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Mahler – la Perdizione

Curiosa ispirazione per questo film decisamente minore di quel geniaccio che fu Ken Russell, ma ne parlerò alla fine. Più che altro proseguo il discorso sui film biografici introdotto con “Anton Čechov” e proseguito con “Whitney – una voce diventata leggenda” – benché mi fossi già occupato di altre biografie cinematografiche in “Biografie e Storie Vere”. Ken Russell, nel prendersi carico di scrivere e dirigere un film su Gustav Mahler, sapeva esattamente come e dove mettere le mani, benché a modo suo. A inizio carriera, dopo aver fatto di tutto ma soprattutto fu pilota della RAF e poi coreografo per finire col fare il fotografo, attività che lo introdusse al cinema. Avendo cominciato a girare dei cortometraggi coi quali si fece conoscere nell’ambiente, trentenne entrò alla BBC per la quale girò alcune biografie – Richard Strauss, Isadora Duncan, Claude Debussy fra gli altri – dal taglio assai originale in contrasto con le produzioni standard dell’epoca e dell’emittente incentrate sulle facili spettacolarizzazioni. Debutta dieci anni dopo come regista cinematografico ma è col suo terzo film che raggiunge la fama internazionale: “Donne in amore” che gli valse la candidatura per l’Oscar, cui segue “L’altra faccia dell’amore” biografica russelliana di Pëtr Il’ič Čajkovskij, cui segue – sempre restando nel tema delle biografie – “Messia selvaggio” sul pittore e scultore francese Henri Gaudier-Brzeska, e poi si arriva nel 1974 a questo “Mahler” che da noi è stato reintitolato-sottotitolato “La Perdizione” certo per solleticare interessi pruriginosi. Per concludere con le biografie filmate da Russell, seguiranno: “Lisztomania” su Franz Liszt, “Valentino” su Rodolfo Valentino e “Gothic” sulla serata a Villa Diodati presso Ginevra dove quattro ragazzi a inizio ‘800 si inventarono storie fantastiche e grottesche: Lord Byron, Percy Shelley, Mary Shelley e John Polidori.

“Mahler” com’è nello stile dell’autore è un film fortemente surreale che ricorre alle allegorie dell’onirico: come filo conduttore racconta l’ultimo segmento della vita del musicista che nel 1911 si sposta con la moglie Alma in treno da Parigi a Vienna, e il compositore oscilla fra ricordi del passato e sogni e incubi, il tutto alternato a dialoghi molto letterari che parlano di musica e di passioni che diventano ossessioni, ma soprattutto di vita e di morte. Ken Russell è nel pieno del suo stile visionario e anti naturalistico, oltre che anti convenzionale, e se da un lato centra sequenze magistrali come la descrizione della morte della figlia, dall’altro indulge in una messa in scena troppo grottesca della famiglia del Mahler ragazzo, e in troppo lunga sequenza onirica in stile cinema muto però a colori in cui l’ebreo Mahler incontra la cattolica e nota antisemita Cosima Wagner, (figlia naturale di Liszt e moglie di Richard Wagner) raccontata da Russell come una grottesca maîtresse nazista quando all’epoca, il 1911, i nazisti non esistevano ancora: una visionarietà d’autore che rischia di diventare disinformazione. L’intero film appare a tratti pasticciato ma si fa seguire con molta piacevolezza perché non è mai banale né biograficamente pedissequo e chiede allo spettatore lo sforzo di una personale immaginazione per mettere insieme i pezzi, che sono tanti.

Nel ruolo del protagonista il trentenne Robert Powell che tutti ricordiamo come Cristo nel “Gesù di Nazareth” diretto da Franco Zeffirelli per la televisione tre anni dopo questo film, che all’epoca era ancora una piccola star della tv britannica cui non riusciva di sfondare al cinema, e questa è la sua prima buona occasione anche se mi sembra fuori ruolo: decisamente più giovane del vero Mahler – che era di venti anni più anziano della moglie e nel film sembrano coetanei – non sembra neanche centratissimo nel ruolo e a mio avviso rimane un attore che nel suo momento di maggior fulgore, gli anni ’70, fu sopravvalutato. Gli fa da spalla come moglie, frustrata perché anche lei compositrice, Georgina Hale che per la sua assai vibrante interpretazione vinse il BAFTA, British Academy Film Award, come migliore attrice emergente, mentre il film si aggiudicò al Festival di Cannes il Gran Prix Tecnico.

L’adolescente Gary Rich è Mahler da ragazzo e il giovane attore avrà una breve carriera in quei pochi anni ’70. La famiglia del giovane Mahler è composta da Lee Montague e Rosalie Crutchley come genitori mentre Peter Eyre e Angela Down sono fratello e sorella, Miriam Karlin e Benny Lee sono gli zii: una famiglia di ebrei raccontata in modo così grottesco, anzi burlesco, da farlo sembrare il film di un altro regista e farlo sfiorare da critiche di antisemitismo. Il belloccio Richard Morant è Max, un non ben specificato spasimante di Alma Mahler, laddove le biografie indicano che all’epoca la signora era in trattative amorose con l’architetto Walter Gropius che finì con lo sposare dopo che rimasta vedova era passata attraverso diverse relazioni fra le quali quella con il pittore Oskar Kokoschka. La cantant’attrice Dana Gillespie interpreta la soprano Anna von Mildenburg, Antonia Ellis dà fisicità e maschera a Cosima Wagner e Ronald Pickup (che nel 1982 sarà Giuseppe Verdi nello sceneggiato Rai “Verdi”) è il vagabondo dell’infanzia del musicista che all’organetto suona “Frère Jacques” (Fra’ Martino campanaro) che Gustav Mahler introdurrà nel 3° movimento della sua Sinfonia n° 1. La giamaicana Elaine Delmar interpreta l’esotica principessa che sul treno cede il suo più confortevole scompartimento al nevrotico Mahler mentre l’attore feticcio dell’autore Oliver Reed compare brevemente e amichevolmente come capotreno.

Ken Russell avrebbe voluto girare il film in Austria e nei luoghi originali della narrazione grazie a una coproduzione con la Germania che però si ritirò all’ultimo momento e sul piatto restarono solo le 160 mila sterline messe a disposizione dal conterraneo produttore Roy Baird, e solo con quella cifra da film a basso costo l’autore, girando praticamente dietro casa, realizzò comunque un’opera che non mostra i segni della povertà, anzi, finendo addirittura col vincere il premio tecnico a Cannes: quando i soldi non sono tutto se c’è vero talento.

Ma l’ispirazione? Russell, che amava Mahler, si indignò quando vide “Morte a Venezia” di Luchino Visconti: film che, benché non dichiarato, finì con l’essere recepito come film su Mahler. “Penso che ‘Morte a Venezia’ sia spazzatura. La gente pensa che si tratti di Mahler, tutto perché la sua musica fa parte della colonna sonora! Il regista, Visconti, non ha mai detto che si trattava di lui, però.” Fu allora che decise di fare il suo film sul musicista inserendo all’inizio una scena che fa la parodia al film di Visconti. Sul piano dei contenuti Russell non ha tutti i torti, l’altro film non è propriamente biografico anche se l’ispirazione di Visconti contiene molti dotti rimandi, e onestamente non disse mai che il suo Gustav von Aschenbach fosse Gustav Mahler; ma la cosa che oltremodo aveva indignato l’autore inglese è che l’italiano spinse il pedale del suo racconto in chiave omosessuale facendone qualcosa di più personale. Di fatto, ognuno a suo modo, essendo due grandi autori, entrambi hanno fatto film molto personali, ma è un’esagerazione che il sanguigno Russell si spinga a definire spazzatura un capolavoro dalle eleganti atmosfere rarefatte – che sono lontanissime dal suo grottesco barocco a volte anche un po’ da sboccato da baraccone. Dunque adesso tocca andare a rivedere “Morte a Venezia”.

La scena di “Morte a Venezia” di cui Ken Russell fa la parodia trasferendola nella stazione ferroviaria dove transita il treno su cui viaggia Gustav Mahler.

Whitney – Una voce diventata leggenda

Il problema dei film biografici è che anche mostrando debolezze e intime miserie del personaggio noto, inevitabilmente sono sempre agiografici e celebrativi, e questo dedicato a Whitney Houston non sfugge al cliché, perché l’intento, dichiaratissimo, è proprio quello: è sicuramente un bel film ma non un grande film. Perché un film biografico diventi cinema di qualità superiore c’è bisogno che dietro ci sia non un semplice regista ma un autore che dia al film la sua impronta precisa e personale – e che altrettanto inevitabilmente allontanerà il film dal prodotto medio standard: o film per pochi, come “Anton Čechov” appena visto, o film personalissimo che inevitabilmente tradisce la biografia.

È un dato di fatto che la scrittura filmica tradisce sempre l’ispirazione originale, trattasi di biografia o fatto reale, romanzo o pièce teatrale, perché il linguaggio cinematografico ha altre esigenze narrative rispetto all’originale cui si ispira; e quando questo avviene perché dietro c’è un Autore, appunto uno o una con la A maiuscola che confeziona un film che verrà ricordato nei decenni a venire, siamo tutti soddisfatti; ma se il prodotto è un medio prodotto di stagione allora siamo più propensi a dare voce ai dubbi e cominciamo a chiedere il perché di certi tradimenti: l’Autore non tradisce – travisa, ricrea, e dà una lettura personale dei fatti. Qualche esempio? senza andare troppo lontano nel tempo fino a “Lawrence d’Arabia” di David Lean del 1962, c’è “Toro Scatenato” di Martin Scorsese del 1980, o “Malcom X” di Spike Lee del 1992, o “Frida” di Julie Taymor del 2002, e l’elenco è assai ricco.

Namie Ackie e Whitney Houston

Il film racconta Whitney dall’adolescenza alla morte con l’intensa interpretazione della britannica Naomi Ackie (ma Whitney rimane più affascinante) che canta con la sua voce nelle sessioni private ma è doppiata dall’originale The Voice, così com’era stata soprannominata la Houston, in tutte quelle performance pubbliche di cui esistono registrazioni. Quello che il film rivela a noi pubblico medio è che la cantante ebbe a inizio carriera un’importante relazione omosessuale con Robyn Crawford (Nafessa Williams) che anche come amica le resterà accanto tutta la vita; poi c’è l’agitato matrimonio col rapper Bobby Brown (Ashton Sanders), il confortante rapporto col sempre accogliente e generoso produttore Clive Davis (Stanley Tucci) e per finire, ma anche per cominciare perché alla radice del suo successo, il conflittuale rapporto coi genitori.

Dionne e Dee Dee Warwick

Figlioccia di Aretha Franklyn e cugina delle sorelle Dionne Warwick e Dee Dee Warwick, Whitney era figlia di John Russell Houston (Clarke Peters) che di mestiere faceva il manager della moglie (e nel mio piccolo immaginario personale quando c’è un uomo che fa da manager alla sua donna mi viene sempre da pensare a un pappone) che è la cantante soul e gospel Cissy Houston (Tamara Tunie) la quale aveva avviato la figlia nel coro della chiesa, dove la talentuosa bambina si conquistò il ruolo di solista a 11 anni; inoltre la ragazza accompagnava la madre nelle serate nei locali dove occasionalmente saliva sul palco a farle da spalla o corista. Sin da subito fu evidente alla madre il suo talento, la sua grande estensione vocale, per mettere in risalto la quale Whitney preferiva allungare le note e rallentare i ritmi di canzoni già famose rifacendole totalmente sue. Qui a seguire “I will always love you” che nel 1974 era stata incisa dalla folk-singer Dolly Parton e che poi Whitney, reinterpretandola, portò al successo planetario: è diventato il singolo più venduto nella storia da una cantante, e afroamericana, nonché uno dei più venduti di sempre con oltre 22 milioni di copie nel mondo; il film diretto da Mick Jackson era come tutti sappiamo “Guardia del corpo” accanto alla star Kevin Costner reduce dal suo clamoroso successo come regista esordiente “Io ballo coi lupi”. Quando si definì la produzione del film fu proprio Costner a suggerire il nome di Whitney Houston e fu ancora lui a spingerla a cercare brani più consoni rispetto a quelli che prevedeva la sceneggiatura. Costner ha concesso l’uso della sua immagine di repertorio nel film odierno, insieme a Oprah Winfrey che ha ospitato la cantante nel suo show.

Poi ci furono la droga e gli psicofarmaci e un lento declino ma quello che il film non racconta è quanto il fratellastro Gary Garland, figlio del primo matrimonio della madre, rivelò in un’autobiografia: che lui e Whitney da bambini, 7 e 9 anni, vennero abusati dalla più anziana cugina Dee Dee Warwick, fatto che è stato raccontato nel docu-film “Whitney Houston – Stella senza cielo” di Kevin McDonald presentato al Festival di Cannes nel 2018; e poiché l’interessata, scomparsa dieci anni prima non poteva replicare, sua sorella Dionne in un comunicato congiunto con la zia Cissy negarono che ciò potesse essere avvenuto, pur ammettendo i lati oscuri della personalità di Dee Dee. Sia come sia si torna al concetto di biografia: per varie scelte – di opportunità, di tempi narrativi, stilistiche – non tutto può essere contenuto in un film e quello che non ci viene mostrato finisce col non esistere, come tutto quello che non entra nell’inquadratura di una fotografia. Punto. Prima di questo un altro film televisivo del 2015 “Withney” era stato diretta dall’attrice Angela Bassett alla sua prima regia. Angela e Whitney avevano lavorato insieme nel 1995 in “Donne – Waiting to Exhale” opera prima cinematografica dell’attore Forest Whitaker.

Scritto dal quotato neozelandese Anthony McCarten che entra anche fra i produttori, la regia era stata in un primo tempo affidata alla canadese nera Stella Meghie salita alla ribalta col suo precedente successo “The Photograph – Gli scatti di mia madre”, film ambientato nella comunità nera di New York; ma distratta da un altro progetto – una serie tv per Disney+ – lascia la regia restando nella produzione (che fra produttori semplici e produttori esecutivi conta ben più di 30 nomi: un’esagerazione) e la direzione del film viene affidata a un’altra nera che è anche attrice, Kasi Lemmons, qui anche lei produttrice, e anche lei specializzata nei film all black e che ha all’attivo altre due biografie: quella di un ex detenuto che diventa attivista e seguitissimo speaker radiofonico in “Parla con me” e “Harriet” sull’abolizionista della schiavitù Harriet Tubman attiva nella seconda metà dell’Ottocento. A seguire si formò il cast e venne scelta Naomi Ackie assurta alla notorietà per aver vinto il British Indipendent Film Award per la sua interpretazione in “Lady Macbeth” di William Oldroyd. Anche l’attrice s’è acquistata un biglietto per sedere nel numeroso consiglio dei produttori probabilmente rinunciando a una parte della paga come accade agli interpreti emergenti alla loro prima co-produzione. E anche Clive Davis, il produttore musicale della cantante è nella lista dei produttori.

