Archivio mensile:luglio 2023

I vinti – a proposito di mostri

1952. Terzo film di Michelangelo Antonioni dopo “Cronaca di un amore” e “La signora senza camelie”. L’autore, già quarantenne, aveva cominciato ad interessarsi al teatro già da universitario, finché poco meno che trentenne si trasferì a Roma attratto dal sogno della celluloide e cominciò a scrivere per la rivista “Cinema” mentre frequentava pure il Centro Sperimentale di Cinematografia e collaborando alla sceneggiatura del film bellico propagandistico del 1942 di Roberto Rossellini “Un pilota ritorna”. Dopodiché andò in Francia a offrirsi come assistente a Marcel Carné nel film favola “L’amore e il diavolo” sempre del ’42, e l’anno dopo rientrò in Italia a causa della guerra che vedeva le due nazioni su fronti opposti. Lavorò a dei cortometraggi e con Luchino Visconti ad altri progetti che non videro mai la luce, e a guerra terminata partecipò, insieme a Carlo Lizzani e Cesare Zavattini alla sceneggiatura del post-bellico “Caccia tragica”, opera prima di Giuseppe De Santis, la cui opera seconda sarà il capolavoro “Riso amaro”. Antonioni, che non è più un ragazzino, freme, e forte della sua esperienza tecnica dietro la macchina da presa, nonché portatore di messaggi molto personali, debuttò con la storia noir di una coppia in “Cronaca di un amore” in cui lucidamente, e a suo modo, raccontò dei mostri. Con “La signora senza camelie” raccontò il mondo del cinema graffiando via la patina luccicante con la quale il mezzo si era fin lì raccontato, ambiente di mostri esso stesso, e al contempo l’autore introduce uno dei temi che caratterizzeranno la sua cinematografia: la crisi dei sentimenti, lo squallore oltre il sentimentalismo. Qui scrive soggetto e sceneggiatura insieme a Giorgio Bassani, Diego Fabbri, Suso Cecchi D’Amico e Turi Vasile.

Segue questo strano film moraleggiante fatto di tre episodi che nelle filmografie ufficiali di Antonioni viene spesso dimenticato: eppure non è un film secondario o brutto, tutt’altro. La sua debolezza sta forse nella lunga spiegazione in apertura del film, voce fuori campo di Mario Pisu su immagini di repertorio e titoli di giornali che spiegano la poetica del film che vuole raccontare il dramma sociale della violenza gratuita perpetrata da bravi ragazzi di buone famiglie: l’orrore dei mostri che una decina di anni dopo, prendendosi meno sul serio e attraverso la lente deformante del paradosso e del grottesco, Dino Risi racconterà nel suo capolavoro a episodi sfruttando le maschere di Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi. Ma non tutti sono portati alla commedia e la grandezza di Antonioni sta tutta nella sua poetica, oltre che nel suo stile lucido e tagliente. Ha viaggiato e ha lavorato in Francia ed è subito evidente che le sue aspirazioni guardano già fuori dai confini nazionali e, benché potendo raccontare storie di crimini tutti italiani che certo non mancavano in cronaca, sceglie di raccontare i tre episodi così come li ha letti sulla stampa internazionale e dedica un episodio alla Francia, uno all’Italia e l’ultimo all’Inghilterra, girati in loco e con troupe tecniche e artistiche locali. E ricordiamoci che in quel 1952 la guerra è finita da appena sette anni.

Francia, Parigi. I bravi ragazzi borghesi covano braci ardenti: la bella Simone cova disprezzo per i genitori e sogna una vita da favola; Pierre è un mitomane megalomane che si racconta come un parvenu, senza vergogna quando favoleggia di essere ricco oltre che desiderato dalle donne, le più anziane delle quali pagherebbero per averlo; i fratelli André e Georges che si fingono studenti modello ma architettano di uccidere l’amico ricco per fare anche loro una vita da favola possibilmente all’estero. Nel gruppo di giovani attori l’unico che ha avuto una brillante carriera è stato Jean-Pierre Mocky che cominciò come attore e poi facendosi assiduo aiuto di Antonioni imparò il mestiere e proseguì come regista, talmente prolifico da riuscire a girare anche tre film in un anno – qui nel ruolo di Pierre, la vittima. Non c’è un ruolo per il 45enne Alain Cuny, che aveva già lavorato con Antonioni in “La signora senza camelie”, e qui l’attore si accontenta di affiancare il maestro italiano come aiuto regista, anche se non farà mai il regista. Alla sceneggiatura si aggiunge la firma del francese Roger Nimier. L’episodio ebbe seri problemi di censura in patria tanto che non fu distribuito fino al 1963.

Questi i fatti: nel settembre del 1952, un uomo che resterà identificato solo come Monsieur I. intentò causa per chiedere che il governo francese sequestrasse il film che all’epoca era ancora in produzione. Il titolo francese del film era “Sans Amour” ed era composto da tre parti, tutte basate su storie vere, una delle quali era un famigerato affair del 1948 in cui un ragazzo di sedici anni aveva sparato a un compagno di classe, apparentemente a causa di una ragazza. Monsieur I. era il padre di quella ragazza, citata come Nicole I. che era stata condannata per complicità nel crimine, ma in quanto minorenne il suo nome restò secretato. Monsieur I. accusava il regista Michelangelo Antonioni e il suo assistente alla regia Alain Cuny di aver girato una storia in cui la ragazza sarebbe stata identificabile. Il governo francese prese le sue severe misure contro l’episodio: In primo luogo l’esportazione del negativo in Italia, dove Antonioni risiedeva, fu vietata; ma il divieto non divenne esecutivo e allora il governo pensò bene di vietare l’episodio in Francia, perché – come scrisse il critico Jean de Baroncelli su Le Monde dieci anni dopo, nel 1963, quando l’episodio fu distribuito sul territorio francese: – “Il Ministero della Giustizia si oppone alla realizzazione di qualsiasi sceneggiatura che evochi una vicenda giudiziaria che coinvolga persone ancora in vita”.

Italia, Roma. Protagonista è il 22enne Franco Interlenghi che aveva debuttato 15enne in “Sciuscià” di Vittorio De Sica, film premiato con l’Oscar. È il bravo ragazzo di buonissima famiglia che non accontentandosi del lusso in cui vive, c’è la servitù che lo chiama “il signorino”, invece di andare all’università si dà al contrabbando di sigarette: perché la gioventù gli brucia dentro e vuole tutto e subito. Ma il trasbordo delle sigarette allo scalo di San Paolo, allora periferia della città, viene interrotto dalla polizia e seguono fuggi fuggi e sparatorie, in una delle quali il giovane mostro uccide un uomo, ma poi nella fuga fa una brutta caduta in cui batte la testa. Rinviene, è sonnolento, raggiunge la sua ragazza e le confessa il delitto in un monologo un po’ troppo retorico, e a rendere ancora meno plausibile il dialogo che segue c’è che lei alla confessione del delitto non batte ciglio: vabbè che è ciecamente innamorata, ma un minimo di sana reazione sarebbe stato logico. È l’episodio meno riuscito e forse anche per questo non ebbe alcun problema con la censura. La ragazza è Anna Maria Ferrero che aveva debuttato nel 1950 nell’opera prima di Claudio Gora “Il cielo è rosso” e da allora è stata attivissima fino a tutti gli anni Sessanta, quando si ritirò per fare la moglie a tempo pieno del francese Jean Sorel, salvo poi pentirsene quando era troppo tardi. Nei ruoli dei genitori la signora del teatro Evi Maltagliati e l’ex baritono Eduardo Cianelli; il caratterista cine-televisivo Mario Feliciani è il commissario di polizia; Francesco Rosi è l’aiuto regista che debutterà come autore sei anni dopo con “La sfida”. Ah dimenticavo: il protagonista muore nel suo letto per le conseguenze del trauma cranico.

Inghilterra, Londra. Il mostro è uno psicopatico egomaniaco megalomane e anche lui vuole fama e ricchezza senza onesto sudore della fronte; è un poeta frustrato e frustrante e poiché il quotidiano scandalistico Daily Witness paga chiunque porti una storia da prima pagina – questa è l’altra mostruosità creatrice di mostri – va a vendere la sua notizia: ha ritrovato il cadavere di una donna e pretende di scrivere lui stesso l’articolo con tanto di sua foto in quanto anche autore del pezzo. Ma la cronaca trita e passa oltre, così dopo qualche giorno, di nuovo in cerca di soldi facili e di fama, confessa l’omicidio, credendo di aver commesso un crimine perfetto per il quale non potrà mai essere condannato. Ovviamente si è sopravvalutato e viene condannato a morte.

L’episodio è riuscitissimo, tanto che incorre nelle ire della censura italiana e tagliato fino a renderlo incomprensibile. Verrà recuperato integralmente e inserito in un altro film a episodi “Il fiore e la violenza” del 1962, che mette insieme, oltre all’episodio di Antonioni girato dieci anni prima, uno girato da Jean Renoir addirittura nel 1937, e uno completamente nuovo di François Reichenbach, poliedrico autore francese che fra le altre cose scrisse delle canzoni per Édith Piaf. Il centratissimo protagonista è interpretato da Peter Reynolds qui certamente nel suo ruolo più importante dato che il resto della sua carriera fu tutta una carrellata di caratterizzazioni in film di serie B; il giornalista lo interpreta il caratterista Patrick Barr. L’anziana patetica vittima è interpretata dall’ex attrice del muto Fay Compton; mentre la ventenne Eileen Moore, che interpreta la passione non corrisposta del protagonista, avrà una carriera di genere.

Il film, che fu presentato senza alcun esito al Festival di Venezia, benché considerato minore nella produzione dell’autore, e anche imperfetto, è certamente molto interessante e sicuramente da recuperare. Ciò che colpisce è che dalla sua analisi in poi, quel tipo di mostri urbani, di generazione bruciata come li definisce nel discorso di apertura, non hanno più smesso di esistere e quei giovani senza valori, o il cui unico valore è la soddisfazione personale a tutti i costi anche attraverso il crimine, sono ancora oggi in cronaca. Antonioni li racconta come figli della guerra, ragazzi nati durante il conflitto, che nella ritrovata pace non hanno più i valori fondanti delle generazioni precedenti e aspirano a un benessere, informe e indistinto, che con il boom economico avverrà solo dieci anni più tardi. Solo due anni dopo la distribuzione italiana re-intitolerà “Rebel Without a Cause” di Nicholas Ray come “Gioventù bruciata”: fu un caso? Sta di fatto che quel film divenne il manifesto di una generazione, di tanti giovani che si videro rappresentati e che si immedesimarono nel protagonista che, al contrario dei giovani frammentati nei tre episodi di Antonioni, è anche accattivante, affascinante. Antonioni avvertiva che avrebbe raccontato la realtà senza abbellirla ma il suo film è stato praticamente dimenticato mentre l’antieroe di James Dean ancora vive: segno che la realtà, al cinema, non può mai essere reale.

Blow-up – per ricordare Jane Birkin

Il 16 luglio di questo 2023 a 76 anni se n’è andata Jane Birkin, che viene universalmente ricordata non tanto per la sua carriera di attrice che pure ha avuto dei picchi importanti, quanto perché è stata un’icona sexy e, prima che attrice, è stata anche più attiva come cantante. Aveva cominciato a 17 anni a calcare le scene londinesi seguendo la madre Judy Campbell, attrice e cantante famosa per i musical di Noël Coward, mentre il padre David nulla aveva a che fare col mondo dello spettacolo essendo un comandante della Royal Navy. La 18enne Jane debuttò anche lei in un musical del compositore John Barry, autore delle colonne sonore di 007 e non solo, che finì con lo sposare l’anno dopo. Lo stesso anno debutta sullo schermo con un piccolo ruolo nel film di Richard Lester che fu Palma d’Oro al Festival di Cannes “Non tutti ce l’hanno” ed è col film successivo, questo “Blow-up” del 1966 che accende la fantasia di tutti mostrando il seno nudo e diventando un’icona della Swinging London, la Londra del boom economico, che caratterizzò la seconda metà degli anni Sessanta.

