Archivio mensile:agosto 2023

Mahler – la Perdizione

Curiosa ispirazione per questo film decisamente minore di quel geniaccio che fu Ken Russell, ma ne parlerò alla fine. Più che altro proseguo il discorso sui film biografici introdotto con “Anton Čechov” e proseguito con “Whitney – una voce diventata leggenda” – benché mi fossi già occupato di altre biografie cinematografiche in “Biografie e Storie Vere”. Ken Russell, nel prendersi carico di scrivere e dirigere un film su Gustav Mahler, sapeva esattamente come e dove mettere le mani, benché a modo suo. A inizio carriera, dopo aver fatto di tutto ma soprattutto fu pilota della RAF e poi coreografo per finire col fare il fotografo, attività che lo introdusse al cinema. Avendo cominciato a girare dei cortometraggi coi quali si fece conoscere nell’ambiente, trentenne entrò alla BBC per la quale girò alcune biografie – Richard Strauss, Isadora Duncan, Claude Debussy fra gli altri – dal taglio assai originale in contrasto con le produzioni standard dell’epoca e dell’emittente incentrate sulle facili spettacolarizzazioni. Debutta dieci anni dopo come regista cinematografico ma è col suo terzo film che raggiunge la fama internazionale: “Donne in amore” che gli valse la candidatura per l’Oscar, cui segue “L’altra faccia dell’amore” biografica russelliana di Pëtr Il’ič Čajkovskij, cui segue – sempre restando nel tema delle biografie – “Messia selvaggio” sul pittore e scultore francese Henri Gaudier-Brzeska, e poi si arriva nel 1974 a questo “Mahler” che da noi è stato reintitolato-sottotitolato “La Perdizione” certo per solleticare interessi pruriginosi. Per concludere con le biografie filmate da Russell, seguiranno: “Lisztomania” su Franz Liszt, “Valentino” su Rodolfo Valentino e “Gothic” sulla serata a Villa Diodati presso Ginevra dove quattro ragazzi a inizio ‘800 si inventarono storie fantastiche e grottesche: Lord Byron, Percy Shelley, Mary Shelley e John Polidori.

“Mahler” com’è nello stile dell’autore è un film fortemente surreale che ricorre alle allegorie dell’onirico: come filo conduttore racconta l’ultimo segmento della vita del musicista che nel 1911 si sposta con la moglie Alma in treno da Parigi a Vienna, e il compositore oscilla fra ricordi del passato e sogni e incubi, il tutto alternato a dialoghi molto letterari che parlano di musica e di passioni che diventano ossessioni, ma soprattutto di vita e di morte. Ken Russell è nel pieno del suo stile visionario e anti naturalistico, oltre che anti convenzionale, e se da un lato centra sequenze magistrali come la descrizione della morte della figlia, dall’altro indulge in una messa in scena troppo grottesca della famiglia del Mahler ragazzo, e in troppo lunga sequenza onirica in stile cinema muto però a colori in cui l’ebreo Mahler incontra la cattolica e nota antisemita Cosima Wagner, (figlia naturale di Liszt e moglie di Richard Wagner) raccontata da Russell come una grottesca maîtresse nazista quando all’epoca, il 1911, i nazisti non esistevano ancora: una visionarietà d’autore che rischia di diventare disinformazione. L’intero film appare a tratti pasticciato ma si fa seguire con molta piacevolezza perché non è mai banale né biograficamente pedissequo e chiede allo spettatore lo sforzo di una personale immaginazione per mettere insieme i pezzi, che sono tanti.

Nel ruolo del protagonista il trentenne Robert Powell che tutti ricordiamo come Cristo nel “Gesù di Nazareth” diretto da Franco Zeffirelli per la televisione tre anni dopo questo film, che all’epoca era ancora una piccola star della tv britannica cui non riusciva di sfondare al cinema, e questa è la sua prima buona occasione anche se mi sembra fuori ruolo: decisamente più giovane del vero Mahler – che era di venti anni più anziano della moglie e nel film sembrano coetanei – non sembra neanche centratissimo nel ruolo e a mio avviso rimane un attore che nel suo momento di maggior fulgore, gli anni ’70, fu sopravvalutato. Gli fa da spalla come moglie, frustrata perché anche lei compositrice, Georgina Hale che per la sua assai vibrante interpretazione vinse il BAFTA, British Academy Film Award, come migliore attrice emergente, mentre il film si aggiudicò al Festival di Cannes il Gran Prix Tecnico.

L’adolescente Gary Rich è Mahler da ragazzo e il giovane attore avrà una breve carriera in quei pochi anni ’70. La famiglia del giovane Mahler è composta da Lee Montague e Rosalie Crutchley come genitori mentre Peter Eyre e Angela Down sono fratello e sorella, Miriam Karlin e Benny Lee sono gli zii: una famiglia di ebrei raccontata in modo così grottesco, anzi burlesco, da farlo sembrare il film di un altro regista e farlo sfiorare da critiche di antisemitismo. Il belloccio Richard Morant è Max, un non ben specificato spasimante di Alma Mahler, laddove le biografie indicano che all’epoca la signora era in trattative amorose con l’architetto Walter Gropius che finì con lo sposare dopo che rimasta vedova era passata attraverso diverse relazioni fra le quali quella con il pittore Oskar Kokoschka. La cantant’attrice Dana Gillespie interpreta la soprano Anna von Mildenburg, Antonia Ellis dà fisicità e maschera a Cosima Wagner e Ronald Pickup (che nel 1982 sarà Giuseppe Verdi nello sceneggiato Rai “Verdi”) è il vagabondo dell’infanzia del musicista che all’organetto suona “Frère Jacques” (Fra’ Martino campanaro) che Gustav Mahler introdurrà nel 3° movimento della sua Sinfonia n° 1. La giamaicana Elaine Delmar interpreta l’esotica principessa che sul treno cede il suo più confortevole scompartimento al nevrotico Mahler mentre l’attore feticcio dell’autore Oliver Reed compare brevemente e amichevolmente come capotreno.

