Archivio mensile:novembre 2022

Grazie zia – opera prima di Salvatore Samperi

Enzo Doria come Gionata in “Il vecchio testamento” del 1962 diretto dal generalista Gianfranco Parolini, dove ha ricoperto anche il ruolo di segretario di produzione

Il prode Enzo Doria, già attore belloccio che dopo essere apparso sugli schermi ha voluto fare le cose per bene frequentando il Centro Sperimentale di Cinematografia dal quale si è diplomato nel 1960, sin da subito aveva mostrato interesse per gli altri aspetti delle produzioni ricoprendo vari ruoli dietro le quinte, fino a farsi anche sceneggiatore e regista, ma il cui ruolo più importante rimane quello di produttore il cui primo avventuroso impegno sarà l’andare a braccetto col debuttante autore Marco Bellocchio alla ricerca di finanziamenti per “I pugni in tasca”. Ci ha preso gusto e a tambur battente ha prodotto altri due debutti, Silvano Agosti col censuratissimo “Il giardino delle delizie” e Salvatore Samperi con questo “Grazie zia”.

Di qualche anno più giovane del suo indiscusso modello, quel Marco Bellocchio appena giunto al successo, come lui viene da un’agiata famiglia borghese, di Padova, abbandona l’università per andare a iscriversi al Centro Sperimentale di Roma, che però lascia senza concludere il biennio per buttarsi nel movimento studentesco del 1968 e dichiararsi antiborghese e anti familista, più dichiaratamente di Bellocchio che invece esprimeva tormenti più personali; nel frattempo è assistente volontario, dunque non pagato, di Marco Ferreri, mentre gira anche da regista dei documentari industriali. Così, quando a 25 anni s’impegnerà in questo suo primo lungometraggio di finzione, conosce già bene il mestiere: si tratta solo di raccontare una storia. E la sua storia parte appunto dal suo modello, Marco Bellocchio con “I pugni in tasca”, di cui reimpiega lo svogliato attore feticcio Lou Castel in una vicenda dai tratti simili, l’implosione della famiglia borghese con un protagonista che ancora sogna la strage e anela il suicidio; ma mentre Bellocchio creava senza saperlo un paradigma cinematografico e sociale, Samperi è già sulle barricate del ’68, che è l’anno di produzione del film, e le istanze politiche sono tutte lì, dichiarate, anche con autocritica: il suo protagonista è un figlio di papà altrettanto disturbato come il protagonista di Bellocchio, che come molti giovani dell’epoca cavalca l’onda della rivoluzione sociale per dare sfogo solo ai suoi personali istinti autodistruttivi e nichilisti, senza progettualità né prospettive; gli fa da contraltare la figura dell’intellettuale di sinistra interpretata da Gabriele Ferzetti, seriamente impegnato e motivato, che però il giovane disprezza solo perché mosso da personale gelosia. Alvise è un paraplegico psicologico che è in grado di alzarsi dalla sedia a rotelle se motivato da momentanei impulsi e personali motivazioni, che fa la sua battaglia da adulto bambino su un plastico del Vietnam le cui vittime annota minuziosamente su una lavagna. Esemplare l’inizio del film: dopo l’elettrochoc cui viene sottoposto, panacea pseudo medica di quegli anni, intravediamo in una breve sequenza il suo autoritario padre sempre inquadrato di spalle o, se in campo lungo, nascosto alla nostra vista da una pianta: a simboleggiare la sua effettiva assenza come genitore.

C’è di nuovo, in Samperi rispetto a Bellocchio, l’aspetto erotico, e poi incestuoso in seconda istanza, a mettere in discussione l’impianto familiare benestante e borghese: il 17enne Alvise (ma l’attore è di quasi dieci anni più grande) è verosimilmente con gli ormoni in subbuglio, oltre a tutto il resto dell’armamentario di disturbi veri o presunti, e la bella zia fisioterapista presso cui viene mandato acuisce le sue già distorte fantasie. Molto bella la sequenza in cui il ragazzo osserva gli ospiti della zia cogliendone gli aspetti più intimi ed erotici: un erotismo di gran classe fatto di piccoli gesti inconsapevoli, sguardi e tensioni, che sfoceranno negli inevitabili rapidi amplessi che si consumeranno anche in modo un po’ arruffato.

Annie Girardot fu la prima scelta dell’autore ma rifiutò la parte che andò a Lisa Gastoni, attrice perfetta per il ruolo, giusta al momento giusto. “Io sono convinta che ciascuno di noi ha una sua età. Ci sono dei momenti fisici – perché nel cinema è soprattutto questione di momenti fisici – che ci sono più adatti, più giusti. In genere si chiamano ‘incontro col personaggio’. In fondo il mio vero incontro col personaggio è avvenuto quando avevo ventinove anni, girando ‘Grazie zia’. All’età quindi di una donna nella sua pienezza, alla soglia della trentina. Non ero vecchia ma neppure giovane. Però ero fisicamente ed emotivamente giusta per il ruolo.”

