Archivio mensile:giugno 2024

Mad Max: Fury Road

2015, esattamente trent’anni dopo il terzo capitolo della saga di Mad Max, arriva il quarto film, e dal punto di vista commerciale la serie cinematografica è ormai diventata anche un franchise e i soldi che girano sono davvero tanti, è una vera e propria rendita. In questo lasso di tempo il suo creatore George Miller ha diretto solo altri cinque film che, tolto il dramma biografico “L’olio di Lorenzo” che ebbe un ottimo riscontro da pubblico e critica con nomination agli Oscar per la sceneggiatura a Miller e alla migliore protagonista Susan Sarandon, sono tutti film di genere fantasy, genere col quale il regista sembra essere più a suo agio, ma in questi “lavoretti per sbarcare il lunario” mancano i veri elementi fondanti della sua visione cinematografica: l’azione e il noir, per non parlare del catastrofico: ha firmato la fiaba per adulti “Le streghe di Eastwick” e la fiaba per bambini “Babe va in città” sequel di un precedente “Babe” con protagonista un maialino, e poi dirige i due cartoon sui pinguini “Happy Feet” che scrive lui stesso e che gli fa guadagnare il suo primo Oscar nella categoria Miglior Film d’Animazione: sono tutti film di successo che divertono il suo lato bambino ma gli manca il lato oscuro di Mad Max, sul quale però all’epoca pensava di aver detto tutto ma al contempo sentiva che quelle storie polverose di sabbia del deserto avevano ancora molto da raccontare.

Come si dice nel gergo cinematografico il suo progetto era finito nel development hell, il girone infernale in cui finiscono tutti i progetti abortiti o congelati e da cui pochi escono per tornare in vita. E qui la narrazione della produzione è a mio parere più interessante del plot del film, che di fatto ricalca la linea dei precedenti: un percorso forzato per il protagonista sempre di poche parole, e azione, violenza, autoscontro, invenzioni visive – con l’aggiunta stavolta di una vera coprotagonista cui affidare le sorti future del franchising: l’Imperatrice Furiosa. Passeranno dieci anni e nel 1995 Miller fu in grado di riacquistare i diritti di Mad Max che aveva perso per i suddetti dissesti finanziari e concretizza l’idea del nuovo film solo nel 1998: “folli predoni che non lottano per la benzina o per il petrolio, ma per degli esseri umani”. Fra un aggiustamento e l’altro la produzione era pronta a partire con la 20th Century Fox nel 2001 ma l’attacco alle Torri Gemelle fece rimandare il progetto.

George Miller con Tom Hardy e Mel Gibson che gli passa il testimone all’anteprima del film

All’epoca il 45enne Mel Gibson si disse subito pronto a rimettersi nei panni di Mad Max ma George Miller non era più convinto: nella sua storia non erano passati gli stessi anni che nella vita reale e il protagonista che aveva in mente non era perciò invecchiato: per lui era tempo, come accadeva per 007, che subentrasse un altro attore; ma la produzione spingeva per avere di nuovo la star e Mel Gibson fu ingaggiato per il quarto capitolo con inizio delle riprese nel 2003. Ma ancora una volta il progetto finì nel development hell allorché scoppiò la guerra in Iraq e parlare di predoni del deserto alla produzione non sembrò più un affare. Dal canto suo l’attore stava facendo i conti con la mezza età che inesorabilmente avanzava e tirava avanti con film di secondo livello, ma soprattutto combattendo i suoi demoni: l’alcolismo, per il quale è stato costretto a curarsi dopo essere stato arrestato per guida in stato di ebbrezza, passando per la denuncia per maltrattamenti conditi di insulti a sfondo razzista e minacce di morte alla sua compagna Oksana Grigorieva: accuse che portarono a una condanna per la quale Gibson patteggiò 3 anni di libertà vigilata; ma si è macchiato anche di insulti antisemiti a un poliziotto nonché di varie dichiarazioni omofobe per finire col ridicolo epiteto col quale si rivolse a un agente di polizia donna: “sugar tits”. Una persona davvero a modo, Mel Gibson.