Ken Russell avrebbe voluto girare il film in Austria e nei luoghi originali della narrazione grazie a una coproduzione con la Germania che però si ritirò all’ultimo momento e sul piatto restarono solo le 160 mila sterline messe a disposizione dal conterraneo produttore Roy Baird, e solo con quella cifra da film a basso costo l’autore, girando praticamente dietro casa, realizzò comunque un’opera che non mostra i segni della povertà, anzi, finendo addirittura col vincere il premio tecnico a Cannes: quando i soldi non sono tutto se c’è vero talento.

Ma l’ispirazione? Russell, che amava Mahler, si indignò quando vide “Morte a Venezia” di Luchino Visconti: film che, benché non dichiarato, finì con l’essere recepito come film su Mahler. “Penso che ‘Morte a Venezia’ sia spazzatura. La gente pensa che si tratti di Mahler, tutto perché la sua musica fa parte della colonna sonora! Il regista, Visconti, non ha mai detto che si trattava di lui, però.” Fu allora che decise di fare il suo film sul musicista inserendo all’inizio una scena che fa la parodia al film di Visconti. Sul piano dei contenuti Russell non ha tutti i torti, l’altro film non è propriamente biografico anche se l’ispirazione di Visconti contiene molti dotti rimandi, e onestamente non disse mai che il suo Gustav von Aschenbach fosse Gustav Mahler; ma la cosa che oltremodo aveva indignato l’autore inglese è che l’italiano spinse il pedale del suo racconto in chiave omosessuale facendone qualcosa di più personale. Di fatto, ognuno a suo modo, essendo due grandi autori, entrambi hanno fatto film molto personali, ma è un’esagerazione che il sanguigno Russell si spinga a definire spazzatura un capolavoro dalle eleganti atmosfere rarefatte – che sono lontanissime dal suo grottesco barocco a volte anche un po’ da sboccato da baraccone. Dunque adesso tocca andare a rivedere “Morte a Venezia”.

La scena di “Morte a Venezia” di cui Ken Russell fa la parodia trasferendola nella stazione ferroviaria dove transita il treno su cui viaggia Gustav Mahler.

Whitney – Una voce diventata leggenda

Il problema dei film biografici è che anche mostrando debolezze e intime miserie del personaggio noto, inevitabilmente sono sempre agiografici e celebrativi, e questo dedicato a Whitney Houston non sfugge al cliché, perché l’intento, dichiaratissimo, è proprio quello: è sicuramente un bel film ma non un grande film. Perché un film biografico diventi cinema di qualità superiore c’è bisogno che dietro ci sia non un semplice regista ma un autore che dia al film la sua impronta precisa e personale – e che altrettanto inevitabilmente allontanerà il film dal prodotto medio standard: o film per pochi, come “Anton Čechov” appena visto, o film personalissimo che inevitabilmente tradisce la biografia.

È un dato di fatto che la scrittura filmica tradisce sempre l’ispirazione originale, trattasi di biografia o fatto reale, romanzo o pièce teatrale, perché il linguaggio cinematografico ha altre esigenze narrative rispetto all’originale cui si ispira; e quando questo avviene perché dietro c’è un Autore, appunto uno o una con la A maiuscola che confeziona un film che verrà ricordato nei decenni a venire, siamo tutti soddisfatti; ma se il prodotto è un medio prodotto di stagione allora siamo più propensi a dare voce ai dubbi e cominciamo a chiedere il perché di certi tradimenti: l’Autore non tradisce – travisa, ricrea, e dà una lettura personale dei fatti. Qualche esempio? senza andare troppo lontano nel tempo fino a “Lawrence d’Arabia” di David Lean del 1962, c’è “Toro Scatenato” di Martin Scorsese del 1980, o “Malcom X” di Spike Lee del 1992, o “Frida” di Julie Taymor del 2002, e l’elenco è assai ricco.

Namie Ackie e Whitney Houston

Il film racconta Whitney dall’adolescenza alla morte con l’intensa interpretazione della britannica Naomi Ackie (ma Whitney rimane più affascinante) che canta con la sua voce nelle sessioni private ma è doppiata dall’originale The Voice, così com’era stata soprannominata la Houston, in tutte quelle performance pubbliche di cui esistono registrazioni. Quello che il film rivela a noi pubblico medio è che la cantante ebbe a inizio carriera un’importante relazione omosessuale con Robyn Crawford (Nafessa Williams) che anche come amica le resterà accanto tutta la vita; poi c’è l’agitato matrimonio col rapper Bobby Brown (Ashton Sanders), il confortante rapporto col sempre accogliente e generoso produttore Clive Davis (Stanley Tucci) e per finire, ma anche per cominciare perché alla radice del suo successo, il conflittuale rapporto coi genitori.

