Uccellacci e uccellini (con estemporaneo ritratto di Totò)

Riprendo il discorso sulla cinematografia di Pasolini (dopo opportune e non ultime divagazioni) con le parole che l’autore ha avuto sul suo stesso film: “Uccellacci e uccellini è stato il mio film che ho amato e continuo ad amare di più, prima di tutto perché come dissi quando uscì è “il più povero e il più bello” e poi perché è l’unico mio film che non ha deluso le attese. Collaborare con lui (con Totò) reduce da quegli orribili film che oggi una stupida intellighenzia riscopre fu molto bello: era un uomo buono e senza aggressività, di dolce cera. Voglio ricordare anche che oltre che un film con Totò, Uccellacci e uccellini è anche un film con Ninetto, attore per forza, che con quel film cominciava la sua allegra carriera. Ho amato moltissimo i due protagonisti, Totò, ricca statua di cera, e Ninetto. Non mancarono le difficoltà, quando giravamo. Ma in mezzo a tanta difficoltà, ebbi in compenso la gioia di dirigere Totò e Ninetto: uno stradivario e uno zuffoletto. Ma che bel concertino.”

Il Pier Paolo Pasolini autore cinematografico è ormai, con buona pace degli agguerriti detrattori, una realtà; dopo i primi due discussi film sul sottoproletariato romano coi quali ha lanciato l’imbianchino Franco Citti, e il cameriere Ettore Garofolo al quale ha affiancato la grandiosa Anna Magnani, e lo sberleffo sacro-profano di “La ricotta” nel quale si è avvalso di un grande d’oltreoceano, Orson Welles, eccolo finalmente cimentarsi nella favola tragica con il tono surreale che gli è sempre appartenuto ma che ha finora solo lasciato intuire e per il quale ha la felice intuizione di avvalersi di un altro grande a fine carriera, Totò. Con il distinguo che Totò è stato un grande nella cinematografia di serie B, tranne rare eccezioni, a tal punto che quando Mario Monicelli nel comporre il cast di “Risate di gioia” nel 1960 propose alla Magnani di fare coppia con lui, la diva inorridì temendo di essere squalificata dalla sua presenza.

Totò è una figura immensa. Nato Antonio Vincenzo Stefano da una relazione clandestina, all’anagrafe fu registrato come Antonio Clemente figlio di Anna Clemente e N.N. in quanto al padre naturale, il 25enne Giuseppe De Curtis rampollo di un decaduto ramo cadetto dei marchesi De Curtis, la famiglia vietò di riconoscere il bambino generato con una 17enne popolana: allora succedeva molto sovente, essendo in vigore i rigidi steccati delle classi sociali, che queste naturalmente si mischiassero nel privato delle lenzuola senza però volersi immischiarsi nell’ufficialità dei documenti: le giovani popolane erano spesso prede dei signori presso cui andavano a servizio; anche se in questo caso il divario sociale era solo nominale e nella pratica fittizio: il marchesino Peppino faceva il sarto ambulante presso le case dei ricchi, spesso non nobili, e nelle case dei nobili più nobili di lui; mentre il di lui signor padre pare che facesse addirittura il pittore, che nella pratica significava imbianchino. Nei fatti Peppino continua la sua relazione clandestina con Nannina, la quale con sfrontatezza sfoggia la sua condizione di mantenuta del signorino che la riempie di regali rimediati qua e là ma mai di necessari aiuti concreti, economici.