Il film di Michelangelo Antonioni si inscrive a pieno titolo nel cinema che espresse quella dondolante e altalenante Londra, la Swinging London, che fu un movimento sociale e culturale che si espresse anche nella moda – il cui personaggio chiave fu Mary Quant con la sua minigonna – e nella musica – includendo band come i Beatles, i Rolling Stones e i Who. Antonioni, che aveva debuttato nel 1950 con “Cronaca di un amore” imponendosi come un autore rivolto al rinnovamento degli stili, un decennio dopo fra il ’60 e il ’62 realizzò la sua famosa “trilogia dell’incomunicabilità” o “esistenziale” con riferimento anche all’alienazione e al disagio mentale, protagonista la sua compagna dell’epoca Monica Vitti. Ma è con il successivo “Il deserto rosso” del 1964, Leone d’Oro al Festival di Venezia, che si impose all’attenzione internazionale e gli si aprirono le porte per realizzare questo suo film inglese. L’idea gli era venuta con la lettura del racconto “Le bave del diavolo” dell’argentino Julio Cortázar da cui prese solo lo spunto sviluppando una sua personalissima storia – nel racconto il crimine è la pedofilia, nel suo film è un omicidio – storia intrisa ancora del suo disagio sull’incomunicabilità ma che nello sviluppo narrativo diventa anche documento, ancora attualissimo, di quella Swinging London: cos’era, com’era, cosa si faceva, che musica si ascoltava. Alla fine dell’articolo il link dove leggere il racconto completo che ha ispirato il soggetto di Michelangelo Antonioni.

Nella prima versione della sua sceneggiatura c’erano anche scene di sesso ma poi Antonioni si autocensurò ricordando i problemi che aveva avuto con “L’avventura” e non voleva che il suo primo film internazionale potesse incorrere in alcun incidente, ma nonostante ciò la magistratura italiana sequestrò il film per oscenità – e davvero non c’è oscenità nel film, se non il seno di Jane Birkin appunto, e qualche altro nudo e degli amplessi di quel sesso libero ma con inquadrature veloci e in campo lungo: ovviamente oggi abbiamo una differente percezione dell’oscenità. E da questo punto di vista, quello strettamente sociale e politico, il film dovette essere stato considerato osceno per il suo angosciante pessimismo, intriso di nichilismo antireligioso e antisociale: mette in discussione la percezione stessa della realtà, e in un’epoca di boom economico e di edonismo spinto era un punto di vista disturbante, perché la visione del film non era quella di una realtà momentaneamente distorta dalle droghe psichedeliche ma una realtà messa in discussione per principio, e come fine ultimo della narrazione. Il fotografo scopre nei dettagli sempre più ingranditi dei suoi scatti la prova di un probabile omicidio, fino a trovare fisicamente il cadavere. Salvo poi non trovarlo più quando torna armato di macchina fotografica per provare il crimine – che resta solo nelle immagini sgranate degli scatti rubati, tanto sgranati da sembrare irreali, e forse davvero irreali.

Alla fine del film il protagonista si distrae con una coppia di mimi che gioca a tennis senza racchette e senza palla, seguiti da un pubblico di altri mimi che seguono la traiettoria della palla inesistente, e anche la macchina da presa la comincia a seguire nei suoi rimbalzi, e cominciamo anche a sentire i colpi di racchette inesistenti sulla palla inesistente; finché la palla vola oltre il recinto da dove il protagonista osservava, e invitato va egli stesso a raccogliere la palla inesistente: la realtà la si può inventare, è tutto frutto di fantasia. Un messaggio potente, da uno che fa cinema, fotografia in movimento.

Il fotografo di moda protagonista del film è lui stesso alla moda: il regista chiese a David Hemmings di vestirsi “à la Sachs” ovvero come il playboy tedesco Gunther Sachs all’epoca sulle pagine di tutti i rotocalchi come marito di Brigitte Bardot: camicia azzurra, jeans bianchi e mocassini senza calze. Ma è un fotografo tormentato, appunto: disprezza le fotomodelle e la loro vacuità, e sta lavorando a un libro fotografico d’impegno sociale dove ritrae gli hippy ma soprattutto i diseredati, i senzatetto, e difatti il film si apre con lui che esce da un dormitorio pubblico dove ha passato la notte.

Jean Birkin, per l’occasione bionda, ha davvero un ruolo secondario, che però risalta perché la narrazione intorno al protagonista è tutta fatta di ruoli di contorno; Vanessa Redgrave ha il ruolo più importante: è la donna coinvolta nel complotto che il fotografo crede di svelare; l’altro nome di punta è Sarah Miles come amica del protagonista; l’indossatrice Veruschka compare come sé stessa. David Hemmings, qui doppiato da Giancarlo Giannini, giunge alla notorietà e alla maturità artistica con questo film ma è sulle scene sin dall’infanzia, prima come boy soprano, ovvero voce bianca, sul quale il compositore Benjamin Britten compose anche un’opera; col sopraggiungere dell’adolescenza e la perdita della voce bianca il ragazzo passò alla recitazione ed è qui nel suo primo ruolo adulto importante. Vanessa Redgrave, figlia e sorella d’arte e già attrice shakespeariana nonché moglie del regista Tony Richardson che tra l’altro la diresse insieme a Hemmings in “I seicento di Balaklava”, anche lei raggiunge la fama internazionale grazie a questo film. Nel terzetto di nomi femminili di punta Sarah Miles è quella che meno viene ricordata dal pubblico: raggiunge il picco come protagonista in “La figlia di Ryan” nel 1970 di David Lean che le frutta una candidatura all’Oscar, ma dal 2004 non è più attiva.

Veruschka è il nome d’arte della contessa tedesca Vera Gottliebe Anna von Lehndorff-Steinort, il cui padre conte, in controtendenza alla nobiltà prussiana del suo tempo era stato antinazista, e poi accusato di aver preso parte a un complotto contro Hitler fu giustiziato nel 1944 quando Vera aveva 5 anni; insieme alle sue sorelle, mentre la madre incinta veniva internata in un campo di lavoro, fu trasferita in una cittadina di provincia insieme ai figli di tutti gli altri congiurati in una sorta di kindergarten per sorvegliati speciali; finita la guerra e tornata libera la ragazza venne a studiare in Italia dove a 20 anni fu scoperta dal fotografo Ugo Mulas che la lanciò come modella; ma non riscosse il successo sperato e tornando in Germania sparse la voce che fosse una fuoruscita russa, Veruschka appunto, e lo stratagemma riuscì.

Il film si sarebbe dovuto ambientare a Parigi, come nel racconto originale. Ma ad Antonioni, che già da tempo pensava all’estero come naturale sbocco della sua cinematografia, l’idea di collocare il suo film in quella Swinging London, che così bene ha saputo raccontare, venne quando andò a trovare la sua compagna Monica Vitti sul set di “Modesty Blaise – la bellissima che uccide” di Joseph Losey. Scrisse la sua sceneggiatura col suo fedele Tonino Guerra e per l’ottimizzazione dei dialoghi in inglese si affidò al drammaturgo Edward Bond. Per rendere viva e attuale la sua Londra, Antonioni inserì nel film alcune celebrità dell’epoca: la giornalista Janet Street-Porter balla insieme ad alcune spogliarelliste mentre nel concerto rock del prefinale si esibiscono gli Yardbirds con Jimmy Page e Jeff Beck che come da prassi sfascia la chitarra. Costato un milione e ottocentomila dollari ne incassò venti milioni in tutto il mondo. Osannato dalla critica, film e regista ebbero la nomination all’Oscar, sceneggiatura e regista furono anche nominati ai Golden Globe, e dopo altre tre nomination ai britannici BAFTA finì col vincere la Palma d’Oro al Festival di Cannes e l’italiano Nastro d’Argento ad Antonioni come miglior regista per un film straniero.

Grazie a questo film Jane Birkin soffiò una parte da protagonista alla top-model americana Marisa Berenson che dovette aspettare ancora qualche anno prima di diventare attrice debuttando nel 1971 con Luchino Visconti in “Morte a Venezia”. Il film in questione era il dimenticabile “Slogan” diretto da Pierre Grimblat e scritto su misura del protagonista Serge Gainsbourg, e il resto è storia. Il divo francese, nonché tombeur de femmes, che da poco aveva rotto con Brigitte Bardot che per lui aveva rotto col precedente marito Gunther Sachs, non aveva gradito la sostituzione della Berenson, sulla quale aveva probabilmente fatto un pensierino, e sul set maltrattò non poco la Birkin; l’inglesina, anche lei fresca di separazione da John Barry e decisamente attratta dagli uomini più maturi, chiese al regista la cortesia di organizzare un’uscita a tre per poi allontanarsi a metà serata: lo stratagemma riuscì e si formò la coppia-scandalo di quegli anni. Lui poi, su suggerimento dell’amica Mireille Darc, tirò fuori dal cassetto l’esplicita canzone che parla di sesso “Je t’aime… moi non plus” che aveva già inciso con la Bardot ma che era stata messa via su richiesta della diva francese timorosa dello scandalo che l’ancora marito cornuto Gunther Sachs le aveva promesso. Il brano uscì con tutto lo scandalo che seguì, particolarmente nel Regno Unito patria della Birkin, e in Italia, patria del Vaticano, il cui organo di stampa L’Osservatore Romano pubblicò una sgangherata e peggiorativa traduzione del testo per allarmare i propri lettori, e il distributore del disco viene scomunicato; va da sé che la Rai ne vietò la trasmissione radiofonica finché la Procura della Repubblica di Milano non ordinò il sequestro e la distruzione di tutte le copie sul territorio nazionale, che però venne importato clandestinamente e venduto a 3000 lire anziché 750, mentre veniva trasmesso dalle emittenti estere Radio Monte Carlo e Radio Capodistria che erano ricevute nell’etere italiano. Ovviamente seguirono molte reinterpretazioni nelle varie lingue e anche parodie. In Italia il testo fu riscritto da Daiano, “Ti amo… ed io di più” e fu interpretato dagli improbabili divi teatrali Giorgio Albertazzi e Anna Proclemer all’epoca compagni di vita. Ma ci fu anche una versione adattata da Gian Piero Simontacchi, “Ti amo… io di più” senza ed, per Ombretta Colli con la voce maschile dello sconosciuto Gianfranco Aiolfi amico e collaboratore di Ombretta e del marito Giorgio Gaber.

Nel 1976 Serge Gaisbourg pensò bene di farne anche un film e debuttò come autore cinematografico dirigendo la sua Jane Birkin che recitò quasi sempre nuda accanto a Joe D’Alessandro, star americano del porno gay lanciato da Andy Warhol, nel ruolo di un camionista omosessuale che inizia una relazione con la donna dall’aspetto androgino, che perciò si chiama Johnny, e con la quale ha soltanto rapporti anali. Viene da chiedersi chissà quanta droga circolasse sul set. In ruoli di contorno i non ancora famosi Gérard Depardieu e Michel Blanc.

La carriera di Jane, che nel frattempo aveva preso la nazionalità francese, proseguì da un lato continuando continuando a incidere le canzoni di lui divenendo una delle più apprezzate cantanti d’oltralpe, e dall’altro continuando la carriera di attrice anche in produzioni internazionali. Nel 1971 nacque la loro figlia Charlotte Gainsbourg e nel 1980 la coppia scoppiò perché lei, maturando, si era stancata delle sregolatezze di lui, e pur continuando a incidere i suoi brani scelse uno stile di vita più regolato legandosi al regista Jacques Doillon. Lavorò anche con Jean-Loc Godard, Patrice Leconte, Alain Resnais, Roger Vadim, Jacques Rivette, Bertrand Tavernier e il Paul Morissey che aveva contribuito al successo di Joe D’Alessandro, ma soprattutto ebbe un’intensa e proficua collaborazione con Agnès Varda che nel 1988 le dedicò il film “Jane B. par Agnès V.” Nel 2007 dirige anche il film di fiction autobiografica “Boxes – Les boîtes” mentre nel 2021 sua figlia Charlotte la dirige nel film-documentario-intervista “Jane by Charlotte” in questi giorni su Sky in cui finalmente sentiamo Jane Birkin che manda affanculo Serge Gainsbourg.

I mostri oggi

1962, Dino Risi dirige Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi nel film a episodi “I mostri”: è l’inizio del boom economico, è l’inizio della commedia all’italiana, è un film da salvare fra i 100 migliori. 1977, Risi torna a dirigere Gassman e Tognazzi in “I nuovi mostri” e alla regia si aggiungono Mario Monicelli e Ettore Scola, mentre nel cast entrano Alberto Sordi e Ornella Muti: siamo negli anni di piombo e i mostri si fanno anche più sanguinari, e il film concorre agli Oscar. 2009, nessuno dei registi e dei protagonisti originali è più fra noi – c’è solo la 68enne Ornella Muti che però non conta dato che era solo una bella presenza. I due film ogni tanto tornano in tv e si sono radicati nel nostro immaginario collettivo: nessuno più pensava a un altro seguito. Ma non si può stare mai tranquilli: il cinepanettonaro Enrico Oldoini aveva un’alta opinione di sé.