Dionne e Dee Dee Warwick

Figlioccia di Aretha Franklyn e cugina delle sorelle Dionne Warwick e Dee Dee Warwick, Whitney era figlia di John Russell Houston (Clarke Peters) che di mestiere faceva il manager della moglie (e nel mio piccolo immaginario personale quando c’è un uomo che fa da manager alla sua donna mi viene sempre da pensare a un pappone) che è la cantante soul e gospel Cissy Houston (Tamara Tunie) la quale aveva avviato la figlia nel coro della chiesa, dove la talentuosa bambina si conquistò il ruolo di solista a 11 anni; inoltre la ragazza accompagnava la madre nelle serate nei locali dove occasionalmente saliva sul palco a farle da spalla o corista. Sin da subito fu evidente alla madre il suo talento, la sua grande estensione vocale, per mettere in risalto la quale Whitney preferiva allungare le note e rallentare i ritmi di canzoni già famose rifacendole totalmente sue. Qui a seguire “I will always love you” che nel 1974 era stata incisa dalla folk-singer Dolly Parton e che poi Whitney, reinterpretandola, portò al successo planetario: è diventato il singolo più venduto nella storia da una cantante, e afroamericana, nonché uno dei più venduti di sempre con oltre 22 milioni di copie nel mondo; il film diretto da Mick Jackson era come tutti sappiamo “Guardia del corpo” accanto alla star Kevin Costner reduce dal suo clamoroso successo come regista esordiente “Io ballo coi lupi”. Quando si definì la produzione del film fu proprio Costner a suggerire il nome di Whitney Houston e fu ancora lui a spingerla a cercare brani più consoni rispetto a quelli che prevedeva la sceneggiatura. Costner ha concesso l’uso della sua immagine di repertorio nel film odierno, insieme a Oprah Winfrey che ha ospitato la cantante nel suo show.

Poi ci furono la droga e gli psicofarmaci e un lento declino ma quello che il film non racconta è quanto il fratellastro Gary Garland, figlio del primo matrimonio della madre, rivelò in un’autobiografia: che lui e Whitney da bambini, 7 e 9 anni, vennero abusati dalla più anziana cugina Dee Dee Warwick, fatto che è stato raccontato nel docu-film “Whitney Houston – Stella senza cielo” di Kevin McDonald presentato al Festival di Cannes nel 2018; e poiché l’interessata, scomparsa dieci anni prima non poteva replicare, sua sorella Dionne in un comunicato congiunto con la zia Cissy negarono che ciò potesse essere avvenuto, pur ammettendo i lati oscuri della personalità di Dee Dee. Sia come sia si torna al concetto di biografia: per varie scelte – di opportunità, di tempi narrativi, stilistiche – non tutto può essere contenuto in un film e quello che non ci viene mostrato finisce col non esistere, come tutto quello che non entra nell’inquadratura di una fotografia. Punto. Prima di questo un altro film televisivo del 2015 “Withney” era stato diretta dall’attrice Angela Bassett alla sua prima regia. Angela e Whitney avevano lavorato insieme nel 1995 in “Donne – Waiting to Exhale” opera prima cinematografica dell’attore Forest Whitaker.

Scritto dal quotato neozelandese Anthony McCarten che entra anche fra i produttori, la regia era stata in un primo tempo affidata alla canadese nera Stella Meghie salita alla ribalta col suo precedente successo “The Photograph – Gli scatti di mia madre”, film ambientato nella comunità nera di New York; ma distratta da un altro progetto – una serie tv per Disney+ – lascia la regia restando nella produzione (che fra produttori semplici e produttori esecutivi conta ben più di 30 nomi: un’esagerazione) e la direzione del film viene affidata a un’altra nera che è anche attrice, Kasi Lemmons, qui anche lei produttrice, e anche lei specializzata nei film all black e che ha all’attivo altre due biografie: quella di un ex detenuto che diventa attivista e seguitissimo speaker radiofonico in “Parla con me” e “Harriet” sull’abolizionista della schiavitù Harriet Tubman attiva nella seconda metà dell’Ottocento. A seguire si formò il cast e venne scelta Naomi Ackie assurta alla notorietà per aver vinto il British Indipendent Film Award per la sua interpretazione in “Lady Macbeth” di William Oldroyd. Anche l’attrice s’è acquistata un biglietto per sedere nel numeroso consiglio dei produttori probabilmente rinunciando a una parte della paga come accade agli interpreti emergenti alla loro prima co-produzione. E anche Clive Davis, il produttore musicale della cantante è nella lista dei produttori.

Nel 2012 Whitney è morta 48enne annegata nella sua vasca da bagno e la causa della morte non è chiarissima. Secondo le indagini mediche morì per un collasso cardiaco assai probabilmente causato dall’abuso di droga farmaci e alcol, sostanze che nello specifico non hanno causato la morte che venne archiviata come accidentale. Anni dopo si fece strada un’altra ipotesi secondo la quale era morta per annegamento in seguito a un attacco cardiaco causato sempre dai farmaci. in ogni caso non si trattò di suicidio né omicidio. Un’ultima speculazione fece riaprire il caso sulla causa della morte allorché un investigatore privato, probabilmente in cerca di visibilità, rese pubblica la sua teoria, soltanto sua, secondo cui la cantante sarebbe stata assassinata per debiti di droga. Resta la sua grandezza: fu la prima cantante afroamericana a conquistare mercati musicali fino ad allora preclusi ai neri; ha piazzato 7 singoli consecutivi nella top 100 statunitense scalzando il record dei Bee Gees; tra gli altri record detiene anche il primo posto nella classifica degli artisti afroamericani di maggior successo di sempre, insieme a Michael Jackson, e nel 2006 il Guinness dei Primati l’ha dichiarata “l’artista più premiata e famosa di tutti i tempi”. Dunque figura fortemente emblematica per la cultura nera americana in generale, e in quello musicale nello specifico, da cui i due film biografici e i due documentari. Poi la sua morte improvvisa ha creato il resto del mito. La cosa ancora più triste è che il frutto non cade mai lontano dall’albero: tre anni dopo sua figlia Bobbi Kristina Brown a 22 anni fu ritrovata priva di sensi nella vasca da bagno anche lei svenuta per un mix letale di sostanze e tenuta in coma farmacologico per sei mesi prima di spegnersi. E anche su di lei film e documentari.