Intanto, archiviata anche la guerra in Iraq, nel 2006 Miller si disse pronto a riprendere in mano il film, con o senza Gibson dichiarò, con una nuova sceneggiatura nella quale aveva coinvolto il fumettista inglese Brendan McCarthy che aveva anche disegnato nuovi veicoli e personaggi in uno storyboard di 3500 vignette che raccontava un film tutto azione e poche chiacchere, che avrebbe potuto essere compreso anche in Giappone senza sottotitoli, dichiarò Miller parafrasando Alfred Hitchcock. Allorché fu reso noto che Mel Gibson non era più nel progetto fu fatto il nome di Heath Ledger, ma l’attore morì nel 2008: quando è troppo è troppo e l’esasperato George Miller decise a quel punto di cambiare prospettiva e realizzare un film di animazione in 3D estendendolo anche alla piattaforma dei videogiochi, ma durò poco perché l’autore tornò all’idea originale del film in live action, con un po’ di delusione del fumettista McCarthy che non avrebbe più visto i suoi disegni prendere vita. Nel 2009 cominciarono le ricerche delle location, sempre nell’outback australiano e finalmente il film si avviava alla realizzazione sotto l’egida della Warner Bros.

Cominciarono le indiscrezioni riguardo a un ritorno di Mel Gibson ma le chiacchiere caddero tutte quando fu annunciato che l’inglese Tom Hardy (che quando fu girato il primo film della serie aveva due anni) sarebbe stato il nuovo Mad Max: ottenne la parte grazie all’intesa immediata che ebbe con Miller, scintilla che invece non era scoccata allorquando alla lettura del copione era stato prima chiamato Jeremy Renner. Si vociferava anche di un importante ruolo femminile e fra le preferite dell’autore c’era Uma Thurman finché non firmò per il ruolo la sudafricana Charlize Theron che al suo attivo aveva un Oscar 2004 per “Monster”, e sono dettagli che contano nella composizione di un film super milionario. A quel punto si poteva cominciare a girare – anzi no: le desertiche Broken Hill, già set per Mad Max 2, furono improvvisamente inondate da super tempeste come non si vedevano da decenni e il deserto divenne un giardino fiorito, un verdeggiante Eden che di nuovo gettò nello sconforto il già provatissimo Miller.

Ma la produzione – che oltre allo stesso Miller e allo scomparso Byron Kennedy inserito fra i produttori “ad memoriam”, contava anche Doug Mitchell che era nel pacchetto sin dal terzo capitolo della serie e che ha coprodotto tutti gli altri film di Miller, e P. J. Voeten che qui si piazza anche come regista assistente (e prima o poi farà il gran salto e debutterà come regista) – la produzione, dicevo, contava 150 milioni di dollari americani messi sul piatto dalla Warner Bros. attraverso la RatPac Entertainment, e i signori dollari spingevano perché le riprese avessero inizio, pioggia o meno. Un’ambientazione piovosa e il deserto rifiorito avrebbero però vanificato la storia che Miller voleva raccontare dove il cattivissimo di turno, il signore della guerra Immortan Joe, accumula preziosa acqua nella sua Cittadella nel deserto dove accumula anche belle figliole da stuprare e far figliare. Così i produttori, tutti insieme appassionatamente, elaborarono il nuovo piano che ha spostato i set nel deserto della Namibia, il paese più arido dell’Africa sub-sahariana, e questo ha comportato l’immane sforzo di per trasportare i veicoli post-apocalittici che erano già stati costruiti; ma poiché gli americani si erano dichiarati contrari – pensando forse di risolvere con dei modellini e la computer grafica – Mitchell caricò a loro insaputa una nave e solo dopo che essa aveva preso il largo informò i colleghi a stelle e strisce, e lo scenografo Richard Hobbs – che firma con Colin Gibson e Lisa Thompson – ricorda: “Sulla nave c’erano settantadue container pieni di roba, e questo non includeva i veicoli. Questi veicoli non stanno sul retro dei camion, non stanno nei container. Devi costruire box merci personalizzati per spostarli. E una volta che il trasporto ha avuto successo, la troupe ha iniziato ad arrivare nella città di Swakopmund, dove avrebbero risieduto durante le riprese.” E va detto che il design degli automezzi è davvero spettacolare e il concept più sorprendente mi è parso l’auto-istrice.

