Archivio mensile:giugno 2022

Il successo – fratello minore di Il Sorpasso

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Dopo il clamoroso successo di “Il sorpasso” il produttore Mario Cecchi Gori avrebbe voluto un sequel ma i protagonisti erano morti e allora mise su quest’altro progetto tirando fuori dal cassetto fra le centinaia di sceneggiature un altro film che avesse come protagonista Vittorio Gassman a cui affiancare di nuovo Jean-Louis Trintignant, squadra vincente non si cambia, in una storia che raccontasse ancora il boom economico con la leggerezza della commedia, sulla scia del latino “castigat ridendo mores”, corregge i costumi ridendone, frase che si può leggere sui frontoni di alcuni teatri; una verità e una leggerezza che in quella stessa epoca non appartiene al moralista – suo malgrado data la sua storia personale – Pier Paolo Pasolini, censore censurato, che qua e là scriveva: “Che cos’è che ha trasformato i proletari e i sottoproletari italiani, sostanzialmente, in piccolo borghesi, divorati, per di più, dall’ansia economica di esserlo?” e “L’Italia sta marcendo in un benessere che è egoismo, stupidità, incultura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo.” fino a “L’ansia del consumo è un’ansia di obbedienza a un ordine non pronunciato. Ognuno in Italia sente l’ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare, nell’essere felice, nell’essere libero: perché questo è l’ordine che egli ha inconsciamente ricevuto, a cui “deve” obbedire.” Non che avesse torto, sceglieva solo il tono sbagliato.

Interno borghese con Jean-Louis Trintignant, Anouk Aimée, Cristina Gaioni e Vittorio Gassman

Soggetto e sceneggiatura sono degli stessi Ettore Scola e Ruggero Maccari che insieme al regista Dino Risi avevano scritto “Il sorpasso”, ma laddove quel film di successo graffiava con eleganza, qui i dialoghi si fanno più grevi, il gallismo di matrice italica imperversa nonostante a contrasto ci sia una figura femminile importante, la moglie del protagonista, moderna ed emancipata, che rintuzza con paziente ironia le intemperanze verbali del marito; e l’intero andamento del film è più lento e meno accattivante di quello che si è voluto mettere come riferimento immediato, e critica e pubblico si sono trovati d’accordo nel non rinnovare il successo a questo film che sfacciatamente puntava di nuovo al successo già nel titolo. Lo stesso Dino Risi si defilò dalla regia forse perché subodorò il flop e di certo perché, elegantemente, non voleva che il suo nome venisse inserito in un pacchetto puramente speculativo e commerciale. La regia venne così affidata a Mauro Morassi, che nel cartellone ha il nome più piccolo dei comprimari che sono già più piccoli dei protagonisti, un regista rimasto oggi misconosciuto perché la sua cinematografia comprendeva prima di questo solo altri tre film, essendo morto 41enne in un incidente stradale mentre era in vacanza in Africa, fra Zambia e Tanzania; regista di commedie brillanti di buon successo al botteghino era sembrato il nome perfetto, ma qualcosa dev’essere andato storto, e non ci sono cronache cui fare riferimento per riportare l’accaduto: più o meno a metà lavorazione venne chiamato a sostituirlo sul set quel Dino Risi che aveva rifiutato di firmare il film, e benché era già noto ai tempi che avesse diretto molte scene, non si sa quali perché generalmente i film non vengono girati con la narrazione in sequenza, Risi lavorò in incognito senza voler essere accreditato, così che “Il successo” uscì firmato solo da Morassi, che morirà tre anni dopo.

“Il successo” che anche nel titolo tenta l’assonanza con “Il sorpasso” vede Gassman come protagonista assoluto laddove nell’altro film aveva Trintignant come importante comprimario che era anche voce narrante, e qui l’attore francese c’è solo per creare l’illusione della coppia vincente (al botteghino) ma perdente (nella storia) ed è un pallido comprimario, amico accomodante (ma non nel finale) che il protagonista bullizza col suo gallismo da maschio alfa cui però tiene testa il bel personaggio della moglie ricco di sfumature, affidato a un’altra francese, la fascinosa e languida Anouk Aimée, che dopo una già considerevole carriera in patria era giunta in Italia per lavorare con Federico Fellini in “La dolce vita” che la vorrà di nuovo in “8 ½”. Il quarto personaggio, che per vivacità e riuscita stilistica ruba il terzo posto all’amico interpretato da Trintignant, è la cameriera un po’ oca e sessualmente promiscua che l’ex fotomodella detta “Bardot italiana” Cristina Gaioni, in “Arrangiatevi” accreditata come Maria Cristina Gajoni, caratterizza divertendosi e divertendoci: un personaggio, però, purtroppo ancora intrappolato nella visione fallocentrica del maschio dell’epoca.

Nella ricerca smodata del suo successo economico il protagonista vortica come una girandola fra persone e ambienti di varia estrazione per riuscire a mettere insieme i dieci milioni che gli servono per avviare una speculazione edilizia e passare da impiegato frustrato con origini contadine a imprenditore di successo, senza mettere in conto che il successo gli avrebbe fatto perdere le persone migliori della sua vita, la moglie e l’amico, in un finale punitivo – come punitivo era l’incidente mortale alla fine di “Il sorpasso”, che lì però sorprendeva perché inseriva per la prima volta un finale tragico in una commedia – mentre qui in “Il successo” il finale è solo tristemente e banalmente moraleggiante: sarebbe stato più feroce e graffiante, e meno ipocrita, se l’uomo che alla fine ottiene l’ambito successo avesse gioito e goduto nel suo cinismo, che è quello che accade più verosimilmente nella realtà. Detto questo Vittorio Gassman è ancora una volta un grande interprete che ai vezzi del fanfarone (come i francesi hanno intitolato “Il sorpasso”) aggiunge l’ansia da prestazione e l’insicurezza che si trasformano in bramosia, e dietro ogni suo sbandierato sorriso c’è sempre l’ombra di un’amarezza che lo rode dall’interno: davvero notevole.

