Archivio mensile:marzo 2023

AAA – Alle origini del cinema italiano, prima parte

Fiat lux, e luce fu. Dio creò l’Universo e molto tempo dopo le sue Creature intrappolarono la Luce nella fotografia, qualcuno anche sognando di vedervi impresso il volto del Dio e invece è andata a finire che non facciamo altro che replicare i nostri volti selfie su selfie: dio siamo noi. Lasciando le cose divine a chi se ne intende, fingiamo qui di intenderci di fotografia e cinema: entrambi alla loro creazione sono stati considerati principalmente strumenti legati a un discorso antropologico e ambientale, geografico e umano, in quanto inquadravano e catturavano la società e l’ambiente così com’erano: senza raccontarli ancora, ovvero senza rappresentarli, senza la fiction per dirla con parole odierne: erano documenti, documentari; la rappresentazione in quanto tale avveniva dopo, negli spazi in cui la fotografia e il cinema venivano presentati al pubblico, spazi dapprima ambulanti in cui erano utilizzati tendoni in stile circense, quando non addirittura all’aperto nelle serate estive, o adattando locali preesistenti sul territorio della tournée; ovviamente l’arrivo del fenomeno era annunciato preventivamente da manifesti affissi sui muri.

Tutti sappiamo che il cinema è nato in Francia con i Fratelli Lumière, ma non tutti sappiamo che fra i loro collaboratori ci furono due italiani, due amici piemontesi ingaggiati come rappresentanti in Italia: il torinese Vittorio Calcina che oggi viene ricordato come il primo cineasta italiano, che sul finire dell’Ottocento fu autore della prima ripresa cinematografica di un papa allorché immortalò Leone XIII nei Giardini Vaticani: non immortaliamo il volto del dio ma possiamo con i suoi rappresentanti in terra. L’altro italiano fu il cuneese Giuseppe Filippi che viene ricordato come fra i primi operatori-proiezionisti. Con questi due precedenti è facile immaginare come una fra le prime case di produzione cinematografica venisse fondata a Torino, città che negli anni successivi divenne una delle capitali del cinema. Un po’ scienza e un po’ tecnica l’impresa era nuova e poiché prospettava lauti guadagni ci furono dei coraggiosi pionieri che posero l’Italia fra le nazioni all’avanguardia nelle produzioni cinematografiche.

Ci fu anche Arturo Ambrosio, che da anonimo impiegato torinese presso una ditta di tessuti, seguì la sua bruciante passione per quel nuovo fenomeno che era la fotografia, e già trentenne (all’epoca era un’età rispettabile e ci si augurava che si fosse rispettabilmente già sistemati) lasciò il lavoro per andare a Losanna a studiare la sua passione, e appresi i fondamenti tornò nella sua Torino per aprire un negozio di articoli ottici e fotografici; ma la fotografia si stava trasformando in cinema e la sua passione si accese di quelle nuove prospettive, così decise di rimettersi in viaggio e spese un altro anno fra Francia Inghilterra e Germania continuando il suo preziosissimo apprendistato, alla conclusione del quale si ristabilì nella sua città per fondare la Ambrosio Film dotata di un proprio stabilimento, per la quale si improvvisò necessariamente anche regista, facendosi affiancare da altri amici con la medesima passione, e tutti insieme facevano di tutto un po’ essendo le professionalità specifiche ancora in divenire: sceneggiatori, operatori di ripresa, direttori della fotografia, direttori artistici e all’occorrenza anche attori: erano i tecnici Roberto Omegna e Giovanni Vitrotti e l’attore di filodrammatica Luigi Maggi, tutti ricordati oggi come pionieri del cinema, che a partire dal 1904 cominciarono i loro esperimenti cinematografici di documentari sportivi e di comiche.

La litografia conservata come manifesto di “Briganti di Sardegna”.

È curioso ricordare come per le loro primissime produzioni, fra le quali si annovera già il documentario “Briganti di Sardegna”, si fossero poi spostati anche in Sicilia realizzando vari titoli: “Una zolfara” “Una gita a Monreale” “Sicilia illustrata” “Marsala” che si inquadrano proprio nell’ottica del cinema come documento ambientale e curiosità antropologiche: l’unità dell’Italia era una cosa di appena cinquant’anni prima e Piemonte e Sicilia erano ancora due mondi lontanissimi. La prima grande produzione della Ambrosio fu lo storico “Gli ultimi giorni di Pompei” del 1908, un vero e proprio kolossal dell’epoca, ovviamente muto, regia firmata da Ambrosio e Maggi ma con riprese dirette da Omegna, in pratica direzione artistica e direzione tecnica disgiunte. Nel 1911 Ambrosio fu invitato dallo Zar Nicola II Romanov a creare in Russia un’industria cinematografica, e l’anno successivo si assicurò i diritti esclusivi per filmare le opere di Gabriele D’Annunzio; viene inoltre ricordato negli Stati Uniti per essere stato capace con i suoi film epici di rivaleggiare con l’industria hollywoodiana, che in realtà all’epoca era ancora molto disorganizzata. In questo link quel primo kolossal pubblicato su Wikipedia.

A seguire, nel 1905 viene fondata a Roma la Società Primo Stabilimento Italiano di Manifattura Cinematografica Alberini e Santoni, dotata di un teatro di posa sulla via Appia non lontano da Porta San Giovanni – oggi praticamente in centro. Realizzò il primo film a soggetto proiettato in pubblico, “La presa di Roma” poi noto anche come “Bandiera bianca” e “La breccia di Porta Pia” che i romani potettero vedere su un tendone piazzato proprio davanti a Porta Pia nell’anniversario del fatto, il 20 settembre 1905, ma si sa di una precedente proiezione a Livorno; in questo link la pagina Wikipedia su cui è caricato il filmato di sei minuti superstite dei circa dieci del film. Quella Società fu nel giro di un anno rilevata dal barone piemontese (ancora il Piemonte in prima fila) Alberto Fassini che la trasformò nella più nota (a posteriori) Società Italiana Cines che si specializzò in produzione storiche come “Garibaldi” e in costume come “Otello” e “Il fornaretto di Venezia”.

Altra importante casa di produzione dell’epoca fu la Itala Film, sempre a Torino, che nasce dalle ceneri di una precedente avanguardistica impresa specializzata nello sfruttamento commerciale della comunicazione senza fili, ma era ancora troppo presto e la società cambiò in corsa la propria attività; restando nell’ambito delle novità si trasformò in manifattura cinematografica nel 1907 come Carlo Rossi & C. i cui soci impresari erano il chimico Carlo Rossi e l’industriale di origine tedesca Guglielmo Remmert, che non sapendo dove mettere le mani assunsero personale francese proveniente dalla Pathé, e cominciarono così bene che i loro film vennero anche distribuiti negli Stati Uniti.

Giovanni Pastrone

Ma appena otto mesi dopo la proficua società fu messa in liquidazione per gli insanabili contrasti sorti fra i due soci, e il genero di Remmert, Carlo Sciamengo, rilevò la società insieme a un giovane contabile (anche diplomato in violino al Conservatorio di Torino) che avrebbe inscritto il suo nome fra i grandi del cinema muto, Giovanni Pastrone, e insieme fondarono la Itala Film che ben presto si accreditò come la terza più importante casa di produzioni cinematografiche per il numero delle pellicole o delle filme (così si dicevano all’epoca) vendute.