Una giovanissima Lisa Gastoni a inizio carriera

Lei, nata nel 1935 da padre italiano e madre irlandese, nel dopoguerra si trasferisce a Londra dove comincia come fotomodella e anche attrice senza mai sfondare davvero. Torna in Italia dove continua a fare cinema ancora senza grossi exploit fino a “Svegliati e uccidi” del 1966 di Carlo Lizzani dove – e bisogna ricordare che è sentimentalmente legata al produttore Joseph Fryd – interpreta la compagna del “solista del mitra” Luciano Lutring e si aggiudica il Nastro d’Argento; e per il ruolo di questa zia riceverà la Targa d’Oro ai David di Donatello, rilanciando la sua carriera come stella di prima grandezza; ma nei successivi prossimi anni Settanta sceglie di lavorare poco ma bene con registi e film di qualità, e vince un secondo Nastro d’Argento per “Amore amaro” di Florestano Vancini; ma per la sua scelta stilosa perde un po’ il contatto col grande pubblico sempre affamato di facili emozioni, e sul finire di quegli anni ’70 si ritira dalle scene lasciando il campo libero alla più giovane Laura Antonelli che lo stesso Samperi porterà al successo con “Malizia”; mentre da un altro lato si affermerà come diva sexy dei B movie Edwige Fenech. Lisa Gastoni tornerà di nuovo in gran spolvero nel nuovo millennio e fra cinema e tv ottiene altre candidature a premi prestigiosi, a cominciare dalla sua partecipazione a “Cuore sacro” di Ferzan Ozpetek, autore nella cui cifra stilistica va notato che ama reimpiegare vecchie glorie: Lucia Bosè, Erika Blanc, Massimo Girotti, Ilaria Occhini, Anna Proclemer…

Nella bella intervista di Mario Sesti, Lisa Gastoni dice una cosa non banale e interessante: che quando su una sceneggiatura ci sono troppe firme qualcosa non va. Viene citato anche il suo ultimo film diretto da Ferzan Ozpetek

Il film, nonostante nelle intenzioni dell’autore sia un manifesto politico di quegli anni, passerà alla storia come un cult che ha innestato il filone erotico nella commedia all’italiana, e anche Samperi, esaurita l’ispirazione politica che non ha portato grandi incassi alle sue imprese, si alternerà fra la commedia, anche sperimentale, vedi “Sturmtruppen”, e quel filone sexy di qualità che tanta immediata fama gli ha dato al suo debutto, tornando a deliziare le platee maschili con “Malizia” appunto, “Peccato veniale”, “Scandalo” e via discorrendo, un elegante erotismo sempre innestato sul disfacimento dell’istituzione della famiglia. Nel 1991 l’autore, evidentemente ormai col fiato corto, tenta col sequel “Malizia 2mila“, film assai problematico con tristi strascichi oltre che clamoroso insuccesso. Per Samperi è un personale colpo di grazia e smette di fare cinema, tornando solo dopo una decina d’anni a dirigere fiction per Canale 5, fino alla sua morte improvvisa a 68 anni.

Interessante il commento musicale di Ennio Morricone che ha composto un’inconsueta filastrocca cantilenante che torna quasi ossessiva nell’arco dell’intero film: “Guerra e pace, pollo e brace”; inoltre c’è anche l’altrettanto inconsueta “Filastrocca vietnamita” di Sergio Endrigo. Al montaggio torna il recalcitrante Silvano Agosti che stavolta si firma Alessandro Giselli e il film viene ammesso alla sezione ufficiale del Festival di Cannes del 1968, edizione che fu però cancellata dalle agitazioni studentesche del Maggio Francese: un dispiacere per autore e produttore mentre il protagonista di certo se la rideva sotto i baffi. Oltre alla Targa d’Oro a Lisa Gastoni il film si aggiudica anche il Nastro d’Argento per la miglior fotografia in bianco e nero di Aldo Scavarda. Salvatore Samperi si aggiudicherà l’attenzione di critica e pubblico, anche se per ragioni differenti: il titolo diventa subito sinonimo di situazioni scabrose ed erotismo pruriginoso, e avviando il filone della commedia sexy all’italiana resterà suo malgrado il capostipite del proficuo sotto-filone familiare in cui si contano: “Grazie… nonna” di Marino Girolami con Edwige Fenech, “Le dolci zie” di Mario Imperioli, “La cognatina” di Sergio Bergonzelli, “La cugina” di Aldo Lado, “Cugini carnali” di Sergio Martino, “Il vizio di famiglia” di Mariano Laurenti, “Peccati in famiglia” di Bruno Gaburro, “Cara dolce nipote” di Andrea Bianchi, “Bello di mamma” di Rino Di Silvestro, “Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno” di Luciano Salce e “Oh mia bella matrigna” di Guido Leoni che segna l’unica interpretazione cinematografica della valletta Sabina Ciuffini; qui tralasciando molti altri film che pur senza riferimenti alla famiglia nel titolo si inseriscono di diritto in questo sotto-filone cui lo stesso Samperi ha continuato a dare il suo contributo con “Peccato veniale” “Nenè” e “Casta e pura”.