Enrico Oldoini con Terence Hill sul set di “Don Matteo”

Diplomatosi attore all’Accademia Nazionale di Arte Drammatica fu poi soggettista e sceneggiatore collaborando con molti bei nomi: Marco Ferreri, Pasquale Festa Campanile, Alberto Lattuada, Nanni Loy, Lina Wertmüller… ma deve essersi sentito più in sintonia con Sergio e Bruno Corbucci di cui ha seguito le orme sfornando film di cassetta. Passato al piccolo schermo lì ha avuto il merito di ideare il personaggio e la serie di “Don Matteo”, uno dei pochi format non traslati da adattamenti esteri. Questo suo “I mostri oggi” è la sua ultima regia cinematografica. È morto 77enne nel 2022 per una sclerosi laterale amiotrofica che l’aveva colpito cinque anni prima.

Questo suo ultimo film è nelle intenzioni (anche) un sincero omaggio, e partendo da un suo soggetto coinvolge nella sceneggiatura i figli d’arte Silvia Scola e Giacomo Scarpelli; assicuratosi l’eredità dei nomi coinvolge nel pacchetto l’amico sceneggiatore di genere Franco Ferrini, e Marco Tiberi già sceneggiatore nella squadra di “Don Matteo”: non esattamente il meglio delle penne cinematografiche in circolazione. Alla produzione tornano Pio Angeletti e Adriano De Micheli con la loro Dean Film insieme a Maurizio Totti (nessuna parentela col pupone Francesco Totti) della Colorado Film fondata insieme a Gabriele Salvatores e Diego Abatantuono (che dunque ha avuto il privilegio della prima scelta sui ruoli) e alla Mari Film di Massimo Boldi che però si tiene fuori dal cast. Vedo adesso per la prima volta questo film di 14 anni fa perché sin dallo stile del manifesto puzzava già di cinepanettone: tutti insieme i bei volti della commedia all’italiana più o meno intelligente o più o meno scollacciata, niente a che vedere coi manifesti dei mostri originali di cui pretende di essere sia omaggio che seguito. D’altro canto ogni film coi propri mostri è specchio del suo tempo: negli anni ’60 gli italiani scoprivano di non essere brave persone e nei ’70 ebbero la conferma di essere pessimi; cosa resta da scoprire agli italiani del nuovo millennio?

Ferro 6

C’è di nuovo che il film si apre con una carrellata su alcuni dei personaggi che vedremo e gli episodi si raccordano l’un l’altro senza più la distinzione netta dei cartelli coi titoli: narrazione più fluida e moderna. Nel primo episodio facciamo la conoscenza di alcuni personaggi del jet-set capitolino in un golf-club fra cui spiccano il Diego di Diego Abantantuono che fa il piacione con la bella di turno, la spagnola Pilar Abella, praticamente rifacendo sé stesso; e c’è il sofisticato Gino di Giorgio Panariello che davvero si sforza, sostenuto anche dal trucco, di creare uno di quei mostri che sappiamo: meno originale perché in pratica li abbiamo già visti tutti e meno originale perché le stesse maschere del pur volenteroso Panariello le abbiamo già viste tutte in tv. Sul green una sciroccata Angela Finocchiaro, che rifà anche lei una delle sue solite maschere da “La TV delle ragazze” di Rai 3 1988-89; non accreditato il suo istruttore dal volto rotondo incorniciato da folta chioma che nasconde Marco D’Amore, futura star del televisivo “Gomorra”, Sky 2014-2021. I mostri sono ancora i ricchi che parlano con la erre moscia: tutto qui?

Unico grande amore

La forzatura è che i due che si incontrano per caso si chiamano Romeo e Giulietta, ma vabbè: genialità e originalità non abitano questo film. Lei è disabile, lui la corteggia, la mette su una giostra e le ruba la carrozzella per accedere gratis allo stadio nel settore riservato ai disabili, per poi saltare in piedi al gol d’a Roma. Il mostro suburbano c’è, nipote di quello che interpretò Gassman in “Che vitaccia!” nel 1962. Aderenti i due protagonisti, Mauro Meconi e Susy Laude, che sono interpreti generici senza maschera grottesca perché ormai la mostruosità è interiorizzata e metabolizzata. Sarebbe stato più divertente e meno ordinario se nei due ruoli ci fossero stati due nomi di prima grandezza a misurarsi con l’ordinarietà.

Il malconcio

La premessa è arguta: partendo dall’episodio “Pronto soccorso” del 1977 con Sordi unico monologante, indaga sul pirata della strada – figura peraltro accennata da Gassman in “La strada è di tutti” nel 1962 – mostrandoci il ritrattino grottesco di un mostro che al volante sniffa cocaina e fa scommesse al telefono, nell’esecuzione di Diego Abatantuono che non è Gassman né Tognazzi né Sordi. L’altra buona trovata è l’aver dato un carattere e una maschera alla vittima del pirata, che con Sordi era un attore generico perché Sordi non dava spazio a nessuno, e qui c’è invece Giorgio Panariello che fa tutte le facce possibili per prendersi il suo spazio. Terza buona trovata è che non avendo più un Alberto Sordi la figura del soccorritore si sdoppia in una coppia con problemi di coppia, Claudio Bisio e Sabrina Ferilli, e qui casca l’asino perché la sceneggiatura si fa più che banale, servita da una recitazione più che ordinaria. L’ultima buona trovata è il malconcio che si va a cercare da sé un pronto soccorso, sfuggendo alla litigiosa coppia che fa pace pomiciando sul cofano dell’auto, con l’improvvido Bisio che davvero fa guizzare la lingua sulle labbra della collega – scherzo da guitto che avrebbe dovuto essere cestinato al montaggio, ma non in un film e in una compagine che esalta – non il sopra – ma il fuori le righe. Soggetto con buone trovate però mal sviluppate in scrittura.

Il vecchio e il cane

Veloce e riuscito episodio sui mostri contemporanei che si apre con un tizio che abbandona il cane per strada. Si ferma un’altra auto con famigliola in partenza per le vacanze estive: genitori con due ragazzi più nonno e cane. Si discute sull’abbandono degli animali e sul costo della vita, poi il capofamiglia invita il vecchio padre a far scendere il cane per i bisogni – e sgomma via abbandonandoli entrambi. Giorgio Panariello al naturale con la sua parlata toscana, così come l’anziano Sergio Forconi che interpreta suo padre; la milanese Angela Finocchiaro si adegua e parla anche lei toscano. Finora l’unico episodio pienamente riuscito.

Padri e figli

Abatantuono e Panariello duettano nella riscrittura di “Come un padre” del 1962 con Ugo Tognazzi e Lando Buzzanca, e l’aggiornamento sta nel fatto che il questuante non è un ansioso uomo tradito ma un meditabondo padre che ha scoperto l’omosessualità del figlio, di cui il professore è l’insegnante; avendo rassicurato il padre, l’anziano docente torna a letto dove ad attenderlo c’è il ragazzo, e il rimando all’altro episodio c’è tutto. La trasposizione con le tematiche del nuovo millennio funziona, quello che non funziona è sempre la sciatteria della sceneggiatura che non sa rinunciare a battute banali, però con Panariello sempre un passo avanti rispetto al bolso Abatantuono. Ma non finisce qui e l’episodio continua con uno sviluppo tutto originale: con l’invito a pranzo che nel ’62 chiudeva l’episodio mentre qui apre un nuovo arguto scenario in cui il padre spinge al confronto con rottura fra il figlio e il professore. Panariello con la sua toscanità pervade l’intero episodio che come nel precedente prevede una moglie conterranea, qui l’imitatrice umbra Emanuela Aureli, mentre il figlio è il debuttante Rocco Giusti con quest’unico film nel curriculum visto che essendo già star di “CentoVetrine” resta a fare la star nelle soap tv. Secondo episodio promosso.

La testa a posto

Dalla toscanità alla napoletanità. Anna Foglietta ha lasciato il lavoro per amore del fidanzato musulmano Alì, interpretato dal tunisino Mohamed Zouaoui, qui al suo secondo film in un carriera che lo porterà a vincere il Globo d’Oro nel 2011 (Golden Globe italiano dalla stampa estera) al miglior attore rivelazione per “I fiori di Kirkuk” dell’iraniano Fariborz Kamkari. Senza più gli introiti del suo lavoro la ragazza non potrà più aiutare la famiglia in ristrettezze economiche, col capofamiglia Carlo Buccirosso che qui non fa rimpiangere i mostri d’antan, la cabarettista Rosalia Porcaro come madre e l’ottantunenne Enzo Cannavale come nonno, qui al suo ultimo film. Ma l’aver lasciato il lavoro non basta e il fidanzato musulmano rompe con la ragazza, che dunque può riprendere il suo lavoro di prostituta per aiutare la famiglia, col padre che esulta perché la figlia ha rimesso la testa a posto. Paola Lavini come amica e collega della protagonista. Un altro episodio completamente riuscito se non fosse per le solite sciatterie nella scrittura più da serie tv che da cinema di serie A.

La fine del mondo

La fine del mondo è il buco nell’ozono che porta un caldo innaturale (e in questi giorni tutti ne abbiamo esperienza) ma sulla spiaggia sono tutti inconsapevoli e contenti – non abbastanza mostri dentro, però: sono caratteri banali. Veloce episodio corale dove ci sono tutti quelli visti fin qui: Anna Foglietta, Sabrina Ferilli, Carlo Buccirosso, Giorgio Panariello, Susy Laude e Mauro Meconi di nuovo in coppia, Diego Abantatuono che si auto-cita rifacendo il suo terrunciello, maschera con la quale fece ben 17 film in 3 anni, Angela Finocchiaro e Claudio Bisio. Nella foto di gruppo manca l’intervistatore tv, attore non accreditato che risponde al nome di Antonio Friello.

Povero Ghigo

Entra in scena la scuola milanese. Abatantuono duetta con Bisio, poi si aggiunge Ugo Conti. Ex attori cabaret i due vanno al funerale del compagno di scena Ghigo, ma il primo che nel frattempo è divenuto un divo di fiction tv dirotta il secondo verso un altro funerale dove fa l’ospite a pagamento. All’inizio dell’episodio altri due comici milanesi, Enzo Polidoro e Stefano Vogogna, come funzionari televisivi. Luciano Manzalini, in solitaria dal duo Gemelli Ruggeri, è il prete officiante. Altro degno episodio di mostri da nuovo millennio.

Razza superiore

Episodio che graffia più in profondità mettendo in scena gli argomenti sensibili del razzismo e del classismo. La vecchia nobildonna nostalgica del regime fascista e amica di gioventù di Edda Mussolini, la primogenita del Duce, costretta in carrozzella si fa accompagnare dal badante immigrato il quale, non appena la vecchia si addormenta, la traveste da mendicante e la lascia all’ingresso di una chiesa dove i parrocchiani in uscita le lasceranno molti oboli. Una trentina di euro che il badante si dividerà col maggiordomo perché la nobildonna sono anni che non paga gli stipendi. Protagonista la vera nobildonna Valeria De Franciscis che dopo una figurazione nel 2000 in “Estate romana” di Matteo Garrone debutta 93enne da protagonista in “Pranzo di Ferragosto” dell’altrettanto debuttante alla regia Gianni Di Gregorio; riprenderà il suo ruolo di vecchia madre nel 2011 in “Gianni e le donne” sempre di Di Gregorio per andarsene 99enne nel 2014. Il badante Tushar, attore non professionista ma efficace, si esibisce col suo vero nome.

Euro più, euro meno

La coppia di camerieri di un grande albergo romano, lui in sala lei alle camere, a fine giornata torna a casa sognando un futuro radioso nel presente ad ostacoli fra buffi e cravattari. A far coppia con la Ferilli la new entry nel cast del film Neri Marcorè. Dopo una velocissima carrellata dei soliti ricchi al buffet in albergo (già visti nel golf club del primo episodio) e un gratuito riferimento a Lilli Gruber“a roscia che sta de sguincio” – resta da chiedersi: dove sono i mostri? questi sono solo du’ poveri disgraziati, per dirla col loro gergo romanesco, che lecitamente sognano un futuro migliore, euro più euro meno. Episodio assolutamente inconcludente.