Fra le grandi produzioni dell’Itala il più grande e clamoroso successo fu “Cabiria” diretto da Pastrone, che con le sue tre ore e dieci fu il primo vero kolossal italiano di lunga durata e anche il più esageratamente costoso: a fronte di un costo medio di cinquantamila lire, il film costò un milione di lire-oro, termine che comprendeva sia la moneta coniata in oro che quella convertibile in base al rapporto di parità aurea stabilito nel 1862 all’avvenuta unità d’Italia; convertibilità in oro che però fu subito sospesa nel 1866 a causa dei costi della Terza Guerra d’Indipendenza del Regno d’Italia contro l’Impero Austriaco; la convertibilità fu ripristinata nel 1881 ma ormai la degenerazione delle monete in metallo vile e ancor più vile carta stampata era avviata, senza gravi conseguenze per la vita di tutti i giorni della gente comune, e la convertibilità in oro fu di nuovo messa in discussione nel 1887 e, senza dichiararlo apertamente, fu di nuovo sospesa: la reale copertura aurea del denaro in circolazione era ormai solo al 40% del totale e la convertibilità veniva garantita solo a imprese importanti, come appunto la produzione di “Cabiria”, scritto dallo stesso Pastrone con gli intertitoli (i cartelli) di Gabriele D’Annunzio su soggetto dello stesso D’Annunzio dagli scritti di Tito Livio, Gustave Flaubert ed Emilio Salgari. Cabiria, che significa “nata dal fuoco” è un nome inventato dal D’Annunzio grande inventore di nomi (sua invenzione anche Ornella e suo anche “La Rinascente”). Il film restò per sei mesi in cartellone a Parigi e addirittura per un anno a New York, dove David W. Griffith rimase colpito dalla spettacolarità delle riprese, non più statiche, e soprattutto dalla durata: presto avrebbe realizzato il suo lungometraggio “Nascita di una Nazione” che in qualche modo segna anche la nascita di quella nazione come centro di produzioni cinematografiche.

Ma anche a Napoli c’era un gran fermento. Il 19enne di buona famiglia Gustavo Lombardo abbandonò gli studi di giurisprudenza, facendo arrabbiare il papà, per seguire la sua passione fondando nel 1904 una sua società per la distribuzione di pellicole, diventando rappresentante per l’Italia meridionale delle case del nord e di quelle francesi. E solo nel 1916 si buttò nella produzione creando la Teatro-Lombardo Film che successivamente trasformò in Lombardo Film assorbendo la conterranea Polifilms in crisi economica e accreditandosi fra i più importanti produttori italiani, fino a dare vita nel 1928 alla Titanus, ancora oggi attiva come distributore e produzione tv.

Ed è ancora napoletano il primo regista a firmare il primo cortometraggio italiano: fu Roberto Troncone, giovane laureato in giurisprudenza che appassionatosi al cinema si procurò una macchina da presa Lumière girando già nel 1903, prima ancora dei primi esperimenti torinesi, il documentario “Il ritorno delle carrozze da Montevergine”; nel 1906, aggiornatosi con una nuova macchina da presa Gaumont, il pioniere napoletano gira con riprese “dal vero” mentre il Vesuvio stava eccezionalmente eruttando il 6 aprile, filmando dal treno della Circumvesuviana; il cortometraggio, intitolato “Eruzione del Vesuvio” gli varrà fama internazionale, e creò la Fratelli Troncone & C. che fu la prima vera casa di produzione napoletana, che nel 1909 trasformò in Partenope Film che visse fino al 1926, anno in cui chiuse a causa del clamoroso insuccesso commerciale di “Fenesta ca lucive” che era il remake di un successo di undici anni prima. Già allora bisognava andare cauti coi remake!

Fotografia dell’americano in vacanza Frank A. Perret
I Fratelli Lumière girarono anche a Napoli i loro documentari-cartolina
Luca Comerio

A Milano c’era il fotografo Luca Comerio “Fotografo Personale di Sua Maestà il Re” attività, questa, che era nata da un fortunato scatto di Umberto I mentre conversava con il vescovo della città e che gli valse i complimenti del Savoia; ma oltre che rinomato ritrattista che stampava anche su porcellana fu anche precursore del foto-giornalismo per avere documentato i moti di Milano del 1898 sanguinosamente repressi dal generale Bava Beccaris, episodio che ispirò la vendetta dell’anarchico Gaetano Bresci che nel 1900 sparò tre colpi di rivoltella uccidendo il re Umberto. Intanto, in quell’ancora tranquillo fine ‘800, Comerio pensò di ampliare la sua attività realizzando dei brevi filmati con l’attore trasformista Leopoldo Fregoli, il quale aveva già cominciato a sperimentare il cinema con i Fratelli Lumière e con Georges Méliès. Nel 1907 Comerio vinse 500 lire a un concorso fotografico e andò a Parigi per acquistare un cinepresa Pathé con la quale, grazie alla stima che si era conquistata presso i Savoia, gli fu concesso di imbarcarsi sul panfilo reale Trinacria per documentare la crociera nel Mediterraneo del nuovo re Vittorio Emanuele III: fu quel servizio che gli valse la nomina a fotografo ufficiale della Real Casa. Quindi costituì la Luca Comerio & C., la prima manifattura cinematografica milanese, cominciando a realizzare reportage d’attualità di stampo giornalistico, prima di darsi alle fiction; come fotoreporter documentò anche il terribile terremoto di Messina del 1908 e nel 1911 partecipò come fotografo e cineoperatore alla spedizione militare in Libia: fu probabilmente il primo a fare un reportage di guerra, addirittura in Kinemacolor, e poi fu in campo anche durante la Prima Guerra Mondiale. Nel frattempo, attraverso varie trasformazioni societarie, Comerio aveva fondato nel 1909 la Milano Films con ampia partecipazione di ben 24 soci finanziatori del bel mondo milanese: un nuovo assetto societario dal quale Comerio prese presto le distanze per divergenze artistiche e organizzative.

Uno degli esperimenti di Comerio con Fregoli.
Bersaglieri che fronteggiano le barricate in uno scatto di Comerio
il terremoto di Messina del 1908: si noti quanto sia migliorata la resa fotografica in soli dieci anni rispetto alla foto sopra

FINE PRIMA PARTE, QUI LA SECONDA

IL SOSPETTO – omaggio a Francesco “Citto” Maselli

Sarò sincero, non sono mai stato un fan dell’appena scomparso 92enne Francesco Maselli e trovando su YouTube questo suo importante film che ho visto per la prima volta, confermo la mia posizione: il suo impegno politico e sociale prevarica l’attenzione per il pubblico, tant’è che i suoi film non hanno mai avuto grande riscontro al botteghino. Ci sono film di maestri coevi, Francesco Rosi Florestano Vancini ed Elio Petri tanto per citare i primi che mi vengono in mente, che pur indagando la politica e il sociale non derogano da quella che dovrebbe una delle regole portanti del cinema: la spettacolarità, che non sono solo botti e botte da orbi, ma soprattutto scrittura accattivante e ritmo coinvolgente: chi continuerebbe a leggere un libro che risulta ostico se non noioso sin dalle prime pagine?