L’avventura delle riprese può cominciare, ricordando il resto del cast: nel ruolo del cattivissimo torna, invecchiato e mascherato, Hugh Keays-Byrne, che dopo aver fatto sé stesso, ovvero un motociclista delinquente in “Mad Max: interceptor” e altri film, chiude qui la sua carriera: morirà 73enne nel 2020.

Ma il terzo nome, in termini di star-system, è quello del britannico Nicholas Hoult, ex attore bambino che passando per gli X-Men e altri blockbusters è al momento lanciatissimo. Interessante il parterre femminile in cui ritroviamo nel ruolo secondario di una Valchiria la modell’attrice australiana Megan Gale divenuta nota da noi come testimonial di Omnitel-Vodafone e debuttando poi come sé stessa in due cine-panettoni di Neri Parenti; c’è poi il gruppo delle giovani mogli del cattivone che l’Imperatrice Furiosa rapisce e salva, e fra loro quella che ha fatto più carriera è la figlia d’arte Zoë Kravitz (figlia del cantante Lenny Kravitz e dall’attrice Lisa Bonet); le altre sono Rosie Huntington-Whiteley, Riley Keough, Abbey Lee e Courney Eaton.

Nicholas Hoult
La miniserie a fumetti in cinque volumi di Mark Sexton e Nico Lathouris, che funge da prequel del film.

Nel cast tecnico la costumista Norma Moriceau che fu geniale creatrice del mondo tribal-punk di Mad Max firmando i film 2 e 3, al momento della lavorazione era probabilmente malata, morirà l’anno dopo; viene sostituita dalla londinese Jenny Beavan già premio Oscar per “Camera con vista” di James Ivory (1987) e che lo vincerà di nuovo per questo film, e un terzo Oscar lo vincerà nel 2022 per “Crudelia” di Craig Gillespie, reboot con Emma Stone dei film con Glenn Close di fine-inizio millennio. Alla fotografia John Seale al suo debutto con Miller e già premio Oscar per “Il Paziente Inglese” di Anthony Minghella (1997) e al montaggio Margareth Sixel già collaboratrice di Miller per il maialino e i pinguini che stavolta vince l’Oscar. La colonna sonora, tranne i brani dalla “Messa da Requiem” di Giuseppe Verdi, è dell’olandese Junkie XL. Il film è stato un altro clamoroso successo entusiasmando pubblico e critica: in effetti la visionarietà di George Miller, benché non discostandosi dalla narrativa della saga, e questo è un rassicurante continuum, si serve in modo eccellente delle innovazioni tecnologiche e visive che dal 1985 al 2015 sono entrate nel cinema: e tutto un altro bel vedere.

Dunque, oltre agli Oscar per costumi e montaggio, il film ne ha ricevuti altri quattro tecnici: miglior scenografia, migliori trucco e acconciature, miglior sonoro e miglior montaggio sonoro; era anche candidato come miglior film, miglior regista, migliore fotografia e migliori effetti speciali. Fury Road è il primo film della serie a ottenere delle candidature agli Oscar e a vincerne sei su dieci, piazzandosi come più premiato in quell’edizione del 2016 e secondo film con più candidature dietro alle 12 “Revenant – Redivivo” di Alejandro González Iñárritu; ed è anche il film australiano con più statuette in assoluto togliendo il record a “Lezioni di piano” di Jane Campion del 1993 che ne deteneva tre. A questo punto le aspettative per i sequel e prequel e spin-off che Miller ha in mente si fanno sempre più alte: riuscirà a soddisfarle?