Ma anche se minore al suo modello dell’anno prima, questo film è da vedere perché esemplare di quell’Italia che tentava di raccontare al cinema il proprio boom economico a quindici anni dalla fine della guerra, e più che a “Il sorpasso” è più vicino al contemporaneo (siamo nel 1963) “Il boom” con Alberto Sordi diretto da Vittorio De Sica su scrittura di Cesare Zavattini.

Nei ritratti di contorno spiccano Umberto D’Orsi come ridanciano cinico palazzinaro, Riccardo Garrone che è il ricco spasimante della moglie, Leopoldo Trieste è l’untuoso affarista disonesto, Gastone Moschin è l’onesto cognato bistrattato perché onesto e poco accondiscendente; Filippo Scelzo è il padre contadino del protagonista, la fidanzata dall’amico è interpretata da Grazia Maria Spina, noto volto televisivo con molto teatro nel curriculum, che 21enne proprio con Gassman aveva lavorato in palcoscenico; l’intrallazzista Cesarino lo interpreta Mino Doro, altrove anche D’Oro, nome d’arte del conte Erminio Napoleone Gioanni Doro di Costa di Vernassino, che appassionato di teatro aveva debuttato ventenne nelle compagnie di Luigi Pirandello ed Emma Gramatica; la mora Annie Gorassini e la bionda Franca Polesello sono le due vivaci centratissime ragazze squillo che da sgallettate allietano un pomeriggio dei galletti protagonisti. Incredibilmente non è accreditata l’attrice straniera che interpreta la poco avvenente Contessa che si doppia da sé con un accento di cui non si riesce a comprendere la provenienza, e non c’è modo di trovarne traccia sulle pagine note e meno note del web: qualcuno sa chi è?

La Contessa, chi la interpreta?

Medea – la tragedia di Euripide, il film di Pasolini, la cronaca nera

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Da “Uccellacci e uccellini” un salto di tre anni al 1969 nel mio racconto della cinematografia di Pier Paolo Pasolini per arrivare direttamente alla sua “Medea” e farla scorrere in concomitanza alla cronaca nera che vede l’ennesima madre assassina rinominata Medea, appunto, perché pare che dietro il suo gesto estremo ci sia la gelosia. Ma così come è sempre riduttivo incorniciare un dramma umano dentro le etichette che viaggiano su quotidiani e social, lo è altrettanto – e soprattutto – per la tragedia di Euripide che Pasolini ha messo in film.

Ma cosa sappiamo davvero della tragedia? Μήδεια (Médeia) è andata in scena per la prima volta 2453 anni fa, nel 431 avanti Cristo ad Atene nel corso delle Grandi Dionisie, che erano delle celebrazioni dedicate al dio Dioniso durante le quali venivano rappresentate opere in competizione sia tragiche che comiche; Medea si classificò al terzo posto dietro opere oggi perdute, e se oggi la consideriamo un capolavoro chissà cosa devono essere stati gli altri due testi. Molto in sintesi la trama è questa: La maga Medea, originaria della Colchide (l’odierno stato della Georgia sulle rive del Mar Nero, quindi a nord della Grecia) aiuta con i suoi incanti il marito Giasone (figlio di re, ma in disgrazia perché lo zio gli ha usurpato il trono) a conquistare un prezioso vello d’oro, e poi si trasferisce con lui a Corinto; ma lì Giasone, sempre in cerca di riscatto, decide di ripudiare Medea, dalla quale ha avuto due figli, per sposare Glauce, la figlia di Creonte re di Corinto, e accedere alla successione del regno; il resto lo si legge in cronaca: Medea uccide i suoi due figli (oltre alla sposina) per gelosia e vendetta.

Medea è una figura mitica che appartiene all’antichissima cultura greca e pare che Euripide non fosse il primo né l’unico a drammatizzare sulla sua figura, così come mitici sono anche gli altri personaggi e le loro ascendenze che risalgono alle epoche misteriche in cui gli Dei dell’Olimpo si accoppiavano con gli umani. Miti che sono metafore di realtà più concrete: ad esempio pare che il vello d’oro, la sua ricerca e la sua conquista, racconti la più prosaica carenza di grano, oro vegetale, di quelle terre.

