Archivio mensile:febbraio 2023

Tapirulàn – opera prima di Claudia Gerini

Un gran bel debutto quello di Claudia Gerini che si fa regista a coronamento di una brillantissima carriera in cui ha potuto esprimere pienamente il suo talento benché a costo di compromessi.

A 13 anni vinse Miss Teenager, sorta di concorso di bellezza per Lolite spinte sul palco da mamme frustrate, un palcoscenico ad uso e consumo di attempati pedofili – mi si lasci passare la provocazione; quell’anno in giuria c’era Gianni Boncompagni che le mise subito gli occhi addosso e non passerà molto perché i due diventino coppia di fatto, lei ancora minorenne lui di quarant’anni più vecchio; certo, anche se la cosa nell’ambiente fece un po’ di chiacchiere, pubblicamente tutti tacquero, in fondo chi è senza peccato scagli la prima pietra; e poi si sa, da sempre le giovani, ma anche i giovani, arrivano al successo anche passando per le camere da letto e anche sforzandosi di cambiare all’occasione preferenze sessuali.

Solo nel 2017, dopo la morte di lui, lei ha ammesso la relazione in un’intervista al Corriere della Sera: “Capisco che, vista ora e vista da fuori, sembri una relazione scabrosa. Oggi ci arresterebbero, Gianni me lo diceva spesso: ‘Siamo due pazzi’. Ma mi creda: nonostante l’enorme differenza di età, era una relazione alla pari… E non c’era alcun tipo di corruzione, non ho avuto niente in cambio, nulla di materiale.” Sta di fatto che la sua carriera ha avuto degli assist, per usare il gergo sportivo. A quindici anni il suo debutto cinematografico come figlia di Lino Banfi e dopo un altro paio di film secondari a vent’anni c’è la svolta e debutta in tv come conduttrice di un gioco telefonico nel programma Mediaset “Primadonna” ideato da Boncompagni, e poi da lì passa a “Non è la Rai”, dove diva indiscussa sarà un’altra Lolita, Ambra Angiolini di sei anni più giovane della nostra. Parlando degli anni successivi Gerini puntualizza: “Non mi ha aiutato per niente, mi è stato accanto ma non professionalmente. È stato importante per la mia formazione di donna, ma a livello lavorativo zero, non ha aggiunto e non ha tolto niente. ‘Non è la Rai’ l’avrei fatta lo stesso. Vabbè.

A 24 anni arriva la grande occasione per sfondare al cinema facendo coppia con Carlo Verdone nel suo “Viaggi di nozze” dove è stata la Jessica della coppia cult di “O famo strano?”; i due fecero anche coppia fuori dal set, e stavolta lui era più anziano di lei di soli vent’anni; ma era una coppia male assortita e come lei stessa ricorda in un’altra intervista: Mi era venuto a vedere in un piccolo teatro. Avevo fatto il provino per ‘Perdiamoci di vista’, lui era il mio idolo e all’università parlavamo con le battute dei suoi film. C’è stato un coinvolgimento sentimentale, ma era un momento particolare per tutti e due. Ci vogliamo bene, abbiamo diviso molto. Lui è ovviamente un uomo complicato, come io sono una donna complicata. Ci sono stati due anni – quelli in cui abbiamo girato e promosso ‘Viaggi di nozze’ e ‘Sono pazzo di Iris Blond’ – in cui abbiamo praticamente ‘convissuto’. Siamo stati amici, confidenti, poi abbiamo avuto questo crash, questa cotta reciproca, ma eravamo troppo diversi. Lui aveva un’età in cui voleva stare tranquillo, non gli piaceva uscire. Io avevo 25 anni, ero un fuoco d’artificio.” Come Iris Blond riceve la sua prima candidatura ai David di Donatello.