Fanciulle in fiore

Le tre fanciulle ironicamente in fiore sono tre borgatare romane calate in centro a far danno, sono dunque i mostri di questo brutto episodio scritto malissimo. Le tre fanciulle vogliono fare shopping ma non ci hanno gli euri, sempre al plurale in tutto il film quando sarebbe bastato una sola volta scegliendo di caratterizzare con questo idiotismo uno solo dei tanti personaggi. Le tre prendono di mira un Panariello ancora una volta formato famiglia, per circuirlo, scattargli delle foto e ricattarlo perché minorenni. I mostri ci sono e sono attuali ma sono scritti male perché svelando le intenzioni delle tre sin dall’inizio non lasciano nulla allo spettatore, né sorpresa né suspense, e il racconto si svolge tutto sulle smorfie dell’attore agganciato nella sala cinematografica dove ha portato la famiglia; a peggiorare l’intera struttura ci sono le risate del pubblico aggiunte in post-produzione, che dovrebbero essere rivolte al film sullo schermo ma sono sfacciatamente sincronizzate con le smorfie del disgraziato proprio come se l’episodio cinematografico non fosse altro che uno sketch tv, che sembra essere l’unico riferimento di regista e autori. Buggerato e derubato Panariello torna a sedere in sala e piangendo davanti al film comico dice alla moglie: “Piango dal ridere!”: battutona profonda che fa traboccare il vaso del brutto. Le tre adolescenti sono come da foto da sinistra a destra: Veronica Corsi, Cristel Checca e Chiara Gensini che è quella che si dà da fare in sala; la barese Elena Cantarone nel ruolo della moglie.

Terapia d’urto e L’insano gesto

A seguire due episodi che si intrecciano. Abatantuono come alto prelato in limousine con autista si dimostra banalmente poco caritatevole con un ragazzo africano che vorrebbe lavare il parabrezza. Poi passiamo nello studio dell’analista Finocchiaro in seduta con l’assistito Bisio, e si vede che i due amici milanesi si divertono a duettare – senza però divertire noi spettatori: la terapia d’urto consisterebbe in un grottesco e mal riuscito capovolgimento della deontologica professionale, che non è arriva ad essere un paradosso da mostro del terzo millennio ma ancora una volta solo trita comicità televisiva; sia come sia l’analista induce il paziente depresso al suicidio confermando il “buon” esito della seduta alla di lui moglie: c’è molto materiale per mettere in scena dei veri mostri ma gli sceneggiatori sono troppo presi dai loro moduli televisivi e dall’incapacità di graffiare. Si passa dunque all’insano gesto: il povero Bisio guarda il Tevere da un ponte mentre il prelato nega l’elemosina a un altro questuante, un attimo prima di accorgersi che un ragazzo sta per buttarsi nel fiume e lo “salva”, solo che il ragazzo voleva buttarsi in soccorso all’altro che si era già buttato: un pasticcio senza capo né coda, e senza morale. Nel ruolo del giovane impossibilitato salvatore Rodolfo Castagna non accreditato.

La seconda casa

Con Buccirosso si va a Napoli. Fornito di parrucchino col ciuffo che non sa trattenersi dallo scostare graziosamente dalla fronte, manca solo il mignolo alzato, fa costruire la seconda casa, ovvero un bunker segreto, sotto la villa che abita. Indi accompagna in una visita guidata lo zio latitante e i suoi due complici che abiteranno il bunker, rivelando di avere ucciso e interrato il progettista e gli operai che vi hanno lavorato, perché restasse davvero segreto. Il mostro c’è, ma l’episodio è facile e scontato: nessuno si aspetta che un camorrista non lo sia. I veri mostri sono quelli che sorprendono. Nel ruolo della moglie l’attrice teatrale Antonella Morea, nipote di Renato Carosone.

Cuore di mamma

Episodio da protagonista assoluta per la Ferilli in un episodio che è figlio di “Sequestro di persona” del 1977: lì a Vittorio Gassman avevano rapito la moglie, qui Sabrina si è persa la figlia in un supermercato; a entrambi viene data l’opportunità di una diretta televisiva per fare un appello, che si trasforma in manipolazione del mezzo pubblico. Come già detto altrove l’idea non è male ma è realizzata malissimo. La bella mamma è in cerca di attenzioni, e non c’è niente di male, mette gli occhi su un giovanotto che però è accompagnato dal suo fidanzato e lì, mentre la donna cambia espressione e parte la musica smaccatamente retorica e triste, in questo tripudio di banalità anche il fidanzato gay è eccessivamente effeminato come se non fosse bastato il bacio fra i due uomini a rendere il contesto. Di fatto la donna ha perso di vista la bambina. Anche nel cambio di prospettiva della protagonista non c’è progressione drammatica perché sceneggiatori e regista non sanno cosa sia la drammaturgia, e la donna passa da disperata a imbonitrice televisiva in un paio di fotogrammi. Di questa scrittura carentissima ne fa le spese Sabrina Ferilli che altrove e diretta da altri registi è anche brava. Massimo Giletti rifà sé stesso come intervistatore Rai.

Accogliamoli

E per finire in bellezza, si fa per dire, un episodio dedicato agli immigrati. Nel peggio del peggio di una Napoli-Milano, Buccirosso e Abatantuono duettano con battutacce da barzellette trite e ritrite che neanche da cabaret, ormai, forse solo da villaggi vacanza. I due sono due mostri reali, quelli che sfruttano gli immigrati affittando abitazioni super affollate a prezzi esorbitanti, ne sono piene le cronache. Solo che la materia è trattata con grandissima superficialità e quello che avrebbe potuto essere grottesco si fa grossolanamente surreale, alla continua ricerca di effetti per i due protagonisti. Diego Abantuono continua a rifare il suo terrunciello mentre Carlo Buccirosso non può far altro che indossare la parrucca di Pappagone, la maschera televisiva creata da Peppino De Filippo nell’ormai lontanissimo 1966, personaggio di grandissimo successo che dall’anno successivo divenne anche fumetto. In conclusione “I mostri oggi” sono solo quelli che hanno realizzato il film.

Tornando ai mostri di oggi, ovvero di 14 anni fa, il film è nel complesso un clamoroso pasticcio. Non manca qualche episodio riuscito ma, come si dice, una rondine non fa primavera. Alla sua uscita fu massacrato dalla critica quasi all’unanimità ma ebbe successo al botteghino presso il cosiddetto pubblico di bocca buona. La debolezza del film è proprio strutturale: dovrebbe toccare argomenti per i quali ci si indigna e si tiene lontano da temi sensibili come la politica, la religione, il giornalismo e la televisione che anzi omaggia: i mostri sono cinematograficamente altrove anche se non direttamente citati: “Ferie d’agosto” e il più recente e meno riuscito “Siccità” di Paolo Virzì, ma anche l’Oscar “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino che ha saputo indagare su altri mostri moderni, così come pure Matteo Garrone la cui filmografia sembra interamente dedicata ai mostri troppo umani.

Col dovuto senso critico è un film in ogni caso da vedere per metterlo a confronto coi film del 1962 e 1977 coi quali ha cercato un confronto: se invece di intitolarsi ai mostri si fosse intitolato altrimenti oggi non sarei qui a parlarne. I titoli degli episodi li apprendiamo solo in coda, quando ormai stiamo lasciando la sala, se al cinema, o cambiando canale se in tv. I numeri: Diego Abantantuono, che onestamente è il peggio, la fa da padrone apparendo in 8 episodi che potrebbero essere 7 se si considera che come prelato compare in due; segue Giorgio Panariello che con le sue maschere alternatamente riuscite compare in 6; a quota 4 si piazzano a pari merito Carlo Buccirosso che è il più incisivo del terzetto, Claudio Bisio e Angela Finocchiaro che arrancano; 3 episodi per Sabrina Ferilli protagonista solo in uno è sempre troppo simpatica sopra le righe; due per Anna Foglietta e la coppia filmica Mauro Meconi e Susy Laude; un solo episodio per Neri Marcorè arrivato alla ribalta come imitatore concorrente di “La corrida” condotta da Corrado su Canale 5, vincendo nel 1988; in seguito partecipa anche a “Stasera mi butto”, Rai 2, arrivando in finale e da lì in poi la carriera televisiva è tutta in ascesa, studiando da professionista per prepararsi al doppiaggio, al cinema e al teatro; benché da più di un decennio anche protagonista al cinema, per quando in film secondari, qui con un solo episodio non merita neanche il nome in locandina. Su tutto il resto stendiamo veli pietosi.

I nuovi mostri – con gli episodi censurati dalla Rai qui recuperati

1977. Sono passati quindici anni dall’originale e molta acqua è passata sotto i ponti: sono finiti i tempi spensierati del boom economico sull’onda del quale cinematograficamente si è passati dal neorealismo del dopoguerra alla spensieratezza della commedia all’italiana che nei suoi esempi migliori era anche critica sociale con venature di un umorismo graffiante che non risparmiava niente e nessuno. Il 1977 è nel mezzo di un decennio nero di terrorismo, nazionale e internazionale, una narrativa che drammaticamente entra anche in questo film in cui i toni grotteschi e graffianti si fanno ancora più incisivi, e anche violenti come la società che li esprime.

Gli episodi che prima erano 20 qui sono 14 e a Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi si aggiunge un Alberto Sordi in gran spolvero, di suo già campione di maschere grottesche dell’italiano medio, con l’aggiunta della stella in ascesa Ornella Muti che aveva debuttato solo sette anni prima con “La moglie più bella” di Damiano Damiani. Un’altra novità è che in alcuni episodi i quattro nomi dei titoli di testa cedono il passo ad altri validi interpreti che a loro volta diventano protagonisti. Tognazzi e Gassman recitano insieme in un solo episodio. Degli sceneggiatori originali rimane Ruggero Maccari che scrive il film con Age & Scarpelli e Bernardino Zapponi; mentre Ettore Scola che lì era sceneggiatore qui è regista e insieme a Mario Monicelli si aggiunge a Dino Risi che fu regista unico del primo film. Suo figlio Claudio Risi è l’aiuto regista. Armando Trovajoli che qui è Trovaioli torna a firmare la colonna sonora. Dei tre registi, all’uscita del film non si sapeva chi avesse diretto cosa perché di comune accordo avevano deciso di non firmare i loro episodi, e pare che i tre si siano impegnati a sostenere con i loro guadagni l’amico sceneggiatore Ugo Guerra gravemente malato e da diversi anni paralizzato, che sarebbe morto cinque anni dopo. Oggi siamo in grado di abbinare i registi agli episodi. Alla produzione Pio Angeletti e Adriano De Micheli della Dean Film prendono il posto di Mario Cecchi Gori. Come film straniero fu candidato all’Oscar nel 1979 ma quell’anno vinse il francese “Preparate i fazzoletti” di Bertrand Blier. Fu anche candidato ai David di Donatello ma vinse solo l’Alloro d’Oro alla miglior sceneggiatura al Festival di Taormina.

La versione presente su YouTube è quella ridotta negli anni Ottanta per la Rai in cui vengono tagliati cinque dei quattordici episodi rimescolando l’ordine di quelli rimasti. In questa censura sono saltati quelli meno edificanti ritenuti non adatti alle famiglie, ovvero: “Il sospetto”“Sequestro di persona cara”, “Mammina e mammone”“Cittadino esemplare” e “Pornodiva”; questi ultimi tre però sono stati reintegrati in una versione trasmessa su Rai Movie a partire dal 2014, però con l’amputazione del finale di “Pornodiva” che, come vedremo, cambia completamente il senso del racconto.

Tantum Ergo di Dino Risi

Gassman è un cardinale che causa guasto alla sua auto si ferma in una chiesa di periferia dove è in corso un acceso dibattito di borgatari guidato dal prete Luigi Diberti. Il cardinale improvvisa un sermone che acquieta gli animi, dimostrando al prete-operaio che faticosamente guidava da pari a pari il dibattito, che la retorica e l’eloquenza con l’aggiunta degli effetti speciali di sempre – luci, campane e musica d’organo – sono la vera via del Signore. Paolo Baroni efficacissima spalla in una regia molto arguta è il pretino che come da tradizione, vedi “La giornata dell’onorevole” in “I mostri”, è sempre omosessuale.