Totò a otto anni in una foto ufficiale e ben vestito da marinaretto

Solo nel 1921, quando Totò era già un 23enne che calcava le scene, Giuseppe De Curtis ricompose ufficialmente la famiglia sposando Anna e solo anni dopo, nel 1928, riconobbe il giovanotto come frutto dei suoi lombi; pare che questo ritardo fu dovuto al fatto che De Curtis non era convinto della sua reale paternità, tant’è che nella lunga e continuativa relazione non ci furono altri figli e dunque si vociferava che Peppino fosse sterile, tanto quanto Nannina troppo allegra. Il ragazzo Totò, inseguito da queste chiacchiere, era cresciuto nei vicoli in condizioni estremamente disagiate – dimostrando precocemente la passione per l’intrattenimento, passione che gli faceva trascurare gli studi tanto che dalla quarta elementare fu addirittura retrocesso alla terza. Terminate a fatica le scuole dell’obbligo, incorse in un incidente al Collegio Cimino dove era stato iscritto per conseguire la licenza ginnasiale: uno dei precettori lo colpì con un vero pugno durante un improvvisato giocoso incontro di pugilato, e dovette essere un gran bel pugno se gli deviò naso e mento creandogli la maschera con la quale lo abbiamo conosciuto. Comunque sia Totò non terminò gli studi e si diede definitivamente ai palcoscenici del varietà dove cominciò ad esibirsi affinando le sue naturali doti mimiche e mimetiche che aveva sperimentato davanti al pubblico improvvisato dei compagni di scuola e dei mariuoli del quartiere, mentre la madre lo avrebbe voluto avviare alla carriera ecclesiastica: “Meglio ‘nu figlio prevete ca ‘nu figlio artista.”

Cresciuto nel disagio dell’indigenza – i suoi pantaloni vengono ricavati dalle gonne dismesse dalla madre – e col marchio infamante di bastardo a tutto tondo, in lui crebbe anche l’imperante necessità del riscatto sociale volendo dare un nome, e un nome illustre, alla sua ascendenza. Ma vale la pena riferire un episodio della sua infanzia di cui si favoleggia: una volta che i suoi rimediati pantaloni erano stati ricavati da una stoffa fiorata, i suoi coetanei cominciarono a sbeffeggiarlo come ricchione e femminiello; il piccolo Totò si ribellò e togliendosi i pantaloni restò in mutande e cominciò a dimenarsi di fronte ai coetanei per sfregio, ma quello che voleva essere uno sberleffo divenne per gli altri divertimento, tanto che finirono con l’applaudirlo – e non si sa se anche quello per sfregio di ritorno, ma di fatto si delineavano le sue doti di intrattenitore anche se furono anni, per lui, di tristezza e solitudine, per la vergogna di essere povero e figlio di donna nubile.

Liliana Castagnola in una delle foto promozionali che suscitarono la gelosia di Totò e il deterioramento della loro relazione. Il termine sciantosa viene dal francese chanteuse, cantante che si esibiva nei café-chantant eseguendo arie da opere liriche o operette; ma nella pratica partenopea la sciantosa divenne sinonimo di donna fatale e ammaliatrice alle cui doti canore erano preferite quelle fisiche

Acquisito il cognome dei De Curtis, fece ricerche sulla genealogia della famiglia e rintracciò l’ultimo erede del ramo principale, lo squattrinato marchese Gaspare, il quale fu ben felice d’inventarsi una parentela con Totò che nel frattempo stava divenendo un attore famoso: si riconobbero vicendevolmente come cugini benché pare che appartenessero, secondo studi più recenti, a due famiglie ben diverse e distinte. Il 1933 fu un importante anno di svolta: era finalmente divenuto capocomico e anche padre da una relazione assai chiacchierata con la 16enne Diana Rogliani che gli diede Liliana, così battezzata in onore alla sciantosa Liliana Castagnola che per amor suo si era suicidata, e che lui volle far seppellire nella cappella di famiglia che aveva fatto costruire. Sempre in quell’anno si fece adottare, dietro versamento di un vitalizio, da un altro squattrinato marchese, tal Francesco Maria Gagliardi Focas di Tertiveri che le indagini araldiche di Totò indicavano come consanguineo: tutte parentele più presunte che reali come dimostreranno studi successivi ma di fatto “il principe della risata”, come ormai veniva chiamato, ottenne da quelle presunte ascendenze dei titoli per colmare l’oscuro della sua infanzia e da tramandare alla sua discendenza, ora che era divenuto padre. Altisonanti titoli scolpiti nel marmo della sua lapide tombale. Morì nel 1967, l’anno seguente l’uscita di “Uccellacci e uccellini” che rimane il suo ultimo lungometraggio da protagonista; sempre per Pasolini farà in tempo a partecipare a “La terra vista dalla luna” episodio del collettivo “Le streghe” e “Che cosa sono le nuvole?” nel collettivo “Capriccio all’italiana” in cui recita anche nell’episodio “Il mostro della domenica” di Steno. Con “Uccellacci e uccellini” riceve una menzione speciale al Festival di Cannes, e vince come Miglior Protagonista il Nastro d’Argento e il Globo d’Oro.

