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Il Traditore, e Bellocchio non tradisce

Marco Bellocchio, che a pieno titolo possiamo considerare uno dei massimi autori della cinematografia italiana, se non sempre è segno di garanzia al botteghino, segna senz’altro una continuità per coerenza stilistica benché le sue ispirazioni narrative siano varie e a uno sguardo superficiale possano apparire casuali: si è ispirato ad autori classici come Anton Čechov (“Il Gabbiano), Luigi Pirandello (“Enrico IV” con Marcello Mastroianni e “La Balia” con Maya Sansa che sarà in altri suoi film;) e Von Kleist (“Il Principe di Homburg” dove troviamo anche il Pierfrancesco Favino oggi protagonista del film in questione); personaggi della storia moderna come Aldo Moro (Roberto Herlitzka in “Buongiorno, notte”) e Benito Mussolini (Filippo Timi in “Vincere” con Giovanna Mezzogiorno) ma anche incursioni nella psicanalisi a fine anni ’70 con la molto discussa collaborazione con lo psichiatra Massimo Fagioli; nonché fatti di cronaca: “La Bella Addormentata” sul problema morale e politico dell’eutanasia. Ma qualunque sia l’ispirazione Bellocchio pone sempre al centro dei suoi film l’uomo, e la donna, in quanto individui da indagare. Si è imposto sin da inizio carriera come anti-conformista facendo film politici, ma politici in senso sociale, senza sbandierare appartenenze politiche benché chiaramente progressista; e ponendo al centro dei suoi racconti l’essere umano denuncia la società, i sistemi – anche politici – e lo Stato con le ipocrisie e le disarticolazioni che lo caratterizzano.

“Il Traditore” rimane su questa traccia, dove uno Stato assente, incoerente, impreparato e anche colluso, fa da scenario alla collaborazione del mafioso – vecchio stile e sempre orgoglioso di esserlo – Tommaso Buscetta: traditore del sistema mafioso ma anche tradito da quella mafia che nel segno di Totò Riina (Nicola Calì) ha cambiato pelle e strategie: è la storia del tormento di un uomo che tradisce per non tradire i suoi principi.

Pierfrancesco Favino è sempre all’altezza dei ruoli che affronta, molti dei quali biografici: Gino Bartali e il sindacalista Di Vittorio in serie tv; l’anarchico Giuseppe Pinelli in “Romanzo di una strage” di Marco Tullio Giordana (premio David di Donatello) senza tralasciare il suo Clay Regazzoni in “Rush” di Ron Howard che annovera fra le produzioni internazionali; ruoli che, fra gli altri, hanno richiesto lo studio di dialetti e cadenze non suoi (lui è romano). Anche col palermitano (e col portoghese che qui parla con la terza e ultima moglie brasiliana interpretata da Maria Fernanda Cândido) Favino è sempre intonato – tranne, e va segnalato – che nella lunga conversazione che ha col giudice Falcone (Fausto Russo Alesi): avevo letto sui social che parlava in pugliese e mi sembrava paradossale, data la professionalità di attore e regista, ma mi duole confermare che è così: voglio ipotizzare che la lunga sequenza di dialoghi che fanno da ossatura all’intero film siano state girate a inizio riprese, quando l’attore non aveva ancora preso dimestichezza con la calata palermitana.

Palermitanissimo, da sottotitoli, è il palermitano dop Luigi Lo Cascio che interpreta il Totuccio Contorno che seguirà l’esempio del suo amico Masino; mentre il calabrese (palermizzato) Fabrizio Ferracane è l’ex amico ora acerrimo nemico Pippo Calò. Nel cast anche Pier Giorgio Bellocchio, figlio e fotocopia di Marco, presente in molti film del padre, come capo scorta; Bebo Storti come avvocato e, muto ma iconico come Giulio Andreotti rivedo il regista catanese-romano di teatro sperimentale Pippo Di Marca col quale lavorai tanti anni fa. In linea generale da premiare l’impegno del cast, della regia e della produzione per il rispetto di una lingua-dialetto troppo spesso abusata nel cinema italiano e violentata in sala di doppiaggio.

Film applaudito a Cannes ma non premiato, doppio Globo d’Oro come Miglior Film e Musica (Nicola Piovani) e Nastri d’Argento a go-go. Un film da vedere, sia come prodotto stagionale ma soprattutto come ulteriore perla nella cinematografia di Bellocchio, che farà discutere mafiosi e mafioncelli nei bar, ma che purtroppo non servirà a cambiare la percezione che lo Stato Italiano ha di sé: alternativo alla realtà.