Lou Castel, che fin dal primo set che ha frequentato, “Il Gattopardo” di Luchino Visconti, ha mostrato di non essere particolarmente interessato al concetto di “carriera” perché è un estremo eccentrico che non intende sottomettersi a un sistema di auto celebrazione in cui ci si auto rappresenta; già col successo di “I pugni in tasca” si defilò dai classici dibattiti con pubblico e stampa che seguirono, mettendo la scusa che non parlava bene l’italiano: in realtà era depresso dall’esito oltremodo positivo del film perché il successo gli dimostrava che anche quel film d’autore era un’impresa commerciale come tutte le altre. Idealista duro e puro dunque, fino al nichilismo del paradosso secondo cui un film di qualità, politicamente e socialmente impegnato, non deve avere successo commerciale. Ma suo malgrado diventa un celebrità transalpina e così comincia ad accettare qualsiasi cosa, che si tratti di film artistici o di serie B tutto fa brodo per permettergli di finanziare le cause di quell’estrema sinistra a cui ha aderito con tutte le scarpe, e versa tutti i suoi guadagni nell’organizzazione maoista “Servire il popolo” con questa motivazione: “Molti giovani della borghesia hanno fatto lo stesso, vendendo la loro auto o il loro appartamento. D’altro canto, di attori che hanno fatto lo stesso, ce n’erano pochi o niente.” E fu espulso dal democristiano e cattolicissimo governo italiano come indesiderato. Il disgusto per la popolarità che gli deriva dal suo lavoro di attore si esprime ancora in questo racconto: “Ricordo una volta che stavo chiacchierando con un ragazzo che mi aveva visto il giorno prima in ‘Grazie zia’ di Salvatore Samperi, un dramma piuttosto sulfureo ed erotico dove interpretavo un ragazzo che seduceva la zia. Io stavo cercando di convincerlo della necessità di una rivolta, ma la sua unica ossessione era se avessi scopato o meno l’attrice, Lisa Gastoni.” E ha raccontato pure allegramente che Louis Malle lo cercava senza trovarlo perché lui era a fare la sua rivoluzione, e non lo ha più trovato. Nonostante ciò la sua carriera di attore non-attore ha continuato, e anche se l’emergenza estremista si è acquietata lui rimane sempre un uomo controcorrente. Oggi ha 79 anni e nel 2016 Pierpaolo De Santis ha realizzato su di lui il documentario biografico “A pugni chiusi”.

I pugni in tasca – opera prima di Marco Bellocchio

Il film completo

1965, il ’68 è dietro l’angolo, e Marco Bellocchio realizza questo suo primo lungometraggio dando voce a disagi assai personali, senza sapere che stava realizzando un manifesto sociale: il suo malessere è lo stesso di tanti suoi coetanei che scenderanno per le strade a manifestare un diffuso disagio per una società fatta di schemi prestabiliti ancora radicati su vecchi modelli antecedenti il secondo conflitto mondiale se non addirittura ottocenteschi, che spingeranno la massa della nuova forza lavoro, studenti e operai, cui si affiancheranno gli intellettuali, verso la rottura con le rigide tradizioni, Dio Patria Famiglia, attraverso il comunismo l’anarchismo e il nichilismo.

“Volevo raccontare una storia molto personale, nella quale potessi riconoscermi. Pensai a un tema che aveva attraversato la mia adolescenza, quell’aspetto infelice della vita di famiglia in cui alcuni, soprattutto mio fratello Paolo, distruggevano ogni possibilità di gioia, obbligandomi a nascondermi. In partenza c’era il protagonista, che vuole restare in famiglia e dominarla eliminando i fratelli ‘imperfetti’ o improduttivi. Poi ho costruito gli altri personaggi, in particolare la madre. Alcune cose venivano dalla mia famiglia, altre erano frutto di fantasia. Ho attinto anche alla mia cultura, un po’ al surrealismo, un po’ alla letteratura, un po’ a quel che era diventata la mia vita. La storia è nata così. Sapevo anche di dover realizzare un film piuttosto intimo, perché i soldi erano pochi. Quindi il grosso del film andava girato all’interno di una casa. Si partì in modo tradizionale, proponendo il progetto a piccoli produttori e distributori, ma nessuno ne voleva sapere. Per le riprese avevamo preventivato venti milioni di lire. Andai da mio fratello: la sceneggiatura non gli piaceva, ma mi lasciò una parte del nostro patrimonio e ottenne un prestito bancario. Così mi ritrovai a essere di fatto produttore del film, con Doria come produttore esecutivo. Non era un grosso budget, anche se oggi si realizzano opere prime con ancor meno. Il soggetto dei ‘Pugni in tasca’ l’ho scritto a Londra, dove ero andato forse perché non sapevo bene che fare (frequentai dei corsi di cinema di Thorold Dickinson, era questa la scusa, con una piccola borsa di studio). L’idea del soggetto era la condensazione di fantasticherie di anni, di tutta una storia di solitudine dentro la famiglia. Eravamo testimoni, io e i miei fratelli, di una follia cui nessuno poteva mettere rimedio, e che veniva subita con reazioni nostre sempre uguali. Dalle fantasticherie di allora nacque un intreccio, crebbero dei personaggi. Poi naturalmente la storia si sviluppò diversamente, quando doveva diventare un film e ancora mentre il film veniva girato.” Bellocchio ha poi raccontato la sua famiglia nel documentario autobiografico “Marx può aspettare”.