Auto stop di Mario Monicelli

Oggi lo scriviamo in un’unica parola ma all’epoca erano ancora due parole staccate. Partendo dal dettaglio del magnete sul cruscotto “vai piano e pensa a noi” con foto dei familiari, scopriamo che alla guida dell’auto Eros Pagni (raffinato interprete teatrale che al cinema è un caratterista di lusso) va oltre un autostoppista commentando “Sì, col cazzo!” per poi fermarsi immediatamente quando sul ciglio della strada gli compare la “gnocca” Ornella Muti che carica in macchina facendo sparire il magnete, e ovviamente mettendo in campo tutti i luoghi comuni dell’automobilista con fantasie erotiche, e tutti noi spettatori conosciamo i luoghi comuni sulla pericolosità degli autostoppisti ma anche degli automobilisti…

Con i saluti degli amici di Dino Risi

Segue uno dei due soli episodi non ambientati nell’area romana: breve come uno sketch televisivo. In un paesino dell’entroterra siciliano, un notabile mafioso passeggia per le vie assolate accompagnato dal suono del sempre classico marranzano, finché viene steso a colpi di lupara da due ragazzotti in vespa “Con i saluti degli amici”, ed è comune fra i siciliani il detto “Amici, e guàrdati!”. Battuta folgorante finale del mafioso morente interpretato dal romano Gianfranco Barra unico protagonista.

Hostaria! di Ettore Scola

Col punto esclamativo che subito mette in evidenza la tipicità dell’osteria della tradizione romana. Gassman e Tognazzi, l’uno cameriere l’altro cuoco, nel loro unico incontro del film fanno dell’osteria il loro personale ring con divertimento reciproco: sono quella che oggi diremmo una coppia di fatto, litigiosa e di mezza età, che con i tempi e i modi e la musichetta delle comiche d’antan si tirano addosso di tutto distruggendo la cucina salvo poi fare pace con un bacetto. I borghesissimi commensali apprezzano le vivande che dopo la lite contengono di tutto. E non è chiaro se i mostri sono la litigiosa coppia o i commensali, che di passaggio citano e omaggiano Indro Montanelli come caro amico: messaggio ambiguamente trasversale al giornalista.

Pronto soccorso di Mario Monicelli

Un affettatissimo Alberto Sordi, come Principe Giovan Maria Catalan Belmonte è un esponente della nobiltà nera romana, quella papalina sempre nostalgica del Papa-Re, lascia un’amica al Jackie O’, esclusivo locale romano che a partire dagli anni ’70 ereditò quello che restava della dolce vita romana dei tardi anni ’50. Con la sua Rolls Royce bianca (la Land Rover la prende solo per le uscite sportive) deve raggiungere la residenza della Principessa Aldobrandi dove fra nobili si discuterà lo scisma del Cardinale Marcel Lefebvre. Sordi si esibisce in un monologo un po’ troppo lungo e un po’ troppo indugiando, a mio avviso, su alcune volgarità che pur caratteristiche del “nobile” personaggio non necessitavano di sottolineature. Raccoglie la vittima di un incidente stradale e tenta inutilmente di portarlo in tre ospedali che per un motivo o un altro rifiutano l’urgente ricovero: questa è un’altra delle mostruosità sociali. Alla fine lo abbandona lì dove l’aveva trovato, sotto il monumento a Mazzini che lui crede Mussolini. Luciano Bonanni interpreta l’uomo ferito mentre l’amica di passaggio all’inizio altri non è che la ballerina del ventre Aïché Nana che sul finire degli anni ’50 si era resa famosa per uno spogliarello al ristorante Rugantino, immortalata dal fotografo Tazio Secchiaroli. In coda il titolo “Pronto soccorso” diventa inglese: “First Aid” e vai a capire perché.

L’uccellino della Val Padana di Ettore Scola

Questo è il secondo episodio non ambientato a Roma. La moda dell’epoca nominava le cantanti in un bestiario tutto italiano: Mina era la Tigre di Cremona, Iva Zanicchi era l’Aquila di Ligonchio e Orietta Berti che aveva addirittura due nomignoli – l’Usignolo di Cavriago e la Capinera dell’Emilia – qui diventa Fiorella l’Uccellino della Val Padana gestita dal totalizzante marito-impresario Tognazzi che nel privato se la deve vedere con le tante bambole che invadono la loro camera da letto, autocitazione per la Berti che è realmente collezionista di bambole. La poverina incorre in un problema alle corde vocali e il solerte marito le procura un incidente domestico dopo la quale potrà esibirla come caso umano su una sedia a rotelle. Molto brava lei che da cantante professionista si mette in gioco e nel finale stona con grande maestria.

Come un regina di Ettore Scola

Sordi asciuga i toni e condivide lo schermo con una dolce vecchina che interpreta la madre. Che lui, all’insaputa di lei, sta portando in in ospizio. L’interpretazione più convincente dell’attore è tutta negli sguardi che spaziano dall’apprensione all’esasperazione, dall’amore alla malsopportazione e al senso di colpa. Per Sordi è un bagno di verità: è noto che fosse morbosamente legato alla madre e ancora si racconta di quando, alla morte di lei, per vent’quattr’ore si chiuse in camera col cadavere rifiutandosi anche di aprire agli impiegati delle pompe funebri. La vecchina è l’attrice di un solo film Emilia Fabi. “Trattatela come una regina!” è l’invocazione finale del figlio mentre va via. Come una regina in esilio, dolorosa condizione di molti nostri vecchi che non hanno più spazio nella frenetica quotidianità che ci stritola.

Senza parole di Dino Risi

Il breve incontro d’amore fra una hostess poliglotta e un affascinante mediorientale che non parla nessuna delle lingue che lei conosce – e qui tocca dire che la Muti non parlava bene nemmeno l’italiano dato che per tutto l’arco crescente della sua carriera è stata sempre doppiata. Nel romantico episodio senza parole la musica è padrona con due successi dell’epoca: “Ti amo” di Umberto Tozzi e “All by myself” nella versione originale di Eric Carmen. Episodio volutamente zuccheroso dove non tutto è come sembra. Con il greco Yorgo Voyagis inspiegabilmente col trattino nei titoli, Yorgo-Voyagis, volto nuovo sugli schermi italiani come Giuseppe nel televisivo “Gesù di Nazareth” di Franco Zeffirelli, in onda quello stesso 1977.

L’elogio funebre di Ettore Scola

Il funerale comincia con l’accompagnamento di una musichetta sgangherata di una piccola banda che dà subito il tono all’episodio. Fra i quattro che portano a spalla la bara ecco Alberto Sordi. Si seppellisce un comico d’avanspettacolo e i convenuti sono il variopinto bestiario di amici e colleghi. Sordi, come storica spalla del vecchio comico Formichella, comincia l’elogio funebre che presto si trasforma in rievocazione di gloriose scenette e sagaci battute: il funerale diventa un’allegra rivisitazione della rivista d’antan in cui Sordi stesso mosse i primi passi, e alle lacrime si sostituiscono risate canti e applausi con tanto di passerella finale attorno alla fossa e sipario calato dai muratori retrostanti che calano una rete di protezione. Nel sentire comune di quell’Italietta democristiana forse questi teatranti erano dei mostri ma è evidente che a un attore comico quel funerale sarebbe piaciuto assai. Per non dire che oggi è ormai prassi comune, questa sì tristemente comune, l’abitudine di applaudire ai funerali, gesto privo di senso traslato dalla gente di spettacolo che di quegli applausi era vissuta, tanto che alcuni preti cominciano ad avvertire che gli applausi non sono consentiti. Per l’intero film questo episodio è un delizioso e degno finale. E poi con una ricerca mirata ho trovato i singoli episodi tagliati dalla Rai.

Mammina e mammone di Dino Risi

La giornata di due eccentrici barboni in un episodio davvero inconsistente che probabilmente avrà avuto un senso per i suoi creatori se ispirato a personaggi reali: la morale è che fra i barboni che si aggirano nelle nostre città ci sono anche nobili decaduti e personalità esemplari. Con Tognazzi che come dolce bambinone si accompagna all’ottantenne Nerina Montagnani, una caratterista che dopo aver lavorato come cameriera per tutta la vita ha esordito a settant’anni costruendosi una carriera di tutto rispetto.

Cittadino esemplare di Ettore Scola

Il mostro siamo noi. Gassman rientrando a casa dal lavoro assiste all’aggressione e all’accoltellamento di un uomo. Come nulla fosse raggiunge la famiglia per cena e si rilassa davanti a un programma Rai: ovvio che la Rai lo abbia tagliato. Dal programma sentiamo la voce di Pippo Franco nel varietà “Bambole, non c’è una lira” diretto da Antonello Falqui.

Il sospetto di Ettore Scola

Episodio decisamente politico, dunque indigesto alla finta ecumenica mamma Rai. Gassman commissario di polizia dall’accento napoletano fa una paternale a un gruppo di giovani sovversivi arrestati, e dal mucchio gli arriva una pernacchia. Fatta da un brigadiere infiltrato per meglio mimetizzarsi. Con Francesco Crescimone da Caltagirone che sarà anche sceneggiatore e regista.

Sequestro di persona cara di Ettore Scola

Cinema che racconta la televisione-verità: diretta televisiva dal salotto di un uomo distrutto dal dolore al quale hanno rapito la moglie e che si rivolge ai sequestratori implorando almeno una telefonata per averne notizie. Andata via la troupe televisiva l’uomo mostra che aveva tagliato il filo del telefono. Altro episodio scomodo da mostrare in tv perché un mostro si fa gioco della tv. Oltre che dell’opinione pubblica.

Pornodiva di Dino Risi

In effetti l’episodio, senza voler svelare nulla a chi non l’avesse ancora visto, è davvero forte, non per il contenuto ma per il concetto che veicola. Eros Pagni è di nuovo protagonista con la procace moglie interpretata da Fiona Florence che all’anagrafe è Luisa Alcini, una coppia di burini che prima di firmare il contratto che prevede scene di nudo e di sesso con una scimmia vogliono capire i dettagli e alzare il compenso. Nel ruolo dell’anziano produttore il caratterista settantenne Vittorio Zarfati che con Risi aveva debuttato l’anno prima, e che aveva una tragica storia alle spalle: di religione ebraica sfuggì al rastrellamento nazi-fascista dell’ottobre 1943 perché si trovava poco fuori Roma e perse la moglie e tre figli deportati e soppressi a Auschwitz-Birkenau. come figlia della coppia di burini la decenne Simona Patitucci che da adulta farà poco cinema ma tanto teatro musicale e molto doppiaggio.

E per finire un po’ di numeri. Nella versione integrale di 14 episodi Ugo Tognazzi è presente in 3, Vittorio Gassman in 5, insieme solo in uno; 3 per Alberto Sordi, 2 per Ornella Muti e 2 anche per Eros Pagni che di fatto si colloca fra i protagonisti. Nella versione ridotta Tognazzi perde un episodio e Gassman addirittura 3 restando entrambi a pari merito con 2 episodi, cedendo il passo a Sordi che li porta avanti tutti e tre mentre Pagni ne perde uno dei due. Come anticipato Rai Movie ha trasmesso una versione allungata ma continuano a mancare “Sequestro di persona cara” e “Il sospetto” entrambi con Gassman. L’ultima volta in cui il film è stato trasmesso in televisione è stato nell’agosto 2022 su Rai 3. Anche nelle versioni home prima in VHS e poi in DVD c’è la versione ridotta a 9 episodi, la stessa disponibile attualmente su Netflix: non credo che si tratti più di censura per argomenti ritenuti scabrosi o antisociali ma sono incuria da pigrizia intellettuale e commerciale.

I mostri

Veicolo per due dei divi del momento anche amici nella vita: Ugo Tognazzi che veniva dalla rivista e Vittorio Gassman dal teatro classico, diversissimi quanto intercambiabili, in questo film esplorano la loro intima natura di interpreti: tendente all’esagerazione istrionica Gassman, più misurato e ambiguamente sottile Tognazzi, che per questo fu anche lodato dalla critica: “segna il punto più alto raggiunto da Tognazzi nel film a episodi”, “…in confronto al suo rapinoso, irresistibile, talvolta magari debordante collega [si presenta] come un ‘dritto’ di indole più conciliante e flemmatica. E lo è, magari, però i personaggi più mostriciattoli finiscono per essere poi proprio suoi”. “Nel corso di questo festival dei due emuli di Fregoli, bisogna dare la preferenza a Tognazzi, molto più sciolto, più sottile, più sfumato e più convincente di Gassman. Con lui, la satira è meno diretta. Essa s’insinua e raggiunge meglio lo scopo”.