Ma ora la smetto di fare il pettegolo e per ragioni di spazio sorvolo su tutta la sua carriera dove è stata sia protagonista che comprimaria di lusso, apparendo anche in alcuni cameo dove lei ha fatto davvero la differenza, e penso al “Diabolik” dei Manetti Bros. Per questo suo primo film da regista si regala un ruolo da protagonista assoluta col suo nome a campeggiare da solo sopra il titolo, ed è il caso dire: finalmente. Perché Claudia Gerini è cresciuta come una vera attrice che può indistintamente passare dal brillante al drammatico sempre centrando il personaggio; ricordiamoci che come altri suoi colleghi di successo ha studiato recitazione con Beatrice Bracco e Francesca De Sapio.

Il film è scritto da Antonio Baiocco e Fabio Morici e in sede di realizzazioni ci mette le mani anche la stessa regista protagonista, mentre Morici che è anche attore scrittore e sceneggiatore si piazza nel ruolo del supervisore della protagonista. Ma ci sono altri interventi nella scrittura e nei titoli di testa leggiamo “dialoghi di” com’è largamente in uso nella cinematografia francese ma che è una novità nel cinema italiano; si tratta di specialisti che rendono più fluidi i dialoghi ma, spiace dirlo, qui sembrano mancare il bersaglio e si vanifica l’introduzione nella sceneggiatura di questi specialisti, perché proprio i dialoghi – importantissimi in un film di parola come questo – risultano a tratti deboli, a volte scontati, generalmente poco empatici. Supplisce la Gerini con la sua recitazione emotivamente sempre tirata e soprattutto con la sua regia che si può veramente definire raffinata, da mestierante – e il termine non è un dispregiativo – di gran classe.

La protagonista è una psicoterapeuta che fa counseling on line sempre mentre corre sul suo tapis roulant, il tapirulàn del titolo che non è solo la trascrizione della lingua parlata, come fino a ieri credevo, ma anche l’italianizzazione del termine francese. La difficoltà della regia, brillantemente superata, è stata quella di rendere cinematograficamente dinamica una situazione statica – anche se fisicamente l’attrice è sempre in movimento: una donna che corre sul suo super tecnologico tapirulàn, sempre chiusa in un super attico, a dialogare on line con diversi personaggi su schermo. Il rischio della noia è sempre dietro l’angolo ma Claudia Gerini ha mestiere di regista da vendere e, con la complicità del montaggio di Luna Gualano, anche scrittrice regista e creatrice di effetti visivi, realizza un film con un ritmo che non perde mai un colpo.

Essendo tutti usciti da una pandemia che ci ha chiusi in casa nei precedenti due anni, nel vedere questo film con una donna ostinatamente chiusa nel suo attico a svolgere attività on line, facendo un po’ di conti viene naturale pensare che il film sia stato pensato proprio in quel periodo e che dunque è un altro di quei progetti che hanno visto la luce come reazione propositiva al lockdown. Emma, che aiuta gli altri ma non sempre, e che non sa aiutare se stessa, corre sempre e la sua corsa è una metafora, o la fisicizzazione di un disturbo: come comprendiamo subito, quando la contatta la sorella che non vede da 26 anni, sta scappando dal suo passato e, soprattutto, da suo padre. E noi che abbiamo visto centinaia di puntate di “Law & Order – Special Victims Unit” sappiamo subito di che si tratta, e qui sta la parte più debole della storia che non è riuscita a immaginare per la protagonista una fuga da un passato ormai troppo banale perché cinematograficamente e televisivamente abusato. Insomma, un abuso dell’abuso. C’è poi la sequenza dei pazienti-clienti e dei loro disturbi e confessioni: una carrellata di varia umanità messa insieme nel modo più accattivante possibile scremando tutte le varianti immaginabili, dall’ossessivo compulsivo all’aspirante suicida, all’adolescente che fa i conti con la propria omosessualità; e qui viene in mente un’altra serie di successo, la psicoanalitica “In Treatment”. Perché, se la sceneggiatura nell’insieme è un congegno perfetto, nello specifico risente troppo di tanta cinematografia di genere e soprattutto di serialità televisiva, ancorché di qualità internazionale. E il film, magistralmente diretto dalla regista debuttante, inevitabilmente si colloca fra i film di genere di quella produzione tv di qualità come Sky o Netflix o Paramount+. C’è di buono, oltre a quanto detto, che il dramma personale della protagonista viene risolto senza ulteriori stucchevoli drammatizzazioni e senza abusare della nostra pazienza, oltre a tanti altri acuti dettagli della messa in scena: la vista dalla scatola di vetro dell’attico sul parco popolato di vita reale nel quale alla fine la protagonista scenderà a respirare, e poi il disordine di alcuni scatoloni in un angolo dell’algido appartamento, insieme alle prove dei colori sulla parete da dipingere: dettagli sparsi che danno umana profondità alla storia.