Francesco Maselli è “nato bene” come si diceva una volta, in una famiglia di intellettuali romani: suo padre era un critico d’arte che ospitava nel suo salotto i bei nomi intellettuali e progressisti dell’epoca, ed era intimo amico di Luigi Pirandello che gli dava da leggere in anteprima i suoi manoscritti, e fu proprio Pirandello a tenere a battesimo Francesco affibbiandogli il nomignolo Citto. Il ragazzo si dimostrò anch’egli un intellettuale precocissimo: a sette anni aveva già imparato l’Amleto a memoria; e a tredici, durante l’occupazione tedesca della capitale, portava armi e cibo ai partigiani del Gap, Gruppo d’Azione Partigiana; e a seguire, a soli quattordici anni riuscì entrare nell’allora clandestino Pci, Partito Comunista Italiano. In quegli anni gira anche i suoi due primi cortometraggi in 8mm fra i 15 e i 17 e ancora 17enne viene accettato al Centro Sperimentale di Cinematografia da cui si diploma 19enne; sarà subito assistente di Luigi Chiarini, critico e teorico del cinema fra i fondatori del Centro, suo padrino professionale, oltre ad affiancarsi come aiuto di Michelangelo Antonioni e Luchino Visconti: insomma, il giovane Citto “nato bene” non ha dovuto sgomitare per lavorare coi migliori. Si comincia già a delineare il suo talento come documentarista che è in linea coi suoi impegni politici e civili e probabilmente proprio in questo tipo di cinematografia riesce a dare il meglio: perché essendo film dichiaratamente documento non hanno l’obbligo – ammesso che sia un obbligo – della spettacolarità, ovvero di dover piacere al grande pubblico. Perché questo sarà il nodo irrisolto di tutta la cinematografia di Citto Maselli: non riesce a piacere al pubblico di massa, tanto che per indagare questo aspetto andrà anche in analisi. Di fatto l’autore mette sempre in primo piano la politica che, di fatto, è la sua formazione emotiva, quella che ha formato l’adolescente; racconta i suoi personaggi e struttura i suoi film secondo una visione intimamente marxista, facendone dei casi-limite, esempi di un’umanità e di contesti sociali che finiscono con l’essere poco accattivanti e indigesti al botteghino.

Prendiamo ad esempio questo “Il sospetto” del 1975, che per non essere confuso col film omonimo del 1941 di Alfred Hitchcock “Suspicion” in originale, verrà distribuito come “Il sospetto di Francesco Maselli” (poi ci sarà un altro film omonimo nel 2012 del danese Thomas Vinterberg). Ambientato nella Torino del 1934, centro nevralgico di interessi politici della sinistra operaia per la gran massa di operai della Fiat, racconta di un dirigente del Partito Comunista Italiano in clandestinità perché si è nel bel mezzo del cosiddetto ventennio fascista.

Scorcio parigino del film

L’ambientazione è inappuntabile e accattivante, si fa grande sfoggio di auto d’epoca e di comparse bene acconciate, e la cinematografia di Giulio Albonico insieme al montaggio di Vincenzo Verdecchi scarnificano l’opera rendendola fascinosamente essenziale, senza sbavature e inutili compiacimenti – ma già alla base del progetto c’è una scrittura – sceneggiatura di Franco Solinas (già critico cinematografico per il quotidiano comunista l’Unità) da un soggetto dello stesso Maselli – che sembra non tenere conto degli spettatori: è scritto come se parlasse solo ai tesserati del partito, dando per scontati dettagli informazioni e utili raccordi che vengono a mancare a chi non è addentro a quelle specifiche dinamiche, col risultato che io spettatore “non iniziato” e non iscritto al Partito Comunista faccio fatica ad entrare nello spirito del film, della sua narrazione; è esemplare il finale del film con il lungo monologo-spiegazione del funzionario del partito fascista, che dà un senso all’intero impianto del film ma che nelle mani di altri cineasti sarebbe potuto diventare un confronto più serrato e drammaticamente vivo; e l’intera storia che contiene tutti gli elementi di un thriller – il sospetto che ci sia un traditore fra le fila dei comunisti e l’indagine per smascherarlo – viene invece condotta come un film a tesi che spiega solo le dinamiche interne al partito: le tesi appunto e i contrasti, i dirigenti in clandestinità e quelli in esilio all’estero, l’allontanamento ideologico dal Partito Socialista Italiano, le direttive imposte dall’alto e il sacrificio individuale.

Ne è protagonista il sempre centratissimo Gian Maria Volonté, anch’egli comunista attivissimo: proprio in quel 1975 fu eletto consigliere regionale del Lazio, carica da cui si dimise appena sei mesi dopo, motivando: “Mi accorsi che esisteva un baratro tra il mio bisogno di comunismo e la carriera politica che loro mi proponevano. Volevano fare di me un funzionario, un animale politico invischiato nella partitocrazia: io avevo bisogno di ricerca, di critica, di democrazia. Ho capito che stavo perdendo la mia identità e ho scelto il rapporto con me stesso” a dimostrazione che la purezza e l’integrità ideologica non possono andare di pari passo con l’attività politica sul campo che deve fare i conti con le varie realtà trasformando l’iniziale ideologia in fatti concreti. A latere bisogna sempre ricordare che quelli erano i cosiddetti anni di piombo (modo di dire derivato dal film omonimo del 1981 della tedesca Margarethe Von Trotta) del terrorismo di destra e sinistra che aveva fatto del territorio italiano un campo di battaglia, si suppone col supporto dei servizi segreti americani che temevano l’espandersi della comunista Russia nell’Europa Occidentale: già nel film si parla dell’Unione Sovietica come ideologico faro dell’umanità. E anche in tale contesto va collocata l’ispirazione politica di autore e protagonista.

Fanno da contorno a Volonté un insolito Renato Salvatori per chi lo ricorda brillante giovanottone che era arrivato al successo negli anni ’50 con la trilogia di Dino Risi dei “Poveri ma belli” e, nonostante fosse quasi sempre doppiato ebbe anche bei ruoli in film drammatici; ma per Salvatori quegli anni ’70 erano già gli anni del declino: aveva ceduto all’alcolismo e consequenzialmente veniva chiamato per ruoli meno impegnativi benché sempre tenuto in considerazione da amici e colleghi; morirà 55enne di cirrosi epatica. Nel ruolo della dirigente italiana in esilio a Parigi c’è la parigina Annie Girardot, amica di famiglia essendo l’ex moglie di Salvatori con il quale era rimasta in affettuosi rapporti: si erano conosciuti nel 1960 sul set di “Rocco e i suoi fratelli” di Luchino Visconti, film che peraltro segnò l’apice della carriera di lui come interprete drammatico. Nel ruolo di un altro dirigente di partito c’è il torinese doc Felice Andreasi che era appena divenuto noto come ospite fisso del televisivo “Il poeta e il contadino” condotto da Cochi e Renato. Chiude il cast dei ruoli principali il sempre eccellente Pietro Biondi, l’unico ancora in vita fra gli elencati, nel ruolo del monologante agente dell’OVRA, la polizia politica fascista. Accreditato nel cast benché con un ruolo da figurante in campo lunghissimo c’è l’emergente Gabriele Lavia che già al cinema aveva avuto ruoli da protagonista: si suppone che il suo personaggio si sia perso in sala di montaggio.