Anton Čechov – in Biografie e Storie Vere

René Féret

Con ampio ritardo è arrivato quest’anno nei cinema italiani, e passato subito in televisione su Sky Arte, l’ultimo film del francese René Féret morto di cancro subito dopo aver completato il film, nel 2015. Il pubblico l’ha ignorato e la critica non l’ha amato e seppure il film non è perfetto resta sempre un gran film con diversi pregi, non ultimo quello di raccontare una grande figura delle letteratura russa che oggi sembra interessare poco ai lettori mordi e fuggi, e ancora meno a chi non frequenta i teatri, e meno ancora a chi ama i film facili e veicolati da imponenti campagne commerciali. A una prima impressione sembra un piccolo film televisivo perché non indugia nella retorica del biografico che si fa agiografico, e anzi racconta il personaggio attraverso le sue piccole cose, la sua famiglia, la quotidianità, la sua freddezza di fronte all’amore, l’imperfezione tutta umana di un medico di campagna che aveva cominciato a scrivere racconti solo per guadagnare degli extra per sostenere la famiglia, e si ritrova col suo indiscutibile talento al centro di attenzioni che forse neanche desiderava ma con i cui guadagni vive finalmente in serenità, una serenità materiale perché quella emozionale e sentimentale non è un lusso che si concede. “Il mio cuore è freddo” dice ad un certo punto Anton, e poi agli attori che stanno mettendo in scena “Il gabbiano”: “I miei personaggi vivono nella noia con la coscienza dei loro insuccessi: portate il pubblico a questa noia senza preoccuparvi dell’estetica.” Bene, è quello che l’autore Féret fa col suo personaggio Cechov: senza preoccuparsi dell’estetica imperante che vorrebbe personaggi e situazioni più accattivanti, ne racconta la stanchezza del vivere così come lo scrittore russo racconta i suoi personaggi: è un gioco di specchi, riuscitissimo.

Lolita Chammah e Nicolas Giraud

Inoltre prima di esprimere giudizi estetici (chiunque di noi, anche il critico più colto e acclamato non esprime altro che giudizi personali) per onestà intellettuale bisognerebbe sapere qualcosa di più su colui che stiamo giudicando: René Féret non è un autore universalmente noto e non è stato un autore normalmente distribuito in Italia. Ecco la sua scheda: intorno ai vent’anni aveva già intrapreso la carriera di attore, ma alla morte del padre cadde in una profonda depressione che lo portò anche a tentare il suicidio, e fu internato per diverse settimane in un ospedale psichiatrico, lasciando il quale realizzò qualche anno dopo il suo primo film “Histoire de Paul” sulla sua esperienza, film elogiato dal filosofo Michel Foucault e vincitore del Prix Jean-Vigo il cui contributo economico gli è servito per fondare una sua casa di produzione con la quale finanzierà altri autori di film importanti sul piano culturale e artistico, ma mai per compiacere il grande pubblico. Come autore realizzò una serie di film ispirati alla sua famiglia e poi si specializzò nelle biografie, con attenzione a personaggi minori e controversi, fino ad approdare a questo suo Anton Cechov conclusivo col quale forser torna al suo giovanile disagio di vivere.

Nicolas Giraud e Marie Féret

Appurato che il film non è spettacolare né accattivante, è sicuramente avvincente anche per l’interpretazione del protagonista assoluto Nicolas Giraud e insieme protagonista fra tanti, così come Cechov diceva dei suoi personaggi: non c’è un protagonista perché tutti sono protagonisti, ognuno nella sua singola vicenda. Due figli d’arte nel cast: Lolita Chammah, figlia del regista Ronald Chammah e di Isabelle Huppert, interpreta la protettiva sorella Macha o Mascia; e Brontis Jodorowsky, che è figlio del discusso genialoide Alejandro Jodorowsky, è uno di quei fratelli maggiori devoti alla vodka; Marie Féret, figlia dell’autore, interpreta un’istitutrice in quella lontana Siberia, nell’isola di Sakhalin, dove il medico-scrittore era andato a vivere per fare un reportage sulle condizioni degli esuli-carcerati. Robinson Stévenin è il fratello che prima di Anton muore di tubercolosi; Jenna Thiam è l’inquieta amante; e Frédéric Pierrot tratteggia brevemente un Lev Tolstoj dedito ai piaceri della vita: tutti personaggi umanissimi perché Féret non innalza piedistalli. Sarebbe interessante se Sky Arte mettesse in calendario un precedente film di Féret che racconta la sorella di Mozart.

