Per qualche dollaro in più

Secondo capitolo della trilogia del dollaro di Sergio Leone, una trilogia su cui lo stesso autore non aveva nessun progetto e che è stata così riconosciuta e nominata solo in seguito, ad opera di giornalisti e pubblico. Anzi, di più: archiviato il grande successo di “Per un pugno di dollari”, suo secondo lungometraggio dopo “Il colosso di Rodi”, Leone era davvero sfinito, anche dalle vicende giudiziarie che avevano prosciugato completamente i suoi guadagni. Era creativamente esausto, e paralizzato dalla consapevolezza che ripetere un tale successo sarebbe stato impossibile. Inoltre era molto arrabbiato coi produttori della Jolly Film che lo avevano messo nella posizione di essere citato in giudizio per plagio da Akira Kurosawa: “Il comportamento della Jolly mi aveva nauseato. Così andai a trovare i due produttori. Gli dissi che in effetti il modo in cui si erano messe le cose mi ‘faceva piacere’… Perché significava che non avrei mai più dovuto fare un film con loro. Avrei avviato un procedimento legale, ma non volevo vederli mai più. E fu da lì che nacquero i semi della mia vendetta. Dissi loro: ‘Non so se davvero ho voglia di fare un altro western. Ma lo farò. Solo per farvi dispetto. E si intitolerà…’ In quel momento, il titolo mi balenò nella mente – ‘Per qualche dollaro in più’. Ovvio che in quella fase non avevo idea di quale sarebbe stato il soggetto.”

In realtà pare che quel titolo glielo avesse suggerito lo sceneggiatore Luciano Vincenzoni, rinomatissimo scrittore di film di qualità noto come lo “script-doctor”, figura ovviamente mediata da Hollywood, per la sua capacità di intervenire sulle sceneggiature altrui, anche in anonimo, per appianare tutte le problematiche riscontrate principalmente dai produttori, una sorta di ottimizzatore. A un’amichevole chiacchierata con Leone che si lamentava della sua situazione, pare che Vincenzoni gli abbia detto: “Hai scritto per un pugno di dollari? Questo sarà per qualche dollaro in più. Molti milioni di dollari in più.”

Nello stesso periodo Leone conobbe un avvocato già bene avviato nella produzione cinematografica, soprattutto di spaghetti-western, il quale era rimasto assai colpito da “Per un pugno di dollari”: era Alberto Grimaldi e Leone, già transfuga dalla Jolly, gli chiese di produrlo; l’avvocato, che aveva l’occhio lungo e si stava già affrancando dagli spaghetti-western, gli fece una rispettabilissima offerta produttiva: il 50 per cento dei profitti oltre a tutte le spese vive pagate. Sul fronte internazionale si riconfermò la casa di produzione tedesca che voleva bissare il primo successo, mentre la Spagna che era ancora in forse salì sul carro con un diverso produttore; ma soprattutto, per la prima volta in un western all’italiana entrò nella produzione nientemeno che l’americana United Artists, già produttrice di “I magnifici sette”, solo per restare nell’ambito western, e che poi distribuì il film di Leone in tutto il mondo; e gli americani erano entrati nel progetto sempre grazie a Vincenzoni che al responsabile europeo della U.A. aveva fatto vedere “Per un pugno di dollari” convincendolo a entrare nell’affare e facendo lievitare il budget fino a 600mila dollari: bazzecole per gli standard americani ma una cifra insperabile per i western nostrani, e già nelle prime inquadrature del film i soldi si vedono nella ricchezza delle ambientazioni… e nell’espressione rilassata di Clint Eastwood! A quel punto lo “script-doctor” si era dimostrato davvero un amico e a Leone venne in mente di proporgli di scrivere insieme la sceneggiatura, però tentennava perché non riteneva che il rinomato Vincenzoni, che l’anno prima era stato premiato col Nastro d’Argento per avere scritto “Sedotta e abbandonata” di Pietro Germi, potesse essere interessato al suo filmetto di serie B: si trattava di mondi diversi; ma come sappiamo Vincenzoni fu ben felice di essere coinvolto nella scrittura, del resto si era già coinvolto nella promozione del progetto, e co-scrisse il film facendo anche di più: si inventò il soggetto del successivo “Il buono, il brutto, il cattivo”; resta da considerare che Sergio Leone fu lungimirante e sanamente opportunista nel volerlo coinvolgere, in quanto essendo lo script-doctor già un uomo di notevole successo, aveva quelle giuste entrature nei “piani superiori” cui lui tanto ambiva ascendere.