protagonista e regista

L’occasione della scomparsa di Citto Maselli mi accende la curiosità sulla sua filmografia che non ho mai frequentato, con un focus sui lavori collettivi, i cosiddetti film a episodi, e quelli più onestamente politici e documentaristici. Nel 1981 Maselli ha confessato a Paese Sera: “Ho un’ambizione che non ho mai rivelato a nessuno, nemmeno a me stesso. È quella di essere dimenticato come regista e riscoperto, invece, come fotografo… La cosa più orribilmente sincera che abbia mai detto.” E inquadrati in quest’ottica i suoi film sono più fotografici che narrativi, nel senso che staticamente si focalizzano su personaggi e situazioni senza raccontarne lo sviluppo, la dinamicità, il divenire, e in questo modo congelando ogni afflato emotivo. Interessante la sua svolta negli anni ’80 con quattro film incentrati sulla donna: “Storia d’amore” del 1986 gran successo al Festival di Venezia dove l’autore vince il Leone d’Argento Gran Premio della Giuria mentre alla protagonista Valeria Golino va la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile. Nel 1988 segue lo sperimentale “Codice privato” con Ornella Muti unica interprete del film, nominata ai David di Donatello, ai Nastri d’Argento agli European Film Awards e vincitrice del Ciak d’Oro. Del 1990 sono gli altri due film con protagonista Nastassja Kinski, “L’alba” e “Il segreto”, film però entrambi clamorosamente bocciati dalla critica senza dire che il pubblico li ha praticamente ignorati.

Francesco Maselli, oltre a essere cineasta non ha mai abbandonato l’attività politica dedicandosi in particolare alla scrittura saggistica e mantenendo il suo ruolo, fondamentale, come militante della sinistra italiana. Nel 2001 dette vita alla Fondazione Cinema nel Presente riunendo una trentina di autori rappresentativi di tutte le generazioni del cinema italiano, fra i quali: Francesca Comencini, Wilma Labate, Mario Monicelli, Gillo Pontecorvo, Ettore Scola e Pasquale Scimeca; fondazione che produrrà molti di quei documentari collettivi in cui ha dato il meglio di sé. Andiamo a riscoprirlo.

The Whale – nel riscatto del personaggio il riscatto dell’attore

Confessiamocelo, Brendan Fraser per noi è sempre stato solo il simpatico ragazzone protagonista della trilogia “La Mummia” anche se per altre interpretazioni drammatiche è stato lodato, come ad esempio in “Demoni e Dei” del 1998 regia di Bill Condon o “The Quiet American” del 2002 di Phillip Noyce. Ma fondamentalmente la sua carriera è tutta spesa in commedie, film d’azione e giocattoloni vari: si fa quel che si può e si prende quel che passa il convento e, come ha specificato l’attore nel suo discorso di accettazione dell’Oscar, la sua carriera è stata fatta di alti e bassi. Va anche detto che la percezione che abbiamo noi europei, e italiani nello specifico, degli attori stranieri, manca di molti dettagli e sfumature che possono avere senso solo in patria; ad esempio per Brendan Fraser a Hollywood è stato coniato il termine “Brenaissance” che lega insieme Brendan a Renaissance, dopo la sua profonda crisi dei primi anni Duemila in cui pensò addirittura di ritirarsi. Ma cos’era successo?

Brendan Fraser al meglio della prestanza fisica nel film “George Re della Giungla…? sul finire degli anni Novanta. Dirà di quel periodo da “bisteccone” che effettivamente si sentiva come una “bistecca ambulante”, per dire della vacuità che gli veniva intorno a causa del suo aspetto.
Philip Berk

Si parla esattamente di venti anni fa, il 2003, quando l’attore era al culmine della sua carriera. Accadde che a un pranzo in un hotel di Beverly Hills, Philip Berk, che all’epoca era uno dei più influenti elettori dell’HFPA, Hollywood Foreign Press Association di cui in seguito divenne anche presidente, palpasse pesantemente l’attore. Va ricordato che l’associazione ha fondato nel 1944 i Golden Globe Awards con l’intento di assegnare premi e riconoscimenti a produzioni cinematografiche e televisive di tutto il globo terraqueo (sic! ma anche sigh!), in pratica il secondo premio statunitense per importanza dopo l’Oscar; l’attore, ancora astro nascente senza statuette importanti in bacheca, aveva tre opzioni: gradire, fingere che fosse uno scherzo e farsi una finta risata, o restarci male. Brendan ci restò malissimo tanto da mettere in discussione la sua permanenza nello show business. Solo nel 2018, incoraggiato dai movimenti anti abuso Mee Too ebbe il coraggio di raccontare pubblicamente la sua esperienza. Nel 2003 Fraser, attraverso i suoi avvocati chiese e ottenne da Berk e dall’HFPA scuse private, ricevendo una lettera il cui tono era il classico: se ho fatto qualcosa che ha turbato il signor Fraser non era intenzionale e me ne scuso – di fatto non ammettendo alcun illecito. E nei fatti facendogli terra bruciata intorno: la carriera dell’attore subì una grave flessione che lo portò a una crisi personale che coinvolse anche la tenuta del suo matrimonio.

Nel 2018 Brendan si è confidato alla rivista GQ che già altre volte aveva avuto attenzioni per lui: “Ho parlato perché ho visto così tanti dei miei amici e colleghi che in quel momento stavano coraggiosamente venendo allo scoperto per dare forza alla loro verità. Avevo anch’io qualcosa da dire. Si possono mettere gli attori su piedistalli e poi buttarli giù rapidamente e facilmente: è quasi come se fosse il gioco. Così io mi sono appena liberato del piedistallo. Voglio solo essere me stesso”. E raccontando in dettaglio quanto è accaduto: “La sua mano sinistra si è allungata ad afferrare la mia chiappa e poi con un dito mi ha toccato nella zona anale (qui l’attore usa un termine gergale intraducibile: taint) cominciando a muoverlo girandolo. Mi sono sentito male, mi sono sentito come se qualcuno mi avesse gettato addosso della vernice invisibile. Ero come un ragazzino che stava per scoppiare a piangere…”. A questa tardiva denuncia pubblica la HFPA ha avviato un’indagine interna che ha concluso che Berk stava solo scherzando e, rifiutando di condividere con l’attore i dettagli emersi nell’indagine, gli è stato chiesto di firmare una dichiarazione congiunta in cui “con lungimiranza” tutte le parti, l’attore l’assalitore e l’associazione, consideravano conclusa la vicenda e che auspicavano una rinnovata collaborazione, mentre Philip Berk sarebbe rimasto membro attivo dell’HFPA. Brendan Fraser ha rifiutato di firmare, rilanciando: “Io sono l’unico che sa dove e come è stato toccato”: le intenzioni di Berk – che stesse scherzando o ci stesse pesantemente provando – rimangono per lui irrilevanti: lui era stato abusato. “Sono come lupi travestiti da agnelli” ha concluso.