In questo suo primo film la figura paterna è assente (come suo padre già morto da anni) e la figura materna, che come quella reale è una fervente cattolica che negli anni ha accumulato una collezione della rivista Pro Familia che vedremo nel film, è una donna cieca, simbolicamente cieca verso i bisogni e la natura dei figli, e narrativamente funzionale al racconto che l’autore sviluppa. I quattro figli sono altrettanto simbolicamente e sinteticamente sviluppati dalla sua realtà familiare: Leone, il piccolo, è un disagiato mentale che soffre anche di epilessia, il male di famiglia di cui soffre anche Alessandro su cui s’incentra il racconto, e il maggiore Augusto è quello che ha assunto, com’era d’uso, il ruolo di capofamiglia in assenza del pater familias: è l’unico che lavora e ha una sana vita sociale, va anche a puttane come tutti i maschi esempio cardine della società, mentre gli altri tre oziano in casa fra claustrofobie reali e mentali in cui si acuiscono i disagi e le tare latenti. “In quella villa sono tutti malati” è una battuta del film.

E la villa che fa da set è la casa dell’eredità materna fuori città dove i Bellocchio andavano in estate. Una casa in cui sono del tutto assenti la radio e soprattutto la televisione con la Rai che aveva avviato le trasmissioni ufficiali dieci anni prima, e l’apparecchio era ancora un bene di lusso da tutti ambito; così nella famiglia che Bellocchio mette insieme, la sera si legge ancora un libro o si gioca a carte, come non è inusuale ascoltare dischi di musica classica. In questa famiglia-tipo, provinciale benestante e oziosa, a mio avviso la figura meno definita è quella di Giulia, l’unica sorella, come se Bellocchio non sapesse come raccontare il mondo femminile, e ne fa un’entità indistinta, sottomessa, donna e bambina, che legge l’Almanacco Topolino e ha sulla testiera del letto la fotografia di Marlon Brando in “Fronte del porto”, una donna-bambina alternativamente tentata dal machismo di Augusto e dall’inafferrabile inconsistenza di Alessandro, Ale o Sandro, che però prende una posizione ed esprime il suo punto di vista solo nel finale.

In quei primi anni ’60 era arrivata dalla Francia la Nouvelle Vague, la nuova ondata, anch’essa nata da movimenti giovanili con l’intento di rifondare la narrativa cinematografica francese che sul finire degli anni ’50, in risposta a una crisi sociale interna, era diventata estremamente moraleggiante con situazioni e personaggi e dialoghi molto idealizzati e poco realistici; così una nuova generazione di registi, tutti intorno ai vent’anni, cominciano a girare film a basso costo e con mezzi di fortuna, nelle case private o per strada, come una sorta di diario intimo collettivo che esprime, insieme alla sincerità, la loro giovanile inquietudine. I nome di quei ventenni sono Claude Chabrol, Jean-Luc Godard, Jacques Rivette, Éric Rohmer, François Truffaut… Così anche da noi si avviarono delle produzioni che promuovessero dei nuovi debutti, e se da un lato ci fu l’opera prima, nonostante quasi quarantenne e già poeta e intellettuale affermato, di Pier Paolo Pasolini con “Accattone”, avevano debuttato anche Elio Petri con “L’assassino”, i Fratelli Taviani in co-regia con Valentino Orsini firmarono “Un uomo da bruciare” e l’opera seconda estremamente politica “Prima della rivoluzione” di Bernardo Bertolucci che ancora più giovane di Bellocchio aveva debutta con “La commare secca” sotto l’egida di Pasolini. Tutte produzioni ed esperimenti meritevoli di attenzioni ma che al botteghino non ebbero l’esito sperato, così quando Bellocchio fu pronto per presentare il suo progetto, nei produttori non c’era più l’entusiasmo dei primissimi anni ’60.