A quel punto, avuti tutti i finanziamenti, bisognava ancora scrivere il film e l’autore non aveva ancora che poche idee confuse. Aveva già tenuto una riunione con i co-sceneggiatori del primo film, Duccio Tessari e Fernando Di Leo, con l’idea di rimettere nel titolo la parola dollari e di formare il cast sempre intorno alla coppia vincente Eastwood-Volonté. E ancora una volta Sergio Leone si spinse su un terreno accidentato poco praticato dagli americani nei loro western, immaginando di mettere al centro del nuovo film una figura moralmente controversa come il bounty-killer, letteralmente assassino dietro compenso, che noi traduciamo in cacciatore di taglie, come Leone spiegò: “Gli Americani hanno sempre dipinto il West in termini romantici, con cavalli che corrono al fischio del padrone. Non hanno mai trattato il West seriamente, come noi non abbiamo mai trattato l’antica Roma seriamente. Forse il più serio dibattito sull’argomento è stato fatto da Kubrick in ‘Spartacus’: gli altri film sono sempre stati favole di cartone. È stata questa superficialità che mi ha colpito e interessato.” Si delineò così la storia di un cacciatore di taglie all’inseguimento di un fuorilegge, ma poi per dare più dinamismo alla vicenda i bounty-killer divennero due, dapprima in concorrenza fra loro e, per differenziarli, al Clint Eastwood sempre abbigliato col poncho ne avrebbero contrapposto uno più anziano, e Leone pensava sempre a Henry Fonda che gli era rimasto sul gozzo. Nel frattempo Duccio Tessari si defilò dal progetto perché stava scrivendo e dirigendo ben due film con Giuliano Gemma (“Una pistola per Ringo” e “Il ritorno di Ringo”) e, come si dice a Roma, non sapeva più a chi dare i resti. Questo mentre lo stesso Sergio Leone, impegnato su più fronti nella ricerca dei finanziamenti si distraeva dalla scrittura; e Fernando Di Leo, che era rimasto solo davanti la macchina per scrivere, di sua iniziativa completò un trattamento coinvolgendo l’amico e collega Enzo Dell’Aquila col quale aveva scritto a quattro mani un film a episodi del quale avevano anche co-diretto un episodio debuttando nella regia, “Gli eroi di ieri… oggi… domani”, un filmetto che con quel titolo era voluto andare a strascico del successo di Vittorio De Sica “Ieri, oggi, domani” con Sophia Loren e Marcello Mastroianni: film che però rimase pressoché mai visto nelle sale. Di Leo e Dell’Aquila portarono orgogliosamente a Leone il loro trattamento intitolato “Il cacciatore di taglie” con la speranza di piacere ed entrare di diritto nel progetto, per far salire le loro personali quotazioni sulla scia dell’amico che si trovava un gradino più su nella scalata al successo internazionale. A questo punto le cose si fanno un po’ oscure: a Sergio Leone il trattamento piacque molto, ma consapevole che il successo non può avere molti padri, chiese ad Alberto Grimaldi di acquistare il trattamento con la clausola che i nomi dei due autori sparissero, e i due reietti pur di fare cassa accettarono l’amara condizione – che in certi ambienti e a certi livelli è prassi, e anzi furono fortunati perché furono pagati laddove è anche prassi rubare il lavoro altrui; e Leone, che già aveva nel suo carnet il plagio a Kurosawa – in buona o mala fede non è chiaro – stava seguendo la prassi dell’appropriazione indebita con la ferrea volontà di costruire il suo personale successo: siamo abituati a santificare coloro che hanno fatto grandi cose in vita – dimenticando però che sono stati comuni esseri umani pieni di contraddizioni e difetti come chiunque di noi.