Per completare la triste vicenda del tristo figuro: Nel 2014 pubblicò un libro di memorie – in cui fra l’altro finalmente ammetteva di aver “scherzato” con l’attore mentre per anni aveva sempre negato – che fece arrabbiare non poco i membri della HFPA perché svelava retroscena sul funzionamento interno dell’organizzazione, e altri ameni pettegolezzi su alcuni dei suoi colleghi, col risultato che fu costretto a prendersi un congedo di sei mesi dall’associazione; ma finì con l’essere definitivamente espulso nel 2021, dopo che Berk – di nazionalità sudafricana e di origini olandesi, ed evidentemente sostenitore dell’apartheid – inviò una mail ad altri membri dell’associazione in cui citava un articolo che descriveva Black Lives Matter come un “movimento di odio razzista”: il classico bue che dà del cornuto all’asino. A quel punto l’emittente televisiva NBC che trasmette il gala dei Golden Globe, chiese l’espulsione immediata di Berk per andare avanti con la collaborazione: detto, fatto; e a seguire il consiglio dell’associazione ha dichiarato che “condanna tutte le forme di razzismo, discriminazione e incitamento all’odio e trova inaccettabili tali linguaggio e contenuti.”

Brendan Fraser con “The Whale” è stato candidato nella sezione miglior attore in un film drammatico ai Golden Globe 2022, ma per coerenza l’attore si è rifiutato di presenziare alla serata dicendo solo: “Non sono un ipocrita”; vinse Austin Butler per “Elvis” che altrettanto concorreva per quest’Oscar 2023 e sperava di fare la doppietta: sorry, è l’anno della Brenaissance!

Veniamo al film. Darren Aronofsky è un regista raffinato che dal suo debutto nel 1998 ha realizzato otto film, sparsi però in una lunga sequenza di progetti irrealizzati che di numero superano quelli realizzati; fra i film che hanno visto la luce vale la pena ricordare “The Wrestler” (2008) che ha rilanciato la carriera dell’appesantito Mickey Rourke che però per la sua imprevedibilità e il discutibile gusto nella scelta dei copioni, pare destinato a un secondo declino; segue “Il Cigno Nero” (2010) che è valso Oscar e Golden Globe a Natalie Portman; poi viene il biblico e non del tutto riuscito “Noah” (2014) con Russell Crowe; quindi passa all’horror d’autore con “Madre!” (2017) starring Jennifer Lawrence e Javier Bardem, che tanto per cominciare è stato fischiato al Festival di Venezia. Per riuscire a realizzare quest’ultimo film, Il regista ha impiegato più di dieci anni perché non trovava il giusto interprete, ma ebbe una folgorazione quando vide Fraser in alcuni spezzoni di “Journey to the End of the Night” del 2006 mai distribuito in Italia.

All’origine del film c’è il dramma teatrale omonimo del 2011 di Samuel D. Hunter che qui debutta come sceneggiatore adattando la sua pièce per lo schermo. L’autore, quotato e premiato in patria, esplora nei suoi lavori la religiosità con particolare attenzione a mormoni ed evangelici: presumo – del tutto liberamente e senza pezze d’appoggio – che data la sua dichiarata omosessualità e la sua provenienza dall’Idaho che è uno degli stati dove sono insediati i mormoni, che sia lui stesso un mormone fuoriuscito che ancora cerca il senso di un sano rapporto con Dio.

Il 55enne Brendan Fraser naturalmente appesantito dagli anni fra regista e autore.

La storia, apparentemente piana, è molto complessa e si presta a diversi livelli di lettura: oltre all’omosessualità del protagonista e alle dispute religiose col giovane missionario della New Life Church, ci sono il passato in cui conserva la memoria di un compagno morto e da cui irrompe nel presente una figlia adolescente che non vede da otto anni, frutto di un errato matrimonio, cui segue anche la visita dell’ex moglie; ma soprattutto c’è il rapporto con l’insegnamento: Charlie, il protagonista, è un professore di lettere che tiene lezioni online e, come ha dichiarato Hunter, proprio da lì parte l’ispirazione del dramma; l’obesità del personaggio è venuta dopo, per dare al personaggio una caratteristica che gli facesse tenere la distanza dal mondo; e ancora spiega che il personaggio del giovane missionario è un modo per “proteggersi e allontanarsi” dalla religione e di “scrivere sulla religione ma in modo che non si sentisse troppo vicino a casa”. Più chiaro di così.

Nell’adattare per lo schermo la sua storia che si svolge tutta all’interno di un appartamento, l’ha voluta ambientare in un’epoca recente ma pre-pandemia affinché non si facesse confusione fra l’auto-reclusione del protagonista con un forzato lockdown. La derivazione teatrale è evidente e, come suppongo sia a teatro, la tensione drammatica non viene mai meno perché risvolti narrativi e ingresso degli altri personaggi sono equilibratissimi: la vietnamita-statunitense Hong Chau, candidata all’Oscar, è l’amica infermiera; la ventenne Sadie Sink che si è meritata la candidatura Critics’ Choice Awards come miglior giovane interprete, è la figlia adolescente; l’ex attore bambino Ty Simpkins, che a tre anni ha debuttato in tv e a quattro al cinema, è il giovane missionario; la britannica Samantha Morton, eccellentissima attrice mai abbastanza valutata nei casting, è l’ex moglie. Si intravede il fattorino delle pizze e, grave lacuna in un’attenta drammaturgia che si fa poetica attraverso l’iperrealismo, non c’è traccia di qualcuno che venga a fare le pulizie.

Laddove il dramma presta il fianco alla retorica, l’autore non indulge nel melodrammatico e taglia sempre corto dove il rischio è dietro l’angolo. Ciò non toglie che il film sia veramente coinvolgente sul piano emotivo grazie all’interpretazione del gigantesco (gioco col termine intendendolo in senso figurato) Brendan Fraser, che sotto il make up premiato con l’Oscar a Adrien Morot, Judy Chin e Anne Marie Bradley (ci sono anche i cuscinetti ad acqua che fanno pulsare le tempie!) è veramente commovente nel personaggio; e anche se noi sentiamo il doppiaggio con l’interpretazione di Fabrizio Pucci, gli occhi di Brendan non lasciano dubbi.

Il finale non è a sorpresa, sappiamo sin dall’inizio come andrà a finire. Ma è consolatorio che il buon grasso Charlie trovi il suo riscatto in un guizzo di lucido arrabbiato sacrosanto orgoglio. Ed è consolatorio e davvero commovente che Brendan Fraser, altrettanto, trovi nel film e nel successo un riscatto che attendeva da vent’anni.

Fuori contesto lancio una scommessa: che presto vedremo in scena uno dei nostri quotati attori teatrali portare in scena questo dramma.