“Dirigere ‘Tapirulàn’ ed esserne allo stesso tempo la protagonista, è stato un lavoro complicato e molto impegnativo soprattutto per una prima regia. Il grande trasporto che ho sentito per il personaggio di Emma mi ha dato coraggio e, con energia ed entusiasmo, ho potuto sperimentare e creare un mondo all’interno della casa. La grande sfida era quella di rendere dinamico e vivace il racconto per immagini, poiché Emma rimane per tutto il film sopra una macchina imponente, dialogando con i suoi pazienti-clienti sempre e solo attraverso uno schermo. Ho cercato di sfruttare al meglio questi ‘impedimenti’ e queste difficoltà, cercando di muovere il più possibile le inquadrature e facendo in modo che la partecipazione emotiva di Emma verso i problemi dei suoi pazienti-clienti fosse davvero forte, oltre a rendere ‘tangibile’ la sua empatia attraverso i suoi occhi e i suoi respiri”. Ricordiamo che la 52enne attrice-regista si è potuta fisicamente permettere il film perché è in magnifica forma: è cintura nera di Taekwondo.

Il resto del cast: oltre a Fabio Morici come supervisore ci sono Claudia Vismara che è la sorella, Marcello Mazzarella che è il padre e Corrado Fortuna che fa il toy-boy, mentre i pazienti-utenti sono: Alessandro Bisegna, Niccolò Ferrero, Lia Greco, Maurizio Lombardi, Stefano Pesce e Daniela Virgilio. Ognuno con una storia che potrebbe svilupparsi come spin-off. Anche se il film non è stato premiato al botteghino vale sicuramente una bella serata davanti la tivù. E occhio alla neo-regista alla quale auguro di poter dirigere storie dove lei non sia la protagonista, non perché le manchino il talento e l’energia per fare entrambe le cose, ma perché così avrebbe modo di esplorare storie differenti e accreditarsi come regista a tutto tondo.

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BBM Being My Mom – primo cortometraggio di Jasmine Trinca

Jasmine Trinca, ha fatto precedere il suo debutto “Marcel!” da questo cortometraggio che in nuce contiene la traccia della storia che svilupperà: una madre, sua figlia e una valigia come palese metafora di un pesante carico che si trascinano dietro: non è dato sapere cosa c’è dentro, cos’è il pesante fardello: possiamo solo immaginare poiché tutti ci trasciniamo dietro un qualche fardello. Vagano per il centro di una Roma assolata e deserta, la Roma deserta dell’estate del 2020 in piena pandemia; non si sa dove vanno, non si sa da dove vengono, non si sa se fuggono da qualcuno o da un luogo, non si sa se vanno verso un luogo o qualcuno. Conta solo il presente intriso di una triste leggerezza che tenta la via di quel surreale che sarà la cifra del prossimo lungometraggio. Sono 11 minuti e 50 di svagato vagare dove sono inutili le parole, bastano gli sguardi, e la pesantezza della valigia sembra levitare nella leggerezza del racconto dove la madre è un po’ bambina e la bambina si fa un po’ madre. Un cortometraggio che senza parole guarda ai festival internazionali come già lasciano supporre anche titolo e locandina. Un omaggio alla madre dell’autrice. Con Alba Rohrwacher e la debuttante Maayane Conti.

Questa la nota ufficiale di Jasmine Trinca: “Being My Mom è una passeggiata metaforica nell’esistenza di due donne, una madre e una figlia, due protagoniste che protagoniste non sono se non della loro vita. Le osserviamo con sguardo accidentale, creature che partecipano dell’esistenza, inessenziali al mondo, essenziali l’una per l’altra. Un’indagine sulle strade luminose e oscure della maternità e di ogni figliolanza.”