Anton Cechov

Gioventù bruciata – e per la prima volta sullo schermo Dennis Hopper

Appena due anni prima, nel 1953, Michelangelo Antonioni aveva composto il suo film a episodi “I vinti” ispirandosi a fatti di cronaca, un film rigorosamente specchio della realtà nell’intenzione dell’autore, ma poco apprezzato da pubblico e critica che solitamente amano essere solleticati con prodotti più accattivanti; là Antonioni parlava di “generazione bruciata” ed era un concetto che girava nell’aria se due anni dopo, appunto, i distributori italiani intitolarono “Gioventù bruciata” il film che nell’originale è “Rebel Without a Cause” il cui titolo rimanda al libro che lo psichiatra Robert Lidner aveva pubblicato nel ’44, “Ribelle senza causa: analisi di uno psicopatico criminale” in cui studiava lo psicopatico come qualcuno “incapace di compiere sforzi per il bene altrui”, non empatico diremmo oggi, riferendosi al caso reale di un ragazzo di nome Harold allora detenuto in Pennsylvania. La Warner Bros. aveva subito acquisito i diritti per svilupparne un film che nel corso degli anni e delle riscritture aveva alla fine una narrazione che più nulla conservava del libro se non il titolo, e il progetto finì momentaneamente in un cassetto. Ma l’argomento “giovani ribelli” era nell’aria e furono messi in cantiere vari progetti fra cui spiccarono in quella prima metà degli anni ’50 “Il selvaggio” con Marlon Brando diretto dall’ungherese László Benedek e “Il seme della violenza” con Glenn Ford diretto da Richard Brooks. Così Nicholas Ray, attento agli umori del botteghino, rispolverò il suo soggetto la cui sceneggiatura conclusiva la firmò Stewart Stern qui alla sua prima prova importante: era amico di James Dean e in qualche modo veicolò la sua scrittura attorno alla figura del giovane attore emergente, chiamando James-Jimmy il suo personaggio. Stern due anni dopo l’improvvisa morte di Dean scrisse il documentario “La storia di James Dean” diretto da un giovane Robert Altman già sceneggiatore per la tv ma non ancora regista cinematografico.

Primo giorno di lettura della sceneggiatura. In senso orario da sinistra in basso: di spalle dietro al paralume Nicholas Ray e Stewart Stern, poi James Dean con gli occhiali (era fortemente miope), accanto lui un uomo non identificato, poi l’attore Jim Backus e Natalie Wood. Saltando un uomo e una donna, con la camicia a quadri Sal Mineo.

Il film di Ray si distingue dagli altri perché per la prima volta esamina il contesto dei giovani ribelli non più come espressione delle classi disagiate ma anche all’interno dell’alta borghesia, un contesto in cui gli adulti erano colpevoli quanto e forse più dei ragazzi. Con la scrittura di Stern si definirono le influenze chiavi del film: Ray auspicava un tono classico e senza tempo per la sua storia, guardando a “Romeo e Giulietta”“la migliore commedia scritta su giovani delinquenti” aveva detto, mentre lo sceneggiatore dal canto suo considerava il film una rilettura di Peter Pan; di fatto entrambi hanno attinto alle proprie vite, e Stern in particolare prese ispirazione dal rapporto conflittuale con i suoi genitori: “Ray aveva terribili rimorsi di coscienza su sé stesso come padre, e io ero terribilmente furioso con me stesso come figlio” ha ricordato lo sceneggiatore. Il resto del cast: Edward Platt è il poliziotto assai comprensivo, Jim Backus, Ann Doran e la veterana Virginia Bissac sono i genitori e la nonna del protagonista; William Hopper e Rochelle Hudson sono i genitori della ragazza; Marietta Candy è la mamie, e Corey Allen è il capo dei “bravacci” che sfida il protagonista nella corsa mortale; nel gruppo debutta Dennis Hopper.

Mentre il film era in scrittura, nel 1947 venne convocato negli studios il 23enne Marlon Brando, già giovane ribelle emergente nelle produzioni teatrali, a cui furono date alcune pagine di una sceneggiatura incompleta per sostenere un provino col regista, al quale bastarono solo cinque minuti per decidere che il ruolo sarebbe andato a lui, facendolo debuttare sul grande schermo; senonché, non essendoci ancora una vera sceneggiatura completa da valutare, il giovanotto che aveva già le idee molto chiare preferì continuare a fare teatro e quell’anno trionfò in “Un tram che si chiama Desiderio” di Tennessee Williams, dramma che avrebbe poi recitato al cinema nel suo secondo film del 1951: aveva debuttato l’anno prima con “Il mio corpo ti appartiene” di Fred Zinneman. Per gli appassionati di Brando quel provino è inserito in un’edizione speciale del DVD del 2006 di “A Streetcar Named Desire”. Quando nel 1950 fu conclusa la sceneggiatura definitiva Marlon Brando era ormai irraggiungibile, oltre a essere fuori parte per ragioni anagrafiche dato che aveva 31 anni e il personaggio ne aveva 16, e produzione e regista appuntarono la loro attenzione sul 24enne James Dean già star con “La valle dell’Eden” di Elia Kazan.

Natalie Wood già attrice bambina

La vera 17enne Natalie Wood (all’anagrafe Natal’ja Nikolaevna Zacharenko, figlia di immigrati ucraini) era all’epoca un’ex attrice bambina che con questo film rilanciò la sua carriera come adulta, benché avesse seriamente rischiato di non ottenere la parte perché secondo il regista aveva l’aria da brava ragazza per niente ribelle e, come ella stessa raccontò nella sua autobiografia, solo quando finì in ospedale per un incidente d’auto dopo una serata con gli amici e Nicholas Ray andò a trovarla – e c’è molto di romanzato a mio avviso in questo racconto: il dottore l’aveva apostrofata “dannata delinquente giovanile” e lei urlò subito al regista: “Hai sentito come mi ha chiamato, Nick?! Mi ha chiamato un dannata delinquente giovanile! Ora me la dai la parte?!”