Nella tragedia di Medea c’è la particolarità, al contrario della tradizione scenica, che non ci sono Dei fra i personaggi: essi latitano, tacciono, tanto che Giasone inveisce contro di loro per la loro assenza nel tragico finale. L’altra particolarità, caratteristica di grande modernità, è che non ci sono i due classici personaggi a dibattere, a scontrarsi in un dualismo scenico, la tesi e l’antitesi, ma c’è la sola Medea che si dibatte nel dualismo dei suoi istinti: quello di madre e quello di assassina che si alternano, nevroticamente diremmo oggi, anche all’interno della stessa scena: una complessità emotiva che rende il personaggio drammaturgicamente sfaccettato e culturalmente esemplare, tanto da venire richiamato alla memoria nelle tristi cronache contemporanee e aver dato il nome alla Sindrome di Medea. Un’altra cosa da considerare del personaggio è la sua alterità, la sua estraneità al luogo di azione e ai comprimari: è una maga, quindi cultrice di oscuri misteri, ed è straniera, quindi portatrice di tradizioni sconosciute: 2453 anni fa un personaggio – o persona – del genere, innescava paure ancestrali che ancora oggi non sono sopite, purtroppo: la paura dello straniero e del diverso da noi, con l’incapacità colpevole del rifiuto alla comprensione e alla conoscenza, e alla serena accoglienza. Inoltre c’è già all’interno della tragedia l’espressione di un preciso modello familiare: quello greco e moderno (di Euripide) che contrasta con quello antico e barbaro di Medea; Giasone spiega la sua necessità di dare nuovi figli alla patria (Mussolini ribadirà il concetto) e ottenere per sé un’emancipazione, un riscatto sociale, rinfacciando alla donna di averla portata via da un mondo barbaro onorandola col matrimonio; è uno scontro di culture che oggi (e dalle nostre parti) si complica dell’emancipazione della donna (a volte più teorica che pratica) dove la donna non è più la custode del focolare domestico intanto che l’uomo va alla conquista del mondo: entrambi hanno pari incarichi ed opportunità, entrambi possono tradire e farsi nuove famiglie – e se oggi una donna si fa Medea sta anche portando indietro di migliaia di anni il suo e il nostro calendario. Questo sul piano sociale. Ma sul piano strettamente umano, sentimentale, non si può che fare i conti con la natura umana, gli istinti – l’amore, l’odio, la paura, la fame, il bisogno di riprodursi – che sono identici nei millenni a prescindere dall’evoluzione sociale e tecnologica.

Altri autori hanno scritto del mito di Medea: Seneca, Ovidio, Quinto Ennio, e dall’Ottocento in poi: l’austriaco Franz Grillparzer, il francese Jean Anouilh, il nostro Corrado Alvaro, la tedesca Christa Wolf. E il film di Pasolini può anch’esso essere considerato una riscrittura: in un periodo in cui il teatro classico veniva (e tutt’oggi viene) modernizzato, lui ne fa un’opera assolutamente antimoderna; asciuga all’estremo i versi e l’azione parlata per ricollocare la sua Medea in un mondo premoderno, con azioni e riti di natura arcaica come i sacrifici umani, e una ritualità tanto affascinante quanto per noi spettatori intellettivamente incomprensibile, perché misterica; cui hanno contribuito in modo determinante gli straordinari costumi di Piero Tosi (Gabriella Pescucci futuro premio Oscar ne è assistente al suo debutto) e la scenografia di Dante Ferretti qui al suo primo lavoro da titolare dopo essere stato assistente sugli altri set di Pasolini “Il vangelo secondo Matteo” “Uccellacci e uccellini” ed “Edipo Re”, in location di straordinario fascino e alterità, dove anche Pisa sembra un misterioso altrove.

Pasolini compone dunque un film più visivo che parlato, con lunghe sequenze certo frutto di minuziosissime ricerche in cui racconta e rende reale sullo schermo un’arcaicità che realmente possiamo però solo immaginare, ed è talmente ben riuscita e affascinante che non ci resta che prenderla per buona. Sulla stessa linea è il commento musicale con brani etnici alla cui ricerca e selezione ha contribuito l’amica Elsa Morante. E il film si presenta come un percorso immersivo in quell’arcaicità in cui lui colloca la vicenda della sua Medea, più fruibile sul piano sensoriale che su quello prosaicamente narrativo. Pasolini apre il film con un lungo monologo filosofeggiante che il centauro Chirone – personaggio inesistente nella tragedia di Euripide – fa al piccolo Giasone mentre scorrono gli anni e il bambino diventa uomo: testo tutto in linea con la visione pasoliniana del mondo e poco appetibile dal punto di vista spettacolare; è il suo “teatro di parola” dove le idee hanno più importanza dell’azione: una sua intellettualistica teorizzazione del teatro che però non ha fatto scuola e nella quale i suoi testi teatrali rimangono congelati. Nel film ne consegue che se non si conosce alla perfezione la storia narrata, la banale trama, ci si perde, anche perché gli altri personaggi, muti o comunque molto silenziosi, non sono neanche nominati e non ci resta che intuirne identità e relazioni. Un’estremizzazione tipica di un Pasolini idealista che nell’assoluta certezza del suo punto di vista non concede nulla allo spettatore, così come all’interlocutore nelle dispute intellettuali sulle pagine stampate.

Giuseppe Gentile, Maria Callas e Pasolini in uno degli assolati set sparsi fra Turchia e Siria

A interpretare l’ingombrante personaggio Pasolini chiama Maria Callas, che non ha bisogno di presentazioni; si può solo contestualizzare che la soprano aveva reso famosa nel mondo l’opera omonima di Luigi Cherubini già legando a sé, così, il nome di Medea; ma sono anche gli anni del suo declino e accetta il ruolo cinematografico come una forma di riscatto dalle tante cocenti delusioni, non ultima quella di Aristotele Onassis che la lascia per sposare Jacqueline Bouvier vedova Kennedy.

E Maria Callas, nell’interpretare questa Medea pasoliniana, è statuaria, magnificamente vestita e truccata come si evince dai titoli di testa: “Il trucco della Sig.ra Callas è stato curato da GOFFREDO ROCCHETTI e la pettinatura da MARIA TERESA CORRIDONI”; e nell’essere statuaria, oltre a dare importanza fisica e morale al suo personaggio, è anche apparentemente inespressiva proprio perché asciuga, cinematograficamente, gli eccessi espressionistici tipici del teatro d’opera dove pure brillava come interprete oltre che come cantante, e calibra espressioni e sguardi furenti quasi da diva del cinema muto – che è un po’ l’impostazione di Pasolini. Anche la sua recitazione, pur nel doppiaggio di Rita Savagnone che ne segue le cadenze, è di alto livello ed esiste un’altra versione del film in cui è lei stessa a doppiarsi.