Il film lo si può vedere su chili.com al prezzo di € 0,99.

Marcel! – opera prima di Jasmine Trinca

Aprivo l’articolo precedente dicendo che un mondo guidato dalle donne potrebbe essere un posto migliore… ma qui continuo affermando che un mondo governato solo da donne sarebbe ben triste. E il senso del mio ragionamento si chiarirà più avanti.

Jasmine Trinca debutta 19enne, scelta tra circa 2500 ragazze da Nanni Moretti per il film “La stanza del figlio” che subito le frutta il Ciak d’Oro alla migliore attrice non protagonista, il Globo d’Oro alla migliore esordiente e il Premio Guglielmo Biraghi ai Nastri d’Argento, oltre alla candidatura al David di Donatello: un inizio di carriera coi fiocchi che prosegue alla grande: è protagonista in “La meglio gioventù” di Marco Tullio Giordana, film che viene premiato per l’intero cast dei protagonisti ai Nastri d’Argento: i quattro attori e le quattro attrici, dove Jasmine condivide il premio con Adriana Asti, Sonia Bergamasco e Maya Sansa. E da lì in poi non sbaglia un colpo accumulando riconoscimenti e premi, fino a varcare la soglia delle Alpi francesi per allargare le sue prospettive professionali a Parigi. Nel 2017 fa parte della giuria del Festival del Cinema di Venezia e nel 2022 è nella giuria del Festival di Cannes dove presenta in anteprima nella sezione Proiezioni Speciali questo suo primo lungometraggio di fiction. E che fiction: finzione allo stato puro, favola surreale.

Nei titoli di coda dedica con amore il film ai suoi genitori, anche se in verità il film è tutto dalla parte della genitrice, come il cortometraggio che l’ha preceduto. Di questo suo esordio la neo-autrice ha detto: “A noi donne prende una strana sindrome. Per accettare di assumere una cosa ci mettiamo vent’anni. Un esordio che arriva dopo tanti incontri come interprete, elaborazioni, esempi, con registe importanti per me. Ho deciso di ribaltare lo sguardo sulle cose. Mi sono detta: mi piacerebbe farlo anche a me. Questa trasformazione creativa del vissuto mi ha dato grande entusiasmo, rendendo tutto più leggero e intenso. Il lungometraggio è il proseguimento di un viaggio già iniziato con il corto in cui eravamo tutte coinvolte, a parte Giovanna Ralli che si è aggiunta. Lo stesso gruppo, costituito da persone molto legate. L’abbiamo scritto con Alba in testa come protagonista. Non ho mai immaginato di interpretarlo in qualche ruolo. È talmente impegnativa la regia. Abbiamo violato la regola che dice che i film non vanno fatti con barche, bambini e bestie. Di queste solo la bestia ci ha dato problemi. È stato un cane in tutti i sensi, ma abbiamo deciso di metterlo poi nel film. Era la madre che proietta su questo cane oltre all’amore molto altro”.

Di queste considerazioni due cose saltano subito all’attenzione: è il proseguimento di un viaggio iniziato con un cortometraggio, e il “tutte coinvolte” che dichiara la quasi totale femminilità del cast artistico e tecnico: una scelta precisa anche nella narrativa del film dove le figure maschili, che restano marginali, sono non essenziali, se non addirittura ridicole e vissute con fastidio: il compagno di giochi che la bambina mal sopporta, il nonno buono (Umberto Orsini) che però non dice una parola e fa sempre i solitari con le carte, un grottesco spasimante della madre (Dario Cantarelli), il borghese supponente (Giuseppe Cederna) della cugina stronza – perché le donne non sono tutte buone e ci sono anche le bambine bullette di quartiere. A questo punto tocca recuperare il cortometraggio di cui si parla.