Nel 2012 Whitney è morta 48enne annegata nella sua vasca da bagno e la causa della morte non è chiarissima. Secondo le indagini mediche morì per un collasso cardiaco assai probabilmente causato dall’abuso di droga farmaci e alcol, sostanze che nello specifico non hanno causato la morte che venne archiviata come accidentale. Anni dopo si fece strada un’altra ipotesi secondo la quale era morta per annegamento in seguito a un attacco cardiaco causato sempre dai farmaci. in ogni caso non si trattò di suicidio né omicidio. Un’ultima speculazione fece riaprire il caso sulla causa della morte allorché un investigatore privato, probabilmente in cerca di visibilità, rese pubblica la sua teoria, soltanto sua, secondo cui la cantante sarebbe stata assassinata per debiti di droga. Resta la sua grandezza: fu la prima cantante afroamericana a conquistare mercati musicali fino ad allora preclusi ai neri; ha piazzato 7 singoli consecutivi nella top 100 statunitense scalzando il record dei Bee Gees; tra gli altri record detiene anche il primo posto nella classifica degli artisti afroamericani di maggior successo di sempre, insieme a Michael Jackson, e nel 2006 il Guinness dei Primati l’ha dichiarata “l’artista più premiata e famosa di tutti i tempi”. Dunque figura fortemente emblematica per la cultura nera americana in generale, e in quello musicale nello specifico, da cui i due film biografici e i due documentari. Poi la sua morte improvvisa ha creato il resto del mito. La cosa ancora più triste è che il frutto non cade mai lontano dall’albero: tre anni dopo sua figlia Bobbi Kristina Brown a 22 anni fu ritrovata priva di sensi nella vasca da bagno anche lei svenuta per un mix letale di sostanze e tenuta in coma farmacologico per sei mesi prima di spegnersi. E anche su di lei film e documentari.

Anton Čechov – in Biografie e Storie Vere

René Féret

Con ampio ritardo è arrivato quest’anno nei cinema italiani, e passato subito in televisione su Sky Arte, l’ultimo film del francese René Féret morto di cancro subito dopo aver completato il film, nel 2015. Il pubblico l’ha ignorato e la critica non l’ha amato e seppure il film non è perfetto resta sempre un gran film con diversi pregi, non ultimo quello di raccontare una grande figura delle letteratura russa che oggi sembra interessare poco ai lettori mordi e fuggi, e ancora meno a chi non frequenta i teatri, e meno ancora a chi ama i film facili e veicolati da imponenti campagne commerciali. A una prima impressione sembra un piccolo film televisivo perché non indugia nella retorica del biografico che si fa agiografico, e anzi racconta il personaggio attraverso le sue piccole cose, la sua famiglia, la quotidianità, la sua freddezza di fronte all’amore, l’imperfezione tutta umana di un medico di campagna che aveva cominciato a scrivere racconti solo per guadagnare degli extra per sostenere la famiglia, e si ritrova col suo indiscutibile talento al centro di attenzioni che forse neanche desiderava ma con i cui guadagni vive finalmente in serenità, una serenità materiale perché quella emozionale e sentimentale non è un lusso che si concede. “Il mio cuore è freddo” dice ad un certo punto Anton, e poi agli attori che stanno mettendo in scena “Il gabbiano”: “I miei personaggi vivono nella noia con la coscienza dei loro insuccessi: portate il pubblico a questa noia senza preoccuparvi dell’estetica.” Bene, è quello che l’autore Féret fa col suo personaggio Cechov: senza preoccuparsi dell’estetica imperante che vorrebbe personaggi e situazioni più accattivanti, ne racconta la stanchezza del vivere così come lo scrittore russo racconta i suoi personaggi: è un gioco di specchi, riuscitissimo.

Lolita Chammah e Nicolas Giraud

Inoltre prima di esprimere giudizi estetici (chiunque di noi, anche il critico più colto e acclamato non esprime altro che giudizi personali) per onestà intellettuale bisognerebbe sapere qualcosa di più su colui che stiamo giudicando: René Féret non è un autore universalmente noto e non è stato un autore normalmente distribuito in Italia. Ecco la sua scheda: intorno ai vent’anni aveva già intrapreso la carriera di attore, ma alla morte del padre cadde in una profonda depressione che lo portò anche a tentare il suicidio, e fu internato per diverse settimane in un ospedale psichiatrico, lasciando il quale realizzò qualche anno dopo il suo primo film “Histoire de Paul” sulla sua esperienza, film elogiato dal filosofo Michel Foucault e vincitore del Prix Jean-Vigo il cui contributo economico gli è servito per fondare una sua casa di produzione con la quale finanzierà altri autori di film importanti sul piano culturale e artistico, ma mai per compiacere il grande pubblico. Come autore realizzò una serie di film ispirati alla sua famiglia e poi si specializzò nelle biografie, con attenzione a personaggi minori e controversi, fino ad approdare a questo suo Anton Cechov conclusivo col quale forser torna al suo giovanile disagio di vivere.

Nicolas Giraud e Marie Féret

Appurato che il film non è spettacolare né accattivante, è sicuramente avvincente anche per l’interpretazione del protagonista assoluto Nicolas Giraud e insieme protagonista fra tanti, così come Cechov diceva dei suoi personaggi: non c’è un protagonista perché tutti sono protagonisti, ognuno nella sua singola vicenda. Due figli d’arte nel cast: Lolita Chammah, figlia del regista Ronald Chammah e di Isabelle Huppert, interpreta la protettiva sorella Macha o Mascia; e Brontis Jodorowsky, che è figlio del discusso genialoide Alejandro Jodorowsky, è uno di quei fratelli maggiori devoti alla vodka; Marie Féret, figlia dell’autore, interpreta un’istitutrice in quella lontana Siberia, nell’isola di Sakhalin, dove il medico-scrittore era andato a vivere per fare un reportage sulle condizioni degli esuli-carcerati. Robinson Stévenin è il fratello che prima di Anton muore di tubercolosi; Jenna Thiam è l’inquieta amante; e Frédéric Pierrot tratteggia brevemente un Lev Tolstoj dedito ai piaceri della vita: tutti personaggi umanissimi perché Féret non innalza piedistalli. Sarebbe interessante se Sky Arte mettesse in calendario un precedente film di Féret che racconta la sorella di Mozart.

Anton Cechov

Leonora addio – l’addio a Vittorio del fratello Paolo

Quest’anno c’è stato un altro film su Luigi Pirandello che è passato praticamente inosservato in sala, e oggi già disponibile su Sky, di cui vale la pena parlare dopo il clamoroso successo di “La stranezza” di Roberto Andò che racconta fra invenzione narrativa e ricerca storica i tormenti dell’autore sulla composizione del suo dramma “Sei personaggi in cerca d’autore”. Dirige Paolo Taviani, per la prima volta in solitaria dopo la morte del fratello Vittorio, di due anni più anziano, avvenuta nel 2018 quand’era 89enne. E Paolo, oggi 91enne, torna di nuovo a Pirandello: con Vittorio avevano firmato dalle novelle pirandelliane il riuscitissimo “Kaos” nel 1984 e il meno riuscito “Tu ridi” nel 1998, in una cinematografia fatta principalmente di ispirazioni letterarie e di alternanze di film belli e meno belli, ma mai brutti, e “Leonora addio” è purtroppo da iscrivere nella categoria dei film meno riusciti, ancorché premiato all’interno del Festival di Berlino 2022 col premio indipendente Fipresci (Fédération internationale de la presse cinématographique), ricordando che in quel festival erano stati incoronati con l’Orso d’Oro nel 2012 per il sorprendente “Cesare deve morire”.

“Leonora addio” è un film enigmatico, per certi versi incomprensibile e che a tratti si rivela ostico, nonostante sia molto elegante sul piano stilistico, addirittura semplice sul piano narrativo con i suoi scarni dialoghi e le sequenze girate da maestro ma piane e senza scossoni, addirittura prevedibili nei pochi momenti grotteschi che però non fanno sorridere perché virano al nero.

“Per lo schietto e geniale rinnovamento nell’arte scenica e drammatica”.

Dopo l’incipit in cui vediamo Pirandello ricevere il Premio Nobel per la letteratura nel 1934 in filmati di repertorio, ci sono i titoli di testa e la dedica a Vittorio: che è la chiave di lettura di questo film scomposto, un lungo addio a un fratello, un amico, un complice, un compagno d’arte. E il tema del film è la morte. Pirandello muore due anni dopo aver ricevuto il premio e le sue disposizioni, scritte già nel 1911, sono precise: “Carro d’infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m’accompagni, né parenti né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta. Bruciatemi. E il mio corpo, appena arso, sia lasciato disperdere, perché niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me. Ma se questo non si può fare sia l’urna cineraria portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra della campagna di Girgenti, dove nacqui.

Taviani passa dai cinegiornali al suo cinema mantenendo lo stesso bianco e nero con la fotografia di Simone Zampagni, in cui l’unico colore ad accendersi è il rosso del fuoco del forno crematorio. Da qui cominciano le disavventure delle ceneri in un racconto surreale ma purtroppo vero. In quel 1936 l’Italia era governata dal regime fascista, idee cui peraltro lo stesso Pirandello aveva entusiasticamente aderito già nel 1924 e l’anno dopo sarà tra i firmatari del Manifesto degli Intellettuali Fascisti redatto da Giovanni Gentile. Dunque l’apparato politico con Benito Mussolini in testa si sentì in dovere di appropriarsi delle ceneri e di disporne a proprio modo, e senza considerare le volontà del Trapassato organizza quello che sarà il primo dei tre funerali cui Pirandello andrà incontro suo malgrado, e le ceneri vengono murate in una colombaia al cimitero del Verano. Dopo la Liberazione dal regime nazi-fascista, nel 1947, alcuni studenti agrigentini fra cui Andrea Camilleri, dettaglio non citato nel film, sollecitarono il trasferimento delle ceneri nella terra natia secondo le precise disposizioni dell’illustre Agrigentino, e su interessamento del presidente del consiglio dei ministri Alcide De Gasperi, le ceneri conservate in una preziosa anfora greca che già fu di proprietà dello stesso Pirandello, cominciano l’avventuroso surreale viaggio, custodita e accompagnata da un attento delegato del Comune di Agrigento che nel film è interpretato dal comprimario emergente pluripremiato Fabrizio Ferracane.

Marta Abba davanti all’urna con le ceneri di Pirandello depositata al museo civico

Ma in città c’è un altro ostacolo: il vescovo Giovanni Battista Peruzzo, interpretato da uno dei fedelissimi dei Taviani, Claudio Bigagli, si oppone al corteo funebre perché i resti erano stati anti-cristianamente cremati e non si poteva esporre un’urna greca, pagana: a qualcuno venne l’idea di nascondere l’imbarazzante urna dentro una più cristiana bara: Camilleri si attesta la paternità del brillante quanto ridicolo ma necessario sotterfugio, ma Taviani nel suo film attribuisce l’idea a un prete, un non definito Don Biagio interpretato da Biagio Barone; ma non finisce qui e le ceneri devono passare attraverso altri sberleffi. Avvenuto il secondo funerale l’anfora rimase però depositata nel museo civico perché si attendeva la conclusione del monumento funerario disposto dal comune e dai figli e da costruire nella villa pirandelliana, ma passarono altri quindici anni prima della terza e conclusiva cerimonia funebre nel 1962. Parte delle ceneri che non entrarono nel contenitore metallico disposto per l’ultima sepoltura alla fine vennero disperse nel mare, così come erano state le originarie volontà di Pirandello.

Sul set Paolo Taviani in basso a sinistra Claudio Bigagli in piedi a destra.

A questo punto il mare vira dal bianco e nero al colore con la fotografia di Paolo Carnera e comincia la seconda parte del film, totalmente slegata dalla prima: la messa in film dell’ultimo racconto scritto da Pirandello pochi giorni prima di morire, “Il chiodo”, ispirato da un fatto di cronaca nera avvenuta ad Harlem, New York. Bastianeddu, interpretato dal ragazzino già in carriera Antonio Pittiruti, è stato portato dal padre Turiddu, Federico Tocci, via dalla madre e dalla Sicilia per fare fortuna in America; il ragazzino si rende colpevole di un inspiegabile crimine: con un chiodo uccide un’orribile bambina dai capelli rossi, sue le parole, e agli inquirenti spiega solo che il chiodo era caduto apposta, on purpose, da un carretto e lui si era ritrovato apposta davanti alla sua vittima, senza alcun’altra logica spiegazione. Nella vicenda reale il processo si conclude con l’assoluzione del ragazzo evidentemente ritenuto momentaneamente incapace di intendere e di volere. Nel film, Bastianeddu da adulto, in campo lunghissimo, va sulla tomba della sconosciuta ragazzina che aveva ucciso, e su quella tomba torna e ritorna negli anni, sempre più vecchio, a scontare la sua vera pena.

Due differenti film sotto uno stesso titolo che però non parla di nessuno dei due: altro dettaglio non da poco che spiazza critica e pubblico. “Leonora addio” è il titolo di un altro racconto di Pirandello, titolo che a sua volta l’autore aveva preso da un’aria da “Il Trovatore” di Giuseppe Verdi i cui versi sono: “Sconto col sangue mio / L’amor che posi in te!… / Non ti scordar di me! / Leonora, addio!” Se ne deduce che l’addio del titolo è per Paolo Taviani un ermetico addio al fratello, così come l’intero film che gli ha dedicato è sul tema della morte: narrativamente quella di Pirandello; e poi del dolore di chi resta, quello di Bastianeddu sulla tomba della vittima senza motivo e sconosciuta. Due film non per platee dai gusti facili, e belli se presi separatamente, ma il cui accostamento lascia spiazzati, ancor più dopo il titolo, perché per l’autore rimasto fratello unico è il criptico personalissimo omaggio alla sua metà di sempre: Pirandello è Vittorio, Bastianeddu è Paolo – e questa è una semplificazione assai grossolana.

La stranezza

Quest’anno ben due film su Luigi Pirandello. Il primo, “Leonora addio” di Paolo Taviani è uscito a inizio anno e “La stranezza” di Roberto Andò ha visto la luce a ottobre al Festival del Cinema di Roma e nelle sale si è subito piazzato al primo posto degli incassi, mentre il film di Taviani, spiace dirlo, non ha avuto altrettanta fortuna. Dunque non è Pirandello che porta la gente al cinema e, tocca dirlo, neanche Andò, un autore rinomato e premiato dalla critica ma mai abbastanza dal pubblico: questo è il suo primo vero successo commerciale, cui certamente seguiranno i dovuti premi.

Roberto Andò è un intellettuale palermitano che deve praticamente tutto alla sua amicizia con Leonardo Sciascia al quale dedica questo film; fu l’altro siciliano eccellente, scrittore assai rappresentato al cinema e in teatro, a spingerlo alla scrittura e a introdurlo nel mondo del cinema, dove Andò sarà assistente di Francesco Rosi, Giacomo Battiato e Federico Fellini fra i grandi italiani, e Michael Cimino e Francis Ford Coppola fra gli americani venuti a girare in Sicilia. Così va imparando il mestiere col meglio del panorama cinematografico mentre apprende l’arte della messinscena a teatro, sempre con progetti di alto livello culturale e debutta con un testo che gli è stato affidato nientemeno che da Italo Calvino e Andrea Zanzotto e messo in scena con i bozzetti di Renato Guttuso: meglio di così!… Impiegherà una decina d’anni per realizzare il suo primo lungometraggio, “Diario senza date” una docu-fiction ambientata in quella sua Palermo, i cui misteri indaga attraverso testimonianze e interviste vere e inventate; mentre il suo primo lungometraggio totalmente di finzione narrativa è una finzione che racconta la realtà ispirandosi alla biografia di un altro siciliano eccellente, Giuseppe Tomasi di Lampedusa con “Il manoscritto del principe”; dopo una serie di film i cui protagonisti sono sempre degli intellettuali, perché quello è il suo mondo e il suo immaginario, torna con questo scherzo biografico su Luigi Pirandello e fa tombola.