Per il ruolo di Giasone viene scelto un aitante sportivo con una bella faccia da cinema, l’olimpionico (due medaglie d’argento e due di bronzo) triplista e lunghista Giuseppe Gentile, un metro e novanta di corpo asciutto e tornito che Pasolini adocchiò sui rotocalchi, allorché l’atleta se la spassava sulla Spider donatagli dalla Fiat per le sue imprese alle Olimpiadi del 1968 di Città del Messico, dove aveva segnato due record mondiali, durati però solo 26 ore. Anche Mario Monicelli gli aveva proposto il cinema ma lui aveva rifiutato spiegando che preferiva saltare, ma quando Pasolini si fece avanti con la sua proposta, e con la produzione di Franco Rossellini che gli offriva 10 milioni di lire, accettò di recitare; sentendo però sul set il peso della sua inesperienza e ritrovandosi non più campione da podio ma matricola che doveva ricorrere ai suggerimenti dei professioni del set; e per la scena del bacio con la Callas, il regista perse pure la pazienza: “Se io piegavo il volto a destra – ha ricordato l’atleta – Maria Callas lo girava a sinistra, e viceversa. Fu allora che Pasolini, dopo sei o sette tentativi, si alterò: Vi volete baciare sí o no?” e allora il bacio divenne giocoforza appassionato e fu finalmente “buono” per l’autore. In seguito a questa sua interpretazione gli arrivarono altre offerte che lui rifiutò tutte perché non le riteneva all’altezza dell’esperienza fatta con Pasolini. È doppiato da Pino Colizzi. L’atleta prestato al cinema negli anni a seguire scrisse un libro di memorie, “La medaglia (con)divisa, il triplo, Pasolini e Maria Callas” in cui ricorda erroneamente che a doppiarlo fu Nino Castelnuovo perché a Pasolini non piaceva la sua parlata romanesca, e confessa che con la paga del film si comprò un appartamento, lui che da atleta prendeva dal Coni 140mila lire al mese; e comunque era benestante per nascita essendo figlio del questore di Roma e pronipote del filosofo Giovanni Gentile che fu ministro dell’istruzione per Mussolini; in seguito gli furono offerti altri film, soprattutto spaghetti-western, in uno dei quali doveva sculacciare una donna e lui da gentiluomo rifiutò; ma racconta soprattutto che la sua scrittura doveva essere approvata dalla divina Callas che volle incontrarlo preventivamente, e valutarlo; valutazioni artistiche che lo stesso Pier Paolo le chiedeva sul set, riconoscendole un’esperienza artistica lunga decenni e di vastità mondiale, una condiscendenza che non aveva per nessun altro, ed era con tutti rigido e intransigente.

Anche il resto del cast è nello stile pasoliniano che mischia la manovalanza locale ad attori professionisti, e professioni in altri campi che diventano attori occasionali. Dal mondo sportivo arriva anche un carissimo amico di Giuseppe Gentile, il discobolo Gianni Brandizzi che con i suoi quasi due metri d’altezza è Ercole negli Argonauti guidati da Giasone; lo studente Luigi Barbini, già apostolo in “Il Vangelo secondo Matteo” è un altro degli Argonauti; il francese Laurent Terzieff è il centauro Chirone doppiato da Enrico Maria Salerno; e Massimo Girotti, che l’anno prima era stato nel cast di “Teorema” torna a lavorare con Pasolini nel ruolo di Creonte; un’altra francese, Margareth Clémenti, moglie di Pierre Clémenti, è Glauce; Annamaria Chio è la nutrice, Sergio Tramonti debutta come Apsirto, il fratello che Medea uccide e fa a pezzi al fine di rallentare suo padre Eete che la sta inseguendo dopo che lei ha aiutato Giasone a trafugare il vello d’oro – e già lì Medea promette male; Maria Cumani Quasimodo, moglie del poeta, è una sacerdotessa; il cantautore americano Paul Jabara è Pelia, lo zio cattivo di Giasone; e c’è anche una quasi debuttante Piera Degli Esposti che si fa fatica a riconoscere nella corte di donne che accudisce la protagonista.

Il film, apprezzato dai critici, fu snobbato dal pubblico come fin qui tutti i film di Pasolini. Nel 1988 il danese Lars Von Trier realizza una Medea per la televisione basata sulla sceneggiatura di Carl Theodor Dreyer che era già stata offerta a Maria Callas.

Massimo Girotti
Laurent Terzieff con Pasolini
Piera Degli Esposti
Sergio Tramonti

Luigi Barbini
Margareth Clémenti

Arrangiatevi – ovvero Totò, Peppino, i profughi istriani e le case di tolleranza

È il 1959 e proprio l’anno prima la legge a nome della senatrice Lina Merlin ha fatto chiudere le case di tolleranza, e con esse un mondo, e uno stile di vita del maschio italico che per anni ancora vivrà di nostalgie e rimpianti. L’unico onesto film che ha tentato (parzialmente fallendo) di indagare il punto di vista delle signorine è stato “Adua e le compagne” che arriverà l’anno dopo. Il soggetto è tratto da una commedia in vernacolo toscano, “Casa nova… vita nova” che due teatranti, Mario Di Majo e Vinicio Gioli (che avrà un piccolo ruolo nel 1982 in “La notte di San Lorenzo” dei Fratelli Taviani) hanno buttato giù con grande brio immortalando lo storico momento sociale, e che gli scaltri sceneggiatori Leo Benvenuti e Piero De Bernardi hanno prontamente sviluppato in un film che resta in bilico, come molti film di quegli anni, fra il morente neorealismo e la nascente commedia all’italiana.