Tornando alla lavorazione del film, sul set non andò tutto liscio, e non fu solo per la sabbia che s’infilava dappertutto: i due protagonisti litigarono furiosamente dando voce alla Fury Road. La precisissima Charlize Theron – preparazione da ballerina classica con il senso del dovere e dell’abnegazione – si presentava sul set al minuto esatto della convocazione e vedeva come il fumo negli occhi, o la sabbia nelle mutande per restare in tema, Tom Hardy che invece arrivava quando voleva, addirittura con ore di ritardo: non è professionale e ha ragione lei. Che all’ennesimo ritardo ha perso le staffe gridandogli contro: “Bene! date a quel fottuto stronzo centomila dollari di multa per ogni minuto di ritardo che ha tenuto ferma la troupe! Tu non sai che cosa sia il rispetto!”, e lui le si fece sotto con aria minacciosa: “Che cosa mi hai detto?!”, talmente minaccioso che lei da quel giorno in poi volle accanto a lei la protezione e il sostegno femminile di una figura della produzione. Poi hanno fatto pace per la stampa.

Anche stavolta Miller ha privilegiato l’azione sui dialoghi tanto che Tom Hardy ha in seguito dichiarato la sua difficolta a stare sul set sia per l’isolamento che comportava che per la mancanza di battute del personaggio. E riguardo a questa sua saga George Miller ha dichiarato: “Non sono realmente collegati in modo rigoroso. Ognuno di essi è un nuovo capitolo di una saga su di un personaggio piuttosto archetipico: il vagabondo nella terra desolata, alla fondamentale ricerca di un significato. Si tratta di un personaggio che vediamo soprattutto nei classici western o nelle storie di samurai, con i ronin. Non si può concretamente mettere insieme una cronologia dei film di Mad Max. Non sono mai stati concepiti in questo modo, perché dopo aver realizzato il primo non avevo alcuna intenzione di girarne un secondo. Mad Max 2 è stato in definitiva un tentativo di fare le cose che non ho potuto fare nel primo e così via. Sono tutti film indipendenti in tanti modi diversi.” Per quel che riguarda le uscite è attualmente nelle sale “Furiosa: a Mad Max Saga” che racconta le origini dell’Imperatrice Furiosa con Anya Taylor-Joy nel ruolo da giovane che fu Charlize Theron. E non finisce qui. Anzi sì. Forse no. Chissà.

Mad Max oltre la sfera del tuono

Terzo e ultimo capitolo (relativamente ai successivi trent’anni) della saga fantasy futuristica e distopica di Mad Max con la quale George Miller ha inventato una cultura cinematografica che ha ispirato molti altri autori anche di fumetti e videogiochi. E molto è cambiato dalla prima avventura avventurosamente a basso costo: il secondo capitolo ha definito l’immaginario dell’autore che grazie a un più sostanzioso budget ha potuto giocare tutte le sue carte, che sono la visionarietà di un futuro apocalittico nel quale ha anche potuto schierare un ben più nutrito numero di automobiline modificate da distruggere, e soprattutto i costumi punk di Norma Moriceau che hanno davvero dato la visione di quel mondo, e che qui viene quindi riconfermata.

Norma Moriceau sul set con Mel Gibson

Anche le automobiline con cui giocare diventano ancora più fantasiose ma il plot narrativo è sempre quello: l’eroe solitario, qui non più in cerca di vendetta ma solo della sua propria egoistica sopravvivenza. Con una debolezza di scrittura che nei primi due capitoli era però punto di forza: scarsità dei dialoghi in una storia che racconta solo azione. Perché diciamola tutta: a George Miller interessa solo giocare con le macchinine e la sua capacità narrativa si ferma lì perché non è capace di scrivere dialoghi né tantomeno sviluppare storie più complesse.