Abbandona i suoi più congeniali toni pensosi e ai tormenti personali e sempre inevitabilmente intellettuali del Pirandello, colto nel periodo in cui sta scrivendo i “Sei personaggi in cerca d’autore”, contrappone una favola ironica e grottesca degna del miglior cinema sul teatro e del miglior cinema di ambientazione siciliana: una coppia di teatranti amatoriali mette in scena un dramma che ovviamente si rivolge in farsa e la cui interazione fra teatranti e pubblico si rivela di grande ispirazione per il tormentato autore che non sa dare forma ai suoi personaggi-fantasma. “La stranezza”, titolo quanto mai efficace perché misteriosamente accattivante, è detta nel film dalla balia del Pirandello bambino che era vittima di parossismi estatici e creativi che la balia illetterata poteva descrivere solo come stranezza, una stranezza che nel presente narrativo diventerà la stranissima, per l’epoca, “Sei personaggi in cerca d’autore, commedia da fare” che debutterà al Teatro Valle di Roma, oggi minuziosamente ricostruito in studio con l’impiantito e le poltroncine di legno, il 9 maggio del 1921, e sarà un clamoroso insuccesso, con pochi sostenitori che verranno alle mani con molti dei buggeratori che accoglieranno l’autore gridandogli “Manicomio! manicomio!”, invettiva specifica speciosa e ad arte, sicuramente lanciata per prima da qualcuno che conoscendo la personale tragedia di Pirandello voleva colpirlo nell’intimo: due anni prima l’autore era stato costretto a far rinchiudere in un manicomio la moglie pazza.

A essere onesti quel pubblico non aveva tutti i torti: abituato al teatro classico e ai drammi borghesi, improvvisamente si trova ad assistere a un’ardita sperimentazione che mette in discussione l’intero impianto teatrale, la concezione dei personaggi e il ruolo degli attori. Avevano imparato a conoscere e apprezzare Pirandello sin dal suo grande successo letterario “Il fu Mattia Pascal” pubblicato nel 1904 prima a puntate sulla rivista Nuova Antologia e poi in volume, un successo determinato proprio dai lettori prima che dalla critica che si era mostrata tiepida; una disattenzione che ferì nell’intimo l’autore, che di rimando se la prese pubblicamente con coloro che, osannati dalla medesima critica, egli non riteneva degni: Gabriele D’Annunzio e Giovanni Pascoli, alla cui uscita delle opere dichiarò di detestarli nel modo più assoluto, e ancor di più gli brucerà l’essere ignorato da D’Annunzio mentre Pascoli beffardamente lo apostrofò “Pindirindello”. Passeranno pochi anni e Pindirindello avrà la sua rivincita vincendo il Premio Nobel per la letteratura.

Oggi sorprende e fa sorridere che grandi nomi che abbiamo studiato sui libri di scuola siano stati esseri umani con tutte le umane debolezze annesse. In ogni caso lettori e pubblico teatrale avevano fin lì amato Pirandello, a cominciare dalle sue prime prove sceniche che si rifacevano alla classica narrativa siciliana: “Cecè” “Liolà” “Pensaci, Giacomino!” fra gli altri; nella sua seconda fase, l’Agrigentino si discosta da quello che in qualche modo rinnovava il teatro di tradizione dell’Isola, e si avvia verso i drammi borghesi con incursioni nel grottesco anche di tono drammatico, e nell’umoristico, ad esempio: “Così è (se vi pare)” “Il berretto a sonagli” “L’uomo, la bestia e la virtù”. A quel punto, ed è questo il periodo sul quale si concentra il film di Andò, Pirandello dà un’ultima svolta, quella decisiva, al suo teatro col dirompente “Sei personaggi in cerca d’autore”, una fase poi definita di teatro nel teatro: ricordando che egli fu regista delle sue messe in scena, rendendosi conto che la rappresentazione non poteva essere soltanto parola ma anche spettacolo visivo, tornò di fatto al teatro shakespeariano con la tecnica del palcoscenico multiplo, ovvero spazi scenici diversi in cui gli attori agiscono contemporaneamente; inoltre viene mostrato il teatro come work in progress, lo diciamo oggi, il teatro che racconta se stesso.

La scena nella scena, il palcoscenico multiplo dei “Sei personaggi”
La quarta parete fa parte della sospensione dell’incredulità esistente tra l’opera di finzione e lo spettatore. Il pubblico di solito accetta implicitamente la quarta parete senza tenerla direttamente in considerazione, potendo così godere della finzione della rappresentazione come se stesse osservando eventi reali.

E ancora, Pirandello rimuove l’immaginaria quarta parete, concettualmente codificata da Denis Diderot (metà ‘700) per far comprendere la necessità di una recitazione più realistica, dove l’azione scenica si completa nel suo spazio e nel suo tempo che prescinde da quello reale in cui è il pubblico; di fatto la quarta parete era un concetto già noto sin dai tempi dell’antica Roma, tanto che il commediografo Plauto (250 a.C.) fu fra i primi a romperla facendo comunicare gli attori direttamente col pubblico in un’azione dichiaratamente di finzione per entrambe le parti, con dialogo e interazione molto apprezzati dal pubblico popolare e che sarà connaturata nella Commedia dell’Arte dove con gli a parte i personaggi si rivolgono direttamente al pubblico per metterli in guardia su quanto sta per accadere o per sollecitarne personali simpatie. Dunque, dopo quasi tre secoli, Pirandello rompe di nuovo la quarta parete in un teatro ormai sterilmente imborghesito e lo fa a tutto tondo, facendo agire i suoi personaggi fra il pubblico in sala che, dato il contesto e la consuetudine, non poteva comprendere: Manicomio! manicomio!

Raccontano i biografi di Pirandello su Pirandelloeweb.net di come una volta dei muratori che lavoravano davanti alle finestre della casa dello scrittore, sospendessero il lavoro per contemplare, stupiti e affascinati, quanto avveniva nel suo studio: Pirandello si era messo “a parlare da solo, gesticolare, strabuzzando gli occhi, e facendo le più strane facce del mondo”. Quegli operai avranno pensato di aver sorpreso il drammaturgo, evidentemente pazzo, in un momento di delirio; In realtà egli era impegnato in uno dei suoi frequenti colloqui coi personaggi, di cui parla nella novella omonima che si può leggere o ascoltarne la lettura nel link dato. Scrisse la commedia fra l’ottobre del 1920 e il gennaio del 1921 avendo come fonte narrativa anche le altre sue novelle “Personaggi”, “La tragedia di un personaggio”.

Foto di gruppo della compagnia del 1921, al centro Dario Niccodemi seduto, alla sua sinistra sono riconoscibili Vera Vergani e Jone Frigerio.
Pirandello con Dario Niccodemi

Dario Niccodemi fu accortamente anche un impresario che produsse Pirandello, ma era principalmente un drammaturgo che scriveva commedie sentimentali e ironiche ambientate nell’alta società borghese, il cui successo di punta fu “La nemica”, opera che Lev Tolstoj disse di preferire ai lavori dello stesso Pirandello o ai romanzi di Giovanni Verga. Egli aveva appena costituito la sua compagnia nella quale era prima attrice Vera Vergani, sentimentalmente e direi opportunamente a lui legata, e prim’attore era Lugi Cimara che con la Vergani formò un’affiatata coppia scenica, e mai sapremo quanto affiatata fu anche in privato: chiacchiere di antichi corridoi; altro attore di punta era Luigi Almirante, forte carattere espressivo che ebbe un suo personale successo proprio con le opere pirandelliane a partire da questi “Sei personaggi” in cui interpretò il Padre, con Jone Frigerio nel ruolo della Madre, l’acclamatissima Vergani come Figliastra e Cimara come Figlio. Nonostante il contrastato esordio romano, l’impresario Niccodemi non si fece intimorire e portò lo spettacolo a Milano dove fu degnamente acclamato: in questo link la critica dalla rivista Comoedia dell’ottobre 1921. Più tardi, nel 1925, Pirandello aggiunse una prefazione nella quale spiegava la genesi e le intenzioni del dramma, per meglio disporre il pubblico alla comprensione.

Roberto Andò ci accompagna in un viaggio immersivo nel disorientamento di un Pirandello in lutto per la morte della vecchia balia, distrutto dalla follia della moglie e tormentato dai suoi fantasmi-personaggi che ancora non sa come portare in scena – e lo fa regalandosi e regalandoci una leggerezza narrativa che scivola su tutto il racconto drammatico come un balsamo lenitivo: si sorride, si ride anche, mentre si palpita e ci si emoziona per questo Pirandello così misteriosamente umano ed empatico.

Lo interpreta un Toni Servillo sempre in gran spolvero quando c’è da rendere dei personaggi realmente esistiti: è stato Giulio Andreotti, Silvio Berlusconi e Ennio Doris per Paolo Sorrentino (“Il divo” e “Loro”), Giuseppe Mazzini e Eduardo Scarpetta per Mario Martone (“Noi credevamo” e “Qui rido io”), e Paolo VI in “Esterno notte” di Marco Bellocchio. Gli fanno da contraltare la coppia Ficarra e Picone, Salvatore Ficarra e Valentino Picone, che si esibiscono come cabarettisti a partire dal 1993; nel 2000 partecipano separatamente con piccoli ruoli in “Chiedimi se sono felice” film del trio Aldo Giovanni e Giacomo, e già dal 2002 avviano la loro personale sequenza di film di derivazione cabarettistica; in questo “La stranezza” sono per la prima volta protagonisti di una commedia, grottesca sì ma dai risvolti drammatici, in cui benché sempre facendo coppia sono altro e meglio del loro standard, già alto: il loro ultimo film pre-pandemia “Il primo natale” era in testa nella classifica del botteghino.

Il resto del nutrito cast è una felicissima carrellata di facce perfette, cinematograficamente parlando, facce che altrettanto felicemente corrispondono ad interpreti di razza, e si intuisce un minuzioso lavoro di casting. Renato Carpentieri interpreta il Giovanni Verga che Pirandello va ad omaggiare per i suoi ottant’anni, e al quale rivolge i suoi dubbi esistenziali e creativi. Aurora Quattrocchi è la vecchia balia, e la catanese Donatella Finocchiaro, già protagonista per Andò in “Viaggio segreto” del 2006, qui interpreta in una sola intensa scena muta la moglie pazza di Pirandello. A conclusione dei personaggi che ruotano attorno a Pirandello va senz’altro nominato il suo storico suggeritore Battaglia interpretato da Antonio Ribisi La Spina. Altro centratissimo interprete di una scena muta, perché muto è il personaggio, è l’ultima grande maschera del teatro catanese, Tuccio Musumeci, nel ruolo del suocero di Nofrio (Picone) sempre in mezzo sulla sua sedia a rotelle e con uno sguardo sempre preventivamente punitivo. Rosario Lisma è il corrotto impiegato comunale la cui vicenda è una storia nella storia.

In primo piano Antonio Ribisi La Spina
Cartolina ricordo della compagnia filodrammatica

Fra gli attori amatoriali della “Compagnia Filodrammatica Siciliana Principato e Vella” spiccano la puntuta Marta Lìmoli, del cui personaggio non sappiamo le vicende ma che potrebbe essere una sartina come una bidella come la moglie del farmacista, e il bonaccione Franz Cantalupo anche becchino per la coppia dei capocomici impresari funebri: entrambi attori provenienti dalla scuola catanese che benissimo hanno saputo mimetizzarsi, anche linguisticamente, in un cast girgentino-palermitano: è cosa nota che siciliani dell’est e dell’ovest hanno cadenze e musicalità diverse e che non sempre sono in grado di fingersi gli uni per gli altri. Nella compagnia amatoriale spicca anche Brando Improta che è Fofò, il torvo trovarobe innamorato di Santina, la sorella del gelosissimo Bastiano (Ficarra) che però finirà col fare coppia col di lui amico Nofrio che per lei lascerà la famiglia e romperà la storica amicizia col collega d’impresa funebre e d’arte. Santina è interpretata da Giulia Andò, figlia del regista e col quale ha praticamente solo lavorato, e forse meriterebbe di spiccare il volo dal nido. Visibilmente appesantita ma per questo efficacissima nel ruolo della prostituta che allieta i momenti intimi di Bastiano, è Tiziana Lodato, un’altra catanese che fu protagonista ventenne al suo debutto in “L’uomo delle stelle” di Giuseppe Tornatore. Completano il cast dei filodrammatici Laura Giordani, già vista in “Le sorelle Macaluso” di Emma Dante, Aldo Failla protagonista di una divertente gag, Adele Tirante e Alberto Molonia.


Adele Tirante, Laura Giordani, Franz Cantalupo e Aldo Failla nella compagnia amatoriale

Nella catartica messa in scena dei “Sei personaggi” Filippo Luna è il direttore di scena, Luigi Lo Cascio il capocomico, Fausto Russo Alesi il Padre, Galatea Ranzi la Madre, Giordana Faggiano la Figliastra e Paolo Briguglia il Figlio, in una inappuntabile e coinvolgente ricostruzione storica di quell’evento, col pubblico che venne alle mani e Pirandello che dovette fuggire insieme alla figlia. I due teatranti amatoriali venuti dalla Sicilia ad assistere allo spettacolo rimangono chiusi nel teatro vuoto e non sapremo che ne sarà di loro perché non importa: sono ulteriori fantasmi che hanno animato la stranezza creativa di Luigi Pirandello in un’invenzione narrativa che veicola un momento biografico e storico. Nel complesso un film di cui sentiremo ancora parlare, con diversi piani di lettura e di un autore in stato di grazia che, va detto, l’ha scritto con Ugo Chiti e Massimo Gaudioso. Premi in arrivo per tutti.

Il cast del ricostruito Teatro Valle

Il signore delle formiche

Forse casualmente, nel centenario della nascita di Aldo Braibanti, Gianni Amelio esce con questo film, di certo cominciato a pensare quando Braibanti morì nel 2014. Un film in cui salta subito agli occhi, vivaddio, una recitazione di altissimo livello con un cast che mischia grandi professioni a molti debuttanti, in pratica tutti gli emiliani i cui nomi sono accompagnati dalla scritta per la prima volta sullo schermo: Leonardo Maltese, che regge alla grande un lunghissimo primo piano durante il processo, è il giovane compagno del processato e vittima sacrificale; Davide Vecchi è il tormentato fratello tormentatore; l’anziana Rita Bosello è la palpitante madre di Braibanti; Roberto Infurna regge un altro lungo primo piano come ragazzo accusatore; la cantante lirica Anna Caterina Antonacci debutta come attrice nel ruolo dell’addolorata ottusa madre. Fra i professionisti, tutti centratissimi, Luigi Lo Cascio è Braibanti, Elio Germano è il giornalista, Sara Serraiocco è l’attivista Graziella, Giovanni Visentin è l’ambiguo direttore del giornale, Valerio Binasco e Alberto Cracco impersonano il pubblico ministero e il giudice. L’autore tira fuori da ognuno il meglio e si riconferma gran scopritore di talenti.

