Gaudier-Brzeska, e poi si arriva nel 1974 a questo “Mahler” che da noi è stato reintitolato-sottotitolato “La Perdizione” certo per solleticare interessi pruriginosi. Per concludere con le biografie filmate da Russell, seguiranno: “Lisztomania” su Franz Liszt, “Valentino” su Rodolfo Valentino e “Gothic” sulla serata a Villa Diodati presso Ginevra dove quattro ragazzi a inizio ‘800 si inventarono storie fantastiche e grottesche: Lord Byron, Percy Shelley, Mary Shelley e John Polidori.

“Mahler” com’è nello stile dell’autore è un film fortemente surreale che ricorre alle allegorie dell’onirico: come filo conduttore racconta l’ultimo segmento della vita del musicista che nel 1911 si sposta con la moglie Alma in treno da Parigi a Vienna, e il compositore oscilla fra ricordi del passato e sogni e incubi, il tutto alternato a dialoghi molto letterari che parlano di musica e di passioni che diventano ossessioni, ma soprattutto di vita e di morte. Ken Russell è nel pieno del suo stile visionario e anti naturalistico, oltre che anti convenzionale, e se da un lato centra sequenze magistrali come la descrizione della morte della figlia, dall’altro indulge in una messa in scena troppo grottesca della famiglia del Mahler ragazzo, e in troppo lunga sequenza onirica in stile cinema muto però a colori in cui l’ebreo Mahler incontra la cattolica e nota antisemita Cosima Wagner, (figlia naturale di Liszt e moglie di Richard Wagner) raccontata da Russell come una grottesca maîtresse nazista quando all’epoca, il 1911, i nazisti non esistevano ancora: una visionarietà d’autore che rischia di diventare disinformazione. L’intero film appare a tratti pasticciato ma si fa seguire con molta piacevolezza perché non è mai banale né biograficamente pedissequo e chiede allo spettatore lo sforzo di una personale immaginazione per mettere insieme i pezzi, che sono tanti.

Nel ruolo del protagonista il trentenne Robert Powell che tutti ricordiamo come Cristo nel “Gesù di Nazareth” diretto da Franco Zeffirelli per la televisione tre anni dopo questo film, che all’epoca era ancora una piccola star della tv britannica cui non riusciva di sfondare al cinema, e questa è la sua prima buona occasione anche se mi sembra fuori ruolo: decisamente più giovane del vero Mahler – che era di venti anni più anziano della moglie e nel film sembrano coetanei – non sembra neanche centratissimo nel ruolo e a mio avviso rimane un attore che nel suo momento di maggior fulgore, gli anni ’70, fu sopravvalutato. Gli fa da spalla come moglie, frustrata perché anche lei compositrice, Georgina Hale che per la sua assai vibrante interpretazione vinse il BAFTA, British Academy Film Award, come migliore attrice emergente, mentre il film si aggiudicò al Festival di Cannes il Gran Prix Tecnico.

L’adolescente Gary Rich è Mahler da ragazzo e il giovane attore avrà una breve carriera in quei pochi anni ’70. La famiglia del giovane Mahler è composta da Lee Montague e Rosalie Crutchley come genitori mentre Peter Eyre e Angela Down sono fratello e sorella, Miriam Karlin e Benny Lee sono gli zii: una famiglia di ebrei raccontata in modo così grottesco, anzi burlesco, da farlo sembrare il film di un altro regista e farlo sfiorare da critiche di antisemitismo. Il belloccio Richard Morant è Max, un non ben specificato spasimante di Alma Mahler, laddove le biografie indicano che all’epoca la signora era in trattative amorose con l’architetto Walter Gropius che finì con lo sposare dopo che rimasta vedova era passata attraverso diverse relazioni fra le quali quella con il pittore Oskar Kokoschka. La cantant’attrice Dana Gillespie interpreta la soprano Anna von Mildenburg, Antonia Ellis dà fisicità e maschera a Cosima Wagner e Ronald Pickup (che nel 1982 sarà Giuseppe Verdi nello sceneggiato Rai “Verdi”) è il vagabondo dell’infanzia del musicista che all’organetto suona “Frère Jacques” (Fra’ Martino campanaro) che Gustav Mahler introdurrà nel 3° movimento della sua Sinfonia n° 1. La giamaicana Elaine Delmar interpreta l’esotica principessa che sul treno cede il suo più confortevole scompartimento al nevrotico Mahler mentre l’attore feticcio dell’autore Oliver Reed compare brevemente e amichevolmente come capotreno.

Ken Russell avrebbe voluto girare il film in Austria e nei luoghi originali della narrazione grazie a una coproduzione con la Germania che però si ritirò all’ultimo momento e sul piatto restarono solo le 160 mila sterline messe a disposizione dal conterraneo produttore Roy Baird, e solo con quella cifra da film a basso costo l’autore, girando praticamente dietro casa, realizzò comunque un’opera che non mostra i segni della povertà, anzi, finendo addirittura col vincere il premio tecnico a Cannes: quando i soldi non sono tutto se c’è vero talento.

Ma l’ispirazione? Russell, che amava Mahler, si indignò quando vide “Morte a Venezia” di Luchino Visconti: film che, benché non dichiarato, finì con l’essere recepito come film su Mahler. “Penso che ‘Morte a Venezia’ sia spazzatura. La gente pensa che si tratti di Mahler, tutto perché la sua musica fa parte della colonna sonora! Il regista, Visconti, non ha mai detto che si trattava di lui, però.” Fu allora che decise di fare il suo film sul musicista inserendo all’inizio una scena che fa la parodia al film di Visconti. Sul piano dei contenuti Russell non ha tutti i torti, l’altro film non è propriamente biografico anche se l’ispirazione di Visconti contiene molti dotti rimandi, e onestamente non disse mai che il suo Gustav von Aschenbach fosse Gustav Mahler; ma la cosa che oltremodo aveva indignato l’autore inglese è che l’italiano spinse il pedale del suo racconto in chiave omosessuale facendone qualcosa di più personale. Di fatto, ognuno a suo modo, essendo due grandi autori, entrambi hanno fatto film molto personali, ma è un’esagerazione che il sanguigno Russell si spinga a definire spazzatura un capolavoro dalle eleganti atmosfere rarefatte – che sono lontanissime dal suo grottesco barocco a volte anche un po’ da sboccato da baraccone. Dunque adesso tocca andare a rivedere “Morte a Venezia”.

La scena di “Morte a Venezia” di cui Ken Russell fa la parodia trasferendola nella stazione ferroviaria dove transita il treno su cui viaggia Gustav Mahler.