Enzo Doria

“Per mesi ho cercato insieme a Doria persone che potessero partecipare con dei quattrini al progetto. Non le abbiamo trovate. Allora i miei fratelli, Tonino e Piergiorgio, hanno chiesto un piccolo prestito alla banca e l’hanno garantito. Il prestito era di circa 20 milioni e con questi venti milioni è stato fatto il film. Loro erano convinti di perdere questi soldi, ma che comunque valesse la pena di perderli anche perché erano un mio diritto patrimoniale, dal momento che mancando mio padre io ero padrone di alcuni beni immobili, nessuno mi regalava niente. I produttori non accettavano il progetto perché ritenevano la storia incredibilmente scadente, non vendibile.” Enzo Doria racconterà: “Io venivo da Genova, ero a Roma già da qualche anno, dove avevo fatto il Centro Sperimentale con Bellocchio. Ho cominciato come attore, poi ho fatto l’aiuto regista, un po’ di edizione e casualmente il produttore, perché non avevo nessun altro sbocco. ‘I pugni in tasca’ è stato scritto a Londra, dove eravamo andati tutti a studiare l’inglese. Mi è piaciuto il tipo di storia, in quanto anche la mia famiglia viene dalla zona collinosa fra l’Emilia e la Liguria. Anch’io ho avuto strane storie in famiglia, tabù di malattie e cose del genere. Mi ha affascinato questa storia anche perché andando su da lui, da Bellocchio, dove poi abbiamo girato il film, ho visto questa villa isolata con degli alti cipressi intorno che rendono il posto protetto e solitario. È stato faticosissimo trovare una distribuzione. Nessuno capiva perché volevamo fare questo film.” Per lui questa sarà la prima impresa produttiva che gli varrà il Nastro d’Argento e produrrà i debutti di Silvano Agosti e di Salvatore Samperi. Mentre Tullio Kezich, critico e sceneggiatore, a quei tempi anche produttore, racconterà: “Al culmine della mia carriera di direttore artistico della società cinematografica 22 Dicembre, non partecipai a un’impresa che mi avrebbe dato gloria imperitura. All’epoca il fatto di aver realizzato fra l’altro un paio di film di Olmi, ‘I basilischi’ (1963) di Lina Wertmüller e ‘II terrorista’ (1963) di De Bosio attirava nei nostri uffici tutti gli esordienti del cinema italiano, incluso il giovanotto ad honorem Roberto Rossellini con il quale allestimmo ‘L’età del ferro’ (1964). E così in mezzo a tanti altri si presentarono un giorno, con l’aria di darsi coraggio reciprocamente, due timidi. Mi sottrassi alla loro vista barricandomi nella mia stanza (erano troppi, in quei giorni, gli illusi e i frustrati che facevano perdere tempo) e dopo un po’ mi raggiunse il nostro brutale organizzatore dicendo: ‘Te li ho risparmiati, ringraziami, erano proprio due imbranati. Quello che vuole fare il regista, figurati, mi ha raccontato un soggetto pazzesco, la storia di uno che ammazza tutta la famiglia’. Passò molto tempo prima che mi rendessi conto di aver mandato via insalutati Marco Bellocchio e il suo produttore Enzo Doria.” La sedicente gloriosa 22 Dicembre chiuse i battenti proprio l’anno di uscita di “I pugni in tasca”.

Se le cose fossero andate diversamente il film avrebbe avuto come protagonisti la coppia nazional-popolare Gianni Morandi e Raffaella Carrà, e avrebbe certamente funzionato. Il duo Bellocchio-Doria, rendendosi conto di doversi presentarsi al botteghino con un film difficile, opera prima di uno sconosciuto, ebbe la brillante idea di coinvolgere nel cast quei beniamini del pubblico televisivo per garantirsi una più facile visibilità. Morandi aveva vent’anni, era un ex bambino prodigio che aveva cantato nelle feste e nelle sagre di paese e ormai sfornava un successo dietro l’altro, da “Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte” a “Non son degno di te” sulla scia dei quali aveva girato un paio di musicarelli. Raffa, già attrice bambina, ancora 17enne si era diplomata al Centro Sperimentale di Cinematografia ma fra cinema teatro e radio, benché lavorando molto e anche molto apprezzata, stentava ancora a raggiungere il grande successo, che le arrivò solo negli anni ’70 con la tv. Ma mentre su di lei Bellocchio ci aveva solo fatto un pensiero, con Gianni ci furono delle vere e proprie trattative: il giovane cantante voleva assolutamente fare il film ma la casa discografica con cui era sotto contratto, la RCA, glielo impedì perché quel film rischiava di rovinare la sua immagine di bravo ragazzo di successo. Fine dei giochi nazional-popolari.

“Marco Bellocchio, che stava preparandosi a girare ‘I pugni in tasca’, mi propose per la parte del protagonista. Su due piedi rimasi incerto, poi l’idea mi interessò moltissimo. Tutti mi sconsigliavano, Lionetti, il mio scopritore, in testa, la casa discografica eccetera. In effetti, era una parte del tutto opposta al mio personaggio così come si era affermato in quegli anni. Ma io la volevo fare a tutti i costi. Bellocchio mi cercava e tutti gli altri facevano il possibile per fargli perdere le mie tracce. Io però ero deciso. A quel punto, visto che non c’era altra strada, Lionetti mi affrontò e mi disse: ‘Se lo fai, ti spezzo una gamba’. La parte fu affidata a Lou Castel.”