Ninetto Davoli, Giovanni sui documenti, all’uscita del film è ormai diciottenne ma già sin da quando ne aveva quindici frequenta Pasolini, che lo aveva conosciuto sul set di “La ricotta” dove il ragazzo era andato a trovare il fratello maggiore che vi lavorava come falegname. “Tutto iniziò con una carezza sul capo la prima volta che mi vide e io non sapevo nemmeno chi fosse…”. I Davoli venivano dalla baraccopoli del Borghetto Prenestino dove la famiglia si era trasferita dalla Calabria; baraccopoli romane che se a vent’anni dalla fine della guerra erano ancora una realtà diffusa e plausibile, che l’avanzare del boom economico avrebbe raso al suolo sotto i palazzoni di periferia, oggi sono da considerare un aberrante anacronismo: perché le baraccopoli degli ultimi e dei disperati esistono ancora nei dintorni di Roma e sono abitate dai nuovi calabresi, quelli che vengono da ancora più a sud, gli africani, gli Alì che Pasolini profetizzò nella poesia del 1964 “Alì dagli occhi azzurri”.

Ninetto già due anni prima era tornato nella natia Calabria per fare da esca nei cast estemporanei che Pasolini improvvisava per scegliere fra i locali interpreti e figuranti del suo precedente film “Il Vangelo secondo Matteo” dove egli stesso aveva debuttato come pastorello. Di lui saltano subito agli occhi la simpatia e il sorriso aperto, e l’assoluta alterità rispetto ai cupi Franco Citti e Ettore Garofolo, una leggerezza che lo rende perfetto per questo ulteriore film dell’autore, una favola tragica sulla condizione umana per la quale Pasolini ha voluto, e rivalutato, la maschera di Totò, del quale Ninetto racconta di quella prima volta che andarono a trovarlo a casa: “Ho saputo che quando me ne andai passò il DDT per disinfestare la casa.” Già nel “Vangelo” Ninetto non avrebbe voluto stare davanti la macchina da presa e Pasolini faticò non poco per convincerlo, facendo leva su quello che descrive nella poesia “Il desiderio di ricchezza del sottoproletariato romano”: guarda che ti daranno bel soldini. Il salto di qualità interpretativa richiesta in “Uccellacci e uccellini” lo terrorizzò: “Il problema è stato in seguito, per Uccellacci e uccellini, lì dovevo recitare, oddio, dovevo soprattutto essere me stesso.” E Ninetto nel film è se stesso, ed è – con un termine oggi desueto – un birbante, dalla recitazione rozza che però passa l’esame per la grande simpatia che lui esprime come persona; una naïveté che si fa a sua volta maschera bene affiancata a quella nota di Totò: un arlecchino di borgata, malandrino e infido, pavido e feroce insieme, come feroci sono tutte le periferie di Pasolini, senza speranza di riscatto per gli individui che partoriscono. “Rappresentavo quel mondo che avrebbe desiderato, la semplicità, la purezza, l’ingenuità. Un mondo, mi diceva sempre, che sarebbe scomparso” dice ancora Ninetto in un’intervista al Corriere della Sera.