Fernando Di Leo

Una digressione su Fernando Di Leo, sceneggiatore non accreditato per i primi due film della trilogia, che da gran signore, interrogato sul suo reale coinvolgimento nella scrittura di quei successi, dichiarerà in un’intervista: “Il genio viene dopo la fase di scrittura. A cambiare il cinema negli anni ’60 sono state due cose: il montaggio di Godard e i tempi di Leone.” Lui, nonostante le idee e le capacità non avrà le stesse opportunità e passerà dal genere noir ai poliziotteschi, fra i quali va ricordato “Milano calibro 9”, fino a finire nel filone erotico dirigendo quello che oggi è un cult su cui si abbatté una valanga di censure: “Avere vent’anni”. Di certo nella sua carriera non ha avuto fortuna se si pensa che ha addirittura scritto e diretto per la Rai una serie di sei puntate “L’assassino ha le ore contate” che inspiegabilmente non è mai stata trasmessa, nonostante l’impegno produttivo, neanche in tarda serata, e i nostri soldi del canone buttati via; non poteva essere peggio di tante cose che vanno in onda senza vergogna. Di lui rimangono anche due interessanti progetti incompiuti dai quali i produttori si sfilarono per il timore di confrontarsi con quei temi: “Il pederasta”, che sarebbe stato il primo film ad affrontare senza tabù e senza macchiette il tema dell’omosessualità maschile, era il 1972, del quale riuscì a girare una sola scena mentre in seguito alle proteste dei soliti benpensanti il titolo era stato cambiato nel più elusivo e infamante “Uno di quelli” finché la lavorazione fu definitivamente sospesa; un altro progetto era “Il dio Kurt” dall’opera teatrale di Alberto Moravia che trattava il mito di Edipo trasferito in un campo di concentramento, con Henry Fonda e Charlotte Rampling addirittura, film di cui non iniziarono neanche le riprese perché bloccato da produttori e distributori terrorizzati dal tema che trattava.

A quel punto il nostro mise mano alla sceneggiatura vera e propria coinvolgendo, come sappiamo, Vincenzoni, il cui apporto fu soprattutto immettere umorismo nella storia, un’ironia sempre al limite che però non diventa mai parodia – questa è la maestria – e che coinvolge i protagonisti a differenza di quanto accadeva nei classici western americani, dove gli eroi alla John Wayne sono sempre tutti d’un pezzo e la parte ironica, quando c’è, è lasciata a figurine di contorno, come il solito vecchietto con la voce chioccia. Ma anche se lavorò col suo solito impegno Vincenzoni si sentiva però un intruso, da un lato perché non credeva che quel genere di western all’italiana, che Leone stava ancora inconsapevolmente creando, potesse davvero avere un seguito, e dall’altro perché stava antipatico al produttore Grimaldi, produttore sulla carta che chiudeva un pacchetto composito, una specie di notaio insomma, mentre Vincenzoni vantava rapporti personali con i tycoon della United Artists: gelosia da provincialismo.

A seguire, negli anni, a bocce ferme come si dice, in tanti hanno rilasciato dichiarazioni e interviste: Tonino Valerii ha affermato di aver lavorato anche lui alla sceneggiatura e di aver creato lui la figura dell’antagonista, El Indio, e Vincenzoni non nega dicendo però di aver battezzato lui il personaggio: gelosie fra padrini. Lo sceneggiatore Sergio Donati, che già era stato chiamato da Leone alla scrittura del primo film che lui aveva rifiutato perché poco allettante, di nuovo viene chiamato a collaborare e, benché anche lui non accreditato, si attesta la creazione di diverse importanti scene, fra cui quella del treno che presenta il coprotagonista e il finale in cui si contano i cadaveri; continuerà a collaborare con Leone e il primo film in cui compare la sua firma accanto a quella di Sergio Leone è “Giù la testa”, ben quattro film dopo.

Era il momento di formare il cast. Ovviamente l’uomo senza nome che qui verrà indicato come Il Monco perché spara solo con la sinistra avendo la destra parzialmente inabile, era stato scritto per Clint Eastwood ma non era certo che l’attore accettasse anche perché nel frattempo era stato contattato dalla Jolly Film malamente abbandonata da Leone, che voleva rubare al regista il suo protagonista; ma quando l’attore seppe della rottura decise di stare dalla parte di Leone che ora aveva dalla sua anche la United Artists, e firmò un contratto di 50mila dollari dopo i soli 15mila del precedente film, oltre a una piccola percentuale sugli incassi e il biglietto aereo di prima classe mentre precedentemente aveva viaggiato in economica.