Bellocchio aveva sognato anche interpreti internazionali come Susan Strasberg fresca di Golden Globe per “Le avventure di un giovane” di Martin Ritt; mentre per il ruolo del fratello maggiore aveva pensato al francese Maurice Ronet, anch’egli all’epoca nome di punta specializzato in ruoli di giovani borghesi ambigui e tormentati. Intanto non aveva ancora trovato il suo protagonista, per il quale aveva anche provinato senza successo il 24enne Franco Nero da un paio d’anni sul mercato cinematografico già con ruoli in cui metteva in risalto la sua prestanza fisica più che il tormento interiore che il personaggio di Bellocchio richiedeva. Fu per caso che il giovane autore si imbatté in Lou Castel, che frequentava come auditore straniero il corso di regia al Centro Sperimentale: lo vide in mensa e incuriosito dalla sua espressione assorta gli propose un provino, benché poi non fosse davvero convinto: gli sembrava troppo timido e tranquillo, e anche lento. Ma durante la prova accadde un piccolo contrattempo tecnico: l’operatore aveva dimenticato di attaccare alla presa di corrente la spina della batteria della macchina da presa, e al momento di girare, in un silenzio carico di tensione, all’ordine del regista “motore! azione!” non successe nulla; e ciò fece scoppiare la tensione accumulata da Castel in un irrefrenabile risata liberatoria, un po’ isterica, che convinse Bellocchio a dargli la parte: “È lui, è lui, è spaccato!” si era messo a gridare entusiasta. Una risata che sarà ripetuta nel film insieme a tutte le altre personalizzazioni che l’interprete apporterà arricchendo il personaggio che nella scrittura non aveva la disarmante dolcezza che gli profonderà l’interprete, rendendo ancora più agghiacciante e incomprensibile la psicopatia di Alessandro. Fu così permeante l’adesione dell’attore al personaggio che durante la lavorazione Bellocchio si adattò all’improvvisazione dell’interprete, cambiando anche le scene, e accadde pure che per le reazioni isteriche e addirittura violente di Castel più volte si dovettero interrompere le riprese, tanto che Marino Masè, nel ruolo del fratello maggiore, assai irritato arrivò a schiaffeggiare il collega, e un esempio di questo scoppio d’ira è rimasto montato in una scena del film. “Volevo diventare regista – dirà l’attore – ma poi con Bellocchio sono diventato alleato di un regista: l’attore deve fare sempre la regia interna di una scena”.

Nato Ulv Quarzéll a Bogotà da un padre diplomatico svedese e da madre irlandese ha, come Marco Bellocchio, un fratello gemello: “Ulv è ‘lupo’ in norvegese. E ho un fratello gemello di nome Björn, ‘orso’. È stata nostra madre che in seguito ha francesizzato i nostri nomi, per evitare problemi amministrativi”. Il padre, che aveva scelto quei nomi dalla natura e dalle fiabe norrene, nel privato era un sognatore e idealista, e come tale aveva deciso di trascorrere il resto della sua vita in Colombia mentre la madre, divorziando, riportò con sé i figli in Europa. Dai 6 anni Ulv frequentò dapprima i college londinesi, ma poi seguendo la madre giramondo crebbe anche in Giamaica e a New York, finché approdò in patria alla rigida Royal Sweden dove subì atti di bullismo. Intanto la madre, inquieta artista comunista, era approdata a Roma entrando nel mondo del cinema come collaboratrice a sceneggiature di autori come Federico Fellini e Mario Monicelli. Lou, 17enne lascia gli studi e va a fare il contadino in Germania, breve parentesi conclusasi per una lite col padrone – è già un giovane ribelle in linea con quello che sarà – e infine si riunisce con la madre nella Roma cinematografica. Frequenta i corsi di recitazione di Alessandro Fersen e poi entra al Centro Sperimentale di Cinematografia.

Lou Castel in “Il Gattopardo”

Aveva debuttato con un piccolissimo ruolo non accreditato in “Il Gattopardo” di Luchino Visconti, il quale avendolo notato gli chiese di restare oltre le riprese, per conoscersi meglio, ma il ragazzo rispose che aveva fatto le sue otto ore per avere la sua busta paga e se ne andò, sempre insofferente irriverente e sovversivo, voltando forse le spalle a un altro tipo di carriera. “I pugni in tasca” sarà il suo vero debutto cinematografico nel quale, pur recitando in italiano, per il suo forte accento straniero verrà doppiato da Paolo Carlini. Continuerà con una bella carriera nel cinema italiano, lavorando con Damiano Damiani, Carlo Lizzani, Liliana Cavani, e infilando un altro successo con “Grazie zia” del debuttante Salvatore Samperi; fino alla sua espulsione dall’Italia nel 1972 come indesiderato per la sua militanza nell’estrema sinistra in un’Italia fortemente democristiana: fu portato quasi a braccetto dai militari su un aereo che lo riportò a Stoccolma dove non conosceva più nessuno, e da lì comincia un’altra carriera, più internazionale, anche tornando clandestinamente in Italia: fondamentalmente è un individuo poliglotta e senza patria.