Ma chi era quest’uomo, una figura sconosciuta ai più, me compreso? Assurse alle cronache quando la stampa riportò in cronaca il caso Braibanti. Aldo Braibanti, impropriamente detto il professore poiché di fatto non ha mai insegnato, è stato un intellettuale a tutto tondo, in un’epoca in cui, fra le cose buone, le doti dell’intelletto erano ancora tenute da conto e definire qualcuno un intellettuale non era divenuto spregiativo; fu poeta, drammaturgo, e si occupò di arte in genere, cinema e letteratura, si cimentò nei collage e negli assemblage e viene ricordato, il titolo del film lo richiama, come mirmecofilo ovvero studioso delle formiche, passione che sviluppa sin dalla prima infanzia, quando accompagnava il padre medico condotto nelle visite spesso in zone rurali del loro nativo piacentino: dimostrò una precoce attenzione alla natura da ecologista in calzoncini corti, e in particolare fu incuriosito dalla vita degli insetti sociali come api e formiche e, protetto da una famiglia illuminata che in pieno periodo fascista rifiutò qualsiasi tipo di pensiero autoritario, e anche clericale, il piccolo Aldo cominciò a scrivere versi già a otto anni: il suo destino di intellettuale è segnato. Qui di seguito quattro opere di assemblaggio di Braibanti dall’esposizione allestita dal suo comune natio, Fiorenzuola d’Arda, presso l’ex macello a lui intitolato nel 2016.

L’adolescente Braibanti

Aldo, crescendo come studente modello ottiene l’esonero del pagamento delle tasse scolastiche, e ancora adolescente scrive e distribuisce clandestinamente a scuola un manifesto rivolto a “tutti gli uomini vivi” in cui invita i compagni di liceo a mobilitarsi contro la dittatura fascista, così anche la sua rottura con l’autorità è segnata: 18enne prende parte alla resistenza partigiana e partecipa alla nascita dei primi movimenti intellettuali antifascisti; nel 1943 aderisce al Partito Comunista che è clandestino, e viene arrestato due volte, rischiando la prima volta di essere fucilato, e la scampò grazie all’ordine di Pietro Badoglio che, alla caduta del fascismo, fece prima scarcerare docenti e studenti, la classe pensante, mentre il resto dei comunisti comuni ancora in attesa di giudizio furono prontamente giustiziati dai tedeschi: oggi si può interpretare la scelta di Badoglio come una scelta di classe, ma nella sostanza salvò delle vite piuttosto che condannarle tutte; la seconda volta Aldo fu arrestato per un ultimo colpo di coda della polizia investigativa fascista che sequestrò tutti i suoi scritti antecedenti al 1940 che vennero distrutti per sempre. Nell’immediato dopoguerra, dopo aver fatto l’importante e formativa esperienza fra gli organizzatori del Festival Mondiale della Gioventù, sarà anche collaboratore dell’ormai sdoganato Partito Comunista Italiano come responsabile delle attività giovanili in Toscana: prende forma il suo mondo. Ma presto lascia la politica attiva per dedicarsi alla sua visione culturale artistica e filosofica: seguendo l’esempio di vita comunitaria delle sue formiche aderisce alla comunità che si era installata nel Torrione Farnese di Castell’Arquato, nella provincia della sua terra natia, creata fra gli altri dall’eclettico Sylvano Bussotti, principalmente compositore ma artista a tutto tondo; una comunità dove si svolgeva un laboratorio artistico e artigiano le cui opere sono state esposte anche all’estero.

Collage di Sylvano Bussotti

Il Torrione fu una fucina di talenti e sperimentazioni in cui si esercitarono artisti concettuali e musicisti post-dodecafonici, teatranti e cineasti sovversivi, i più dotati dei quali invaderanno la scena romana e nazionale; anche un giovane Carmelo Bene si è affacciato in quella realtà ed è poi divenuto amico di Braibanti; il quale aveva lì ricreato i suoi formicai in teche, scrivendo e teorizzando opere teatrali e cinematografiche di sperimentazione, e raccogliendo intorno a sé un cenacolo di giovani attirati da una vita comunitaria in cui poter sperimentare se stessi e le proprie tendenze, umane sociali e artistiche.

Giovanni Sanfratello fotografato al processo, mostra chiaramente i segni delle torture subite

il professore conosce un 17enne che qualche anno dopo, con la raggiunta maggiore età, porta con sé nella capitale, a formare una coppia gay come oggi ce ne sono tante ma che all’epoca non poteva avere dignità pubblica (a dire il vero neanche oggi date le tante aggressioni che si registrano) perché motivo di scandalo e riprovazione; e quando si dava il caso che nella coppia ci fosse una sostanziale differenza di età ci si presentava come zio e nipote: tutti capivano, ma la facciata imposta dall’ipocrisia sociale restava intatta. “Mi sono spostato a Roma, – scrisse in seguito Braibanti – e Giovanni Sanfratello mi accompagnò, perché venendo a Roma poteva difendersi meglio dalle pressioni assurde del padre, dovute a ragioni religiose, ideologiche e politiche. I Sanfratello, anche loro piacentini, erano ultraconservatori, cattolici e tra i più fascisti, e non riuscivano ad accettare che il loro figlio potesse scegliere una vita tanto diversa dalla loro.” Il padre voleva per Giovanni una carriera in medicina ma il ragazzo voleva dipingere e nella comunità trovò la sua via di fuga, via già percorsa dal fratello Agostino di poco maggiore: figura assai ambigua, mosso dalla gelosia di non essere più il preferito o di non aver saputo accentrare su di sé l’interesse del professore, reazionario a tal punto e vendicativo sul piano morale ed esistenziale, che negli anni a seguire fonderà un gruppo lefebvriano, aderendo al movimento cattolico ultra tradizionalista fondato dall’arcivescovo francese Marcel Lefebvre in seguito sospeso a divinis e poi scomunicato da Giovanni Paolo II che sciolse il movimento; Lefebvre era contrario alle aperture operate dalla Chiesa durante il Concilio Vaticano II, e nelle sue istanze si riconosceranno i fascisti, sempre in cerca di sponde morali, tanto che sarà un sacerdote ex lefebvriano che pietosamente nel 2014 celebrerà una messa in suffragio dell’anima di Erich Priebke (il criminale di guerra che partecipò all’eccidio delle Fosse Ardeatine di cui si è parlato nel film “Rappresaglia”), una messa svolta nella cappella privata di una villetta nella provincia di Treviso, alla quale partecipò il sindaco leghista Loris Mazzorato.

Agostino Sanfratello fra il pubblico del processo, nella foto che apparve su L’Unità che erroneamente nomina come Giovanni Sanfratello

Gianni Amelio racconta la vicenda prendendosi delle libertà narrative, come si fa sempre: nessun film è fedele al romanzo da cui è tratto così come ogni storia vera o biografia è sempre adattata al linguaggio cinematografico che ha altre esigenze narrative; dunque il film di Amelio non è cronaca né documentario, ma il punto di vista, e come tale discutibile, di un grande autore. Di cui personalmente ho visto e apprezzato quasi tutti i film, con l’eccezione dell’ultimo, l’altro biografico “Hammamet” che racconta gli ultimi mesi di Bettino Craxi, figura che non ho amato sia umanamente che politicamente, e ammetto la debolezza di aver smesso di vedere il film dopo circa un quarto d’ora perché mi annoiava e dava ai nervi; film che a tutt’oggi rimane il maggiore incasso dell’autore.

Restando dunque sul filone proficuo delle biografie, Amelio ritorna a riempire le sale: non vedevo tanta gente seduta tutta insieme dal marzo del 2020: unica differenza le mascherine a propria discrezione su un quarto della platea. Il regista rispolvera per l’occasione un filone che da noi sembrava estinto, quello del cinema di impegno civile, o politico, i cui esponenti di punta sono stati Elio Petri, Carlo Lizzani e Francesco Rosi, un genere che nel cinema internazionale è sempre attivo con Ken Loach o Michael Moore. La seconda parte del suo film, il processo, è praticamente fedele a quanto accaduto, con le testimonianze e i dibattimenti, dove l’unico personaggio che compare col suo vero nome è il protagonista e tutti gli altri sono reinventati per ragioni legali o di opportunità, o di libertà narrativa appunto. La prima libertà che si prende l’autore è quella di sostituire l’ingombrante figura paterna con una rigorosissima mater dolorosa che colpisce, e mette a segno in noi pubblico un forte disagio: perché non è cattiva ma solo fermamente convinta delle sue ragioni e del suo amore nel voler salvare il figlio dalla perdizione. Qui sta il genio di Amelio nel disporre i suoi personaggi: non ci sono vittime e carnefici, buoni e cattivi, ma solo controparti, ognuna delle quali con le sue proprie ragioni, convinzioni, punti di vista: una tragedia greca sull’ineluttabilità. Sulla stessa linea sono tratteggiati il pubblico ministero e il giudice, cattivissimi certo per la nostra moderna sensibilità, ma portatori di istanze che hanno la loro ragione di essere nella loro epoca: l’omosessualità era un reato e prima ancora un peccato. Con cascami su certe mentalità odierne.

In una delle scene in cui Braibanti corteggia il ragazzo volando alto fra poesia e filosofia, ho sentito mormorare dal pubblico “Che viscido!” e non mi ha sorpreso che il commento venisse da un ragazzo di un piccolo gruppo orgogliosamente e rumorosamente gay: non era un insulto ma una constatazione. Perché è cambiato il corteggiamento. Quando le cose non si potevano dire, e non erano ovvie e men che meno legali, omo o etero che fosse il corteggiamento, ci si sottoponeva a dei rituali che oggi non esistono più, minuetti e giri di parole ai quali si finiva col cedere per sfinimento e in cui lo sfinimento reciproco era anche parte del piacere: oggi il corteggiamento, se ancora lo si può definire così, è fagocitato dalla velocità e da un linguaggio, anche corporeo, sempre più espliciti. Il processo definì quel corteggiamento – plagio.

“Chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione, è punito con la reclusione da 5 a 15 anni”. Era il reato di plagio secondo l’articolo 603 del codice penale. Plagio viene dal latino plagium, sotterfugio, che nel diritto romano indicava la vendita di un uomo libero come schiavo, dunque la sottrazione dei diritti di quell’individuo tramite persuasione o corruzione; allorquando alla fine del ‘700 si andò via via accettando il principio di uguaglianza fra persone e la progressiva abolizione della schiavitù, il reato di plagio fu traslato come delitto contro la libertà dell’individuo. La norma applicata nel processo a Braibanti era stata inserita nel nostro codice penale (pacchetto tutto ancora in vigore, tranne qualche spunta) nel 1930 per volontà dell’allora governo fascista e, come si dice nel film, per punire con altro nome gli eventuali reati di manifesta omosessualità, perché nella visione fallocratica di Benito Mussolini in Italia non esistevano, e non dovevano esistere neanche sul piano giuridico, quel genere di deviati. Una norma attivata nonostante i pareri contrari della Commissione Parlamentare e delle Commissioni Reali degli avvocati e procuratori di Roma e Napoli; norma assai spinosa per argomenti assai scivolosi, tanto che non venne mai applicata, fino a quel 1964.

Dopo il caso Braibanti il reato di plagio fu invocato di nuovo nel 1978 contro Emilio Grasso, sacerdote appartenente al Movimento Carismatico, accusato da alcuni genitori di aver fatto il lavaggio del cervello ai loro figli minorenni; la sentenza scagionò il religioso e con l’occasione si avviò la messa in discussione della norma che venne abrogata nel 1981. A seguire, e siamo nel 1988, i ministri Rosa Russo Iervolino (Democrazia Cristiana) e Giuliano Vassalli (Partito Socialista Italiano) cercarono di far reintrodurre nel nostro codice penale il reato di plagio psicologico, ma il parlamento ha saggiamente accantonato l’iniziativa perché argomento sempre spinoso e scivoloso: il reato non è accertabile secondo criteri e metodi scientifici ed espone l’eventuale accusato ad eventuali abusi dell’autorità giudiziaria.

L’altra libertà che si prende Amelio, che ha scritto il film con Edoardo Petti e Federico Fava, è quella di creare due coprotagonisti fittizi assai funzionali al suo racconto: l’attivista Graziella che in pratica sostituisce un giovane Marco Pannella che già nel 1955 era stato fra i fondatori del Partito Radicale, il quale seguendo giorno per giorno il processo avviò una martellante campagna con le sue “Notizie Radicali” chiamando pesantemente in causa i magistrati tanto da farsi citare in giudizio lui stesso, avviando così un ulteriore processo che, nella tradizione radicale, diventò a sua volta processo agli inquisitori. Ma questo nel film non c’è. In una delle sequenze in cui Graziella arringa la piazza, Amelio riempie improvvisamente lo schermo, in un corto circuito temporale, col primissimo piano di Emma Bonino che osserva il suo passato: “I Radicali hanno fatto forti battaglie per Braibanti e la società italiana. – ha dichiarato Amelio – Hanno fatto cancellare il reato di plagio nel 1981. Mi è sembrato giusto far vedere la Bonino di oggi piuttosto che un sosia di Pannella ragazzo.”

Ulteriormente, si inventa come cugino di Graziella (i legami fra personaggi servono a dare alla storia una solida struttura) il giornalista incaricato di seguire il processo e che ne fa una battaglia personale, perché forse anche lui è un omosessuale non dichiarato in cerca di segnali di chiarezza e di libertà espressiva; e come sua controparte viene inventato un direttore dell’Unità temporeggiatore e ostile, ambiguo sulla posizione che il giornale deve prendere, addirittura arrivando a licenziare il giornalista troppo schierato in difesa di Braibanti – cosa che pare non fu nella realtà: dopo un primo momento di sbandamento, l’Unità scese in campo sostenendo l’intellettuale sotto processo, anche sulla spinta – emotiva no, opportunistica forse sì – dei tanti intellettuali che sin da subito si schierarono con Braibanti: quel Pier Paolo Pasolini che a inizio carriera era stato cacciato dal PCI “per indegnità morale e politica”, Elsa Morante, Umberto Eco, Alberto Moravia, i giovani Carmelo Bene e Marco Bellocchio che oggi del film è coproduttore; è un dato di fatto che il partito comunista fosse, in linea con gli umori dell’epoca, tendenzialmente conservatore e bacchettone tanto quanto i cattolici e la destra, e forse Amelio si è voluto togliere qualche sassolino dalla scarpa, o più semplicemente ha operato una sua sintesi, inventandosi quella redazione dell’Unità divisa su come schierarsi, e la polemica che ne è seguita non è da poco. Io ritengo che, così come si è inventato le figure del giornalista e del direttore senza riferirsi ai personaggi reali, altrettanto avrebbe potuto evitare di chiamare in causa l’Unità col suo nome, e avrebbe potuto restare sul vago così come ha fatto per il nome e i simboli del Partito Radicale di cui nel film non c’è traccia. Avrebbe evitato la polemica – che però torna utile al botteghino – e mantenuto la linea del suo intero film ispirata e a tratti lirica, simbolica.