Il 16enne Sal Mineo, figlio di immigrati siciliani (il padre Salvatore senior era un costruttore di bare) aveva debuttato lo stesso anno in “La rapina del secolo” interpretando Tony Curtis da ragazzo; anche sua sorella Sarina e i fratelli Michael e Victor erano stati avviati al palcoscenico dalla madre che evidentemente covava sogni artistici, e il ragazzino si era fatto notare nelle messa in scena del 1951 di “La rosa tatuata” di Tennessee Williams, dramma che l’autore aveva scritto per la nostra Anna Magnani che però declinò l’offerta perché non riteneva il suoi inglese abbastanza buono da potersi esibire in teatro, e avrebbe recitato il personaggio nel film di quattro anni dopo diretto da Daniel Mann; Sal continuò in teatro come principino nel musical “Il Re ed Io”, libretto di Oscar Hammerstein II e musiche di Richard Rodgers, con Yul Brinner nel ruolo del protagonista che avrebbe ripreso nel film diretto da Walter Lang nel 1956.

Nella prima inquadratura vediamo che Plato, il personaggio di Sal Mineo, portava i calzini scompagnati: nel sinistro senza scarpa ha un calzino rosso…
…nell’inquadratura successiva il piede sinistro col calzino rosso ha la scarpa ed è il destro col calzino blu ad essere scalzo.

Il film, venduto come un torbido dramma generazionale, riscosse grande successo in patria e all’estero, ma in realtà è un gran pasticcio pieno di superficialità e retorica che sfiorano il ridicolo, nonché di madornali errori. Comincia presentando i tre giovani ribelli che si incontrano a un posto di polizia: James Dean, fermato per ubriachezza molesta, rivela un tormentato rapporto con la famiglia ultra borghese, ma poi a casa si attacca un paio di volte alla bottiglia del latte, espediente narrativo per far capire al pubblico che in fondo è un bravo ragazzo; Natalie Wood, fermata perché coinvolta in una rissa dei suoi amici definiti dal doppiaggio italiano “bravacci” con memoria leopardiana, perché i bulli e il bullismo sono di là da venire; anche la ragazza è in piena crisi generazionale: essendo divenuta adolescente non è più la cocca di papà del quale cerca ancora imbarazzanti baci e abbracci, e il pover’uomo fatica a staccarsela di dosso per non sembrare un maniaco; Sal Mineo è stato abbandonato da entrambi i genitori alle cure della mamie negra e poverino fa il ribelle sparando agli animaletti. Psicologia da strapazzo e caratteri sbozzati con l’accetta, e la critica non fu tutta benevola: il film, altrove lodatissimo, fu tacciato di superficialità e rozzezza espressiva, i personaggi e le situazioni quasi da cartone animato, mentre di James Dean si arrivò a dire che aveva copiato lo stile recitativo di Marlon Brando con una malignità che pescava nei retroscena della vita segreta dei due…

Mineo ha un ruolo fortemente ambiguo: il suo personaggio si lega a quello del protagonista, spinto a parole da una forte ammirazione prossima all’idolatria, ma nei fatti sembra spinto da una forte attrazione omoerotica e Nicholas Ray preme il pedale in questo senso e in molte inquadrature, come del resto in tutta la sceneggiatura, il ragazzino è sempre lì a fare da terzo incomodo fra James Dean e Natalie Wood, quasi un ménage à trois.

In un’intervista del 1972, quattro anni prima della sua tragica morte, l’attore – che aveva già dichiarato la sua bisessualità (come compromesso per non dichiararsi pienamente omo) in un’epoca ancora fortemente omofoba – spiega che quel suo personaggio “è stato, in un certo senso, il primo adolescente gay nei film. Lo guardi ora, sai che aveva una cotta per James Dean. Lo guardi ora, e tutti sanno della bisessualità di Jimmy, quindi è come se lui avesse avuto una cotta per Natalie e me. Ergo, io dovevo essere fatto fuori”. Fu tristemente profeta: aveva 37 anni e stava interpretando in teatro il ruolo di un ladro omosessuale in “P.S. Your Cat Is Dead!” spettacolo che da San Francisco si stava spostando a Los Angeles: fu accoltellato al cuore mentre rientrava a casa dalla prova generale; l’immediata supposizione fu quella di un reato omofobo ma venne arrestato un fattorino di pizze a domicilio colpevole di diversi rapine nella zona il quale dichiarò di non sapere chi fosse la vittima; ma Mineo non era stato derubato quindi di suppose ancora che il delitto fosse maturato nell’ambiente della droga di cui l’attore era consumatore abituale; in ogni caso il movente restò insoluto.

Il film fu censurato nel Regno Unito e addirittura bandito in Nuova Zelanda, e Spagna dove poi uscì nel 1964. Ricevette tre nomination agli Oscar del 1956: miglior soggetto a Nicholas Ray e migliori non protagonisti Sal Mineo e Natalie Wood che però si aggiudicò il Golden Globe, mentre quell’anno James Dean ebbe una candidatura postuma – la prima nella storia degli Oscar – nella sezione protagonisti per il precedente dello stesso anno “La valle dell’Eden”. Nomination ai britannici BAFTA per il miglior film e il protagonista. Con tutte le sue imperfezioni il film è stato inserito fra i 100 migliori americani ed è diventato un cult grazie anche alla sua fama di film maledetto per la tragica fine dei suoi tre protagonisti: di Mineo ho detto; e come si sa Dean era morto in un incidente sulla sua Porsche 550 Spyder “Little Bastard” mentre finiva di girare il suo ultimo film “Il gigante” che uscì postumo, e anche quando uscì “Gioventù bruciata” nell’ottobre del ’55, Jimmy era già morto da un mese.