Falling, storia di un padre – opera prima di Viggo Mortensen

Curioso debutto in regia questo di Viggo Mortensen, anche autore della sceneggiatura e dunque autore a tutto tondo; curioso perché l’attore si è profilato una carriera assai interessante in film che lo hanno impegnato anche in una proficua collaborazione con il mai banale David Cronenberg, ed è dunque curioso che il suo film di debutto come autore sia alquanto banale, duole dirlo, visto che il personaggio stesso non lo è: l’artista è anche poeta, fotografo, pittore, musicista e per non farsi mancare niente anche editore.

Nato a Manhattan da madre statunitense con ascendenze canadesi e padre danese che a sua volta aveva una madre norvegese, Viggo Peter Mortensen Jr. è cresciuto in giro per il mondo poiché la famiglia seguiva il padre Viggo Sr. nei suoi impegni di lavoro legati alla gestione di imprese agricole, e vivendo per diversi anni in Argentina il ragazzo ebbe l’opportunità di imparare fluentemente lo spagnolo, oltre al danese paterno che fra le lingue scandinave è quella che meglio riesce a padroneggiare le altre: il norvegese e lo svedese; e allora perché fermarsi lì? così ha studiato anche francese, italiano, catalano e arabo. Dopo la laurea in scienze politiche e letteratura spagnola trovò un occasionale bell’impiego come traduttore per la squadra svedese di hockey su ghiaccio alle Olimpiadi invernali di Lake Placid nel 1980; e a seguire tornò in Danimarca, dove da ragazzo aveva vissuto col padre appena separato dalla madre, e per un po’ fece vari lavoretti come cameriere, camionista, barista e anche fioraio: il classico periodo sabbatico per chiarirsi le idee sul futuro, quindi si spostò in Canada per frequentare una scuola di teatro e dopo avere lì calcato le scene si trasferisce a Los Angeles per tentare il grande salto nel cinema, che non fu facile; passò attraverso varie comparsate e molte delusioni finché otterrà il ruolo di protagonista nel debutto alla regia di Sean Penn “Lupo solitario” del 1991 e da lì in poi la sua carriera è tutta in crescita fino alla consacrazione internazionale come Aragorn nella trilogia del “Signore degli Anelli” di Peter Jackson all’inizio degli anni duemila.

Per il suo debutto autorale Viggo sceglie il tema della demenza senile, argomento che insieme allo più specifico Alzheimer è ormai anche troppo frequentato: Anthony Hopkins in “The Father” del medesimo 2020 e dell’altrettanto debuttante Florian Zeller, Oscar al protagonista e alla sceneggiatura; ancora del 2020 “Supernova” con Stanley Tucci e Colin Firth, entrambi premiati con i BAFTA, come anziana coppia gay diretti da Harry Mcqueen; andando qualche anno più indietro nel 2014 c’è stato “Still Alice” di Richard Glatzer e Wash Westmoreland con Julianne Moore premiata con Oscar e Golden Globe solo per citare i primi due riconoscimenti; del 2012 è “Amour” di Michael Haneke, Oscar e Golden Globe come miglior film straniero, con Emmanuelle Riva, premiata col BAFTA, e Jean-Louis Trintignant che si aggiudicato l’European Film Awards; nel 2006 Sarah Polley ha diretto Julie Christie premiata con l’Oscar in “Lontano da lei”; del 2001 è “Iris – un amore vero” di Richard Eyre con Jim Broadbent premiato con Oscar e Golden Globe nel ruolo dell’anziano che si prende cura della moglie Judi Dench, solo candidata – solo per citare fin qui i titoli più noti. Dunque, se un attore quotato passa alla regia autorale con un tema così tanto frequentato, ci si aspetta che abbia qualcosa di molto personale da dire o di veramente artistico da mostrare: uno stile, un punto di vista. E Viggo ha avuto modo di spiegarlo, solo che nella realizzazione ha mancato il bersaglio.

L’ispirazione arriva da lontano e nel contempo anche da troppo vicino: entrambi i suoi genitori hanno sofferto di demenza senile, così come tre dei suoi nonni, e anche zie e zii, ma il film non è biografico: “È proprio mia madre che mi ha dato l’ispirazione per il film: rimane la persona più importante per me e ho scritto questa storia subito dopo il suo funerale. Il personaggio dello schermo è però frutto della mia immaginazione o, appunto, di fiction: nasce dall’idea e dai ricordi che ho di lei, e i ricordi sono sempre personali, alterati. La memoria è una collezione di emozioni che si evolvono e che noi modifichiamo in continuazione. Ci sono forme diverse di demenza: c’è chi perde la memoria, chi modifica i ricordi e chi invece trattiene solo quelli lontani, del passato. Spesso, nei film e nei lavori teatrali che ho visto, si rappresenta chi soffre di demenza come una persona confusa: nella mia esperienza – e volevo mostrarlo in ‘Falling’ – questa persona vede, sente e prova emozioni reali, chiare, non necessariamente confuse. Possono essere memorie felici o tristi, ma sono presenti, vivide. il personaggio interpretato da Henriksen, non è certo mio padre, ma è un dato di fatto che in passato gli uomini lavoravano fuori casa e non si occupavano dei figli, erano le donne a crescerli ed educarli. Ci sono poche relazioni fondamentali e complesse come quelle tra padre e figlio e pochi eventi sono destabilizzanti come la perdita di un genitore, quel momento in cui vengono tagliati quei legami che ti collegano con la terra. L’idea di ‘Falling’ mi è venuta mentre attraversavo l’Atlantico in aereo dopo il funerale di mia madre. Non riuscivo a dormire, la mia mente era invasa da ricordi e immagini di lei e della nostra famiglia nelle diverse fasi di vita condivisa. Sentendo il bisogno di descriverli, ho iniziato a scrivere una serie di episodi e frammenti di dialogo che ricordavo dalla mia infanzia. Più scrivevo su mia madre, più pensavo a mio padre. Durante quel volo notturno, le impressioni che appuntavo si erano trasformate in una storia composta principalmente da conversazioni e momenti che non erano mai realmente accaduti, linee parallele e divergenti che in qualche modo si incastravano allargando la prospettiva dei ricordi reali che avevo costruito intorno alla mia famiglia. Sembrava che le sequenze inventate mi permettessero di avvicinarmi alla verità dei miei sentimenti verso mia madre e mio padre piuttosto che un semplice elenco di ricordi specifici. Il risultato ha dato vita a una storia padre-figlio intitolata ‘Falling’ su una famiglia immaginaria che condivide alcuni tratti con la mia”.