Per la Cineriz (Cinema Rizzoli) chiude il pacchetto produttivo Manolo Bolognini fratello del regista Mauro Bolognini, un architetto passato al cinema che ancora deve contenere il suo gusto da esteta che svilupperà in corposi melodrammi da cinema d’autore, perché fin qui si è potuto cimentare solo in mélo sentimentali tardo neorealistici e in commedie di successo commerciale che gli hanno appuntato addosso l’attenzione dei produttori; sarà l’incontro artistico e culturale con Pier Paolo Pasolini che lo proietterà definitivamente verso il cinema cosiddetto di qualità, senza però voler qui nulla togliere alla qualità di tutto il resto; grazie a lui firmerà la regia di “La notte brava” che Pasolini ha sceneggiato da un suo racconto, “Il bell’Antonio” da Vitaliano Brancati e “La giornata balorda” da Alberto Moravia, entrambi sceneggiati sempre da Pasolini.

Attorno a Totò, nonno allettato in ospedale, la famiglia Armentano. Gli interpreti, da sinistra: Marcello Paolini, Maria Cristina Gajoni, Cathia Caro, Peppino De Filippo e Laura Adani. Sullo sfondo Giusi Raspani Dandolo come perno della famiglia di profughi istriani.

E Bolognini, da esteta con gusto melodrammatico, compone un cast – anche al doppiaggio – stiloso, e intorno ai nomi di punta Peppino De Filippo e Totò che la fanno da padroni, chiama nel ruolo della moglie la teatrale ed efficacissima Laura Adani che dà all’importante personaggio un melodrammatico tono alto borghese forse più adatto al già passato cinema dei telefoni bianchi che a questo tardo neorealismo: contaminazioni di stili e generi che si possono pienamente osservare solo nella lunga distanza del tempo. I ruoli delle figlie vanno a Maria Cristina Gajoni, una fotomodella che ha studiato recitazione al Piccolo di Milano prima di trasferirsi a Roma per fare il cinema e che per la somiglianza viene definita dai rotocalchi, sempre in cerca di etichette, la Brigitte Bardot italiana; in quel 1959 esce con un altro bel ruolo in un altro importante film, il dramma carcerario femminile “Nella città l’inferno” diretto da Renato Castellani con Anna Magnani e Giulietta Masina, che le fa avere il Nastro d’Argento come Migliore Attrice non protagonista; l’altra figlia è interpretata dalla francese Cathia Caro attiva in quegli anni nei peplum italiani che però abbandona il cinema già nell’immediato 1961 facendo perdere ogni traccia; di lei si sa che tentò il suicidio durante la sua tempestosa relazione col pugile Tiberio Mitri. Le due giovani attrici sono state doppiate dalle grandi professioniste Maria Pia Di Meo e Rita Savagnone, riconoscibilissime voci di dive hollywoodiane che, con l’aggiunta della recitazione elegante di Laura Adani, ci sembra di stare a vedere una di quelle sophisticated comedy con Audrey Hepburn o Shirley MacLaine, Elizabeth Taylor o Ingrid Bergman. I due figli sono interpretati dalla meteora Marcello Paolini (attivo solo in cinque film) e dall’ex attore bambino Enrico Olivieri che dopo un’intensa carriera lascia anche lui il cinema perché non gli offriva più interessanti prospettive. La famiglia di profughi istriani è guidata dalla sempre eccellente eclettica caratterista Giusi Raspani Dandolo come madre di famiglia, mentre il nonno che duetta a contrasto con Totò è un altro caratterista di rango, Achille Majeroni, qui al suo terzultimo film. L’ineffabile coppia di truffatori è genialmente affidata a un’altra brillantissima coppia d’arte e di vita, Vittorio Caprioli e Franca Valeri che con le loro maschere e le loro studiatissime moine riempiono la prima parte del film, e lei in particolare è talmente straordinaria che facendo da spalla al compagno gli ruba sempre la scena: pur restando in secondo piano l’attenzione va sempre a lei.