Per il ruolo dell’anziano cacciatore di taglie, il colonnello Douglas Mortimer, Leone ancora una volta aveva dovuto rinunciare a Henry Fonda, e allora contattò Charles Bronson, ma anche lui rifiutò la parte e Leone allora si rivolse a Lee Marvin, che si era messo in luce come Liberty Valance in “L’uomo che uccise Liberty Valance” di John Ford; e l’attore era ben disposto a prendere parte al progetto, però qualche giorno prima dell’inizio delle riprese firmò per recitare in “Cat Ballou” di Elliott Silverstein, film che gli fece vincere l’Oscar. Così, a pochi giorni dall’inizio delle riprese il colonnello Mortimer non aveva ancora un volto. Allora il nostro impavido autore fece i bagagli e partì per Los Angeles alla ricerca di un attore di cui possedeva solo una vecchia foto strappata dall’Academy Players, un annuario degli attori della Academy Pictures. A suo dire quello sconosciuto attore, che rispondeva al nome di Lee Van Cleef, assomigliava a un parrucchiere del Sud Italia, ma aveva anche un naso da falco e gli occhi di Van Gogh. “Calcolai che all’epoca della foto doveva avere circa quarant’anni, quindi ora doveva averne quarantotto, quarantanove o cinquanta – proprio l’età giusta per il colonnello. Quando arrivai a Hollywood sembrava che fosse completamente sparito. Finalmente, dopo aver corso in lungo e in largo, riuscimmo a trovare il suo agente di nome Sid. Questo agente mi disse che Lee Van Cleef non faceva più l’attore, che ora era un pittore, che era stato a lungo in ospedale perché aveva avuto un incidente frontale in un canyon a Beverly Hills. Aveva deciso di intraprendere una nuova professione… Ma io dissi: ‘Beh, devo vederlo a ogni costo perché, fisicamente, quando penso a questo personaggio, m’immagino lui’. E poche ore prima che il mio aereo partisse, Lee Van Cleef venne in questo piccolo albergo alla periferia di Los Angeles dove stavo io.”

Lee Van Cleef nel suo studio di pittura

Leone gli propose 10mila dollari di compenso e il biglietto per il prossimo aereo per l’Italia. Van Cleef accettò senza discutere, prendendosi però il tempo di completare un quadro che gli avevano commissionato. Per l’attore, dipendente da alcol e fumo, che per sua stessa ammissione faceva fatica a pagare anche la bolletta della luce, questo film fu una vera e propria ciambella di salvataggio; aveva interpretato decine di film, soprattutto western, anche grandi film come “Mezzogiorno di fuoco” di Fred Zinneman in cui aveva debuttato, o “Sfida all’O.K. Corral” di John Sturges, ma sempre in piccoli ruoli, spesso ucciso dal protagonista, e molto più spesso senza neanche una battuta. Leone gli fece leggere il copione durante il volo e Van Cleef notò che nella complessità della trama dove tutti tradiscono tutti e tutti hanno secondi fini, c’era qualcosa di shakespeariano, e questo inorgoglì ancora di più il nostro Leone. Una volta sul set, che era l’ennesima babele, ebbe qualche problema ad ambientarsi e Eastwood gli consigliò di andare vedere “Per un pugno di dollari” che era ancora nelle sale, e all’uscita del cinema convenne: “Adesso capisco cosa intendi. Il copione è importante ma decisamente secondario rispetto allo stile.” Per il resto, lui che aveva già abbandonato il cinema, per tutto il periodo delle riprese fu nella mani del regista “docile come un agnellino”, parole di Luciano Vincenzoni. E il 50enne Lee Van Cleef, all’anagrafe Clarence LeRoy Van Cleef Jr. che curiosamente aveva ascendenze olandesi come olandese era il pittore Van Gogh con cui Leone aveva trovato somiglianze, grazie a quel film assurse alla notorietà ed ebbe una vera carriera soprattutto in Italia, sua seconda patria artistica. Tranne poche occasionali cose non ha più girato in patria però dopo la sua morte, avvenuta a 64 anni per infarto ma era anche affetto da altre serie patologie, è diventato fonte di ispirazione grazie allo sdoganamento di Quentin Tarantino, cultore di un certo cinema trash nel quale inserire di diritto i nostri poliziotteschi e gli spaghetti-western. Nel film è doppiato da Emilio Cigoli.