L’autore mentre dirige Sverrir Gudnason e Hanna Gross nel ruolo dei suoi genitori quando lui era bambino rappresentato dal bambino biondo seduto a tavola

Ma “Falling” non è il primo film col quale pensava di debuttare in regia, è solo quello per il quale ha trovato più facilmente i finanziamenti, segno che i produttori credono molto nella demenza senile cinematografica: è da ben venticinque anni che Viggo scrive sceneggiature e, nello specifico, qui non pensava di interpretare un ruolo ma è stato spinto a recitare proprio dai produttori che volevano nel cast un nome di spicco. Con una coproduzione di Canada, Regno Unito e Danimarca, l’attore inserisce nel cast altri due interpreti dell’area scandinava: lo svedese-islandese Sverrir Gudnason nel ruolo del padre da giovane, e l’americano di genitori norvegesi Lance Henriksen come padre vecchio, il protagonista del film: qui l’ottantenne è nel suo ruolo probabilmente più impegnativo dato che in una carriera interamente di caratterista è giunto alla notorietà interpretando l’androide Bishop nel secondo Alien “Alien, scontro finale” (che non fu finale, anzi) diretto da James Cameron nel 1989, regista che lo avrebbe voluto come protagonista del suo “Terminator” che ha invece lanciato Arnold Schwarzenner; Henriksen è poi stato protagonista della serie tv fantasy “Millennium”. Completano il cast la supporter di lusso Laura Linney, l’ancora poco nota canadese Hannah Gross e il cino-canadese Terry Chen. Altra presenza di lusso è l’amico regista David Cronenberg nel ruolo del proctologo. In apertura dei titoli di coda l’autore dedica il film ai suoi fratelli. Girato nel 2019 è stato presentato in anteprima al Sundance Film Festival nel gennaio 2020 a ridosso della pandemia che nessuno poteva immaginare, ma in pieno lockdown il film è stato presentato a settembre al Toronto International Film Festival e a dicembre è poi uscito nel Regno Unito, mentre negli USA è andato nelle sale nel febbraio 2021: va da sé che ha incassato meno di mille dollari, solo restando negli Stati Uniti.

L’episodio del bambino che spara a un’anatra e poi da morta se la tiene come fosse un peluche prima che la mamma la cucini per cena, ripropone un episodio reale dell’infanzia dell’autore.

Al di là del tragico inconveniente del lockdown, il lavoro rimane un piccolo film molto ben confezionato che impropriamente alcuni hanno comparato alle regie di Clint Eastwood – che, per inciso, sarebbe stato perfetto nel ruolo del vecchio padre se non fosse che il vecchio Clint sta lasciando di sé l’immagine di un vecchio saggio ispirato e ispiratore di buoni sentimenti, ancorché sempre ribelle – dimenticando che il debutto cinematografico di Eastwood è stato di un altro tenore e che le sue successive regie apparentemente romantiche e melodrammatiche riescono sempre a graffiare lo smalto del perbenismo sociale, di cui il film di Mortensen è invece intriso insieme alle ambizioni filosofiche con le quali intendeva ridisegnare i rapporti, disagiatissimi, fra la persona malata e i suoi congiunti: materiale che il neo-autore non riesce a comporre e nel film manca sempre qualcosa o c’è qualcosa di troppo e i personaggi, a cominciare dal protagonista, non sono empatici e si fatica a entrarci in sintonia e farseli piacere: il vecchio affetto da demenza è violentemente scurrile, razzista, sessista, omofobo – tutti aspetti che coinvolgono la personalità di chi perde l’autocontrollo (so di anziani d’ambo i sessi che si masturbano davanti a figli nipoti e badanti, cosa che non si può raccontare neanche nella vita reale) e la lucida interpretazione di Lance Henriksen, benché interessante poiché non ordinaria, non riesce a diventare straordinaria. Anche la controllata e pacata condiscendenza del figlio interpretato dall’autore – irrita perché arriva come rinunciataria e ipocrita: una filosofia comportamentale molto politically correct o new age ma poco realistica. L’interpretazione più centrata appare quella di Sverrir Gudnason, che nel ruolo del contadino assai brusco con moglie e figlio, riesce a infondere al personaggio inattese e delicate sfumature che rendono appieno l’umanità di un uomo ancorché antipatico; è questo il talento degli interpreti: rendere umani e addirittura affascinanti i personaggi negativi. Jago ringrazia quanti lo hanno interpretato, ricordando che dietro c’era un signor autore.

Il matrimonio di Rosa – brevemente un bella commedia

Una commedia spagnola del 2020 che vale la pena recuperare perché riesce a coniugare perfettamente il dolce e l’amaro, i ritmi perfetti della commedia con la sincerità dei sentimenti al femminile, senza compiacimenti al femminile e schivando tutti i luoghi sempre dietro l’angolo: una 45enne che improvvisamente si rende conto di non vivere la sua vita perché troppo occupata a fare da supporto a tutti gli altri, a chiunque altro, a cominciare dalla disfunzionale famiglia per passare all’ambiente di lavoro fino ai vicini di casa che le lasciano piante da innaffiare e gatti da accudire – così decide di sposarsi con sé stessa promettendo a sé stessa che si prenderà cura di sé, che è quello che in un matrimonio ordinario si promette a un’altra/o.

L’idea di fondo non è originalissima ma il film è veramente ben confezionato dalla regista Icíar Bollaín che lo ha scritto con Alicia Luna. Protagonista è la tre volte Premio Goya (che è il più importante riconoscimento del cinema spagnolo) Candela Peña mentre, solo per citare il nome più noto, Sergi López è il fratello maggiore, attore molto attivo anche in Francia che sul finire del secolo scorso ha avuto i suoi momenti migliori.

Io e Lulù – opera prima di Channing Tatum

Dopo aver chiacchierato dei debutti in regia dell’americana Maggie Gyllenhaal e delle italiane Jasmine Trinca e Claudia Gerini risorvoliamo l’Atlantico per tornare negli USA e parlare di un altro debutto di un altro attore famoso che, dire il vero, è un’opera prima firmata a quattro mani dal protagonista e dal suo amico sceneggiatore di fiducia Reid Carolin, ma come la stampa ufficiale metto in primo piano l’attore perché è il volto noto e il nome di punta.

Va detto subito che Channing Tatum, essendo un gran bel bisteccone ha basato l’intera sua carriera sull’avvenenza fisica e anche questa sua prima prova registica rimane in quella traccia, quando magari avrebbe potuto fare un cambio di rotta e concedersi un ruolo più maturo e complesso; e invece, forse consapevole dei suoi limiti o forse davvero senza vere aspirazioni a premi e riconoscimenti importanti (spopola agli MTV Movie Awards e ai Teen Choise Award) si confeziona addosso un film di genere, accattivante melodrammatico e retorico, dove senza sprecare energie interpretative continua a mettesi in mostra a petto nudo e poi drammaticamente va sotto la pioggia a fare il mister maglietta bagnata.

Tatum sin dall’infanzia soffre di ADHD e poiché all’epoca – Channing è oggi 43enne – non si conosceva questo disturbo, il ragazzino venne classificato come terribilmente indisciplinato e allo scopo di conculcargli buona educazione e una solida disciplina a nove anni venne iscritto in un’accademia militare dove completò gli studi dell’obbligo senza ovviamente risolvere i suoi problemi di iperattività e deficit di attenzione, e da lì in poi fece molti lavoretti – commesso dog-sitter muratore – senza mai trovare il suo punto fermo. A 19 anni però, grazie al suo corpo ben modellato nel rigore militare e sulla base della ricchezza dei suoi geni provenienti da diversi gruppi etnici (nativo americano, francese, inglese, irlandese e tedesco) Channing (nome che dall’inglese e dal francese antichi significa “giovane lupo”) con lo pseudonimo di Chan Crawford si avviò alla carriera di spogliarellista e l’anno dopo fu nel corpo di ballo del video di Ricky Martin “She Bangs” dove si fa fatica a individuarlo nel montaggio veloce e nella confusione, ma sembra il tipo con gli occhiali sulla destra.