Oggi un cast del genere è impensabile, perché se da un lato è cambiato il modo di fare commedia, rovinato dalla deriva eroticomica degli anni ’80, dall’altro sono cambiati i temi che non sono più centrati sull’individuo, l’italiano medio con difetti vizi e manie, ma si è allargato all’intera società con sguardi su un mondo politico che ha perso autorevolezza e si presta agli sberleffi, e dunque la comicità si è fatta grossolana come scadenti barzellette, e gli interpreti cinematografici non sono più di buona scuola ma sono gli stessi che fanno i siparietti in tivù; non ci sono più le figure centrali degli italiani medi e mediocri da raccontare – gli ultimi dei quali sono stati appannaggio di Alberto Sordi – ma si racconta la mediocrità e la marcescenza di un’intera società, oltretutto internazionalizzata per le evidenti spinte sociali, e dunque c’è sempre meno gusto per un’elegante leggerezza tutta provinciale, anche un po’ ammiccante se necessario, e l’incattivimento è sempre dietro l’angolo a cominciare dal neo-neorealismo che si tinge di noir. Le periferie pasoliniane che all’epoca scandalizzavano i benpensanti e che oggi appaiono bucoliche, si sono incarognite tanto quanto gli stessi benpensanti che oggi sono pure cinici. Gli interpreti non mancherebbero, anche se ormai appartengono a una generazioni di 60enni, come Angela Finocchiaro o Claudio Bisio, Sabina Guzzanti o Antonio Albanese, tanto per citare i primi che mi vengono in mente, mentre la comicità dei più giovani, quella su cui dovremmo fare affidamento, è la comicità che ha fatto scuola su YouTube e oggi è degenerata su TikTok: giovani che si guardano l’ombelico (si diceva una volta) ma oggi è più diretto dire che si compiacciono davanti agli specchi delle loro camerette e usano come uno specchio lo schermo dello smartphone, e si proiettano (ma anche introiettano) sugli schermi (prima dei dispositivi e se poi gli va bene coi like quelli dei cinema) come protagonisti in cui l’italiano medio è in cortocircuito e fa ironia solo su se stesso, mai pungente e cattiva però, e l’interprete non ha più scuole di formazione né fascino cinematografico, ma solo sfacciata improntitudine, o peggio ancora inconsapevolezza di quello che vuole comunicare al mondo. L’unico autore di commedie che mi viene in mente, che si possa definire come erede di quegli anni e di quei generi, è Paolo Virzì. E accetto suggerimenti nei commenti per aggiornare questa sezione.

Ma torniamo al film. Stavolta Peppino, spalla in tanti film del principe è finalmente protagonista assoluto ed esprime assai bene il dolceamaro del ruolo tragicomico, mentre Totò, che solitamente con la maschera dà vita a personaggi senza un’età specifica, genericamente suoi coetanei ma anche più giovani, qui è impegnato in un inedito ruolo con un’identità precisa, il nonno, e da guest star fra brillare un personaggio comprimario. Peppino si disegna addosso il ruolo del padre di famiglia nella Roma carente di appartamenti dell’immediato dopo guerra, periodo in cui era stato istituito il Commissariato Alloggi dove andare a denunciare le case sfitte per farsele assegnare d’ufficio, e tutta la prima parte del film racconta con toni da commedia ancora intrisi di neorealismo la convivenza forzata della famiglia di Peppino Armentano – moglie, due figlie, due figli e nonno – con una famiglia di profughi istriani di medesima composizione, salvo che questi continueranno a fare figli e tredici anni dopo gli spazi sono davvero invivibili. Mentre Peppino si dà a suo modo da fare per cercare un’altra abitazione finendo nelle grinfie di un truffatore e della sua degna compagna ex prostituta appen’appena fuoriuscita dal sistema delle case di tolleranza chiuse per decreto legislativo – a casa il nonno Totò diventa il centro della narrazione, duettando amabilmente col nonno istriano, ed esprimendo una sincera umanità che non ha più bisogno dei suoi tic e delle sue mossette; attenzione però, perché anche quando duetta col fidato Peppino, Totò resta protagonista delle sue scene che continua a costruire a suo gusto al di fuori del copione scritto, ed è evidente che lo stesso Bolognini lo lascia libero di improvvisare anche in certi assolo – come quello col vespasiano – perché sono momenti che apportano, oltre alla ben nota comicità, anche profondità al personaggio.

Il film (incluso tra i 100 film da salvare) si apre con una voce da narratore da cinegiornale che millanta: “Il nostro racconto è realmente accaduto e come tutte le storie vere sembrerà incredibile…” In effetti le vicende sono tutte verosimili e credibili ma solo se prese una alla volta; di fatto fotografano diverse realtà: la crisi degli alloggi a fine guerra con famiglie che condividevano gli stessi spazi come nei racconti russi, il proliferare di piccoli truffatori in quella terra di nessuno dove c’era bisogno di tutto, ma anche – come si racconta nella seconda e più importante parte del film – il destino di quegli appartamenti che furono case chiuse, case di tolleranza, bordelli, lupanari, che svuotati da una legge che ha messo sulla strada migliaia di prostitute – donne che nella maggioranza dei casi non conoscevano altra vita, e dunque incapaci di reagire al cambiamento, e peggio ancora non accompagnate da quella stessa legge a nuove alternative e abbandonate a se stesse solo perché prostitute e dunque feccia della società – mentre gli appartamenti svuotati, di solito importanti e spaziosi, restavano sfitti perché il gretto provincialismo cattolico li bollava come luoghi di perdizione e quindi dannati per l’eternità, se non alle fiamme dell’inferno ai più immediati pettegolezzi e sberleffi. Che è ciò con cui deve fare i conti Peppino, prima da solo, e poi con l’intera famiglia quando tutti vengono a conoscenza dei fatti e del passato di quell’appartamento, e si sfiora la tragedia della separazione. Mentre alla moglie e madre sono affidati i toni melodrammatici, Peppino deve districarsi nel classico congegno da commedia degli inganni, mentre alle figlie sono affidati i ruoli da commedia sentimentale: una, già fidanzata con un pugile flirta anche con un giornalista che segue la vicenda, mentre l’altra fa gli occhi dolci a un aitante commilitone del fratello cicciotto che è lo scemo in commedia; e l’altro fratello, assai comodamente e italianamente, studia da prete. Momenti e ispirazioni diverse che ben convivono nel film confezionato da Mauro Bolognini, che piacque molto a pubblico e critica con qualche ingeneroso e specioso distinguo: “Si tratta di una farsa di tipo pochadistico. L’abilità di alcuni attori non vale a riscattare la mediocrità del lavoro” fu il giudizio del cattolico “Segnalazioni Cinematografiche”; “(Il film) è in partenza, un po’ fuori dagli schemi dei nostri film comici (…). Vero e umano poteva essere (…) il film, prendendo spunto da una situazione insolita ma non improbabile e legandosi alla satira di certo gallismo italiano. Purtroppo, dopo un inizio sincero e cordiale (…) Bolognini s’è andato a imprigionare nella farsa di grana grossa. (…)” è la sintesi della critica di Ernesto G. Laura su “Bianco e Nero”.