Byron Kennedy

Ma in questo terzo capitolo molto cambia a partire dalla produzione: l’amico e sodale di Miller, Byron Kennedy è morto in un incidente col suo elicottero durante la preproduzione del film, e questa tragedia prostra seriamente l’autore tanto che a caldo aveva deciso di abbandonare il progetto. Ma poi, si sa, show must go on, la macchina produttiva era già in corso e molte maestranze erano già al lavoro, senza dire dei fan che attendevano ansiosi l’ulteriore sviluppo: “Ero riluttante ad andare avanti, ma poi c’è stata una sorta di necessità di fare qualcosa, anche solo per superare tutto il trauma e il dolore.” Ma non aveva la testa per concentrarsi sul lavoro e finì col chiedere all’amico attore-regista George Ogilvie col quale aveva lavorato nella miniserie tv “The Dismissal” del 1983, di co-dirigere il film: “Purtroppo non mi ricordo particolarmente quell’esperienza, perché lo facevo principalmente per portare a termine il progetto nonostante il lutto.”

Un altro importante cambiamento è stato quello di dare spazio all’immaginario hollywoodiano, così lontano dai silenzi e dagli spazi estremi dell’outback australiano, inzeppando questo suo terzo film di chiacchiere e di personaggi logorroici insieme a una vena di palese ironia che prima era solo accennata: il risultato è un film in cui si parla troppo, e anche a sproposito considerando che i dialoghi non sono mai stati il forte di Miller, che torna a scrivere col Terry Hayes del secondo capitolo. C’è anche la clamorosa novità di una coprotagonista americana, la cantante Tina Turner che a parte un paio di cameo in due film musicali, aveva interpretato un vero personaggio solo nell’altro musicale “Tommy” di Ken Russell; qui è al suo primo (di due) ruolo interamente recitato, però la cantante piazza due suoi brani nella colonna sonora del film che fu composta da Maurice Jarre, già Oscar per “Lawrence d’Arabia”, “Il Dottor Zivago” e in quel 1985 per “Passaggio in India”. Alla grande, quindi.

Tina Turner, alle sue spalle il Thunderdrome

Ma la narrazione del film è discontinua e sembra di assistere a due film diversi. Nella prima parte ritroviamo Max, cui nel frattempo è cresciuta una parrucca di lunga capelli, che inseguendo il malfattore che gli ruba le sue poche cose va a finire in una città violenta nel bel mezzo del deserto dove dovrà battersi nella bellissima invenzione, questa sì, del Thunderdrome, la sfera del tuono, all’interno della quale dovrà sconfiggere e uccidere, sollecitato dal pubblico che intona “due combattono, uno vive”, il gigante mascherato cattivo che porta sulle spalle un nano che è la sua mente pensante.

Qui la visionarietà di Miller è al suo punto più alto con un’invenzione e una lotta che ancora una volta ispireranno molta cinematografia. Nella seconda parte il film diventa un film per ragazzi: Max va a finire in una comunità di ragazzini in cui tanti hanno voluto riconoscere i ragazzi perduti di Peter Pan, ma forse l’ispirazione primaria è il bambino del precedente capitolo, il Feral Kid assai espressivo e accattivante che però non diceva una parola, e Miller col suo coautore moltiplicano all’infinito quel ragazzino inventando un nuovo mondo di ragazzini selvaggi anch’essi assai ciarlieri, fino allo sfinimento oserei dire; segue una movimentatissima, anch’essa magistralmente costruita, corsa in treno con duelli fra cattivi e meno cattivi in cui ritroviamo tutti i personaggi coinvolti a conclusione della narrazione che rimane disarticolata e confusa. Da allora in poi i fan stanno ancora discutendo su quale sia il miglior film dei tre e la maggior parte, cui io mi iscrivo, indica questo terzo come il meno riuscito: il primo era innovativo benché povero di mezzi, il secondo ha espresso al meglio tutta la potenzialità delle invenzioni della ditta Miller-Kennedy, questo terzo perde originalità e grinta nel suo voler piacere troppo ai bambinoni americani.