Inizia così la sua carriera di modello che lo porterà alla copertina di Vogue, e diventando un volto e un corpo delle campagne di Emporio Armani, Dolce & Gabbana e Abercrombie, comincia a girare fra New York, Parigi e Milano: il ragazzino iperattivo ha trovato il suo centro di gravità permanente. Poi nel 2004 partecipa a un episodio di “CSI: Miami” e lì decide di proseguire con la carriera di attore.

Dopo qualche piccolo ruolo è protagonista del musical ballerino “Step Up” e torna con un cameo in “Step Up 2” mentre nel frattempo comincia a far cinema per davvero fino a essere protagonista nel 2009 in “Fighting” passando dai film ballerini ai film di botte da orbi, sempre seguendo la traccia della prestanza fisica, e poi è protagonista del giocattolo bellico “G.I. Joe” basato sui giocattoli Hasbro, di nuovo tornando nel sequel. È anche protagonista drammatico in un film d’autore, “Dear John” di Lasse Hallström, che però è un clamoroso flop: costato 25 milioni di dollari ne incassa meno di 115mila. Ci riprova con “La memoria del cuore” di Michael Sucsy e stavolta la sua prova drammatica è coronata da un successo planetario. E finalmente nel 2012 è protagonista di “Magic Mike” diretto da Steven Soderbergh su sceneggiatura di Reid Carolin che si è ispirata alla reale esperienza dello Channing giovane spogliarellista: un altro film campione di incassi che avrà il suo ovvio seguito, “Magic Mike XXL” e poi nel febbraio di quest’anno l’ultimo della trilogia “Magic Mike – The Last Dance”.

Ma l’ispirazione del suo film d’esordio condiviso è sincera: il bisteccone aveva davvero una cagna di nome Lulù, una pitbull che è morta di cancro nel 2018 e con la quale ha fatto un viaggio in auto quando lei era già malata, un road trip che è diventato questo road movie. “Quando ho fatto il mio ultimo viaggio con la mia cucciola ho provato quella sensazione di: ‘Non c’è niente che io possa fare. Non c’è più niente da fare. Devi solo accettarlo ed essere grato per il tempo che hai ottenuto con lei sapendo che non sono qui per sempre. Io dovevo andare avanti mentre lei doveva andare da un’altra parte”. E il film che ne deriva è un prodotto di genere con un’accoppiata vincente: un reduce di guerra e un cane altrettanto reduce, entrambi affetti da stress post-traumatico che dopo le iniziali incomprensioni finiranno con l’essere terapia l’uno per l’altra. Buoni sentimenti e simpatia spalmati a dovere senza mai approfondire l’aspetto drammatico, tutt’al più qualche contorsione di dolore e qualche smorfia di sofferenza, lasciando la recitazione impegnata fuori dalla storia: come lui dice a lei quando cominciano a fare amicizia “Ora non facciamo i sentimentali” e il film, che è un concentrato di sentimentalismo a stelle e strisce, non lascia spazio a momenti recitativi importanti, benché il film si regga molto sui monologhi-dialoghi col cane. “Io e Lulù” è l’accattivante titolo italiano che sostituisce l’originale e più semplice “Dog” laddove il protagonista all’inizio fa fatica ad entrare in sintonia con l’animale e la chiama semplicemente “cane”. Fra gli altri numerosi interpreti che i due incontrano nel loro viaggio l’unico che vale la pena ricordare per consistenza del ruolo è l’altro reduce interpretato da Ethan Suplee.

Scritto da Reid Carolin con Brett Rodriguez, con l’attore il film mette insieme tre nomi che precedentemente avevano prodotto il documentario “War Dog: a Soldier’s Best Friend” dal cui argomento prende ulteriore spunto questo film di fiction. L’impresa è stata annunciata dai due novelli registi in coppia nel novembre del 2019 con inizio delle riprese previste a metà del 2020, e lo scoppio della pandemia che fermò tante altre lavorazioni non fermò questa e la lavorazione continuò in pieno lockdown. Solo l’uscita fu ritardata, dato che i cinema erano chiusi, dal febbraio al luglio 2021, salvo poi essere ancora posticipata al febbraio 2022. Grande successo di pubblico e critiche tiepidamente positive: probabilmente nessuno si aspettava qualcosa di più.

Quo vadis, Aida? – chi ricorda il massacro di Srebrenica?

Con “Brevemente” creo una sezione di pagine brevi con segnalazioni veloci di film che vale la pena vedere.

Film durissimo e importantissimo. Il primo e a tutt’oggi l’unico sul massacro di Srebrenica che si pronuncia srèbrenitza con l’accento sulla prima E. Il fatto risale al 1995, prima della nascita dei millennial che oggi guidano la nostra comunicazione via social e app, e anche fra quanti all’epoca eravamo adulti il ricordo è sbiadito; di fatto abbiamo solo dovuto fare i conti con la geografia: la Jugoslavia che avevamo studiato a scuola era implosa in guerre civili e secessioniste dettate da un nazionalismo che nascondeva ambizioni personali di leader pronti a tutto come il criminale di guerra Ratko Mladić, e da un ben veicolato odio religioso che ha di nuovo opposto cristiani a musulmani, dividendo famiglie conoscenti e intere comunità.

Scritto e diretto dalla bosniaca Jasmila Žbanić già Orso d’Oro al Festival di Berlino con la sua opera prima “Il segreto di Esma”, il film è un’importante coproduzione fra Bosnia Erzegovina, Romania, Austria, Paesi Bassi, Germania, Polonia, Francia, Norvegia e Turchia che mette in campo più di 6000 molto aderenti comparse in una fiction che a tratti sembra un documentario per credibilità e assoluta mancanza di compiacimenti stilistici e narrativi. Ispirandosi alla vera storia del traduttore bosniaco per i caschi blu dell’ONU Hasan Nuhanović, l’autrice si prende la libertà di fare del protagonista una donna, la straordinaria attrice serba Jasna Đuričić ancora sconosciuta al cinema internazionale ma già premiata al Festival di Locarno nel 2010 e oggi premiata per questa interpretazione all’European Film Awards che ha riconosciuto al film anche i premi alla regista e al film, che è stato presentato in concorso al Festival di Venezia e candidato all’Oscar come miglior film internazionale. Questa esposizione ha valso all’autrice la regia del primo episodio della serie statunitense post-apocalittica “The Last of Us” attualmente in programmazione su Sky, sorta di “The Walking Dead” con i mostri al posto degli zombi.

Il titolo, che fa subito venire in mente il kolossal “Quo vadis?” del 1951 dal romanzo storico del polacco Henryk Sienkiewicz, in realtà si richiama a uno dei cosiddetti “vangeli apocrifi” che la cristianità organizzata ha scartato dalle fonti ufficiali del credo; in quel documento a Pietro, in fuga dalle persecuzione di Nerone, appare Gesù sulla via Appia e gli chiede: “Quo vadis, domine?” e il Cristo gli risponde: “Eo Romam, iterum crucifigi.” (Vado a Roma, per essere crocifisso una seconda volta). Dunque anche Aida vuole tornare indietro per immolarsi nel nome della libertà e della verità.