I due attori nel film “La marcia su Roma” sempre diretti da Dino Risi

Il film del 1962 è stato selezionato fra i 100 da salvare della nostra cinematografia ed è un caposaldo della primissima commedia all’italiana che molto bene si espresse nei film a episodi, spesso firmati da registi diversi, in questo caso addirittura 20 di durata varia, e qui li dirige tutti Dino Risi, già regista affermato che ha scritto il film con Elio Petri che aveva da poco debuttato in regia col drammatico “L’assassino” ma che era sceneggiatore da più di un decennio; con Ettore Scola, anch’egli sceneggiatore da un decennio che debutterà come regista l’anno dopo con “Se permettete parliamo di donne”; e poi con gli sceneggiatori a tempo pieno Agenore Incrocci, Ruggero Maccari e Furio Scarpelli. Al montaggio quello che diverrà un altro regista di genere, Maurizio Lucidi, che come montatore continuava un mestiere di famiglia. Scene e costumi di Ugo Pericoli, musiche di Armando Trovajoli e produzione di Mario Cecchi Gori. Il successo è servito: la feroce critica sociale è piaciuta molto a pubblico e critica.

L’educazione sentimentale

È quella che un italiano medio impartisce al figlio scolaro elementare, fatta di luoghi comuni, proverbi e modi di dire, tutti all’insegna del fare truffaldino come stile di vita e della disonestà intesa come furbizia in un mondo di disonesti, perché i disonesti sono sempre gli altri: un atteggiamento – non solo tutto italiano – sempre corrente. La morale è che quel che si semina poi si raccoglie. Ugo Tognazzi apre il film con questo ritrattino folgorante educando il figlio Ricky Tognazzi (doppiato da un altro bambino, Roberto Chevalier) anche all’arte cinematografica: quello stesso anno il bambino recita di nuovo accanto al padre nell’episodio “Il pollo ruspante” diretto da Ugo Gregoretti nel film “Ro.Go.Pa.G.”. Come collega d’ufficio completa il cast Mario Frera non accreditato nei titoli, come pure la moglie del protagonista e madre del bambino che altri non era che Pat O’Hara, vera madre di Ricky e compagna di Ugo.

La raccomandazione

Vittorio Gassman, reduce dal suo “Il mattatore” prima in tv e poi al cinema diretto sempre da Dino Risi che su di lui aveva disegnato “Il sorpasso” l’anno prima, si prende in giro rifacendo sé stesso in una rilettura un po’ sopra le righe: è un prim’attore teatrale impegnato nell’Otello di William Shakespeare, come realmente lo era stato qualche anno prima in una storica messa in scena curata da lui stesso e in cui ogni sera si alternava con Salvo Randone nei ruoli di Otello e di Jago, spettacolo che è possibile recuperare nella sua versione televisiva su RaiPlay. Nell’episodio un collega meno noto e meno fortunato gli chiede una raccomandazione per un’altra produzione e il primattore, fra bizze in camerino infarcite di classiche sboronate, effettivamente telefona per fare la sua raccomandazione – che però si rivela falsa e ipocrita, e fingendo di negare ciò che invece afferma fa del collega un ritratto ingeneroso e disastroso. Nell’ingrato ruolo del collega si presta il caratterista cine-televisivo Franco Castellani.

Il mostro

Velocissimo, meno di un minuto questo flash che mette in burla la critica sociale. Il titolo di un quotidiano annuncia che un “mostro” ha ucciso i suoi cinque figli e si barrica in casa sulla Pontina, dove a seguire vediamo che la polizia lo va a prelevare. Musica di marranzano perché sia chiaro che il mostro è un immigrato del sud, e poi un fotoreporter fa uno scatto del povero mostro stretto fra i due poliziotti, uno a cui manca un incisivo e l’altro con un occhio storto: altrettanto mostri ma da barzelletta. Il tutto all’insegna di un politicamente scorretto ancora di là da venire nella coscienza civile e all’insegna del quale non avremo più di queste perle.

Come un padre

Come un padre, è come il giovane marito geloso considera l’amico un po’ più anziano nel cui appartamento piomba in piena notte per lamentare il presunto tradimento della moglie, chiedendo all’amico di intercedere, proprio come un padre, per accertarsi che i suoi siano solo timori e malate fantasie. Rassicurato il giovane amico, l’uomo torna a letto dove ad attenderlo c’è la giovane moglie di cui si è appena parlato. Tognazzi recita di sottrazione, con molta misura, dando spazio all’emergente Lando Buzzanca che nei decenni a venire sarà protagonista della commedia sexy all’italiana sempre con questo genere di personaggio, qui però doppiato dal padovano Carlo Reali che garbatamente rifà il suo accento siciliano.

Presa dalla vita

Gassman, come se non ne avesse abbastanza, in questo episodio si sdoppia e interpreta due di quei mostri che si muovono sui set cinematografici: un tuttofare che rapisce una vecchietta e poi il regista dalla chioma argentata che la utilizza nel film malgrado lei. Parabola, e anche un po’ denuncia, di tanti piccoli interpreti dell’appena concluso neorealismo dove gli attori venivano presi dalla strada, appunto, e qui si racconta anche contro la loro volontà. I sei sceneggiatori, o uno dei sei non si sa chi, si sono qui divertiti a ritrarre il regista come una copia di Federico Fellini.

Il povero soldato

Il povero soldato in licenza è venuto dalla provincia nella capitale dove si era trasferita la sorella, per riconoscerne il cadavere: la ragazza è stata trovata assassinata e i giornali cavalcano la notizia con tono scandalistico. Un amico lo accompagna nell’appartamento della ragazza, ex cameriera, come l’amico spiega cautamente, che si è evoluta: si era comprata una casa arredata con ogni confort ai Parioli… Il povero soldato, avvilito, ha trovato il diario della sorella con nomi e cognomi della Roma bene, calendario degli appuntamenti e tariffe in decine di migliaia di lire che lui finge di scambiare per incomprensibili numeri di telefono, e sempre avvilito triste e mortificato, va alla redazione di Paese Sera, quotidiano chiuso nel 1994, chiedendo tre milioni e mezzo per cedere le scottanti memorie che lui, nella sua ignoranza, considera un doloroso lascito sentimentale. Solo alla fine gli sfugge uno sguardo di calcolata furbizia. Con Quinto Parmeggiani come capo redattore.

Che vitaccia!

Qui il mostro è un povero baraccato della periferia romana che non ha neanche i soldi per comprare le medicine a uno dei tanti figli malati, salvo poi spendere gli ultimi spiccioli per andare allo stadio a vedere la squadra del cuore, ‘a Roma. Angela Portaluri è la moglie incinta, probabilmente sempre incinta data la numerosa prole. Le immagini della partita giocata allo Stadio Olimpico di Roma sono quelle reali della partita Roma-Catania giocata il 10 febbraio 1963 e terminata 5-1: Adelmo Prenna segnò l’unico gol del Catania mentre il suo compagno Remo Bicchierai segnò un improvvido autogol.

La giornata dell’onorevole

Sintetico spaccato dell’attività di un uomo politico in cui qualcuno ha voluto vedere Giorgio La Malfa e qualcun altro Giorgio La Pira, comunque di area cattolica poiché il personaggio vive in un convitto di frati domenicani; ma nell’aula parlamentare assistiamo al discorso di un altro mostro, fascista nello specifico, perché centro destra o sinistra sono tutti uguali. Nessuna azione mostruosa o delittuosa viene mostrata nell’episodio, in quanto già l’essere “onorevoli” è di per sé indice di mostruosità: ipocrisia, cinismo, opportunismo e sotterfugi sono il tessuto del mostro politico. Intorno a Tognazzi il vero generale in pensione Ugo Attanasio, suocero di Alberto Lattuada che lo aveva fatto debuttare come figurante, che qui interpreta un generale che fa anticamera; c’è poi il caratterista friulano Carlo Kechler (erroneamente Kecler nei titoli), il caratterista gay Franco Caracciolo come solerte fratino, che sarà nel corpo di ballo delle Ragazze Coccodè nel programma Rai 2 “Indietro tutta!” di Renzo Arbore nonché una delle Sorelle Bandiera in sostituzione di Tito LeDuc. Come figurante non accreditata Gabriella Ferri che a un pranzo sorride alle amenità dell’onorevole.

Latin Lovers (Amanti Latini)

La traduzione fra parentesi che oggi sarebbe superflua all’epoca aveva senso perché non erano in molti a conoscere l’inglese, giacché molti non conoscevano ancora neanche l’italiano. Altro brevissimo episodio, non parlato e accompagnato dalla canzone “Abbronzatissima” di Edoardo Vianello. In un’affollata spiaggia una donna, in quello scandaloso bikini che in quegli anni si andava diffondendo, scivola via dalle mani sinuose dei due amanti latini che le sono ai lati. E le mani dei due uomini continuano a cercare nel vuoto – trovandosi, e stringendosi in un’intesa omoerotica che nulla ha dei maschi latini. Politicamente scorretto ma divertente in quanto tale. La bella è Luciana Vincenzi che nel 1966 parteciperà a Miss Italia dove verrà incoronata solo con la fascia di Miss Cinema, senza però fare una grande carriera cinematografica.

Testimone volontario

Col sempre istrionico Gassman che come avvocato senza scrupoli sfarfalla intorno a Tognazzi che gioca per sottrazione il ruolo di testimone di un omicidio – il primo intimorendo e screditando il secondo. L’episodio appare incompleto perché ci si aspetta dall’abusato povero testimone una finale e risolutiva reazione. Qui il mostro è sicuramente l’avvocato ma gli sceneggiatori hanno perso la ghiotta occasione di fare anche del testimone un mostro esemplare. Nel ruolo della moglie di Tognazzi un’accorata Marisa Merlini, il giudice è Carlo Ragno.

I due orfanelli

Altra maschera esageratamente grottesca per Gassman come mendicante che si accompagna a un giovane cieco sfruttandolo; all’offerta di un oftalmico di poter curare gratuitamente il povero infelice, cambia zona per non perdere la sua personale fonte di sostentamento. Daniele Vargas è il dottore. Il titolo è un dichiarato omaggio, senza alcuna attinenza specifica nella trama, al film omonimo del 1947 con Totò, che a sua volta fu la parodia del muto del 1921 “Le due orfanelle” di David Wark Griffith dove si raccontava che una delle due era cieca: il magistrale cerchio di omaggi e citazioni si chiude. Nell’importante ruolo del cieco dagli occhi assai vivaci, anzichenò, un giovane inspiegabilmente non accreditato e in cui qualcuno ha voluto riconoscere Teo Teocoli.

L’agguato

Altro veloce episodio senza parlato: il pizzardone Tognazzi, in elegante divisa bianca estiva, si apposta dietro l’edicola di un giornalaio per multare gli incauti che si fermano in divieto di sosta per fare un acquisto al volo. Episodio sicuramente ispirato alle reali abitudini di certi tutori dell’ordine. Come vittime si prestano il produttore Mario Cecchi Gori e l’addetto stampa Enrico Lucherini. L’episodio si può inserire nel sottogenere denuncia sociale.

Il sacrificato

Sin dal cartello col titolo la musichetta del maestro Armando Trovajoli suggerisce un sirtaki greco in omaggio alla protagonista femminile Rica Dialina, già Miss Grecia 1954, che recitando con la sua voce in un convincentissimo italiano riesce a tenere testa al quasi monologante Gassman: sfruttatore seriale delle donne e dei loro sentimenti, ma che dice di sacrificarsi per il loro bene spingendole a farsi lasciare. Archetipo del maschio italico ancora in giro come mostro predatore. La francese Françoise Leroy, di cui non si conoscono altri film, è l’amante successiva.

“Vernissage”

Il termine francese del titolo, virgolettato, al contrario del precedente inglese “Latin lovers” non ha bisogno di traduzione perché evidentemente già all’epoca nel nostro uso comune. Siamo nell’Italia del boom economico in cui l’italiano medio firma pacchi di cambiali per regalarsi il nuovo necessario, in questo caso una fiammante Fiat 600. Dopo il felice acquisto Tognazzi telefona alla moglie e poi sistema sul suo nuovo cruscotto i magneti con San Cristoforo, patrono dei viaggiatori in genere, e un “pensa a noi” con foto di moglie e figlio. Uscito dal salone la prima cosa che fa con l’auto nuova è andare a caricare una prostituta: santa ipocrisia della classe media. Il cortometraggio è un chiaro rifacimento in chiave borghese dell’episodio “Che vitaccia!” ambientato nel sottoproletariato ma con medesima dinamica ego-consumistica: lì lo stadio qui la prostituita. Il titolo è nell’immediato incomprensibile e necessita di una rilettura assai più sottile: se per vernissage si intende una mostra d’arte qui l’arte messa in mostra è il consumismo: le auto nel salone e le prostitute sul viale. Nel ruolo della prostituta una giovane Isabella Biagini non accreditata.