Pasolini scrisse: “Se c’è un uomo ‘mite’ nel senso più puro del termine, questo è Braibanti: egli non si è appoggiato infatti mai a niente e a nessuno; non ha chiesto o preteso mai nulla. Qual è dunque il delitto che egli ha commesso per essere condannato attraverso l’accusa, pretestuale, di plagio?” Carmelo Bene lo ricordò così in un suo libro di memorie: “Un genio straordinario. M’insegnò con quella sua vocetta a leggere in versi, come marcare tutto, battere ogni cosa. Gli devo questo, tra l’altro. Non è poco.” Braibanti in vecchiaia dichiarò: “Quel processo, a cui mi sono sentito moralmente estraneo, mi è costato due nuovi anni di prigione, (oltre a quelli passati come prigioniero dei nazi-fascisti) che però non sono serviti a ottenere quello che gli accusatori volevano, cioè distruggere completamente la presenza di un uomo della Resistenza, e libero pensatore, ma tanto disinserito dal mondo sociale da essere l’utile idiota adatto a una repressione emblematica.” E ancora: “Qualunque siano gli strumenti accusatori che si utilizzano per mettere in moto un’accusa di plagio, l’accusa è sempre fondamentalmente politica, perché riguarda essenzialmente i rapporti tra il privato e il sociale.”

A 83 anni gli venne notificato lo sfratto dall’appartamento romano in cui abitava da quarant’anni, vivendo con la pensione minima. L’anno dopo, a seguito dell’iniziativa della senatrice Tiziana Valpiana (Rifondazione Comunista) col sostegno attivo di Franca Rame e di alcuni parlamentari della fugace “Unione” (idealmente “delle sinistre”) di Romano Prodi, con in testa Franco Grillini e Giovanna Melandri, gli viene assegnato il vitalizio della Legge Bacchelli. Lo sfratto diventa esecutivo tre anni dopo e l’86enne Braibanti, con le migliaia di volumi che aveva accumulato, si trasferisce nella natia Emilia Romagna, a Castell’Arquato, dove morirà 91enne. Di Giovanni Sanfratello non si è saputo più nulla, si sa solo che è morto: una vita sprecata, forse un talento, chissà, sacrificato sull’altare della rispettabilità e della cristianità. Suo fratello Agostino è tutt’oggi vivente, da qui i nomi cambiati nel film.

Dal Lido di Venezia dove il film è stato presentato, Gianni Amelio, che ha fatto coming out nel 2014, dice del suo lavoro: “È limitativo dire che è un film sul caso Braibanti, è una grande storia d’amore tra un uomo e un ragazzo, molto autobiografica: durante le riprese ho vissuto una storia d’amore molto tormentata. Ho scoperto le stesse fragilità di Aldo: Braibanti si è innamorato, io anche. Non sono andato in galera come lui ma sono chiuso in un carcere mio. Sono felicissimo del film, probabilmente è la cosa più bella che abbia mai fatto, ma intimamente non sono felice. Vi auguro di essere più felici di me.” Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza. Spirano venti di Destra e l’aspirazione a cancellare questi ultimi sessant’anni è forte.

L’immensità

Erano anni che aspettavo un film di Emanuele Crialese che già mi aveva rapito e incantato col suo debutto cinematografico “Respiro” dell’ormai lontano 2002 e di cui avevo visto i suoi altri due film: “Nuovomondo” del 2006 e poi “Terraferma” del 2011, e poi più nulla, nonostante con soli tre film si fosse imposto sulle platee internazionali, ricevuto premi e riconoscimenti, e fatto amare dal non facile e ondivago pubblico italiano. Con “Respiro” aveva in particolar modo conquistato la Francia dove a Cannes aveva vinto il Grand Prix e lo speciale Prix de la Jeune Critique, e poi il Nastro d’Argento alla protagonista Valeria Golino, il David di Donatello al produttore Domenico Procacci e altro ancora. Con “Nuovomondo” ha vinto a Venezia il Leone d’Argento – Rivelazione inventato per lui da quella giuria presieduta da Catherine Deneuve e mai più riproposto in seguito; a seguire non si contano altri premi fino alla candidatura a rappresentare l’Italia agli Oscar. Con “Terraferma” si riconferma a Venezia con il Leone d’Argento ufficiale con standing ovation. Nel 2014 l’autore è stato insignito del Premio Nazionale Cultura della Pace “per aver mostrato attraverso le sue opere, i suoi film e i suoi racconti un’umanità in viaggio alla ricerca di un luogo di vita dignitoso dove poter esprimere il proprio desiderio di appartenenza al consesso umano ed il proprio progetto vitale. Mostra un’umanità attenta ad affermare con forza il proprio essere nel mondo, a manifestare con semplicità e chiarezza la cittadinanza mondiale di ogni uomo, al di là di confini e frontiere artificiosamente costruiti. La dignità non ha carta d’identità o passaporto che possa negare il diritto di ognuno all’esistenza.” E da allora il silenzio.

La sua cinematografia in vent’anni conta solo quattro film più uno, e con quest’ultimo “L’immensità” ne possiamo parlare come di un corpo unico che, benché proiettato su diverse realtà, ha nella sua intima natura la sicilianità. Il più uno cui mi riferisco è in realtà l’opera prima di Crialese, il vero debutto con un lungometraggio del 1997, un film girato in America dove il ragazzo, dopo aver frequentato la Libera Università del Cinema di Roma, città dove era nato da genitori siciliani, va a laurearsi anche presso la New York University, prestigiosissimo istituto privato per ricchi rampolli. Grazie ai soldi di un’eredità e col supporto economico di alcuni amici entrati nella produzione, realizza quel suo primo film, distribuito anche in Italia ma che pochi possono dire di aver visto, e io non sono fra quelli, film oggi disponibile on demand; un film che per il già 32enne Crialese è ovviamente di formazione, sia artistica che umana, che racconta il suo personale punto di vista, punto di vista già frequentatissimo e affollatissimo, sugli immigrati che nella Grande Mela cercano affermazione e identità, o l’affermazione della propria identità. E’ anche l’inizio della sua amicizia e collaborazione artistica con l’altro siculo-newyorkese Vincenzo Amato che diverrà il suo attore feticcio innestato in tutti i suoi film, con l’eccezione di “Terraferma” dove gli obblighi produttivi gli hanno imposto la star televisiva Beppe Fiorello.

Quella sua opera prima americana pare che sia il compito bene eseguito di un regista in cerca di identità, ma che percorre la via del sentimentalismo giovanilistico con moti eversivi che però non graffiano, restando sul già visto, ponendo in campo però quei caratteri che benissimo metterà a fuoco successivamente: i personaggi che non vogliono lasciarsi ingabbiare nelle convenzioni sociali e che preferiscono bruciare nelle loro passioni, a cominciare dalla protagonista di “Respiro”, moglie e madre che mette a soqquadro l’intera isola di Lampedusa per dare forma a un malessere che non ha nome né ragione: che a chiamarla depressione è quanto mai riduttivo, trattandosi della ribellione creativa di una donna che non si riconosce nell’unica realtà in cui lei esiste, un mondo che gli uomini hanno immaginato al maschile, a loro immagine e somiglianza, e tutto quello che devia da quell’ordine costituito diventa incomprensibile. Per un ulteriore sguardo su questo tema rimando al mio articolo sul linguaggio inclusivo.

Benché romano di nascita Emanuele Crialese resta intimamente innestato sulle sue radici siciliane. Dopo Lampedusa, dove l’autore aveva vissuto per alcuni mesi di certo con l’intento di trovarvi ispirazione, si sposta cinematograficamente nella Sicilia interna, montuosa, quella rurale d’inizio secolo 1900, a Petralia Sottana in provincia di Palermo, uno dei tanti piccoli comuni da cui i contadini fuggirono in cerca di fortuna nel “Nuovomondo”; figura cardine è il personaggio di Vincenzo Amato ma per la coproduzione con la Francia entra nella storia Charlotte Gainsbourg come gentildonna inglese che fugge in America, raccontata da Crialese come simbolo dell’emancipazione femminile. L’emigrazione dei siciliani oltre oceano viene messa a confronto con l’immigrazione degli africani verso il nostro vecchio mondo in “Terraferma” che ispirandosi a “I Malavoglia” di Giovanni Verga racconta di una famiglia di pescatori siciliani di Linosa (mai nominata nel film), isola prossima alla più nota e drammaticamente frequentata Lampedusa e che insieme costituiscono un comune in provincia di Agrigento.

Dopo undici anni ecco il nuovo film che, non specificamente dichiarato, è un’autobiografia attraverso la quale Crialese parla della sua transizione di genere. A Venezia, dove il film era candidato al Leone d’Oro e al Queer Lion, detto volgarmente leone gay, una sezione creata nel 2007 che assegna il premio al “Miglior film con tematiche omosessuali & Queer Culture”; l’oro è andato al documentario americano “All the Beauty and the Bloodshed” di Laura Poitras e il queer al tedesco “Aus meiner Haut” di Alex Schaad. Della transizione di genere di Crialese si mormorava già dai suoi esordi ma è sempre rimasto opportunamente e giustamente un fatto privato sul quale, solo in occasione del film, in un’intervista l’autore ha specificato che non essendo un personaggio pubblico o una rock star non aveva senso parlare della sua vita privata. Chiuso argomento.

Quello che c’è da dire è tutto nel film, delicato emozionante e imperfetto. Gli nuoce, a mio avviso, la solita necessità produttiva di avere nel cast un nome di garanzia, in questo caso la sempre eccellente Penelope Cruz nel ruolo della madre, ruolo per il quale l’attrice ringrazia, e che costringe l’autore su equilibrismi narrativi che, benché assai ben risolti, tolgono però forza alla sua ispirazione primaria, in questo caso i tormenti di una dodicenne che già sa di essere un ragazzo nato per sbaglio in un corpo femminile e che si sottopone a innocenti rituali empirici, come tentare di mettersi in contatto con gli alieni dai quali crede di provenire o cercare un miracolo divino, per tentare di risolvere il suo dilemma esistenziale. Sono gli anni ’70 e la famiglia siciliana alto borghese che si trasferisce nella periferia romana è quella tipica di quegli anni, che ruota attorno a uno di quei capi famiglia più autoritari che autorevoli che verranno messi in discussione dalle nascenti rivoluzioni sociali di cui però nel film non c’è colpevole sentore né lontana eco. Sarà che la vita della famiglia si svolge tutta all’interno delle due anime in cerca della loro identità, madre e figli*, che trovano una più facile via di fuga nei lustrini in bianco e nero e nelle note accattivanti e melodiche dei programmi tivù del sabato sera. La sicilianità, poi, s’innesta giocoforza dello spagnolo che la Cruz porta con sé, aggiungendo al film sfumature non immediatamente necessarie.

Quello che avrebbe potuto essere a tutto tondo l’emozionante racconto di un ragazzo alla scoperta della sua identità e della sua sessualità, ancorché intrappolato in un corpo che non riconosce come suo, diventa il contraltare di un racconto parallelo che già avevamo visto e amato in “Respiro”, quello di una donna che esprime con una fantasia eversiva il suo male di esistere in un ruolo socio-familiare che non riconosce come suo. I due ruoli si sostengono e compenetrano a vicenda senza però riuscire a farsi complementari in un racconto uniforme; questo nonostante l’invenzione, fantasticheria del giovane protagonista, che fa di sua madre una stella pop di quel piccolo schermo in bianco e nero, prima Raffaella Carrà e poi Patty Pravo, e il film diventa a tratti anche musical, moltiplicando ispirazioni e stili, giungendo a un finale dove il lieto fine è più onirico che reale e il protagonista si esibisce finalmente in smoking cantando con la voce di Johnny Dorelli davanti alla platea di Canzonissima. Si sente che via via che è stato scritto e riscritto e adattato alle varie esigenze produttive, il film ha perso la freschezza e l’urgenza del racconto primario che ormai affiora a tratti, convincente nell’esecuzione ma meno convinto in fase di scrittura, con passaggi di un’autobiografia romanzata che rimangono oscuri perché se ne sono persi i riferimenti: l’incendio del salotto di cui la madre viene incolpata, e per il quale viene mandata a rieducarsi in una casa di cura, come e perché è realmente accaduto? e poi, l’avventuroso perdersi del gruppo dei ragazzini nei meandri del vecchio bunker militare sotterraneo, com’è che si conclude senza una vera morale della favola? Sono passaggi che nel minutaggio del copione devono aver ceduto il passo ad altre urgenze e non mi stupirei se fra qualche anno il film venisse sviluppato in una miniserie televisiva come è già accaduto per “A casa tutti bene” di Gabriele Muccino.

L’anno scorso ha trionfato a Venezia un’altra biografia d’autore, “E’ stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino che si è portato a casa il Leone d’Argento e ha veicolato il Premio Marcello Mastroianni al miglior esordiente Filippo Scotti. Ritengo che se Crialese fosse stato più libero nella composizione del suo film avrebbe potuto ottenere gli stessi risultati ed è un peccato che l’esordiente Luana Giuliani non abbia avuto nessun riconoscimento. E va dato merito all’autore che ha sempre saputo scegliere con grandissima cura i giovani interpreti sempre presenti nei suoi film. Per questo delicatissimo ruolo ha indirizzato la sua ricerca verso ragazze che praticassero sport maschili, che in qualche modo avessero accantonato i vezzi tipici di quell’età per affrontare rudi prove fisiche, e la prescelta è stata questa piccola campionessa di minimoto, che già ben quattro anni fa, per un terzo della sua vita, ha incontrato Crialese e cominciato l’addestramento alla recitazione e al cinema, dovendo abbandonare lo sport per non mettere a rischio l’integrità fisica; e, racconta Luana, essendo in un’età di precoce crescita e cambiamento, le riprese sono state concentrate il più possibile in un breve periodo.

Francesco Casisa con Valeria Golino e Vincenzo Amato in “Respiro”

Anche gli altri bambini del film sono degli esordienti e fra tutti spicca il fratello minore, interpretato da un più che convincente Patrizio Francioni nel ruolo del figlio di mezzo, quello che più interiorizza e meno esprime, salvo poi liberare le sue frustrazioni in modo scatologico; un bambino che molto ricorda, per intensità espressiva, un altro bambino che vent’anni fa debuttava in “Respiro” e che oggi Wikipedia classifica come attore e criminale italiano: Francesco Casisa, palermitano del quartiene Zen, è coprotagonista accanto a Golino e Amato, e poi di nuovo con Crialese come figlio maggiore dell’emigrante in “Nuovomondo”; nonostante si fosse ben avviato alla carriera di attore anche con partecipazioni in tv, fra il primo e il secondo film ha messo a segno una denuncia per rapina, e poi è finito in ospedale per un grave incidente col motorino dopo aver fatto il parcheggiatore abusivo fuori da una discoteca: in coma per tre giorni ha perso tutti gli incisivi e i canini e Valeria Golino con Maria Grazia Cucinotta gli hanno pagato la ricostruzione dentistica; negli anni a seguire viene arrestato per il possesso di mezzo chilo di hashish e alcuni grammi di cocaina e poi di nuovo condannato sempre per traffico di stupefacenti si rende latitante andando a vivere a Parigi; successivamente gli viene revocata la condanna di custodia cautelare e può rientrare in Italia ma non in Sicilia; in quest’ultimo film interpreta il piccolo ruolo di un molestatore. Nel resto del cast la bambina Maria Chiara Goretti come sorellina minore ma già saggia, Penelope Nieto Conti come primo amore dell’adolescente, la mai abbastanza utilizzata dal cinema Alvia Reale come algida nonna paterna alto borghese, il coach di recitazione di Luana Carlo Gallo interpreta il ruolo dello zio, Elena Arvigo, Laura Nardi e Valentina Cenni come zie e cognate pronte a puntare l’indice.