Al centro Giorgio Ardisson circondato da Laura Adani, Totò e Maria Cristina Gajoni

Ricordando che il set è una vera ex casa di tolleranza sita in Via della Fontanella 25 a Roma, come si specifica anche nel film, a due passi dal Vaticano, quindi di gran lusso, nelle riprese e nel successivo montaggio il regista incorre in qualche grossolano errore: per l’assolo inventato da Totò fa montare un vespasiano a ridosso del portone (paradossalmente questi pisciatoi pubblici erano ancora installati fino all’inizio di questo millennio su certi tratti del Lungotevere) salvo poi sparire in una successiva inquadratura; altrettanto, in una delle scene d’insieme sulla scalinata d’ingresso dell’appartamento, marito e moglie appaiono prima vicini e poi distanti all’interno della stessa sequenza.

Un giovanissimo Giuliano Gemma con esagerati pettorali fa da sfondo a Peppino

Assai interessante anche il resto del cast. Il figlio di Peppino, Luigi De Filippo, è uno dei commilitoni del giovane Armentano ed è doppiato dal ligure Sergio Tedesco; mentre Cesare Barbetti doppia l’altro militare piacione che è Angelo Zanolli, ennesimo attore che scivolando nel girone dei peplum si è perso per strada; c’è un altro belloccio del piccolo schermo, Mario Valdemarin, che era diventato famoso come concorrente esperto di film western a “Lascia o raddoppia?” ed è diventato divo dei fotoromanzi e attore di sceneggiati Rai fino agli anni ’80 con una discreta carriera nel cinema generalista, qui interpreta il giornalista che dà visibilità alla vicenda e fa palpitare il cuore di una delle ragazze Armentano; l’aitante Giorgio Ardisson debutta nel ruolo del pugile e a seguire si ritaglia una bella carriera lavorando anche all’estero come George Ardisson (col cognome piemontese gli viene facile) anche con ruoli da protagonista nel solito cinema generalista, peplum, spaghetti-western, poliziotteschi e pure erotici, ma quando chiese ai produttori di affidargli ruoli più impegnativi la sua carriera declinò, mentre un altro aitante giovanotto che nel film è solo un figurante nella scena in palestra, lo surclasserà divenendo un protagonista di tutto rispetto: è Giuliano Gemma. La giovane Adriana Asti, qui al suo secondo film, è una babysitter a Villa Borghese che non disdegna le divise militari.

A chiusura del film la battuta che è il titolo, indirizzata da nonno Totò alla finestra verso i militari ma anche ai civili che si affollano sotto casa credendo che abbia ripreso l’attività clandestina della sora Gina con le sue signorine: battuta che ha un ardito e nascosto seguito non detto, però, perché come si dice a Roma in questi casi: “Arrangiati con un cinque contro uno!” Il film completo è su YouTube.

Uccellacci e uccellini (con estemporaneo ritratto di Totò)

Riprendo il discorso sulla cinematografia di Pasolini (dopo opportune e non ultime divagazioni) con le parole che l’autore ha avuto sul suo stesso film: “Uccellacci e uccellini è stato il mio film che ho amato e continuo ad amare di più, prima di tutto perché come dissi quando uscì è “il più povero e il più bello” e poi perché è l’unico mio film che non ha deluso le attese. Collaborare con lui (con Totò) reduce da quegli orribili film che oggi una stupida intellighenzia riscopre fu molto bello: era un uomo buono e senza aggressività, di dolce cera. Voglio ricordare anche che oltre che un film con Totò, Uccellacci e uccellini è anche un film con Ninetto, attore per forza, che con quel film cominciava la sua allegra carriera. Ho amato moltissimo i due protagonisti, Totò, ricca statua di cera, e Ninetto. Non mancarono le difficoltà, quando giravamo. Ma in mezzo a tanta difficoltà, ebbi in compenso la gioia di dirigere Totò e Ninetto: uno stradivario e uno zuffoletto. Ma che bel concertino.”

Il Pier Paolo Pasolini autore cinematografico è ormai, con buona pace degli agguerriti detrattori, una realtà; dopo i primi due discussi film sul sottoproletariato romano coi quali ha lanciato l’imbianchino Franco Citti, e il cameriere Ettore Garofolo al quale ha affiancato la grandiosa Anna Magnani, e lo sberleffo sacro-profano di “La ricotta” nel quale si è avvalso di un grande d’oltreoceano, Orson Welles, eccolo finalmente cimentarsi nella favola tragica con il tono surreale che gli è sempre appartenuto ma che ha finora solo lasciato intuire e per il quale ha la felice intuizione di avvalersi di un altro grande a fine carriera, Totò. Con il distinguo che Totò è stato un grande nella cinematografia di serie B, tranne rare eccezioni, a tal punto che quando Mario Monicelli nel comporre il cast di “Risate di gioia” nel 1960 propose alla Magnani di fare coppia con lui, la diva inorridì temendo di essere squalificata dalla sua presenza.