Jasmine Trinca scrive il film con la stessa sceneggiatrice con cui ha scritto il corto, Francesca Manieri; la produttrice del corto Olivia Musini torna a produrre insieme alle francesi Bérénice Vincent e Laure Parleani; tornano Daria D’Antonio alla fotografia e Marta Passarini ai costumi; e Chiara Russo al montaggio con Ilaria Sadun alla scenografia completano il cast tecnico principale al femminile. Solo lo svedese Matti Bye compositore delle musiche è l’unico uomo coinvolto nel cast tecnico principale. Ovviamente c’è del metodo e benché appaia comprensibile che un’autrice voglia circondarsi di altre donne, il film tuttavia dichiara una profonda disistima per le figure maschili, e a questo punto viene da chiedersi perché.

Partendo dunque dal cortometraggio intitolato “BMM – Beeing My Mom” in cui vediamo una madre, Alba Rohwacher, la figlia, Maayane Conti, che con una pesante valigia come palese metafora di un bagaglio interiore, percorrono una Roma assolata e deserta (è girato nel 2020 in piena pandemia) Jasmine dichiara di aver sviluppato quello spunto in questo lungometraggio, e se il film corto non era parlato questo lungo rimane poco parlato, se non fosse per i monologhi della nonna (Giovanna Ralli) che favoleggia di un uomo meraviglioso e che ovviamente è morto. Paradossalmente il lungometraggio sarebbe stato più interessante, a mio avviso, se anch’esso avesse fatto a meno dei dialoghi, mantenendo il rigore stilistico del corto, perché quei pochi che ci sono non sono davvero essenziali.

Va dato merito a Jasmine della sua scelta stilistica in assoluta controtendenza: quella di non dover piacere a tutti i costi al grande pubblico… o forse è così sicura di sé da non volersene curare affatto. Sia come sia, il film è assai ambizioso e manca clamorosamente il bersaglio. Se da un lato l’autrice dimostra di avere assoluta padronanza tecnica del mezzo e un raffinato gusto visivo coi quali compone bellissime inquadrature – dall’altro dimostra di non avere padronanza della scrittura filmica, e sorprende che non abbia aiutato la collaborazione di una qualificata professionista come Francesca Manieri, la quale annovera il premio intitolato a Nora Ephron al Tribeca Film Festival per la sceneggiatura di “Vergine giurata” di Laura Bispuri più altre candidature ai David di Donatello e ai Nastri d’Argento. Jasmine ha dichiarato di essersi ispirata a Charlie Chaplin (e qualcuno fra i critici nostrani ci ha voluto ritrovare anche Federico Fellini) e ai “Peanuts” di Charles M. Schulz per le scene dei bambini. Di fatto il film va da tutte le parti – intermezzi teatrali, fiere di paese, balli di gruppo – e allunga a dismisura i tempi, anche di sequenze secondarie e poco significative, col risultato che lo sbadiglio è sempre dietro l’angolo. Jasmine Trinca è talmente innamorata del suo racconto che non ne vede difetti e ridondanze: se si fosse trattato di un manoscritto avrebbe avuto bisogno di un rigoroso editing, e l’amica co-sceneggiatrice non è stata e severa dunque di nessun aiuto. Asservita è anche buona parte della critica ufficiale che è stata fin troppo generosa con questo bislacco debutto perché l’autrice è una cineasta giustamente amata e ben considerata: ma complimenti di circostanza e carezze affettuose non aiutano.

Alba Rohrwacher torna a indossare i panni della madre con la valigia e stavolta è una strampalata artista di strada che ama il suo cane Marcel più della figlia, e quando non è in giro si lascia andare a ragionamenti poetico-filosofici, quasi frasi da cioccolatino, e all’iperbole della divinazione. Mayaane Conti, che all’epoca del corto aveva otto anni e un bellissimo volto col quale amava muta la sua mamma altrettanto bambina, oggi ha undici anni e il suo volto rimasto bellissimo si è arricchito di una più matura espressività con la quale manifesta appieno le ombre di questo nuovo rapporto madre-figlia. Nella dilatazione sconclusionata della narrativa filmica, oltre ai già citati Giovanna Ralli e Umberto Orsini come nonni, lei logorroica lui taciturno, entrano nel cast altre amiche come Valentina Cervi, la cugina altoborghese e classista, Valeria Golino come analista e Paola Cortellesi che torna alle maschere dei suoi primordi e rifà una venditrice di gioielli paccottiglia in tivù: tutta roba che singolarmente ha un suo perché e una sua godibilità ma che tutta insieme è solo un minestrone mal riuscito. Per maneggiare il surreale ci vuole un gran mestiere perché anche nel surreale c’è bisogno di coerenza e unità narrativa, non bastano le belle inquadrature e le trovate bizzarre sparse qua e là come bricioline gettate a caso agli uccellini: Pollicino ci insegna che le bricioline vanno sparse con cura e attenzione se si vuole ritrovare la strada maestra.