La Musa

Si fa ma non si dice. Gassman torna a gigioneggiare nei panni femminili di una musa letteraria che come componente di giuria di un concorso letterario, assai caldamente spinge ad assegnare il premio ad un improbabilissimo debuttante, assai ruspante, nella cui camera d’albergo va a impartirgli gli ultimi preziosi consigli prima di spegnere la luce spingendo l’aitante giovanotto, fresco di doccia e in accappatoio, sul letto; sul nero del buio udiamo gli ultimi suoni: un bicchiere che cade e lei che chiede “Dove sei?” in un finale aperto in cui il giovanotto è forse riuscito a sfuggire alle grinfie dell’interessata musa. Si fa ma non si dice: molti concorsi erano o sono truccati? molti critici letterari erano o sono venduti? o solo interessati alle camere da letto? Si fa ma non si dice: l’innominato premio si ispira chiaramente al più importante premio letterario del momento, il Premio Strega, e il look del Gassman-Musa con quei fili di perle sull’abito nero dalla vertiginosa scollatura sulla schiena, rimanda molto alle vera musa dello Strega, la scrittrice Maria Bellonci, che però tacque sul film e non seguì nessuna polemica: è una dichiarata e “innocente” presa in giro e l’attore riporterà il personaggio nel televisivo “Studio Uno”, diretto da Antonello Falqui e condotto da Mina, alla quale il Gassman-Musa dichiarerà di essere la creatrice del “Premio Cerasella”: una divertente gag che forse arrivò come smentita: tutto è bene quel che finisce bene. Nel ruolo del giovane scrittore ruspante lo stuntman Salvatore Borgese qui nel suo primo ruolo parlato in barese e doppiato da Stefano Satta Flores.

Scenda l’oblio

Qui i mostri sono una coppia dell’alta borghesia che al cinema stanno vedendo la scena di un film neorealista in cui un plotone di soldati tedeschi ha appena fucilato degli inermi civili contro un muro, e quel “semplice muro con le tegoline sopra” è il modello che ispira lui per la loro nuova villa: un genere di mostri sempre fra noi. La di lui degna consorte è Luisa Rispoli, attiva in pochi film con piccoli ruoli in quegli anni Sessanta anche come Maria Luisa Rispoli.

La strada è di tutti

Velocissimo ritratto per Gassman come altro mostro sempre attuale sulle nostre strade: il flemmatico ma anche polemico pedone che faticosamente attraversa sulle strisce pedonali fra auto che “incollano”, poi sale sulla sua Fiat 600 dal look sportivo e diventa un altro di quei pirati della strada.

L’oppio dei popoli

L’oppio dei popoli, che secondo Karl Marx era la religione, qui è la televisione seguendo l’opinione di tanti intellettuali e, in questo caso specifico, di molti cineasti: perché la televisione toglieva spettatori al cinema e solo nei decenni più recenti i due mezzi sono diventati intercambiabili. Tognazzi si fa molto espressivo pur nella maschera inespressiva dello spettatore imbambolato davanti alla tv da cui proviene la lunga credibile traccia sonora di un film americano alla cui conclusione l’annunciatrice ricorda il titolo “Salto nello spazio” di Peter Baldwin, annunciando fra i programmi dell’indomani altre pesanti dosi di oppio al popolo: la ventesima puntata del romanzo sceneggiato “La cieca di Sorrento”, che però uscì come film diretto da Nick Nostro in quello stesso 1963; il primo titolo è d’invenzione e sembra un omaggio poiché Baldwin è realmente esistito come attore americano, interprete di film di fantascienza, adottato dal nostro cinema con un importante ruolo in “Era notte a Roma” di Roberto Rossellini, 1960; Baldwin poi sposò Emi De Sica, figlia di Vittorio De Sica col quale collaborò come aiuto regista prima di tornare negli USA dove si riciclò come regista televisivo negli anni ’70, dunque una sua regia nel 1963 è improbabile. Qui Tognazzi si ritrova nel medesimo triangolo amoroso di “Come un padre” ma stavolta nel ruolo del cornuto; la bella moglie in baby-doll sul cui primo piano si apre l’episodio accompagnato dalla voce di Nico Fidenco che la dice bella cantando “Tornerai… Suzie” è interpretata dalla francese (il film è in coproduzione) Michèle Mercier che diventerà famosa con il ciclo di film su “Angelica”. Il giovane amante è l’aitante Marino Masè che quell’anno fu protagonista per Jean-Luc Godard in “Les Carabiniers”. Sempre a proposito della televisione come oppio dei popoli alla fine ci viene detto che l’unico programma che il cornuto protagonista non guarda è “Tribuna politica” certo perché troppo attinente alla realtà.

Il testamento di Francesco

Ancora la televisione come scenario. L’episodio si apre col telegiornalista Riccardo Paladini, non nuovo a queste brevi partecipazioni cinematografiche, che nella sala trucco della Rai ripassa le notizie da leggere in video. Accanto a lui Gassman impersona un forbito personaggio che tormenta il truccatore con continue richieste, perché attentissimo all’immagine di sé che sta per dare in tv; e lì in diretta televisiva lo scopriamo essere un sacerdote che commenta le parole di San Francesco sulla vanità umana.

La nobile arte

Ironia sin dal titolo giacché nel pugilato di cui l’episodio tratta non c’è nulla di nobile: tolti gli ideali dei combattenti è solo questione di ingaggi e scommesse. I due attori concludono insieme il film con un episodio drammaturgicamente più complesso esibendosi in due caratterizzazioni che, pur spinte e grottesche, mantengono l’afflato umano delle grandi interpretazioni: personaggi che bene avrebbero potuto essere sviluppati in un lungometraggio a sé stante. Sono entrambi due ex pugili suonati, Tognazzi che si è fatto impresario e Gassman, ex campione d’Italia, che ora gestisce una trattoria sul litorale romano. Per necessità economica il primo e cedendo alle lusinghe della gloria il secondo, tornano in campo con l’amara conclusione che tutti già sappiamo. Gli altri interpreti: Lucia Modugno è la moglie di Gassman, il caratterista Mario Brega realmente appassionato di boxe è uno degli allibratori mentre il vero campione Ottavio Panunzi si presta a salire sul ring nel match finale.

Facendo i conti sono 20 episodi di cui 8 per ogni attore da protagonista e 4 con entrambi. Il film ebbe due sequel: “I nuovi mostri” nel 1977 sempre con Risi alla regia che stavolta si divise il compito con Mario Monicelli e l’Ettore Scola che qui è ancora sceneggiatore, mentre al cast principale si aggiungono Alberto Sordi, già maestro di mostruosità per suo conto e con una cinematografia tutta sua, e Ornella Muti. Segue il terzo capitolo “I mostri oggi” nel 2009, anno in cui i protagonisti originali non sono più fra noi e che si rivelerà non più che una inutile sequenza di barzellette.

Maria Stuarda, Regina di Scozia – con l’omaggio a Glenda Jackson nell’occasione della sua scomparsa

Il 15 giugno 2023 Glenda Jackson se n’è andata a 87 anni e per omaggiarla con qualcuno dei suoi migliori film c’è davvero poco sul mercato italiano di piattaforme web e canali televisivi. L’ideale sarebbe stato rivederla in una delle sue due interpretazioni che le valsero l’Oscar: “Donne in amore” del 1969 diretto da Ken Russell o “Un tocco di classe” del 1973 diretto da Melvin Frank. Ma molti altri titoli avrebbero potuto rappresentarla: da “L’altra faccia dell’amore” sempre di Russell del 1970 a “Domenica, maledetta domenica” di John Schlesinger del 1971, a “Una romantica donna inglese” di Joseph Losey del 1975: una carriera strepitosa che ha cavalcato intensamente tutti gli anni Settanta e Ottanta prima di ritirarsi nel 1992 per dedicarsi alla carriera politica dove per 23 anni ininterrotti è stata deputata parlamentare per il Partito Laburista. E devo confessare che come spettatore ho sentito la sua mancanza.

Glenda Farrell

Glenda May Jackson deve il suo primo nome alla passione che sua madre aveva per l’attrice holliwoodiana Glenda Farrell che in quel 1936, anno di nascita della nostra, era una brillante star del nuovissimo cinema sonoro, ma oggi dimenticata; e la Jackson con la sua popolarità ha contribuito a diffondere quel nome nel mondo: attualmente in Italia si contano circa 500 Glenda: nome di origine gallese che significa “buona e santa” ma che attualmente non gode più di molta popolarità. La giovane Glenda era la maggiore di quattro figli in una famiglia di operai che faticava ad arrivare a fine mese; cominciò a calcare le scene da adolescente, e doveva essere davvero brava se vinse una borsa di studio alla Royal Academy of Dramatic Art di Londra dove si trasferì dalla provincia, per poi debuttare professionalmente in teatro; ma sul finire di quegli anni ’50 non riuscì più a mantenersi col lavoro di attrice e passò da un lavoretto all’altro, impieghi che in futuro definì “una serie di lavori che distruggono l’anima”.

Debuttò al cinema nel 1963 con un piccolissimo ruolo nemmeno accreditato e poi per quattro anni si unì alla compagnia teatrale di Peter Brook che metteva in scena il suo “Teatro della Crudeltà” con la Royal Shakespeare Company: la meno che 30enne Glenda vi interpretò la detenuta di un manicomio che a sua volta interpretava Charlotte Corday, l’assassina di Jean-Paul Marat nel dramma “Marat/Sade” di Peter Weiss: roba d’altissimo livello che andò a Parigi e Broadway facendo discutere pubblico e critica, e da cui l’autore nel 1967 ne sviluppò il film omonimo in cui Glenda riprese i suoi ruoli. Nello stesso anno fu anche Ofelia nell’Amleto messo in scena da Peter Hall, un’Ofelia che secondo la critica era l’unica vista fino a quel momento in grado di interpretare lei stessa il principe Amleto. Si arriva al 1969 e al suo ruolo da protagonista nel controverso “Donne in amore” di Ken Russell che le valse il primo Oscar, appunto.

Del 1971 è questo film storico dove interpreta Elisabetta I, un ruolo amato dalle dive di tutto il mondo, a partire dal dramma teatrale “Mary Stuart” o “Maria Stuarda” italianizzato, che il tedesco Friedrich Schiller scrisse nel 1800 e che sin dal titolo pone come protagonista Maria di Scozia in drammatico contrasto con Elisabetta d’Inghilterra, la prima descritta come vittima sacrificale e la seconda come gelida macchinatrice, ruoli ambitissimi che nelle storiche versioni italiane ha visto confrontarsi Sarah Ferrati ed Elena Zareschi nel 1958, Anna Proclemer e Lilla Brignone nel 1965, e Valentina Cortese con Rossella Falk per la regia di Franco Zeffirelli nel 1983 che fecero scintille dentro e fuori la scena. E ad entrambe le regine, separatamente, sono stati dedicati film sin dall’epoca del muto: è del 1895 il cortometraggio “The Execution of Mary, Queen of Scots” diretto dall’americano Alfred Clark e prodotto dall’inventore Thomas Edison, ed è il primo film storico e il primo a utilizzare effetti speciali: l’attrice sul ceppo viene sostituita da un manichino che viene decapitato, e la scena fu così realistica che impressiono moltissimo il pubblico che credette che un’attrice si fosse sacrificata per il ruolo. Edison produsse nel 1913 un altro “Mary Stuart” meno cruento e più in linea con le produzioni più rassicuranti.