Del cast va ricordato che Mel Gibson, che nel frattempo era diventato una star, in quegli anni aveva preso parte ad alcuni bei film: “Gli anni spezzati – Gallipoli” (1981) e “Un anno vissuto pericolosamente” (1982) di Peter Weir; “Il Bounty” (1984) di Roger Donaldson, “Il fiume dell’ira” (1984) di Mark Rydell. Di Tina Turner ho già detto, aggiungendo che il suo prossimo e ultimo ruolo recitato sarà quello della sindaca di Los Angeles in “Last Action Hero” (1993) di John McTiernan con Arnold Schwarzenegger; pochi film a ribadire il fatto che la sua è stata una carriera principalmente musicale. Con “We don’t need another hero” nel film, è stata candidata ai Golden Globe.

Angelo Rossitto

Bruce Spence, che nel secondo capitolo interpretava il “brillante” Capitan Gyro che tenta di raggirare Max che invece lo sottomette, qui interpreta un altro ruolo “brillante” di supporto, il pilota d’aereo Jedediah che lo deruba. Il nano che dirige il corpo gigantesco è Angelo Rossitto, americano nato da immigrati siciliani da Carlentini, Siracusa, attivo al cinema sin dai tempi del muto grazie a John Barrymore che lo volle accanto a sé in “The Beloved Rogue”, 1927 e fu poi anche nel controverso “Freaks” di Tod Browning, e con l’avvento del sonoro Rossitto divenne anche doppiatore; qui, 77enne, è in uno dei suoi ruoli più importanti nonché suo terzultimo film. Altri interpreti nel parterre dei cattivi sono: Frank Thring, George Spartels, Robert Grubb e il rocker Angry Anderson. Fra i ragazzi perduti spiccano gli adolescenti Tom Jennings, Justine Clarke, Rod Zuanic.

Dopo questo terzo e al momento conclusivo film su Mad Max, George Miller andrà a dirigere finalmente a Hollywood la commedia fantasy “Le streghe di Eastwick” (1987) con un cast all star ma che esagerò nel cercare gli effetti in stile cartone animato. Passeranno esattamente trent’anni (e non per sua volontà) prima che torni sul suo Mad Max che rivivrà in “Mad Max: Fury Road” scrivendo un altro importante capitolo della sua saga.

Interceptor – Il guerriero della strada (Mad Max 2)

Alla fine della lavorazione il riscontro più immediato l’ha avuto lo sfasciacarrozze dato il gran numero di veicoli distrutti, col drammatico risvolto che anche diversi stuntmen sono finiti all’ospedale – tanto che George Miller fu definito “il Djaghilev dei derby di demolizione” qui ricordando che Sergej Djaghilev fu un impresario teatrale russo organizzatore di spettacoli di balletti vissuto a cavallo fra l’800 e il 900: dunque la colta definizione fa riferimento al mondo del balletto e alle sue coreografie, implicitamente definendo coreografici i vari inseguimenti fra veicoli con successivi incidenti spettacolari: e in effetti questo sono, e la capacità di Miller di creare quelle scene, coreografia più violenza più impatti distruttivi, è all’epoca un grande novità narrativa che influenzerà tanto cinema, come detto nel precedente capitolo, fino ad arrivare a un’altra saga spettacolare: “Fast & Furious” che in un paio di sequenze del film capostipite copia questo film. Inoltre Steven Spielberg (reduce dal successo di “E.T.”) fu talmente impressionato dalle scene di azione che offrì a Miller la regia di uno degli episodi del film ispirato alla serie fantasy tv “Ai confini della realtà” co-firmato dai due insieme a Joe Dante e John Landis, che sarà per Miller il primo lavoro hollywoodiano.