Vincenzo Amato, che da Crialese era stato lanciato nel cinema italiano, pur con diverse partecipazioni anche sui set internazionali non è mai riuscito a sfondare davvero, segno che la sua espressività cinematografica è tutta nel segno dell’amico di gioventù. Palermitano di nascita, 18enne si trasferisce a Roma con la madre, la cantante folk Muzzi Loffredo che fu attrice per Francesco Rosi e Lina Wertmüller; Vincenzo, dieci anni dopo da Roma si trasferisce a New York dove fra le altre cose lavorerà il ferro battuto creando delle sculture, lavoro e residenza presso i quali ritorna quando non è sui set: “Da quando vivo all’estero sono diventato ancora più siciliano e più italiano. Ho avuto la stessa sensazione che hanno gli astronauti quando vedono la Terra dallo spazio: quando poi torni indietro riesci a vedere le cose in modo oggettivo. L’Italia mi manca molto, stando lontano e non avendo a che fare ogni giorno coi suoi aspetti negativi mi ricordo solo le cose belle.”

Del film resta da dire che il coinvolgimento autobiografico dell’autore resta una nota per gli addetti ai lavori e per gli spettatori professionisti; tutti gli altri, le coppie di anziani coniugi o le anziane amiche in pausa dal torneo di burraco – ché l’età media e l’estrazione sociale della platea di cui ho fatto parte erano proprio quelle – stanno vedendo un film ambientato negli anni Settanta, epoca che ben riconoscono e nella quale facilmente si introiettano, senza però capire il senso dell’operazione retrò: l’autore ha detto tante cose sul red carpet e nelle varie interviste ma nel film aleggia un’aria di reticenza, di pudicizia certo, che non spiega bene che cosa stia raccontando, e perché. Si apprezza sulla fiducia. A questo punto la cosa da fare sarebbe andare a rivedere tutta la breve filmografia di Emanuele Crialese. E poi, a tempo perso, possiamo andarci a vedere l’omonimo “L’immensità” del 1967 con Don Backy e Caterina Caselli.

Number One – instant movie del 1973 su uno scandalo di cocaina, jet-set, servizi segreti e terrorismo

“Un’inchiesta cominciata nel cesso non può che finire nella merda.” La notevolissima battuta è attribuita a uno dei tanti avvocati difensori del bel mondo che fu coinvolto nello scandalo del night-club romano Number One, sito in via Lucullo a pochi passi da quella Via Veneto dove si era consumata la Dolce Vita raccontata da Federico Fellini, scandalo cui seguì un’inchiesta assai paparazzata che nel 1971 vide sfilare davanti agli inquirenti ben 25 esponenti di quel jet-set, quelli che oggi chiamiamo sia vip che svippati, che nell’intimo – si fa per dire – cesso del locale citato dall’avvocato sciavano su piste di cocaina, e che poi nell’aula del tribunale scivolarono su accuse e querele reciproche perché erano tutti innocenti e la colpa era sempre di un altro.

Il playboy Gigi Rizzi con la sua conquista Brigitte Bardot e l’amico Johnny Hallyday al Number One

Alla fine degli anni Sessanta avevano aperto in Italia i primi night-club sull’esperienza di come ci si divertiva all’estero: quelli che viaggiavano, e che dunque avevano soldi e tempo da spendere, volevano trovare sotto casa lo stesso tipo di divertimento e le metropoli italiane si adeguarono: a Roma la dolce vita cedette il passo alla mala vita della nascente Banda della Magliana cui facevano da sfondo i servizi segreti deviati e corrotti; il Number One fu fra i night più in voga, gestito nell’illegalità delle connivenze e con l’inventiva tutta italiana nell’aggirare restrizioni e divieti, e tanto per dirne una: nei suoi documenti contabili il locale era dichiarato come un semplice ristorante vegetariano per smussare la mannaia fiscale; ne era proprietario l’imprenditore e, va da sé anche playboy, Paolo Vassallo, che però stava sempre sul chi vive, pover’uomo, perché sapeva di che pasta erano fatti i suoi occulti compagni d’impresa, e perciò sapeva pure che il suo locale poteva avere vita breve restando vittima di vendette incrociate: in molti bar e ristoranti e night andarono in scena risse di facinorosi come pezzi di teatro il cui scopo era far chiudere i battenti, oppure furono definitivamente incendiati da ignoti alla legge ma ben noti alle vittime. Nel Number One si materializzò tutto questo.

È difficile districarsi in quelle vicende perché i lati oscuri sono tanti e tanti rimasero anche all’epoca. Di sfuggita bisogna ricordare che l’anno prima, era il 1970, erano stati arrestati per possesso e spaccio di droga l’attore Walter Chiari e il musicista entertainer Lelio Luttazzi, e a seguire il francese Pierre Clémenti. Era il decennio in cui si sarebbero costituite le cellule terroristiche e in una decina d’anni avremmo avuto: nel 1969 la strage di Piazza Fontana presso la Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano, nel 1970 la strage di Gioia Tauro, nel 1972 la strage di Peteano a Gorizia, nel 1973 la strage in una questura sempre a Milano, nel 1974 la strage di Piazza della Loggia a Brescia, sempre nel ’74 la strage del treno Italicus diretto da Roma a Monaco di Baviera, nel 1976 la strage di Alcamo Marina in provincia di Trapani, e nel 1980 ci fu la strage alla stazione di Bologna. Solo per ricordare le stragi, ché innumerevoli furono gli attentati senza vittime o con soli feriti, o i singoli assassinii o le sole gambizzazioni.

La Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano dopo l’attentato

Fu un periodo che dall’inglese Observer venne definito “strategy of tension” secondo le carte che l’agenzia segreta inglese, l’ineffabile MI6 – l’em-ai-six di tanti film – avevano sottratto all’ambasciatore greco in Italia: si era in piena Guerra Fredda e gli Stati Uniti, in quanto guardiani del mondo, stavano mettendo in pratica nell’area mediterranea una strategia per metterci in sicurezza dall’influenza sovietica: a livello popolare si fece passare la colorita immagine dei cosacchi che venivano ad abbeverare i loro cavalli in Vaticano; di fatto destabilizzando i nostri equilibri sociali anche attraverso eventuali colpi di stato volti a instaurare governi di matrice conservatrice, destrorsa e fascista: i giovani terroristi italiani che si coinvolsero non furono altro che bassa manovalanza senza reale consapevolezza del disegno generale; i tanti innocenti che furono sacrificati negli attentati erano il danno collaterale di una politica volta alla marginalizzazione dei partiti di estrema sinistra e contemporaneamente alla criminalizzazione dell’estrema destra, i classici due piccioni con una fava che avrebbero condotto al rafforzamento dell’unica area centrista: la Democrazia Cristiana che in quella strategia della tensione sacrificò il suo esponente più possibilista, Aldo Moro.

Appena al di sopra di quel fangoso pantano, la bella vita di chi se la poteva permettere procedeva senza intoppi e anzi veniva incoraggiata, e nei nostri night-club fiumi di american whiskey scorrevano ecumenicamente insieme a fiumi di russkaya vodka e di apolide cocaina; ovviamente, non tutto essendo legale, bisognava dotarsi di opportuni soci in affari e di illecite frequentazioni: anche oggi, chi si concede una striscetta di cocaina il sabato sera, non si chiede certo chi o cosa sta finanziando. Il buon Walter Chiari, abituale consumatore, pare che finì in prigione e sulle pagine di tutti i giornali per scandalizzare il popolo bue, modo di dire che sembra provenire da un generale romano che così si era rivolto a Giulio Cesare: “Il popolo non deve pensare ma solo eseguire come fa il bove” e come mandria di bovi gli italiani del 1970 andavano pascolati con gustosissime notizie scandalistiche per distrarli da altri titoli che all’epoca comparivano su quegli stessi giornali e che riguardavano il primo processo sulla strage di Piazza Fontana. In seguito fu accertato che Lelio Luttazzi era completamente pulito: era stato coinvolto nell’inchiesta solo perché aveva ricevuto una telefonata dall’amico Walter (il cui telefono era sotto intercettazione) che gli chiedeva di chiamare un tizio per suo conto, uno che poi si rivelò essere uno spacciatore, perché lui non riusciva a prendere la linea – mentre per chiamare Luttazzi c’era riuscito: probabilmente Chiari già temeva di essere intercettato ma non pensò che avrebbe inguaiato l’ignaro Luttazzi.

L’attore si fece tre mesi a Regina Coeli e poi fu scarcerato pagando una cauzione di tre milioni di lire, nove mila euro odierni, e al successivo processo venne scagionato dall’accusa di spaccio e condannato con la condizionale per il solo uso privato della sostanza stupefacente. Mentre Lelio Luttazzi si fa 27 giorni di carcere prima di venire totalmente prosciolto ma quell’errore giudiziario gli rovinò la carriera perché perse le conduzioni della radiofonica Hit Parade e della televisiva Ieri e Oggi; espone la sua breve esperienza carceraria nel libro “Operazione Montecristo” che ispirerà Alberto Sordi per il suo “Detenuto in attesa di giudizio”. Anche il francese Pierre Clémenti finì a Regina Coeli per detenzione e uso ma dopo 18 mesi fu scarcerato per insufficienza di prove e costretto a lasciare l’Italia dopo aver dato belle prove attoriali diretto da Bernardo Bertolucci, Liliana Cavani e Pier Paolo Pasolini. Ma intanto il popolo bue era già stato allegramente condotto sui sempre verdi pascoli della disinformazione.

Gianni Buffardi con la moglie Liliana De Curtis, i due figli e il suocero Totò

In questo clima matura la vicenda del Number One. Gianni Buffardi, produttore di diversi film con Totò di cui sposò la figlia Liliana De Curtis, e che produsse anche l’opera prima di Luigi Magni “Faustina”, volle farsi autore scrivendo e dirigendo questo suo primo film che rimane anche l’unico perché morì prematuramente a causa di una leptospirosi contratta tuffandosi nel biondo Tevere. L’onesto intento è quello di fare un film inchiesta, o di denuncia che dir si voglia, sulla scia dei modelli Francesco Rosi o Elio Petri senza però neanche arrivare a sfiorarne la pregnanza. Sceneggiato su un suo soggetto da Sandro Continenza, suo collaboratore di fiducia dai tempi dei film con Totò, ma poi anche rimaneggiato su consiglio di Renzo Montagnani che gli consigliò di dare un respiro più ampio alla vicenda – forse di questo troppo ampio respiro il film soffre. L’intenzione dell’autore era inizialmente quella di attenersi rigorosamente ai fatti che riguardarono il night-club e già a quella dichiarazione di intenti si misero in moto, secondo Buffardi, delle oscure manovre per impedire la realizzazione del film: “È un film che non si dovrebbe fare perché può dare fastidio a molti, ma nonostante ciò lo realizzo ugualmente. Ritengo di essere la persona più indicata per fare questo film per vari motivi: primo fra tutti perché sono l’unico amico di Pier Luigi Torri; poi perché conosco molto bene coloro che frequentavano il Number One; quindi, perché sono stato interrogato in qualità di testimone dalla magistratura.”

Pier Luigi Torri con Marisa Mell

Pier Luigi Torri, produttore cinematografico e altro tombeur de femmes che all’epoca si accompagnava a Marisa Mell, viene indicato come la gola profonda che diede inizio all’indagine sull’allegro girotondo di bustine di cocaina, e non parve vero a paparazzi e giornalisti di buttarsi sulla vicenda, perché nella narrativa di un certo giornalismo c’è sempre l’ansia di scoprire l’illecito e l’intrallazzo nel bel mondo degli eroi patinati, i belli i ricchi i potenti, dove l’invidia di classe si fa vendetta sociale; per non dire della distrazione che veniva operata su un piano diverso: l’aula del tribunale dove sfilarono i moderni Dei dell’Olimpo era accanto a quella dove Franco Valpreda era imputato per la strage di Piazza Fontana, ma mentre lì si discuteva noiosamente di bombe e di 17 vittime innocenti, qui era un via vai di bei nomi tutti potenzialmente colpevoli di essersi divertiti troppo. All’uscita della notizia della realizzazione di quel film venne fuori che Torri, in carcere anche lui, aveva confidato ad altri due detenuti che proprio Buffardi aveva materialmente consegnato la cocaina: Torri era stato assai probabilmente manovrato con la promessa di uno sconto di pena ma l’inganno fu svelato e si prese un’ulteriore condanna per calunnia, e il produttore poteva continuare a fare il suo film, anzi no, perché subito a seguire venne accusato di estorsione dal figlio del pittore Massimo Campigli: secondo la sua denuncia, il produttore gli avrebbe chiesto 5 litografie del padre per sé e 18 milioni da versare ad alcuni “amici” per fargli riavere le 6 grandi tele, sempre paterne, e una preziosa collezione di vasi precolombiani che erano stati trafugati da ignoti dalla loro villa a Saint-Tropez. La Stampa titola: “È il tramonto della Roma ‘dolce vita’ – l’arresto del produttore Gianni Buffardi”, che secondo l’articolo firmato da Silvana Mazzocchi “entra a Regina Coeli con la camicia di seta munita di cifre ricamate in blu, come ci si recasse in visita. Nonostante tutto, il protagonista di questa storia non ha ancora capito come sono cambiate le regole della vita romana di cui lui resta uno degli ultimi misconosciuti esponenti pittoreschi.” E ancora lo apostrofa: “Gianni Buffardi, produttore cinematografico, cinquantenne, ideatore di film di cassetta, squattrinato «vitellone» della Via Veneto Anni Sessanta, poi scommettitore e trafficante di oggetti d’arte. (…) Nel mondo del cinema è sempre stato una figura di terzo piano, un produttore con scarse possibilità; ma vivendo al margine del «mondo che conta» ne aveva orecchiato i segreti.” Nei fatti Buffardi fu poi scagionato dall’accusa mossa dall’amico Torri.

Sia come sia, il produttore si fece autore cinematografico e girò il suo imperfetto e scomodissimo film, tanto scomodo che fu presto consegnato all’oblio e a tutt’oggi non è mai stato reso disponibile né in VHS né in DVD, e solo dopo decenni ne è stata rinvenuta una copia – si riteneva perduto – nei magazzini di una casa di distribuzione e così restaurato dal Centro sperimentale di cinematografia e dalla Cineteca Nazionale in collaborazione con la rete tv Cine34 dove, dopo la prima del dicembre 2021, il film ciclicamente torna in programmazione. L’opera prima e unica di Gianni Buffardi si apre subito, con accattivante e beffarda marcetta di Giancarlo Chiaramello, sul montaggio veloce di una serie di articoli giornalistici che parlavano del night-club, e subito segue un’ancora veloce sequenza di fotografie con gli esponenti di quel jet-set allora coinvolti, e fra gli altri si riconoscono in ordine sparso: Carla Gravina, Gina Lollobrigida, Monica Vitti, Florinda Bolkan, Omar Sharif, Liz Taylor e Richard Burton, le già dette Brigitte Bardot e Marisa Mell e Jacqueline Bouvier già vedova Kennedy e ancora per poco signora Onassis; e senza apparire nelle foto dei titoli del film si possono per certo aggiungere come abituali frequentatori la modella Verushka, Helmut Berger, Marina Ripa di Meana, Johnny Hallyday, Gianni Agnelli… Subito dopo la parata di foto un cartello avverte: “Fin qui la cronaca e la realtà. Ora l’immaginazione e la fantasia di un racconto, il cui eventuale riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti, è puramente casuale” solo per mettersi al riparo dalle querele ma il casuale e ben più causale.