Del 1936 è “Maria di Scozia” diretto svogliatamente da John Ford, veicolo per la star Katharine Hepburn che si rifà al dramma teatrale dell’americano Maxwell Anderson, e vede nel ruolo di Elisabetta Florence Eldridge, moglie di Fredrich March che nel film interpreta il Conte di Bothwell, storico amante di Elisabetta. Fra le curiosità di questo film c’è che Ford fece girare alcune scene al suo aiuto britannico Leslie Goodwins che però non venne accreditato, e la stessa Hepburn fece la sua unica esperienza da regista dirigendo una scena che Ford voleva tagliare perché non gli piaceva, e fu aiutata nell’impresa dal coprotagonista March: il regista li lasciò giocare a fare i registi e alla fine montò la scena nel film dietro personalissime pesanti pressioni: all’epoca aveva una storia con la Hepburn. Per quel ruolo si era proposta Ginger Rogers ma la produzione RKO la rifiutò ritenendo che la sua immagine non fosse in linea con il ruolo. Dopo questo film del 1971 “Maria Regina di Scozia” è di nuovo sullo schermo nel 2018, regia di Josie Rourke con le odierne dive Saoirse Ronan e Margot Robbie. Assai più corposo è invece l’elenco dei film dedicati a Elisabetta I a cominciare dal muto del 1912 “Les Amours de la reine Élisabeth” con Sarah Bernhardt, passando per i due film con Bette Davis “Il conte di Essex” diretto da Michael Curtiz nel 1939 e “Il favorito della Regina” del 1955 diretto da Henry Coster; non sorvolando sull’Elisabetta en travesti di Quentin Crisp in “Orlando” diretto da Sally Potter nel 1992 e chiudendo l’incompleto elenco con dittico interpretato da Cate Blanchett e diretto da Shekhar Kapur: “Elizabeth” 1998 e “Elizabeth: the Golden Age” del 2007.

Il film del 1971, che ciclicamente passa sulla meritevole Cine34 e che ha come primo nome Vanessa Redgrave nel ruolo del titolo, ha ancora un suo fascino narrativo esponenzialmente aumentato dal fascino delle due interpreti, considerando però che come tutti i film storici ha delle inesattezze. La vicenda delle due regine, che può apparire lineare è in realtà molto complessa e la stessa narrazione contiene tante sotto storie diverse da cui si possono trarre sempre diversi punti di vista narrativi. Nello specifico Maria viene qui raccontata come una donna innamorata dell’amore e che per amore commette diversi errori – messa in contrasto con Elisabetta che pur concedendosi amanti prestanti non si è mai concessa l’amore: doveva aver tenuto in mente la sorte di sua madre Anna Bolena, una delle mogli di Enrico VIII che fu regale uxoricida seriale. E poi c’è il sempre presente contrasto politico-religioso cavalcato dalla Chiesa Cattolica contro il Protestantesimo.

L’inesattezza storica da sempre perpetrata sin dal dramma di Schiller è l’incontro tra le due regine, che il drammaturgo tedesco racconta come segreto e dunque verosimile anche se non vero, e da lui in poi c’è sempre un incontro più o meno segreto fra le due regine perché un confronto diretto fra due protagoniste di tale portata è un elemento spettacolare irrinunciabile, con buona pace dell’accuratezza storica che da sempre molto sopporta. Negli altri ruoli di rilievo del film Patrick McGoohan interpreta Giacomo Stuart il fratello traditore di Maria, Trevor Howard è Sir William Cecil il consigliere di Elisabetta; il 25enne in rapida ascesa Timothy Dalton, che più avanti vestirà i panni di 007, qui è decolorato biondo e interpreta in modo assai convincente il vanesio Lord Henry Darnley che la lungimirante Elisabetta invia alla corte di Maria perché la regina scozzese se ne innamori e lo sposi, detto fatto: succede che anche nel privato che il bel Dalton fa girare la testa alla Redgrave di nove anni più anziana, in un’epoca in cui la differenza di età contava. Nigel Davenport interpreta l’ambiguo Conte di Bothwell e Ian Holm interpreta il cortigiano italiano Davide Rizzio, altrove Riccio.

Ma torniamo alla nostra Glenda Jackson. Lasciò la recitazione nel 1991 e l’ultimo film che ha girato prima di dedicarsi completamente alla carriera politica, da persona seria, è stato il prequel di quel “Donne in amore” che le aveva dato fama circa vent’anni prima, sempre tratto dai romanzi di David H. Lawrence e sempre diretto dal suo amico Ken Russell nel 1989.

Glenda si era interessata alla politica sin da giovanissima: a 16 anni si era iscritta al Labour Party, un’alleanza di area socialista corrispondente al nostro centro-sinistra, e qualche anno dopo, già attrice, fu una delle figure pubbliche che legò il suo nome all’Anti-Nazi League, mentre da parlamentare fu un’accanita avversaria della Lady di Ferro Margareth Thatcher e del suo governo conservatore, tanto da farle dichiarare che vi si sarebbe opposta “con qualsiasi cosa fosse legale”; e quando il governo passò al Partito Laburista con Tony Blair, lei fu nominata sottosegretario con delega ai trasporti londinesi. Ma da sensibile politica con anima profondamente radicata nella Sinistra divenne critica anche nei confronti del suo stesso primo ministro allorché Blair alzò i costi delle tasse universitarie, finché nel 2005 non lo sfidò frontalmente dichiarando di volersi candidare contro di lui. E va da sé che era anche anti monarchica. Poi nel 2011 annunciò il suo ritiro dalla carriera politica presumendo che il Parlamento eletto l’anno prima sarebbe durato fino al 2015: “Avrò quasi 80 anni e per allora sarà il momento che qualcun altro abbia il seggio”. Era stata circa 23 anni nella politica attiva e lo scorso anno si tolse un altro sassolino dalla scarpa dichiarando che quando lei era stata eletta in Parlamento nel 1992, quell’assemblea non si era dimostrata accogliente nei suoi confronti in quanto donna.

come Re Lear

Nel 2015 tornò a recitare per la gioia di molti fans, prima in radio e poi in palcoscenico interpretando il “Re Lear” di William Shakespeare, lei che da giovane era stata indicata come possibile Amleto; interpretazione per la quale la critica scrisse: “Glenda Jackson è straordinaria come Re Lear. Senza se e senza ma. Tornando sul palco all’età di 80 anni, 25 anni dopo la sua ultima esibizione, ha compiuto una di quelle imprese dell’ultima ora per lo sforzo umano, e di cui sicuramente si parlerà per gli anni a venire.”

E nel 2019, dopo 27 anni di assenza, tornò a recitare nel dramma televisivo “Elizabeth is missing” dove interpreta un’ottantenne con l’Alzheimer, film per il quale vinse il BAFTA e l’Emmy Award. Ha fatto in tempo a girare un ultimo film per il cinema tornando a fare coppia con Michael Caine, di tre anni più vecchio dunque 90enne, con cui aveva girato “Una romantica donna inglese”, oggi nel film sulla terza età “The Great Escaper” che dovrebbe uscire entro quest’anno: un’occasione da non mancare per tornare al cinema in sala.

Avatar – la via dell’acqua

Comincia come un western con gli indiani che assaltano il convoglio ferroviario dei coloni invasori e finisce con una riedizione fantasy del “Titanic” che affonda; in mezzo storie di famiglie e di tribù che impareranno a conoscersi e a unirsi contro il nemico e, soprattutto, storie di teenagers con gli ormoni in subbuglio, passando anche attraverso una citazione di Moby Dick, la balena bianca”. Il primo “Avatar” del 2009 è stato un grandioso evento cinematografico perché il suo autore e creatore, è il caso di dirlo, ha proprio creato un mondo fin nei minimi dettagli consentendo agli spettatori un’esperienza immersiva mai provata prima: non erano solo scenari fantasy che facevano da sfondo ai personaggi e alla vicenda ma una vera e propria realtà alternativa e viva, protagonista essa stessa della nuova narrativa.

Il progetto “Avatar” prende vita nella mente di James Cameron nell’ormai lontana metà anni ’90 ma all’epoca, e secondo la tecnologia del tempo, fu stimato che un film di quella portata sarebbe costato qualcosa come 400 milioni di dollari: una follia. Così l’autore-creatore concentrò le sue energie e i suoi soldi, e non soltanto i suoi, nella realizzazione di “Titanic” (1997) che costò soltanto 200 milioni di dollari più gli spiccioli per la promozione: altri 85 milioni. Il film incassò quasi 2 miliardi di dollari e sarebbe stato superato proprio da “Avatar” che arrivò quasi a 3 miliardi piazzandosi come miglior incasso mondiale. Questo sequel ha incassato 2 miliardi e mezzo ed è il maggior incasso post pandemia, senza però raggiungere l’exploit del primo capitolo: che cosa non ha funzionato?

Per chi ama il genere il film è perfetto ma strada facendo – sono passati 13 anni dal primo capitolo – ha perso un po’ di pubblico per vari e molteplici motivi: tanti sono morti per pandemia Covid; tanti altri con il lock-down hanno perso l’abitudine di andare al cinema, altri ancora che sono corsi a vedere il primo “Avatar” perché fans dei fantasy sono rimasti parzialmente delusi perché in quel mondo non c’erano super-eroi in calzamaglia coi quali identificarsi e nei quali travestirsi nei vari festival cosplay; e poi ci sono quelli, ci sono sempre, che ne sono rimasti definitivamente delusi. Io personalmente appartengo alla categoria lockdowner (è un mio neologismo).

Visto in tv questo sequel ha per me perso la principale attrazione: la magia della sorpresa per i dettagli di mondi inesistenti, che oggi diventa semplice ammirazione per quello che ancora Cameron si inventa: sposta l’avventura dagli ambienti forestali a quelli marini e lì altri scenari, altre faune, altre vegetazioni che continuano a incantare senza più però sorprendere: il gioco è scoperto. Negli anni passati su Pandora il protagonista umano riconvertitosi Na’vi ha messo su famiglia e figliato: qui purtroppo tornano le già troppo viste dinamiche familiari, con questi adolescenti che fanno in chiave fantasy quello che fanno tutti gli adolescenti nei film con e per adolescenti: litigano e poi solidarizzano, maschi e femmine si fanno gli occhi dolci, si buttano nella mischia senza pensare alle conseguenze diventando però eroi loro malgrado. Tutta narrativa cinematografica trita e ritrita innestata su un mondo fantastico con una filosofia troppo scopertamente New Age: il divertimento rimane ma non c’è più l’incanto.

CCH Pounder

Tornano i protagonisti del primo capitolo Sam Worthington e Zoe Saldana, con Sigourney Weaver che interpreta madre e figlia: la intravediamo per pochi secondi prima di ritrovarla formattata in blu come Kiri, ovvero figlia naturale Na’vi del suo primigenio personaggio umano (genesi che in un breve passaggio narrativo resta oscuro anche agli stessi personaggi, figuriamoci a noi spettatori), ragazza che viene adottata dalla famiglia Sully; quarto nome in elenco è Stephen Lang nel ruolo del cattivo morto nel primo capitolo, e qui anche lui torna riformattato in Na’vi perché possa continuare a dare filo da torcere ai nostri eroi pacifisti figli dei fiori cosmici la cui figliolanza è interpretata da giovani attori di cui non vediamo mai le vere sembianze, né tantomeno sentiamo le vere voci se vediamo il film col doppiaggio italiano – in pratica cartoni animati: Britain Dalton che è figlio di Timothy Dalton, Jamie Flatters e Trinity Jo-Li Bliss cui si aggiunge Spider, il giovane umano ribelle amico dei ragazzi Sully, interpretato da Jack Campion. Nel ruolo della saggia nonna blu torna CCH Pounder.

Il cast degli adolescenti con le loro reali sembianze: Jack Campion, Filip Geljo, Jamie Flatters, Bailey Bass, Trinity jo-Li Bliss, Britain Dalton e Duane Evans Jr.

La nuova famiglia Na’vi che impariamo a conoscere è quella che vive sulle isole della barriera corallina dove i Sully si rifugiano. Gli interpreti sono Cliff Curtis come capo tribù con l’amichevole partecipazione di Kate Winslet come sua moglie che torna a lavorare con James Cameron dopo “Titanic” e si attende il suo co-protagonista Leonardo Di Caprio nel terzo capitolo della serie. Gustosa curiosità: la Winslet è rimasta in apnea per 7 minuti e 14 secondi superando il precedente record di 6 minuti detenuto da Tom Cruise e stabilito durante la lavorazione di “Mission: Impossible – Rogue Nation”. I loro figli sono interpretati da: Bailey Bass, Filip Geljo e Duane Evans Jr. Tutti interpreti che hanno recitato con il motion capture per essere trasformati in Na’vi e di cui non vediamo mai le vere sembianze. Fra i cattivi torna Matt Gerald e si aggiungono la generalessa Edie Falco e il capitano Brendan Cowell che tiranneggiando lo studioso Jemaine Clement va a caccia di balene aliene. Fra gli altri umani da laboratorio in ruoli minuscoli Giovanni Ribisi e Joel David Moore. Non ci resta che vedere il capitolo 3 ma anche il 4, il 5…