Ma prima: dopo il milionario successo del primo film creato con poche centinaia di migliaia di dollari ma soprattutto tanta creatività derivata da studio passione e conoscenza, Hollywood offrì a Miller la regia di quello che sarebbe diventato il capostipite di un’altra saga action: “Rambo”; ma l’autore, cui giustamente si ascriveva la rinascita del cinema australiano, volle proseguire per la sua strada che prevedeva un film sul rock & roll di cui poi non se ne fece più niente. A quel punto cominciò a pensare a un sequel di “Interceptor”, tanto più che avendo un budget decuplicato avrebbe potuto creare il mondo distopico che nel suo film di debutto era solo accennato. E poiché era un autore che, benché amando l’azione, era anche di buone letture, per scrivere questo sequel fu ispirato oltre che dalla sua cultura strettamente cinematografica – i western con i selvaggi che inseguono le carovane, il pistolero solitario e taciturno di Sergio Leone, la paranoia per la catastrofe atomica che Stanley Kubrick aveva raccontato in chiave grottesca con “Il Dottor Stranamore” (1964), la cinematografia di Akira Kurosawa che tanto cinema occidentale ha ispirato – c’era la letteratura vera e propria: “1984” di George Orwell che racconta il disfacimento delle regole sociali, e soprattutto i miti greci raccontati e comparati da Joseph Campbell in “L’eroe dai mille volti” che a sua volta rileggeva i miti greci nell’ottica psicanalitica degli archetipi secondo Gustav Jung: roba per palati fini.

A questo retroterra culturale si aggiungono gli ineguagliabili grandi spazi selvaggi australiani che sono gli scenari ideali per un film post-apocalittico. Facendo dei nomi specifici Miller ha dichiarato di ispirarsi a quelli che ha definito “registi del montaggio”: “Hitchcock, Carol Reed, Howard Hawks. Quelli che hanno montato i film nella loro testa prima ancora che il film venisse girato.” Sul suo lavoro ha poi detto: “Certamente non vorrei che questo film venisse visto solo come pura fantasia d’evasione. È anche tutto questo, certo, ma un film che ti stimola solo a livello emotivo di base non è molto efficace. Questo è un racconto mitologico in cui Max intraprende un viaggio durante il quale impara alcune cose su sé stesso. Puoi paragonarlo a un western – sono cresciuto con questi film e sono molto importanti per me – ma penso che questo tipo di storia venga raccontata più volte in molte culture. ‘Road Warrior’ è un ibrido: in parte Hollywood, in parte samurai, in parte film d’arte europeo.”

Sia come sia George Miller girò il suo sequel con molti più soldi, molte più macchinine da distruggere che ridisegnate in modo assai eccentrico saranno molto copiate per il mercato, un autotreno e addirittura un piccolo elicottero. Si arricchì anche la parte visiva decisamente punk con i costumi di Norma Moriceau che sdoganò nella cultura di massa i sottogeneri cyberpunk e dieselpunk, con il make-up in linea di Lesley Vanderwalt. Terry Hayes era entrato come co-sceneggiatore e co-produttore mentre Brian Hannant si aggiunse come co-sceneggiatore e regista della seconda unità; il socio iniziale di Miller, Byron Kennedy, era rimasto a capo del processo produttivo di questo film che inaugurerà il ritorno al passato, a un barbarico medioevo futuribile, e se rivedendolo oggi la sua carica innovativa non ci stupisce più è proprio perché è stato molto molto copiato.

La grande esplosione della raffineria fu la più grande esplosione cinematografica mai realizzata fino a quel momento in Australia.

Ancora una volta la trama è semplice e i dialoghi scarni: come nei western l’eroe solitario che tutto ha perduto si schiera dalla parte dei più deboli, non per altruismo ma per interesse personale: per lui non esiste il dualismo bene-male ma solo la sua personale sopravvivenza. E l’oggetto del contendere non sono le terre né l’oro del vecchio west ma il carburante di cui si nutrono le cattivissime automobili. Contrariamente al primo capitolo, che era già innovativo ma del tutto sviluppato per mancanza di fondi, questo sequel fu osannato dalla critica internazionale che lo definì uno dei migliori film di quell’anno, il 1981. E che film uscirono quell’anno? A cominciare da “1997: Fuga da New York” di John Carpenter direttamente ispirato da Mad Max ci furono “I Predatori dell’Arca Perduta” di Steven Spielberg, gli sportivi “Fuga per la Vittoria” di John Huston e “Momenti di Gloria” di Hugh Hudson, e i melodrammi “Il postino suona sempre due volte” di Bob Rafelson e “Ufficiale e Gentiluomo” di Taylor Hackford. E fra gli italiani, giusto per curiosità casalinga: “Ricomincio da tre” di Massimo Troisi, “Il Marchese del Grillo” di Mauro Monicelli e “Fracchia, la belva umana” di Neri Parenti.