Patrizia e Ninetto Davoli in una recente foto

Il momento di crisi arriva nel 1973 quando Ninetto sposa la sua Patrizia e mette su una famiglia che terrà lontana dai riflettori, e per Pier Paolo è un dramma, come scrive all’amico scrittore Paolo Volponi: “Sono pazzo di dolore. Ninetto è finito. Dopo quasi nove anni Ninetto non c’è più. Ho perso il senso della vita. Penso solo a morire o a cose simili. Tutto mi è crollato intorno: Ninetto con la sua ragazza, disposto a tutto, anche a tornare a fare il falegname pur di stare con lei”.  L’amico eterosessuale (la specifica è d’obbligo dato il contesto) cerca di consolarlo come può, usando toni lirici: “Capisco la tua solitudine e il tuo dolore, so quanto contasse Ninetto per te e so anche che solo un dio potrebbe fartene trovare un altro altrettanto caro e splendente.” In realtà poi il rapporto si ricompone, a tal punto che il poeta diverrà padrino dei due figli della coppia, che in omaggio a lui e al di lui fratello morto verranno chiamati Pier Paolo e Guido Alberto. Quando nel 1975 fu ritrovato a Ostia il cadavere di Pasolini fu Ninetto a riconoscerlo, e conclude l’intervista: “Mi manca Pier Paolo, la persona. Era mio padre, mio fratello, mia madre. È un mondo che mi porto dietro. Non riesco a condividerlo con nessuno.”

Il produttore Alfredo Bini col corvo e Totò fra figuranti e curiosi

Torniamo al film. Pur realizzando una favola surreale e grottesca, Pasolini prosegue il suo discorso intimamente politico sugli ultimi e le periferie e, benché a tratti Roma sia riconoscibile sullo sfondo, e il romanesco di Davoli non lascia dubbi, disegna un mondo irreale, appunto, dove i cartelli a nominare gli uomini illustri delle strade di quella periferia sono: Via Benito La Lacrima – disoccupato, Via Antonio Mangiapasta – scopino, Via Lillo Strappalenzola – scappato di casa a 12 anni; in cui colloca la storia apparentemente senza capo né coda di un padre e di un figlio che si chiamano, guarda un po’, Totò e Ninetto, che all’inizio del film incontrano, come in ogni favola che si rispetti, un corvo parlante cui dà voce lo scrittore Francesco Leonetti che aveva già interpretato Erode Antipa nel Vangelo pasoliniano; un corvo filosofo molto simile al grillo di Pinocchio col quale condividerà la tragica fine, anzi di più, finirà mangiato dai due affamati protagonisti, e all’inizio viene presentato con questa didascalia: “Per chi avesse dei dubbi o si fosse distratto, ricordiamo che il corvo è un intellettuale di sinistra – diciamo così – di prima della morte di Palmiro Togliatti” e dunque, intende Pasolini, di quegli intellettuali duri e puri non ancora minati dal germe del consumismo occidentale: ricordiamo che Palmiro Togliatti, membro fondatore del Partito Comunista Italiano, prese nel 1930 la cittadinanza sovietica e alla sua morte gli fu intitolata la città che noi italiani chiamiamo erroneamente Togliattigrad, mentre per i russi è solo Togliatti, Тольятти, ex Città della Croce sul Volga. Del suo solenne funerale che si svolse a Roma nell’agosto del 1964 (era morto per ictus a Jalta dove era in vacanza con la compagna Nilde Iotti) cui parteciparono circa un milione di persone, Pasolini inserisce nel finale del film ampi stralci di immagini di repertorio.