Sin dall’inizio il ruolo del cattivo, El Indio, era stato pensato per Gian Maria Volonté, che forte del successo del primo film continua a esagerare non poco con la sua teatralità; ma d’altronde, Leone, che lo conosceva bene, lo assecondava e fa dire del suo personaggio che è un pazzo drogato per giustificare quella sua maschera sempre sopra le righe ma sempre efficace in quel contesto dove le inquadrature, i tempi della regia, l’indugiare sui primi piani, sono di per sé teatrali, da dramma shakespeariano come aveva notato Van Cleef. Per Volonté questo secondo film con Leone fu la loro ultima collaborazione dato che il cinema lo scoprì pienamente e lui si avviò verso tutt’altre interpretazioni, sempre drammatiche, politicamente impegnate come lo è stato lui nel Partito Comunista Italiano, e spesso biografiche: è stato Bartolomeo Vanzetti e Giordano Bruno per Giuliano Montaldo, Enrico Mattei, Lucky Luciano e Carlo Levi per Francesco Rosi, Aldo Moro per Giuseppe Ferrara, Michelangelo e Caravaggio in due serie tv, per dire solo i personaggi più noti. Questo è anche l’ultimo film dove viene doppiato, sempre da Nando Gazzolo, ché dal successivo film in poi reciterà, e di diritto, con la sua voce.

Mara Krupp

Nel resto del cast tornano gli amici Mario Brega, Benito Stefanelli e Edmondo Tieghi, ma ci sono delle interessanti new entries: il teatrale Luigi Pistilli che si avvierà a una brillante carriera ma qui è doppiato da Vittorio Sanipoli perché all’epoca anche se si era dei professionisti e si veniva dal palcoscenico, o forse soprattutto per quello data la diversa enfasi recitativa, si veniva sempre doppiati da professionisti del cinema e del microfono; e uno dei pochi che faceva bene tutto, teatro cinema doppiaggio e presto anche regia cinematografica, era Enrico Maria Salerno qui di nuovo voce di Clint Eastwood. Un’altra interessante presenza è il tedesco Klaus Kinski che quello stesso anno è anche nel cast del colossal “Il Dottor Zivago” e continuerà a lavorare molto in Italia come nel cinema internazionale. Dalla Germania torna il vecchietto Joseph Egger, sempre doppiato da Lauro Gazzolo, qui al suo ultimo film. Il caratterista napoletano Dante Maggio tratteggia il ruolo di un falegname mentre un’altra italiana dal nome teutonico, la caratterista Mara Krupp, è praticamente l’unica donna in un film decisamente al testosterone: c’è ma potrebbe anche non esserci per quanto il suo personaggio sia funzionale alla storia.

Lee Van Cleef con Klaus Kinski

A proposito di testosterone è molto divertente e riuscitissimo il duello fra i due bounty-killer a inizio film, quando ancora non si conoscono e si prendono le misure sparando l’uno al cappello dell’altro per farlo volare il più lontano: metafora del più prosaico e virile “facciamo a chi piscia più lontano”. Curioso è anche l’orologio da taschino con foto dell’amata all’interno del coperchio, gadget in dotazione a El Indio da cui suona un minaccioso carillon ogni volta che lo apre: è il tempo che dà al suo opponente prima di sparargli; è tecnicamente impossibile che un orologio da taschino possa contenere il marchingegno di un carillon, ma il cinema è anche questo, e soprattutto il cinema di Sergio Leone che in questo film sfoggia anche un wanted di El Indio con improbabile maschera ridanciana del pistolero criminale. Ma si tratta di maschere, appunto. In questa messa in scena mi sorprende negativamente la sciatteria, purtroppo molto diffusa all’epoca anche nei poliziotteschi e persino a Hollywood, con la quale il futuro maestro gira le sparatorie: se da un lato sono dinamiche e i mort’ammazzati saltano per aria e ruzzolano e cascano come birilli, dall’altro non si può fare a meno di notare che sui loro abiti non c’è un buco e neanche una macchia di sangue.

Di nuovo con le musiche di Ennio Morricone ancora una volta record di vendite di dischi, il film è un altro clamoroso successo dove non è più necessario nascondersi dietro fittizi nomi americaneggianti: fu il più visto in quella stagione cinematografica e ad oggi detiene il quinto posto nella classifica dei film italiani più visti di sempre.

2 pensieri su “Per qualche dollaro in più

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