Il cast. Mel Gibson torna come protagonista mostrando ora sulla tempia sinistra una ciocca grigio-bionda: un vezzo del make-up. E come detto parla pochissimo: dice solo 16 le battute, che poi sarebbero 15 se si considera che “Sono venuto solo per la benzina” la ripete due volte. A fargli da spalla comica molto più loquace – un espediente narrativo molto in linea con i buddy-buddy movies dove accanto al duro c’è sempre un clown – c’è il neozelandese Bruce Spence che tornerà con un diverso personaggio nel prossimo sequel. L’accampamento dei buoni è capitanato da Pappagallo, proprio in italiano, interpretato dall’inglese Michael Preston ex pugile poi cantante e poi attore tv; gli sono accanto come sexy guerriere Virginia Hey, già modella e attrice di pubblicità qui al suo debutto cinematografico se si escludono minuscole partecipazioni, e Arkie Whiteley.

Bruce Spence

C’è poi l’azzeccatissimo personaggino di Feral Kid, anch’egli silenzioso, il ragazzino selvaggio interpretato da Emil Minty che farà altri tre film e poi abbandonerà il cinema: oggi è un gioielliere. Solo a fine film scopriremo che l’anziana voce narrante che all’inizio introduce la narrazione è il suo personaggio da vecchio. Nel doppiaggio italiano è il veterano Mario Mìlita più popolare come voce del nonno Simpson.

Vernon Wells

Il capo dei cattivissimi è il sempre mascherato perché sfigurato Lord Humungus, interpretato dal culturista svedese Kjell Nilsson che reciterà solo in altri due film. L’altro bisteccone cattivissimo con cresta è l’attore Vernon Wells che rifarà la parodia dello stesso personaggio nella commedia americana per adolescenti “La donna esplosiva” di John Hughes, e che oltre a essere un interprete cine-televisivo è anche un doppiatore.

Insieme a Max torna anche il suo cane che non è lo stesso cane del primo film: è stato scelto in un canile della zona e addestrato appositamente per il film, e siccome era un trovatello senza nome la troupe lo chiamò semplicemente Dog; il quale però aveva un problema: non sopportava i rombi dei motori, gli facevano troppa paura, e per manifestare il suo disagio per un paio di volte liberò lo sfintere nell’Interceptor di Max: e ben fece perché così gli procurarono dei tappi per le orecchie fatti su misura. Spoiler: nel film Dog viene ammazzato dai punkabbestia ma una volta finite le riprese venne adottato da uno della troupe tecnica. Altra curiosità: l’outback australiano rendeva alla perfezione la desolazione postatomica, unitamente al fatto che è una zona in cui piove pochissimo durante l’anno: senonché durante le riprese, dopo quattro anni senza una goccia di pioggia, venne giù un acquazzone che bloccò i lavori per più di una settimana.

Questo secondo capitolo di Mad Max si aggiudicò numerose candidature e fra i premi ottenne la miglior regia all’AFI Award, Australian Film Institute Award che dopo il 2012 è diventato AACTA Award, Australian Academy of Cinema and Television Arts Award. Miglior film straniero (o internazionale) al Los Angeles Film Critics Association Award, al Festival del Film Fantastico di Avoriaz e al Saturn Award, premio specialistico per il fantasy e l’horror. Prossimo appuntamento “Mad Max oltre la sfera del tuono” che ha rischiato di non essere realizzato a causa di un drammatico incidente.