Natalie Wood morì 43enne in un incidente nautico che tutt’oggi rimane misterioso: all’epoca l’autopsia rivelò che l’attrice era morta annegata cadendo dal gommone del suo yacht, e nel suo sangue furono ritrovate importanti tracce di alcol e psicofarmaci; la sera prima aveva litigato col marito Robert Wagner perché lei flirtava col collega Christopher Walken, ospite sull’imbarcazione, col quale lei stava girando il fantascientifico “Brainstorm” diretto da Douglas Trumbull e uscito postumo; diverse circostanze e dettagli fecero pensare che si trattasse di uxoricidio passionale, e le indagini sono state riaperte un paio di volte in anni più recenti però senza mai giungere a ulteriori risultati specifici. Nel 2004 Peter Bogdanovich diresse la miniserie TV “Il mistero di Natalie Wood”.

Appena finite le riprese del film Dean, Mineo e il debuttante Dennis Hopper saranno di nuovo scritturati per “Il gigante”. Hopper, benché in ruoli secondari si fece notare come ribelle e come tale continuò per qualche anno, passando per la factory di Andy Warhol e partecipando a un suo filmetto sperimentale, prima di posare per una delle sue opere photo-pop. Hopper aveva davvero un animo da ribelle, da ribelle secondo la borghesissima morale dell’epoca, e per il breve periodo hippie che percorse gli anni ’60 ne fu esponente, prima di debuttare in regia con “Easy Rider” nel 1969 in cui esprime proprio quella cultura, controcorrente e assolutamente pacifista.

E ora le chiacchiere e i pettegolezzi. Nel 2016 è stato pubblicato il libro, scandalistico sin dallo stile della copertina, “James Dean: Tomorrow Never Come”, scritto da Darwin Porter e Danforth Prince, entrambi abitualmente scrittori di libri e guide per viaggiatori che qui pare abbiano tentato il salto “Hot, Unauthorized, and Unapologetic!” nel mondo delle biografie più o meno bollenti, non autorizzate e men che meno apologetiche. Nel libro parla a ruota libera un vecchio amico di Dean, Stanley Haggart, altro autore di libri di viaggi e vacanze, che ha riferito che Jimmy Dean aveva incontrato per la prima volta il suo idolo Marlon Brando allorché quello era andato a New York perché curioso di sentirlo durante un incontro col pubblico e la stampa. I due si incrociarono per pochi istanti, sufficienti perché Jimmy dichiarasse a Marlon la sua grande ammirazione e anche il suo amore, e gratificato da tanta attenzione Marlon rispose baciandolo sulla bocca: fu l’inizio di una relazione bollente dai risvolti sadomaso col più anziano e macho che si divertiva a manipolare e umiliare il più giovane e fragile, usandolo come oggetto sessuale, e pare anche che gli spegnesse addosso le cicche di sigarette, e più Jimmy gli mostrava di aver perso completamente la testa, più Marlon lo umiliava in un cortocircuito di omofobia all’interno di un rapporto omosessuale. “Avevo l’impressione che Jimmy avesse una relazione da gatto e topo con Brando, Brando era il gatto, ovviamente. Sembrava giocare con Jimmy per divertimento, lo usava sadicamente e Jimmy lo seguiva come un cane, con la lingua fuori” ha rivelato Haggart che ha aggiunto che Brando costringeva Dean a fare da spettatore passivo mentre lui se la spassava con altri, oppure lo lasciava “come un cucciolo di cane” ad aspettare fuori dalla porta che lui si decidesse a farlo entrare. Marlon amava solo sé stesso: “Mi comandava sempre mentre facevamo l’amore” confessava Jimmy agli amici. Nel libro parla anche il compositore Alec Wilder che fu amico di entrambi gli attori: “Erano sicuramente una coppia. Ma si potrebbe dire che la ‘fedeltà sessuale’ non facesse parte del loro vocabolario”. In età matura Brando ha dichiarato: “Come un gran numero di uomini, ho avuto esperienze gay e non me ne vergogno. Non ho mai prestato molta attenzione a ciò che la gente pensa di me”.

Brando mostra il dito medio ai fotografi che lo immortalano accanto a Dean.

La stella di James Dean brillò con tre soli film in un solo anno e la sua morte tragica e improvvisa contribuì a creare il suo mito fra i giovani, e anche fra i meno giovani, che all’epoca non volevano sentir parlare di omosessualità. Jonathan Gilmore, ex attore bambino diventato giornalista scandalistico, fu il primo a parlare pubblicamente dell’omosessualità di Jimmy nel suo libro “The Real James Dean” ma nessuno gli credette e anzi fu etichettato come uno sporco profanatore di tombe. La giovane sfortunata star ebbe un solo amore femminile: l’italiana Anna Maria Pierangeli, adottata a Hollywood come Pier Angeli, la quale aveva avuto un affaire sentimentale col collega Kirk Douglas incontrato sul set dell’episodio “Equilibrio” nel film a episodi “Storia di tre amori”.