Anche Paola Pitagora, di due anni più grande di Lou, ha frequentato i corsi di Fersen e il Centro ed è un’attrice emergente, pure in teatro, molto eclettica: comincia come presentatrice alla Rai e scrive anche canzoncine di successo per lo Zecchino d’Oro ed è proprio con la sua partecipazione a questo film che s’impone definitivamente all’attenzione di critica e pubblico; all’inizio aveva pensato di rifiutare per le situazione crude e sul piano morale anche scabrose, ma fu l’allora fidanzato, il pittore e attore Renato Mambor, a convincerla ad accettare. Un paio d’anni più tardi diventerà beniamina del pubblico televisivo come Lucia in “I Promessi Sposi” di Sandro Bolchi. Il belloccio Marino Masè è il fratello maggiore, l’unico la cui vita ha un senso nel sentire dell’alienato Alessandro; l’attore, scomparso 83enne nel maggio di quest’anno, anch’egli figurante nel Gattopardo viscontiano, era appena stato protagonista per Jean-Luc Godard nel controverso “Les Carabiniers” e si avvierà anche a una brillante carriera internazionale. La madre cieca è interpretata dalla caratterista napoletana Liliana Gerace, mentre il figlio piccolo è interpretato dall’attore per caso Pier Luigi Troglio, eclettico personaggio che sarà poi storico scrittore e filantropo nella sua nativa Bobbio, patria anche di Bellocchio, dove è poi stato segretario della Democrazia Cristiana locale; e l’intero cast partecipò al film solo con un rimborso spese. Per il cast tecnico, il compagno di corso dell’autore Silvano Agosti si occupa del montaggio, ma si fece mettere nei titoli col nome di un suo amico, Aurelio Mangiarotti, probabilmente perché non intendeva accreditarsi come montatore dato che lui stesso aveva studiato regia e avrebbe presto debuttato sotto l’egida del medesimo produttore e assicurandosi pure il divo francese che era sfuggito all’amico Bellocchio. E come per il suo cortometraggio di debutto anche per questo primo lungometraggio il nuovo giovane autore si assicura il commento sonoro di un grande professionista, Ennio Morricone. All’inizio il titolo del film avrebbe dovuto essere il più semplice ed esplicativo “Epilessia”, poi si pensò a “L’età verde” e infine venne cambiato col più evocativo “I pugni in tasca” per dire della rabbia repressa, nascosta, compressa; senza sapere – è la magia dell’ispirazione – che quel titolo era l’inconsapevole citazione di un altro ribelle, Arthur Rimbaud, nella sua poesia “La mia bohème (fantasia):

Me ne andavo, i pugni nelle tasche sfondate;
E anche il mio cappotto diventava ideale;
Andavo sotto il cielo, Musa! ed ero il tuo fedele;
Oh! quanti amori splendidi ho sognato!
 
I miei unici pantaloni avevano un largo squarcio.
Pollicino sognante, nella mia corsa sgranavo
Rime. La mia locanda era sull'Orsa Maggiore.
- Nel cielo le mie stelle facevano un dolce fru-fru
 
Le ascoltavo, seduto sul ciglio delle strade
In quelle belle sere di settembre in cui sentivo gocce
Di rugiada sulla fronte, come un vino di vigore;
 
Oppure, rimando in mezzo a fantastiche ombre,
Come lire tiravo gli elastici
Delle mie scarpe ferite, un piede vicino al cuore!

Una copia del film appena montato ma senza la post produzione, dunque incompleto di musiche e col sonoro imperfetto della presa diretta, venne presentata alla commissione di ammissione al Festival di Venezia, che la rifiutò; ma in seguito vinse il Premio Città di Imola attribuito a opere che rappresentassero la provincia italiana e vinto in precedenza da Pier Paolo Pasolini, Ermanno Olmi ed Eriprando Visconti; per gratitudine Marco Bellocchio girò a Imola il suo secondo lungometraggio “La Cina è vicina”. Vinse poi il Nastro d’Argento per il miglior soggetto e la Vela d’Argento a Locarno per la miglior regia. Dopodiché fu distribuito anche in Francia (Les poings dans les poches), nella Germania Occidentale (Mit der Faust in der Tasche), Regno Unito e Stati Uniti (Fist in His Pocket).

Dal punto di vista formale il film risente ancora del morente neorealismo ma si fa nuovo psicodramma e sicuramente attinge alla Nouvelle Vague, senza una precisa trama però, con scene e moduli che si ripetono come cercando di risolvere un puzzle in cui mancano dei pezzi, in cui la narrativa è l’assurdo assunto del protagonista: liberare il fratello maggiore, l’unico individuo sano e produttivo, dal fardello di una famiglia malata. Un orrore venato di sarcasmo quanto d’inquietante disarmante dolcezza che ancora oggi rende il film uno spettacolo esemplare, nonostante tutti gli orrori più espliciti cui ci ha assuefatti la cinematografia moderna: se lo si guarda in cerca di forti emozioni il film è datato, ma ai suoi tempi dev’essere stato davvero angosciante perché era ancora (per poco) l’epoca di un cinema rassicurante dove l’istituto della famiglia era un caposaldo indiscusso. Oggi i nostri ragazzi sterminano la famiglia per ripicca, per la paghetta, per accedere subito a una risibile eredità, mentre l’antieroe di Bellocchio si fa esecutore materiale di un malessere collettivo, narrativamente simbolizzato nel suo individuale, che sta per spazzare via le rassicuranti ma già marcescenti idee di Dio Patria e Famiglia.

Abbasso il zio – Marco Bellocchio al suo primo cortometraggio

Il film completo

Il giovane Marco Bellocchio, di cui abbiamo appena visto il documentario autobiografico “Marx può aspettare”, finiti gli studi alla scuola dei Salesiani (famiglia alto borghese assai cattolica) avendo già mostrato vivo interesse per il cinema (girava già filmini in famiglia) lascia la nativa Bobbio in provincia di Piacenza per trasferirsi a Roma a iscriversi nel 1959 al Centro Sperimentale di Cinematografia dove trova come insegnante quell’Andrea Camilleri assurto alla fama nella sua terza età come autore di successo della serie tv sul Commissario Montalbano dai suoi romanzi, lui che già aveva scritto molto altro e lavorava in teatro da anni. Questo primo cortometraggio, la cui data di uscita è il 1961, il ventenne Bellocchio lo ha girato nell’estate tra il primo e il secondo anno del biennio accademico.