La marcia di Giancarlo Chiaramello
Talitha Pol e Paul Getty sui Fori Romani della capitale dove erano venuti a sposarsi

Negli spettatori dell’epoca dev’esserci stato il gioco dell’indoviniamo chi è chi anche se la maggior parte dei personaggi, coi nomi cambiati, non erano noti al grande pubblico trattandosi di attricette, playboy, malviventi, affaristi, nobili e innominati; l’unico personaggio vagamente riconoscibile, anche a cinquant’anni di distanza, è il magnate americano Paul Getty III la cui bellissima moglie Talitha Pol morì per un’overdose di eroina e barbiturici, subito spacciato per un suicidio, tragico evento che dette il via a indagini degli inquirenti e sotterranei movimenti tellurici negli ambienti dell’illegalità che fecero altre vittime. Il film, assai ben documentato per la vicinanza dell’autore a quel mondo, affastella decine di personaggi fra i quali ci si perde, oggi come all’epoca, e procede seguendo le indagini di un commissario di polizia interpretato da Renzo Montagnani e di un comandante dei carabinieri che è Luigi Pistilli; alla loro lineare indagine si contrappongono i troppo disarticolati depistaggi che conducono anche a un furto di opere d’arte e altri morti ammazzati. Leo Pestelli sulla Stampa commentò: “La pellicola è documentatissima, rivela la preparazione di un naturalista. Ma noi che non fummo mai in quel luogo di perdizione, restiamo all’oscuro di troppe circostanze che qui si danno per intese, non sappiamo sostituire ai nomi falsi i nomi veri, agli episodi truccati gli episodi autentici, e insomma annaspiamo nel generico. Ma che cosa importa se intanto abbiamo assistito, sia pure di sbieco e per enimmi, alle messe nere della cafe-society romana, con polverine, morti ammazzati, lenoni, bari e dovizia di donne nude? In fatto di grosse e un po’ provincialesche emozioni, si ripigliano i soldi del biglietto.”

Nel resto del cast Paolo Malco è il magnate americano; l’ex divo dei melodrammi Massimo Serato è un editore e sarebbe bello capire chi fosse la controparte reale, Venantino Venantini è il proprietario del locale Paolo Vassallo, il romeno italianizzato Chris Avram rifà il playboy Pier Luigi Torri, Il belloccio Guido Mannari (che di sfuggita passò fra le lenzuola di Liz Taylor) fa l’altro playboy Gigi Rizzi, la teatrale Rina Franchetti impersona una principessa della cosiddetta nobiltà nera, Josiane Tanzilli che quello stesso 1973 fu la volpina in “Amarcord” di Federico Fellini qui esala l’ultimo respiro come Talitha Pol, e sfilano nei vari ruoli Howard Ross, Renato Turi, Bruno Di Luia, Emilio Bonucci, il direttore della fotografia Roberto D’Ettorre Piazzoli come gallerista, una giovanissima Eleonora Giorgi figura come attraente e compiacente arredamento del night, e per finire c’è l’ex pilota automobilistico datosi alla recitazione Guido Lollobrigida, che nella scheda info del film rilasciata da Cine34 figura solo come G. Lollobrigida facendoci illudere che nel cast ci sia sua cugina Gina: inutili scorrettezze di redazione. Luca Pallanch della Cineteca Nazionale ebbe a dire alla presentazione del film restaurato: “I protagonisti di quella oscura vicenda sono tutti scomparsi e, con loro, si è inabissato quell’effimero mondo riunito sotto le luci di una Roma by night, che non aveva nulla da invidiare alle altre metropoli del divertimento e del vizio.” Con riferimento alle indagini nel film passa l’espressione muro di gomma che decenni dopo è stata rispolverata per la vicenda dell’aereo caduto-abbattuto a Ustica nel 1980 da cui il film “Il muro di gomma” di Marco Risi del 1991.

“Rappresaglia” – il film su via Rasella e le Fosse Ardeatine

ll 24 marzo del 1944, esattamente 78 anni fa, avveniva l’eccidio delle Fosse Ardeatine, 335 uomini uccisi come rappresaglia all’attentato di via Rasella avvenuto il giorno prima: i partigiani romani del GAP detti gappisti, Gruppi di Azione Patriottica del Partito Comunista Italiano, avevano eseguito contro gli invasori tedeschi l’attentato più sanguinoso e clamoroso di tutta l’Europa occidentale: 33 militari uccisi e 55 feriti fra i ranghi del Polizeiregiment Bozen, tre battaglioni di coscritti altoatesini trasferiti a Roma all’ordine di ufficiali tedeschi e austriaci, con mansioni di polizia locale, lavoratori fra i 26 e i 41 anni con poca o nessuna ideologia politica o vocazione militare: contrariamente alla consuetudine militare tedesca di “vendicare” i commilitoni colpiti, nessuno dei sopravvissuti di quel reggimento volle partecipare alla “rappresaglia” delle Fosse Ardeatine. Uomini che negli ultimi giorni di guerra deposero le armi e si arresero alle forze alleate o agli stessi partigiani.

via Rasella subito dopo l’attentato

Già subito dopo l’azione di via Rasella le polemiche furono aspre. La traccia meno seguita fu quella che rimproverava che quei militari di basso rango, scarsa formazione e discutibile adesione ideologica al nazismo, non fossero gli obiettivi giusti da colpire. Il grosso delle polemiche fu che l’azione venne definita sconsiderata in base al ragionamento che i tedeschi avrebbero di sicuro messo in piedi una rappresaglia, quindi non valeva la pena mettere a rischio l’intera popolazione. Ancora oggi ci si può schierare su questo o quel fronte dei ragionamenti ma non sapremo mai considerare l’urgenza emotiva di chi ha vissuto quei momenti e preparato l’azione contro un invasore genericamente feroce.

Oltre ai militari altoatesini coscritti dai nazisti, restarono uccisi dallo scoppio della bomba, 18 chili di tritolo e schegge metalliche nascoste in un carrettino della nettezza urbana, anche un partigiano e il 13enne Piero Zuccheretti che casualmente passava; questa tragedia innescò ulteriori polemiche sull’avventatezza dell’azione gappista che viene definita nel necrologio “cieca violenza di provocatori sovversivi”. Altri quattro civile erano stati uccisi nell’immediata sparatoria che era seguita lo scoppio. Questo attentato, è diventato un rigoroso caso di esemplarità della memoria divisa degli italiani, il classico o di qua o di là. Vale la pena citare il manzoniano Don Abbondio: “La ragione e il torto non si dividon mai con un taglio così netto, che ogni parte abbia soltanto dell’una o dell’altro”. All’operazione avevano preso parte 12 partigiani e dopo l’esplosione furono lanciate alcune bombe a mano dai tetti delle case per ingannare e “dare l’impressione che le bombe occorse per l’attentato alla colonna erano partite dall’alto” dei palazzi, palazzi da cui vennero rastrellati dai tedeschi i primi 100 arresti di cittadini ignari.

Nella lunga storia processuale che seguì quei fatti del marzo 1944, anche la legittimità giuridica dell’attentato è stata oggetto di diverse valutazioni: per il diritto internazionale bellico l’attentato di via Rasella è stato, secondo tutte le corti militari che hanno processato e condannato gli ufficiali tedeschi responsabili delle Fosse Ardeatine, un atto illegittimo in quanto compiuto da combattenti privi dei requisiti di legittimità previsti dalla Convenzione dell’Aia del 1907; mentre sul piano del diritto interno italiano è stato invece considerato un atto di guerra legittimo in quanto riferibile allo Stato italiano allora in guerra con la Germania. Resta solo da commentare che sia Hitler che Stalin non hanno rispettato la Convenzione dell’Aia, dunque perché avrebbero dovuto preoccuparsene dei partigiani?

Sul piano soggettivo le motivazioni date furono: secondo un’intervista data nel 1946 dal gappista Rosario Bentivegna, nome di battaglia Paolo, colui che piazzò l’ordigno: bisognava “scuotere la popolazione, eccitarla in modo che si sollevasse contro i tedeschi”; secondo la deposizione al processo Kappler nel 1948 di Giorgio Amendola, che si era assunto la responsabilità di avere dato l’ordine di agire, l’intento era di indurre i tedeschi al rispetto dello status di Roma città aperta smilitarizzando il centro urbano; secondo la Commissione storica italo-tedesca del 2012, recentissima dunque, bisognava contrastare l’occupante e “scuotere la maggioranza della popolazione civile dallo stato di attesa passiva in cui versava”, in pratica le stesse parole di Bentivegna. Ricordiamo, ancora, che per città aperta si intendevano quelle città aperte all’occupazione nemica per evitare che venissero conquistate drammaticamente tramite distruzioni e morti. Anche Parigi si era a suo tempo dichiarata città aperta. Momento storico che per la nostra capitale è stato immortalato nel capolavoro del neorealismo “Roma città aperta” di Roberto Rossellini del 1945, la cui genesi era cominciata l’anno prima a pochi mesi dalla liberazione della città e a conflitto ancora in corso.

Il film “Rappresaglia” innescò ulteriori polemiche. La sceneggiatura scritta dal giornalista investigativo americano Robert Katz dal suo libro “Morte a Roma” insieme al regista George Pan Cosmatos, mette sotto accusa Pio XII e la sua politica non interventista nell’ottica che il nazi-fascismo gli era meno peggio del comunismo ateo. La nipote del papa querelò lo scrittore, il regista e il produttore Carlo Ponti, ritenendo libro e film gravemente lesivi della reputazione del pontefice; ci fu una condanna per diffamazione – un anno e due mesi di reclusione per Katz e sei mesi per Cosmatos e Ponti – e l’assoluzione in appello; la nipote ricorse in cassazione e la condanna fu riconfermata per regista e produttore mentre lo scrittore fu sottoposto a ulteriore giudizio che si concluse con un anno e un mese di reclusione e 400mila lire di multa; la vicenda giudiziaria si concluse nel 1984 con un’ulteriore pronuncia della suprema corte che confermò la condanna stabilendo però che non era più eseguibile per sopraggiunta amnistia.

Il film, benché concedendosi alcune libertà sul piano spettacolare (peccati veniali) è storicamente accurato come il libro da cui proviene, edito nel 1967. Nel libro si nomina e nel film si vede il capitano Erich Priebke, in un’epoca in cui solo pochi storici erano a conoscenza di quel nome: solo nel 1994 venne scoperto in Argentina e l’anno dopo estradato in Italia dove subì un processo per crimini di guerra. Qui uno stralcio dell’intervista rilasciata a La Repubblica: “Sì alle Fosse Ardeatine ho ucciso. Ho sparato, era un ordine. Una, due tre volte. Insomma, non ricordo, che importanza ha? Ero un ufficiale, mica un contabile. Non ci interessava nemmeno tanto la vendetta, a via Rasella i militari morti erano del Tirolo, più italiani che tedeschi. Ma Kappler fu inflessibile, costrinse anche il cuciniere a sparare. Fucilammo cinque uomini in più. Uno sbaglio, ma tanto erano tutti terroristi, non era un gran danno.” Ciò che allora mi sorprese e ancora mi sorprende, non è l’irriducibilità dell’individuo, ma il fatto che tanti cuori teneri abbiamo avuto pietà di quel vecchio ormai indifeso.

George Pan Cosmatos

Il regista George Pan Cosmatos, nato a Firenze da genitori greci e cresciuto fra Egitto e Cipro, ha studiato cinema a Londra ed esordisce in patria con il film in lingua inglese “Femmina violenta” starring Raquel Welch e guardando a un certo filone di genere action-sexy. Carlo Ponti, sempre alla ricerca di nuovi talenti a basso costo, lo porta in Italia e gli affida questo serissimo progetto sicuramente standogli col fiato sul collo: il film è molto rigoroso e senza sbavature, eccezion fatta per uno scivolone un po’ splatter con l’interrogatorio-tortura a inizio film del partigiano interpretato da Duilio Del Prete. Ponti gli produrrà subito dopo anche la regia del thriller catastrofico tratto da un romanzo dell’ormai collaudato collaboratore Robert Katz “Cassandra Crossing”, 1976, filmone di genere con un cast all star fra le quali una Sophia Loren fuori ruolo, filmone che torna d’attualità trattando di un virus letale che si trasmette per via aerea… Dopodiché Pan Cosmatos si trasferisce a Hollywood dove gira anche due blockbuster con Sylvester Stallone: “Rambo II: la vendetta” e “Cobra”; in tutto firma solo dieci solidi film di impianto assai spettacolare, essendo morto abbastanza prematuramente, a 64 anni, di cancro ai polmoni.

Protagonista è Marcello Mastroianni, recentemente rivisto in “Adua e le compagne” dove recitava in un cameo da attore piacione, qui rigorosissimo nel drammatico ruolo di Padre Antonelli, un ecclesiastico che si occupa del restauro e della conservazione (anche occultandole all’avidità tedesca) di opere d’arte vaticane, un ruolo di invenzione narrativa da contrapporre all’altro protagonista, personaggio reale, il comandante della Gestapo a Roma Herbert Kappler, interpretato da un gelido e lucido Richard Burton con guizzi di contenuta umanità: davvero notevole nella complessità delle varie sfumature. I due divi, diversissimi per stile e benché parlando lingue diverse, danno vita a scene molto intense. Sul piano pubblicitario rimangono però distinti, con manifesti dove appaiono da soli, qua l’uno là l’altro, e solo in locandine più recenti e copertine DVD vengono messi insieme perché decadute le evidenti clausole contrattuali.

Giancarlo Prete e Rosario Bentivegna

L’attentatore Rosario Bentivegna è interpretato da Giancarlo Prete, belloccio ex stuntman che si è ritagliato una carriera fra poliziotteschi spaghetti western e serie tv. Bentivegna fu insignito di Medaglia d’Argento al Valor Militare: “Durante l’occupazione nazista della capitale emergeva al comando di un Gruppo di Azione Patriottica per capacità organizzativa, indefessa attività, intrepido ardimento. Nelle vie e nelle piazze dell’Urbe, e particolarmente il 18 dicembre 1943 e il 23 marzo 1944, combatteva contro i nazifascisti in una lunga serie di scontri e di agguati che diedero larga risonanza al suo nome, fra i nomi più noti della resistenza romana.” Roma, 8 settembre 1943-23 marzo 1944. E Medaglia di Bronzo al Valor Militare: “Già provato nella resistenza della città di Roma, assumeva il comando di formazioni partigiane operanti sulle vie Prenestina e Casilina, al tergo dello schieramento nemico. Dava belle prove di capacità e di personale coraggio che particolarmente rifulsero nella resistenza effettuata nella zona di Palestrina.” Palestrina, maggio-giugno 1944.