La figlia oscura – opera prima di Maggie Gyllenhaal

Sono di quelli che pensano che se il mondo fosse governato dalle donne sarebbe un posto migliore… beh sto entrando nell’argomento per la via più lunga: Maggie Gyllenhaal, sorella di poco maggiore di Jake Gyllenhaal, debutta alla regia con un lungometraggio di gran classe, in linea con tutta la sua carriera, al contrario del fratello che si è ritagliato un profilo di star per tutte le stagioni, bravo e prestante giovanotto socialmente e politicamente impegnato, come la sorella, ma che artisticamente non ha ancora dato il suo colpo di coda.

Maggie e Jake sono gli ultimi rampolli di un’antica importante famiglia di origini svedesi. Il padre Stephen Gyllenhaal è un regista cinematografico non di prima grandezza che ha diretto entrambi i figli all’inizio delle loro carriere. Poi mentre Jake assurge alla fama nel 2001 come protagonista del cult fantasy “Donnie Darko” in cui Maggie recita in un ruolo minore, lei sarà protagonista l’anno dopo di un altro cult “Secretary”, per il quale riceverà candidature ai premi maggiori vincendo nelle sezioni dei premi minori, e da lì in poi, pur diversificando come il fratello, si ritaglia il ruolo di attrice più in linea col cinema di qualità che coi blockbusters, nulla togliendo alla qualità di questi. Poi nel 2015 vince il Golden Globe per la miniserie britannica “The Honourable Woman” e ancora, pur essendo ormai una punta di diamante nella cinematografia internazionale, continua a mancarle l’attenzione di quella grande fetta di pubblico che incorona le star. Fra il 2017 e il 2019 cop-roduce e co-interpreta con James Franco l’acclamata serie tv “The Deuce” sul mondo del porno negli anni ’70, riconfermandosi una cineasta di classe volta alla ricerca di produzioni non banali, e anche rischiose. Nel 2018 Maggie produce e interpreta “Lontano da qui”, remake di un film franco-israeliano incentrato sulla figura di una donna banale che cerca una via di fuga e di compensazione nella poesia. Il 2021 è l’anno di questo suo debutto di cui, oltre a essere regista, è anche produttrice e sceneggiatrice, e proprio con la sceneggiatura ha vinta il Premio Osella alla Mostra del Cinema di Venezia.

Il film è un adattamento del romanzo omonimo del 2006 dell’italiana Elena Ferrante, nom de plume di una scrittrice, certamente partenopea, che nonostante le indagini e le speculazioni, rimane anonima. Detto ciò il nome è stato inserito dal settimanale statunitense Time fra le cento persone più influenti al mondo, a dimostrazione del fatto che i suoi libri hanno larga diffusione oltreoceano. Il suo primo romanzo “L’amore molesto” già presenta le tematiche dell’autrice: l’indagine psicologica della mente femminile, senza compiacimenti e scudi morali o sociali, e il collasso psicologico delle protagoniste. Quel romanzo è diventato subito uno spiazzante film di Mario Martone, e anche il secondo romanzo “I giorni dell’abbandono” diventa un meno riuscito film diretto da Roberto Faenza. Segue “La figlia oscura” che diventa questo film, e poi inizia la serie di quattro romanzi di “L’amica geniale” opportunamente messa in cantiere come serie tv dall’americana HBO e poi coprodotta con l’italiana Fandango e con Rai Cinema, con la regia di Saverio Costanzo.