Cos’è questo breve film? non più che un esperimento, l’associare una narrazione alle immagini – lui che già le immagini in movimento le aveva ampiamente sperimentate in famiglia – e in questo suo primo cimento professionale non ha ancora i mezzi narrativi, o forse non sente la necessità, di esprimere una trama: da un lato c’è un suo racconto, anche abbastanza letterario, reso da una voce fuori campo, e dall’altro le immagini che scorrono di pari passo al racconto, quasi un documentario che va a girare dalle sue parti, la Val Trebbia, filmando quattro ragazzini di estrazione sottoproletaria, ricordandoci che allora gli steccati fra le parti sociali erano ancora abbastanza netti e Pier Paolo Pasolini ci innestò praticamente tutta la sua cinematografia, oltre al pensiero filosofico-politico-sociale.

Anche il crocifisso come giocattolo fra le ossa dei morti racconta già la distanza che l’autore prende dal pensiero religioso

Perché è importante l’accento sull’estrazione sociale dei ragazzini? perché Bellocchio viene da un altro mondo, quello benestante e borghese, a ha per quei ragazzini un occhio da entomologo, da osservatore curioso ma anche intimamente timoroso, come deve essere stato da bambino ben vestito e infiocchettato che per i suoi coetanei – scapestrati, scalzi, liberi di gironzolare, di atteggiarsi a grandi fumando sigarette sui muretti – deve avere avuto ammirazione e timore insieme, perché loro erano liberi di fare quello che nel suo mondo non si fa: in questo suo primo cortometraggio li racconta come li vede, da lontano e senza scendere fra loro, attraverso il filtro del suo racconto intellettuale. Filosofeggia sulla vita e sulla morte mentre i ragazzini vanno a scoperchiare vecchie tombe e giocano coi resti di scheletri scomposti, e ne è affascinato, tanto che sta per saltare la barricata e da regista verrà immediatamente considerato un ribelle perché sin da subito metterà in discussioni quei modelli sociali e familiari in cui è cresciuto: non sarà mai uno di loro, e neanche fingerà di esserlo come Pasolini ha tentato di fare, ma negli anni che verranno sarà in prima fila nelle battaglie sociali che probabilmente in quella provincia assolata e oziosa del suo primo cortometraggio non arriveranno mai. E in molte di quelle battaglie salì sulle barricate – solo in termini di impegno civile, mai fisicamente – proprio insieme a Pasolini, a suo fratello Piergiorgio e gli altri intellettuali sinistroidi dell’epoca.

Evidente è il gusto per la composizione delle immagini fra ombre e luce naturale

Dai titoli vediamo che produce Giorgio Pàtara, un altro intellettuale vicino all’ambiente sperimentale che fra le varie cose (si cimenterà anche nella regia di documentari corti) produrrà poche cose ma soprattutto “Nostra Signora dei Turchi” di Carmelo Bene. Come aiuti registi (così nei titoli, invece del più corretto aiuto registi) è affiancato da Gustavo Dahl, suo compagno d’appartamento e del corso di cinematografia, un brasiliano che aveva ricevuto una borsa di studio dal Governo Italiano e che tornerà in patria a fare il regista e il critico cinematografico; e da Sandro Franchina, ex attore bambino (“Europa ’51” di Roberto Rossellini) figlio dell’artista visivo, scultore e illustratore, Nino Franchina, che cinematograficamente resterà legato al mondo dell’arte come regista di documentari su quel mondo, fra i quali si inserisce un unico film di narrazione sempre con l’arte sullo sfondo: “Morire gratis” del 1968. Le musiche sono già di rango, del maestro Armando Trovaioli che dopo si firmerà Trovajoli. Lo stesso Bellocchio molto più avanti ricorderà: “Era una storia di bambini che giocano passando da un cimitero moderno a uno antico, per cercare frammenti d’ossa in quel luogo abbandonato. Alla freddezza e alla mediocrità del nuovo cimitero si contrappone la malinconia, la nostalgia dell’antico nello spirito di Giovanni Pascoli, un poeta che mi ha molto influenzato”. Ma già nel titolo, Abbasso il zio, è chiaro che il suo intento era quello di guardare con occhio distante e critico un mondo rurale che coi suoi strafalcioni linguistici gli era culturalmente lontano: abbasso il zio non ha attinenza col film e sembra riportare una frase orecchiata. Essere intellettuali ha questo lato della medaglia: restare sempre altro rispetto alla realtà che si osserva e a cui anche onestamente si partecipa. Quattro anni dopo Marco Bellocchio dirigerà il suo primo lungometraggio che sarà subito un successo: “I pugni in tasca”.

Pier Paolo Pasolini, Marco Bellocchio, Ninetto Davoli, Elda Tattoli (attrice per Bellocchio in “La Cina è vicina”) e Alberto Moravia in uno scatto del 1969 di Carlo Bavagnoli per Close-up Life