Dalle chiacchiere moraleggianti del corvo prende vita sullo schermo un racconto morale in cui due frati francescani, stavolta Ciccillo per Totò mentre Ninetto, che come sappiamo non recita ma è se stesso, è sempre Ninetto; i due frati sono stati incaricati da un San Francesco molto marxiano a evangelizzare uccellacci e uccellini, ovvero falchi e passeri, e a porre fine alle loro dispute; in questo segmento i momenti più godibili del film che oggi possiamo definire come meta-linguaggio: i due si rivolgono ai falchi fischiando e ai passeri saltellando, secondo i loro linguaggi e, benché riuscendo nell’impresa di evangelizzazione, non riescono a far fare pace ai due gruppi socialmente lontani degli uccellacci e degli uccellini, parabola delle classi sociali della borghesia e del proletariato. Continuando nel loro percorso senza meta, Totò e Ninetto fanno degli incontri occasionali e anch’essi simbolici: dei violenti proprietari terrieri e una miserabile famiglia, degli immorali attori ambulanti e un grottesco gruppo autocelebrativo di dentisti dantisti. Nel loro percorso hanno la piacevolezza dell’incontro, consumato da entrambi, con una di quelle figure tanto care all’autore, una prostituta sincera generosa e accogliente, di certo meno immorale delle tante espressioni borghesi invise a Pasolini.

Il ruolo di Francesco è andato a Cesare Gelli, giovane attore di rivista in crisi per il declino di quel genere, che ha avuto la capacità di reinventarsi nel teatro classico con Luca Ronconi e poi proseguendo una carriera da caratterista in cinema e tv, oltre che come doppiatore. All’inizio del film ritroviamo la Rossana Di Rocco come autocitazione del Vangelo: lì interpretava l’Angelo, qui interpreta un angelo con ali di cartapesta in una sacra rappresentazione paesana. La prostituta è interpretata dalla giovane italo-jugoslava Femi Benussi (Eufemia) che viene dal teatro ma che da qui in poi – è il suo ruolo più importante e il suo quarto film – si specializzerà in ruoli sexy ed erotici durante tutti gli anni Settanta, sono soldi facili, ma poi abbandona quel genere senza però potersi più riciclare nel cinema generalista perché non le vennero offerte più scritture, cosa che denunciò durante il convegno “La donna nello sfruttamento della pornografia” organizzato nel 1980 dal Circolo della Stampa di Torino: è del 1983 il suo ultimo film “Corpi nudi”. Tornata in Jugoslavia, ne è fuggita durante la guerra civile degli anni Novanta per rientrare a Roma e sparendo totalmente dai radar.

Carlo Croccolo e Totò in uno dei tanti film girati insieme

Altro meta-linguaggio del film sono i titoli di testa, ma anche di coda, con Domenico Modugno che canta i nomi e i ruoli del cast artistico e tecnico: un momento unico nella cinematografia, su musica di Ennio Morricone che cura l’intera colonna sonora che è stata pubblicata in CD solo nel 2006. Fra le altre curiosità va segnalato che il corvo sono in realtà tanti corvi diversi, e tutti sembravano voler cavare gli occhi solo a Totò, chissà forse avvertendo la sua cecità. Di fatti il principe era ormai pressoché cieco da anni e già dal 1957 il suo doppiatore ufficiale, che aveva scelto personalmente, era Carlo Croccolo; doppiaggio che avveniva per le scene girate in esterno, dove non era possibile coi mezzi del tempo avere una traccia sonora di buona qualità e dunque Totò, non potendo leggere il copione in sala di doppiaggio dovette ricorrere a un sostituto; differentemente, le scene girate in interno avevano una buona traccia sonora, seguendo la quale l’attore poteva doppiarsi da solo, e l’apporto di Carlo Croccolo era talmente calzante che non ci siamo mai accorti delle differenze. Anche per “Uccellacci e uccellini” Carlo Croccolo si offrì di proseguire nel suo impegno di doppiatore ufficiale ma Pasolini, forse con l’intento di togliere Totò dalle sue comfort zone per stimolarne la creatività, gli preferì Oreste Lionello. Il film piacque molto alla critica ma non al pubblico, tanto che rimane il film di Totò coi minori incassi. Disponibile su YouTube.

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