I due, disadattati ognuno a suo modo, si incontrarono nell’estate del 1954 mentre lei stava girando “Il calice d’argento” nel set della Warner accanto a quello dove lui girava “La valle dell’Eden”. Elia Kazan, regista di lui, dichiarò in un’autobiografia di averli sentiti fare l’amore nel camerino di lui. Lei, emigrata a Hollywood, non si era ancora del tutto integrata; lui era di suo fragile e disadattato, in cerca di un amore assoluto che sapesse accoglierlo con tutte le sue imperfezioni: “Sono un essere malvagio, altrimenti mia madre non sarebbe morta (era morta di cancro all’utero quando lui aveva 9 anni e il padre lo aveva mandato a vivere presso parenti) e mio padre non m’avrebbe abbandonato” aveva confessato a un sacerdote che poi, tanto per cambiare, si era approfittato sessualmente di lui. Jimmy e Pier si intesero subito, e subito lui avrebbe voluto sposarla. Ma la madre di lei, cattolicissima, si oppose perché lui era di famiglia quacchera, oltre a tutte le altre chiacchiere di corridoio; la rigidissima signora, che metteva bocca su tutto nella vita della figlia, avrebbe voluto invece accasarla col macho Marlon Brando, ignorando le intime digressioni del divo. Come fu, come non fu, alcuni mesi dopo lei sposò il cantant’attore italo-americano Vic Damone, e la rottura improvvisa che seguì all’improvviso matrimonio, contribuirono ad acuire il senso di auto distruzione dell’attore, che finì come finì: fra i documenti personali trovati nel cruscotto dell’auto c’era un foglio con la formula matrimoniale e sopra, scritto a penna, il nome di Anna Maria Pierangeli. Alla morte di lui, lei cadde in una profonda depressione tanto che fu ricoverata in una clinica in Italia e per lei seguì una vita sentimentale fatta di fallimenti, così come la carriera andò via via in discesa. Morì suicida a 39 anni per overdose da psicofarmaci, quindici anni dopo la morte di lui. Subito dopo la sua morte venne ritrovata una sua lettera destinata a James Dean che si concludeva: “A te, mio unico, grande amore”.

Oggi diventa illuminante ciò che Jimmy aveva detto di sé: “Essere un attore è la cosa più solitaria del mondo. Sei completamente da solo con la tua concentrazione e con la tua immaginazione, e quello è tutto ciò che hai… Credo ci sia una sola forma di grandezza per l’uomo. Se un uomo può colmare il vuoto tra la vita e la morte. Voglio dire, se riesce a vivere anche dopo che è morto, allora forse quello era un grand’uomo. Per me l’unico successo, l’unica grandezza, è l’immortalità”. 

La Porsche 550 Spyder sulla quale Dean perse la vita fu prodotta fra il 1953 e il 1957, e fu proprio lui a soprannominarla affettuosamente “Little Bastard” per le sue performance. Inizialmente fu impiegata dalla Porsche nelle corse professionali come Le Mans e poi con alcune modifiche fu proposta agli acquirenti privati, quei ragazzacci come James Dean o Steve McQueen in cerca del brivido delle corse più o meno legali su strada. La Warner Bros. aveva espressamente vietato all’attore sotto contratto, che amava anche scorrazzare in moto, di fare corse: aveva appena finito di girare “Gioventù bruciata” era già impegnato sul set di “Il gigante” – ma Dean disattese il divieto. George Barris, il suo meccanico, si incaricò di recuperare la vettura gravemente danneggiata e mentre veniva caricata su un rimorchio un sostegno si spezzò e finì per fratturare l’anca e una gamba a un meccanico: comincia lì la sinistra ma affascinante fama di auto maledetta intorno alla quale sorsero chiacchiere e leggende, ma alcuni fatti sono reali, riportati dalla stampa con tanto di nomi e cognomi. Barris aveva tenuto in garage telaio e carrozzeria rivendendo alcuni pezzi. Il motore venne acquistato da un altro di quei piloti dilettanti in cerca di fama ed emozioni, e ne ebbe a sufficienza quando durante una gara perse il controllo dell’auto e finì per travolgere e uccidere un commissario tecnico e ferire un medico. Un altro pilota dilettante montò un semiasse della Little Bastard e finì coinvolto in un gravissimo incidente; un altro ancora, che acquistò gli pneumatici rischiò di perdere la vita. Pare che addirittura un ragazzino avesse tentato di rubare un pezzo dell’auto dal garage di Barris ma col telaio si tagliò un braccio in modo così da grave da dover essere amputato, storia non documentata dai giornali quest’ultima, ma le vere storie raccapriccianti continuarono: la “bastardina” fu utilizzata per una campagna itinerante di sensibilizzazione contro la velocità: pagando un biglietto si poteva salire sull’auto accartocciata, dove un cartello con la scritta “questo incidente poteva essere evitato” fungeva da ulteriore scoraggiamento; ma giunta a Sacramento, il telaio dell’auto cedette e fracassò l’anca di un visitatore. Poi, durante la trasferta verso la tappa successiva, il camion che la trasportava venne tamponato, i portelloni si aprirono e la Porsche scivolò fuori uccidendo un uomo a bordo di un’altra auto. Ma non finisce qui: giunta a New Orleans, in seguito alla rottura della pedana di sostegno l’auto si spaccò in undici pezzi: ce n’era abbastanza e terrorizzati gli addetti ai lavori decisero di rispedire i rottami a Los Angeles tramite un mezzo più sicuro: il treno. E la macabra storia si conclude con un mistero: l’auto scomparve nel nulla durante il viaggio e non fu mai più ritrovata. Vennero anche ingaggiati degli investigatori privati e addirittura fu messa una taglia di un milione di dollari che molti cercarono di incassare con delle imitazioni, ma ancora oggi dove sia finita la Little Bastard rimane un mistero. Un mito macabro all’interno di un mito romantico.