Maggie Gyllenhaal, pur avendo l’età giusta per interpretare la protagonista, preferisce restare dietro la macchina da presa e farsi regista pura, senza il fraintendimento dell’attrice che vuole mettersi al centro della scena, e offre il ruolo alla premio Oscar britannica Olivia Colman, che a sua volta in questo progetto che sia avvia a basso costo, si coinvolge anche come produttore esecutivo, che è colui o colei che ha la parola finale su tutto il progetto – probabilmente riducendo il suo compenso, il cui mancato introito va considerato come contributo economico alla produzione.

Nell’adattare il romanzo, Maggie, mantenendo il nome italiano della protagonista, Leda Caruso, che nella multietnicità americana ben si colloca, sposta dapprima l’azione dall’Italia – nel romanzo la protagonista è una professoressa in vacanza su una spiaggia dello Jonio – alla costa atlantica del New Jersey. Ma è già il 2020 e la pandemia Covid chiude tutti a casa, con l’aggravante che gli Stati Uniti saranno il territorio più colpito al mondo per la leggerezza e il ritardo con i quali vengono adottati i provvedimenti, dunque la produzione si blocca e l’autrice rischia di perdere i finanziamenti. Col virus in piena diffusione decide di spostare il set sull’isola greca di Spetses, che essendo a 35 miglia nautiche dalla terraferma era ancora abbastanza al riparo dai contagi e, come ha dichiarato lei stessa, non poteva permettersi di interrompere le riprese in caso qualcuno fosse risultato positivo, e che quindi ha girato il più velocemente possibile e in assoluta economia di mezzi, usando gli isolani al posto di figuranti e comparse professionisti. Di conseguenza anche i flashback, ambientati nel New Jersey, sono stati girati sull’isola.

Dakota Johnson, Maggie Gyllenhaal e Olivia Colman a Venezia

Il film, che ha un andamento lento e avvolgente è diretto con sicurezza dall’autrice esordiente, e vanno annotate le scene di intimità di coppia e di sesso che non sono mai banali quando sono dirette da una donna. E se da un lato il film si regge tutto sull’intensità di Olivia Colman, che riceve la candidatura all’Oscar nel 2022 (ha vinto Jessica Chastain per “Gli occhi di Tammy Faye“) per il resto ha lo spessore che gli conferiscono tutti gli altri interpreti di rango, a cominciare dalla protagonista Leda Caruso di vent’anni prima interpretata dall’irlandese Jessie Buckley, attrice talentuosa e pluripremiata non ancora nota al grande pubblico, anche lei candidata come non protagonista (ha vinto Ariana DeBose per il “West Side Story” di Steven Spielberg). Nel cast anche il veterano di lusso Ed Harris e il marito di Maggie, Peter Sarsgaard, anche grande amico del cognato Jake. L’ex modella Dakota Johnson, assurta a discusso sex symbol cinematografica con la trilogia delle “Cinquanta Sfumature di…” grigio rosso e nero, impersona la giovane madre nonché donna inquieta in cui la protagonista si identifica e che ne scatena il crollo psicologico. Completano il cast i britannici Oliver Jackson-Cohen, Paul Mescal e Jack Farthing (chi se lo ricorda come cattivissimo George Warleggan nella serie tv “Poldark”?). Chiudono il cast principale la polacca naturalizzata statunitense Dagmara Domińczyk e l’italiana Alba Rohrwacher già legata al mondo di Elena Ferrante per essere stata la voce narrante delle prime stagioni di “L’amica geniale” come voce matura della protagonista Elena, detta Lenù, e che vedremo in video nella quarta e ultima stagione.

Atri riconoscimenti andati al film: candidatura a Maggie Gyllenhaal per la migliore sceneggiatura non originale agli Oscar; candidatura ai Golden Globe per regista e protagonista, e a seguire altre candidature ai Critics’ Choice Awards, ai BAFTA e Screen Actors Guild Award. Al botteghino non ha avuto il riscontro meritato confermandosi per quello che è: un film di nicchia e d’autore; e Maggie, debuttando come autrice senza volersi mettere dentro anche attrice, merita tutta l’attenzione.