Carla Capponi e Delia Boccardo

Delia Boccardo nell’unico ruolo femminile della brigatista Carla Capponi, nome di battaglia Elena, Medaglia d’Oro al Valor Militare con la seguente motivazione: “Partigiana volontaria ascriveva a sé l’onore delle più eroiche imprese nella caccia senza quartiere che il suo gruppo d’avanguardia dava al nemico annidato nella cerchia dell’abitato della città di Roma. Con le armi in pugno, prima fra le prime, partecipava a decine di azioni distinguendosi in modo superbo per la fredda decisione contro l’avversario e per spirito di sacrificio verso i compagni in pericolo. Nominata vice comandante di una formazione partigiana guidava audacemente i compagni nella lotta cruenta, sgominando ovunque il nemico e destando attonito stupore nel popolo ammirato da tanto ardimento. Ammalatasi di grave morbo contratto nella dura vita partigiana, non volle desistere nella sua azione fino a fondo impegnata per il riscatto delle concusse libertà. Mirabile esempio di civili e militari virtù del tutto degna delle tradizioni di eroismo femminile del Risorgimento italiano.” Roma, 8 settembre 1943 – 6 giugno 1944.

Una scena nelle Fosse Ardeatine

Completano il cast degli anglofoni Leo McKern, John Steiner, Peter Vaughan; mentre fra gli italiani spiccano due eccellenti caratteristi: Renzo Palmer che ricalca il ruolo di Giorgio Amendola, e Renzo Montagnani che dà vita al questore di Roma Pietro Caruso. E con attori che recitavano in due lingue all’epoca non si parlava di doppiaggio, pratica che riguardava singoli personaggi o film di produzione e lingua straniera, bensì si diceva sonorizzazione: veniva registrata sul set una traccia audio di scarsa qualità come linea guida per la successiva sonorizzazione dell’intero film. Tecnica, ma prima ancora abitudine produttiva che consentiva insalate a volte davvero indigeste, poi fortunosamente caduta in disuso con l’introduzione di regole e leggi nazionali a protezione del lavoro degli interpreti di madre lingua. Oggi si recita in presa diretta e si producono film in cui si parlano diverse lingue, com’è la realtà, ricorrendo ai sottotitoli per le lingue secondarie, o ritenute secondarie in base alla nazione in cui vengono proiettati o trasmessi. Solo omonimia (forse voluta?) per il personaggio del fascista Guido Buffarini Guidi interpretato dal somigliante Guidarino Guidi, figura marginale del cinema degli anni ’60-70 come attore caratterista, direttore di casting e assistente alla regia.

La curiosità nel film. All’indomani dell’attentato di via Rasella, i gappisti Paolo e Elena, comprano il Messaggero del 24 marzo 1944 cercandone notizie in cronaca, senza sapere che i nazisti stanno già organizzando la rappresaglia delle Fosse Ardeatine; sconfortati non trovano nulla e leggono solo che la Roma ha battuto la Lazio e che al cinema Barberini c’è stata la prima di un film svedese. Le ricerche mi portano a “Spasimo” diretto da Alf Sjöberg su soggetto e sceneggiatura del giovane drammaturgo Ingmar Bergman, che sarà miglior film al primo Festival di Cannes del dopoguerra nel 1946; un film cupo di stampo espressionista in cui alcuni critici vollero vedere una critica al nazismo, tesi successivamente smentita dallo stesso Bergman che confessò di essere stato in gioventù addirittura ammaliato dalla figura di Hitler che aveva visto durante un viaggio giovanile a Weimar. Sul set Ingmar Bergman lavorò anche come segretario di edizione (avrebbe debuttato come regista cinematografico nel 1946 con “Crisi”) e diede la sua voce al narratore fuori campo. Non resta dunque che cercare questo “Spasimo”.

Il cattivo poeta – il cinema 2020-21 disperso nella pandemia

Nel 2020 i cinema hanno timidamente riaperto in estate per richiudere subito dopo. Nel 2021 si va al cinema col green pass ma le sale sono praticamente deserte: gli spettatori sono decimati dalla pandemia e non mancano solo quelli che non hanno il green pass; fra quelli che ce l’hanno non tutti ritengono opportuno, o necessario, tornare al cinema, e i pochi volenterosi spettatori rimasti sono ulteriormente scoraggiati dall’obbligo della mascherina FFP2. I film usciti in sala passano subito sulle piattaforme web e in tv.

Meritevolissima opera prima del 49enne napoletano, laurea in filosofia, Gianluca Jodice, anche autore di soggetto e sceneggiatura: un nuovo autore che ha già all’attivo premi e riconoscimenti per i suoi cortometraggi e il cui merito è, oltre a quello di confezionare un film importante molto ben fatto, quello di tornare a raccontarci il nostro primo novecento, sempre meno recente e per questo più necessario da ritrovare, anche o forse soprattutto, attraverso figure secondarie: qui il vero protagonista, benché nel titolo si richiami al Gabriele D’Annunzio interpretato da Sergio Castellitto, è il giovane federale bresciano Giovanni Comini interpretato da un altro debuttante, il genovese Francesco Patanè dal cognome siciliano: faccia di bravo ragazzo della porta accanto molto funzionale al ruolo scritto dall’autore ma che manca, a mio avviso, di quel particolare fascino magnetico che devono avere i protagonisti (a meno che non parliamo di film di serie B e questo non lo è) ferma restando la sua interpretazione molto aderente e partecipata; del resto Patanè è stato candidato come migliore attore esordiente, insieme a Castellitto migliore protagonista e Gianluca Jodice miglior regista esordiente, ai Nastri d’Argento 2021 dove il film ha ricevuto solo i premi tecnici per la fotografia dell’eclettico Daniele Ciprì e i costumi di Andrea Cavalletto.

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Il film, che va decisamente recuperato, è un’occasione per esplorare le figure che racconta, a cominciare dal protagonista che è un federale, dispregiativamente definito nel film federalino per la sua giovane età: trent’anni. Il federale, come il podestà e il gerarca, sono figure oggi sparite ma assai specifiche dell’allora apparato fascista. Il podestà, come termine, esiste sin dal medioevo ma con le cosiddette leggi fascistissime il podestà tornò in vita sostituendo la figura del sindaco democraticamente eletto e a capo di una giunta: il podestà era nominato per regio decreto e non aveva intorno una giunta con cui confrontarsi o da cui farsi sostenere e di fatto era un’autorità unica che rispondeva al governo centrale; Il termine gerarca indicava gli alti dirigenti del Partito Nazionale Fascista (PNF) fondato nel 1921; il federale era il quarto in grado di importanza in quella gerarchia e dirigeva sul territorio le federazioni di fasci di combattimento, un po’ le sezioni di partito odierne che però, data la specifica natura di quel partito, fungeva anche da ufficio para militare e para poliziesco.

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Giovanni Comini è ricevuto da Achille Starace che si allena al vogatore nell’enorme sala che gli fa da ufficio all’interno di Palazzo Venezia; di lato quello che oggi diremmo il suo personal trainer insieme a una di quelle donne tuttofare a servizio dell’apparato fascista: un racconto cinematografico fatto di dettagli laterali che danno profondità e spessore all’intero racconto

Un ruolo assai impegnativo per il giovane Comini, già vice podestà di Brescia, che si sente addirittura un miracolato quando Achille Starace in persona, segretario del PNF, lo incarica di spiare Gabriele D’Annunzio introducendosi alla sua corte come ammiratore, e credibilmente, data la sua personale predisposizione alla poesia. Per il Vate, come tutti rispettosamente lo chiamano (appellativo dato anche a Giosuè Carducci) sono gli ultimi anni: il film si apre nel 1936 e si conclude nel 1938 con la sua morte, a 75 anni. D’Annunzio vive da auto esiliato nel complesso del Vittoriale degli Italiani, come ribattezzò una villa nella provincia bresciana, a Gardone Riviera, deluso dall’esito della sua impresa fiumana: nel 1919, alla fine della Prima Guerra Mondiale, si era improvvisato condottiero per riconquistare la città di Fiume che le potenze vincitrici avevano assegnato alla Jugoslavia: un’occupazione avvenuta senza fare vittime, denominata Reggenza Italiana del Carnaro come momento di passaggio all’effettiva annessione politica all’Italia; la reggenza si protrasse per quattro anni fino a quando il Regno d’Italia e il Regno dei Serbi Croati e Sloveni, desiderosi di normalizzare i rapporti, dichiararono Fiume stato libero e indipendente; ma D’Annunzio si rifiutò di ritirarsi e la città fu attaccata dall’esercito italiano che allontanò i legionari dannunziani lasciando sul campo una cinquantina di vittime: eventi specifici la cui conoscenza, nel film, è raccontata per sommi capi, ma altrimenti non poteva essere: la figura di D’Annunzio è gigantesca e nel ripercorrerne un breve periodo non si può fare altro che sfoltire, anche pesantemente. Un D’Annunzio che in questa stessa stagione cinematografica è stato tratteggiato nell’episodio di un film dal tono completamente differente: “Qui rido io” di Mario Martone.

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D’Annunzio deve essere controllato perché è una figura ingombrante che il regime non sa come gestire: la sua ristretta cerchia del Vittoriale lo chiama ancora Capitano con memorie e rimpianti fiumani, e di fatto il suo atteggiamento è quello di una personalità pericolosamente alternativa a quella del Duce: sono entrambi dei superuomini, come erano di moda all’epoca, con richiami gloriosi allo Sturm und Drang e ai concetti filosofici di Friedrich Nietzsche, e il sommo poeta non può che disprezzare l’ex vigile urbano: il suo patriottismo, benché muscolare, è più sincero e pregno di valori più alti e spirituali di quelli di Mussolini, il quale in realtà sta solo costruendo il culto della propria personalità in parallelo a quello di quell’altro superuomo che si credeva di essere Hitler. Sono tempi oscuri per la gente ordinaria. Il Vate tenta di far ragionare il Duce che pericolosamente si sta avvicinando al Fuhrer: non vede di buon occhio quell’alleanza ma soprattutto disprezza la politica rozza e anti libertaria di Mussolini, benché sia stato e ancora sia additato come precursore ideologico del fascismo: inizialmente aderì al movimento fondato da Mussolini nel 1919, i Fasci Italiani di Combattimento, e fu uno dei primi firmatari del Manifesto degli Intellettuali Fascisti, ma non si iscrisse mai al PNF consapevole che l’affiliazione avrebbe minato la sua autonomia intellettuale e politica sempre protesa verso il primo posto di ogni podio: D’Annunzio e Mussolini erano come i classici due galli in un pollaio. E diversissimi fra loro. Già nel 1900 il Vate era stato eletto deputato nel Regio Parlamento fra le fila dell’estrema destra ma passò subito all’estrema sinistra con questa celebre frase: “Vado verso la vita”. Poi, nel suo governo provvisorio di Fiume varò una costituzione assai liberale e progressista che prevedeva, oltre ai diritti per i lavoratori e le pensioni di invalidità, il suffragio universale maschile e femminile, la libertà di opinione e di religione, nonché libertà di orientamento sessuale con la depenalizzazione dell’omosessualità, e del nudismo e dell’uso di droga: aperture assai in anticipo su qualsiasi altra carta costituzionale dell’epoca, e toccando argomenti assai invisi al fascismo. Di fatto D’Annunzio esprimeva nella sua visione politica la sua intima natura di gaudente, di uomo sessualmente promiscuo e abituale consumatore di cocaina. Non che i fascisti fossero tutti eterosessuali o non facessero uso di droghe, ma vigeva il sempre diffuso atteggiamento del “predica bene e razzola male”. D’Annunzio, con tutti i suoi difetti, era un libertario perché era intimamente libero. Una figura troppo ingombrante e sempre potenzialmente esplosiva che il Duce pensò bene di tenere sotto controllo accordandogli cariche pubbliche anche non gradite e un perenne sostegno economico, purché se ne stesse buono nel suo Vittoriale.

In questi suoi ultimi due anni di vita percorsi dal film lo vediamo vecchio e malato, minato dall’abuso delle droghe e fortemente amareggiato dalla politica di Mussolini. Gli sono accanto le sue due fedeli muse-amanti Luisa Baccara, detta anche “la Signora del Vittoriale”, e la francese Amélie Mazoyer, figlia di contadini e “bruttina assai” secondo una precisa definizione del Vate, che pare avesse i meriti di “una mano donatrice d’oblio” e “una bocca meravigliosa” per la quale la rinominò Aélis, poetico richiamo al francese hélice, elica, dove per elica intendeva la sua lingua guizzante sulla sua intima virilità. Del resto D’Annunzio usava così, rinominava con epiteti curiosi e poetici di colte ispirazioni le varie contadinotte e prostitute che Aélis gli andava procurando, anche a dispetto della Baccara: le due donne non si sopportavano ma convivevano per amore del Vate.

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Sergio Castellitto lo rende con grande dolorosa partecipazione ma nella sua interpretazione così magistralmente intimistica mancano, a mio avviso, i guizzi del vecchio leone che, pure stanco e malato, non può avere del tutto abbandonato i suoi impeti, le ultime zampate; del dolente discorso che fa ai fedeli ex combattenti fiumani che sono venuti a omaggiarlo fa un encomiabile esercizio di stile interpretativo “di sottrazione”, rende il plateale intimistico, ma mancano così i toni retorici e solenni come io immagino lo stile di D’Annunzio, che era anche lo stile di Mussolini come di Hitler e di tutti coloro che parlavano in pubblico, perché era lo stile dell’epoca, pomposo nei toni come nel vocabolario: siamo negli anni ’30 del ‘900 e anche la gente comune non parlava come parliamo oggi, e mi pare che l’intero cast del film risenta di una mancanza di direzione artistica che indirizzi in uno stile comune preciso e ben riconoscibile. Basta tornare a vedere il lavoro che hanno fatto Mario Martone con gli interpreti del suo “Qui rido io” e Paolo Sorrentino con l’intero cast di “È stata la mano di Dio”, entrambi i film ambientati a Napoli, ma il primo in un primo ‘900 assai teatrale e il secondo nei più recenti anni ’80: recitazione senza sbavature.

Più in linea con lo stile dell’epoca l’Achille Starace di Fausto Russo Alesi, e Tommaso Ragno che interpreta l’architetto del Vittoriale Giancarlo Maroni, nel film raccontato come braccio destro del Vate. Le due femmes fatales sono molto adeguatamente interpretate dalla prevalentemente teatrale Elena Bucci che è Luisa Baccara, mentre nel ruolo della francese Amélie Mazoyer c’è la francese Clotilde Courau naturalizzata italiana, anzi savoiarda avendo sposato l’inutile Emanuele Filiberto di Savoia. Massimiliano Rossi è lo sfuggente commissario Giovanni Rizzo messo al Vittoriale da Mussolini in persona perché D’Annunzio senta la sua presenza istituzionale; Lino Musella tratteggia la necessaria e retorica figura dell’irreprensibile fascista, duro puro e banalmente violento, col quale deve misurarsi la purezza ideologica del giovane Giovanni Comini, che alla morte del Vate verrà rimosso da tutti i suoi incarichi nell’apparato di regime per aver vacillato nel credo fascista. Paolo Graziosi tratteggia la figura del di lui padre. L’ucraina Lidiya Liberman, benché padroneggiando un ottimo italiano, è un po’ stonata nel ruolo dell’amante del protagonista che coinvolge in un dramma personale.

Elena Bucci con Francesco Patanè e Clotilde Courau

Nel suo primo fine settimana di programmazione il film si è piazzato al primo posto incassando 198.730 euro: un primo posto decisamente povero se si pensa agli incassi si facevano in era pre-covid. Dunque eccolo adesso in tivù a racimolare i diritti dei passaggi televisivi.