Totò è una figura immensa. Nato Antonio Vincenzo Stefano da una relazione clandestina, all’anagrafe fu registrato come Antonio Clemente figlio di Anna Clemente e N.N. in quanto al padre naturale, il 25enne Giuseppe De Curtis rampollo di un decaduto ramo cadetto dei marchesi De Curtis, la famiglia vietò di riconoscere il bambino generato con una 17enne popolana: allora succedeva molto sovente, essendo in vigore i rigidi steccati delle classi sociali, che queste naturalmente si mischiassero nel privato delle lenzuola senza però volersi immischiarsi nell’ufficialità dei documenti: le giovani popolane erano spesso prede dei signori presso cui andavano a servizio; anche se in questo caso il divario sociale era solo nominale e nella pratica fittizio: il marchesino Peppino faceva il sarto ambulante presso le case dei ricchi, spesso non nobili, e nelle case dei nobili più nobili di lui; mentre il di lui signor padre pare che facesse addirittura il pittore, che nella pratica significava imbianchino. Nei fatti Peppino continua la sua relazione clandestina con Nannina, la quale con sfrontatezza sfoggia la sua condizione di mantenuta del signorino che la riempie di regali rimediati qua e là ma mai di necessari aiuti concreti, economici.

Totò a otto anni in una foto ufficiale e ben vestito da marinaretto

Solo nel 1921, quando Totò era già un 23enne che calcava le scene, Giuseppe De Curtis ricompose ufficialmente la famiglia sposando Anna e solo anni dopo, nel 1928, riconobbe il giovanotto come frutto dei suoi lombi; pare che questo ritardo fu dovuto al fatto che De Curtis non era convinto della sua reale paternità, tant’è che nella lunga e continuativa relazione non ci furono altri figli e dunque si vociferava che Peppino fosse sterile, tanto quanto Nannina troppo allegra. Il ragazzo Totò, inseguito da queste chiacchiere, era cresciuto nei vicoli in condizioni estremamente disagiate – dimostrando precocemente la passione per l’intrattenimento, passione che gli faceva trascurare gli studi tanto che dalla quarta elementare fu addirittura retrocesso alla terza. Terminate a fatica le scuole dell’obbligo, incorse in un incidente al Collegio Cimino dove era stato iscritto per conseguire la licenza ginnasiale: uno dei precettori lo colpì con un vero pugno durante un improvvisato giocoso incontro di pugilato, e dovette essere un gran bel pugno se gli deviò naso e mento creandogli la maschera con la quale lo abbiamo conosciuto. Comunque sia Totò non terminò gli studi e si diede definitivamente ai palcoscenici del varietà dove cominciò ad esibirsi affinando le sue naturali doti mimiche e mimetiche che aveva sperimentato davanti al pubblico improvvisato dei compagni di scuola e dei mariuoli del quartiere, mentre la madre lo avrebbe voluto avviare alla carriera ecclesiastica: “Meglio ‘nu figlio prevete ca ‘nu figlio artista.”

Cresciuto nel disagio dell’indigenza – i suoi pantaloni vengono ricavati dalle gonne dismesse dalla madre – e col marchio infamante di bastardo a tutto tondo, in lui crebbe anche l’imperante necessità del riscatto sociale volendo dare un nome, e un nome illustre, alla sua ascendenza. Ma vale la pena riferire un episodio della sua infanzia di cui si favoleggia: una volta che i suoi rimediati pantaloni erano stati ricavati da una stoffa fiorata, i suoi coetanei cominciarono a sbeffeggiarlo come ricchione e femminiello; il piccolo Totò si ribellò e togliendosi i pantaloni restò in mutande e cominciò a dimenarsi di fronte ai coetanei per sfregio, ma quello che voleva essere uno sberleffo divenne per gli altri divertimento, tanto che finirono con l’applaudirlo – e non si sa se anche quello per sfregio di ritorno, ma di fatto si delineavano le sue doti di intrattenitore anche se furono anni, per lui, di tristezza e solitudine, per la vergogna di essere povero e figlio di donna nubile.

Liliana Castagnola in una delle foto promozionali che suscitarono la gelosia di Totò e il deterioramento della loro relazione. Il termine sciantosa viene dal francese chanteuse, cantante che si esibiva nei café-chantant eseguendo arie da opere liriche o operette; ma nella pratica partenopea la sciantosa divenne sinonimo di donna fatale e ammaliatrice alle cui doti canore erano preferite quelle fisiche

Acquisito il cognome dei De Curtis, fece ricerche sulla genealogia della famiglia e rintracciò l’ultimo erede del ramo principale, lo squattrinato marchese Gaspare, il quale fu ben felice d’inventarsi una parentela con Totò che nel frattempo stava divenendo un attore famoso: si riconobbero vicendevolmente come cugini benché pare che appartenessero, secondo studi più recenti, a due famiglie ben diverse e distinte. Il 1933 fu un importante anno di svolta: era finalmente divenuto capocomico e anche padre da una relazione assai chiacchierata con la 16enne Diana Rogliani che gli diede Liliana, così battezzata in onore alla sciantosa Liliana Castagnola che per amor suo si era suicidata, e che lui volle far seppellire nella cappella di famiglia che aveva fatto costruire. Sempre in quell’anno si fece adottare, dietro versamento di un vitalizio, da un altro squattrinato marchese, tal Francesco Maria Gagliardi Focas di Tertiveri che le indagini araldiche di Totò indicavano come consanguineo: tutte parentele più presunte che reali come dimostreranno studi successivi ma di fatto “il principe della risata”, come ormai veniva chiamato, ottenne da quelle presunte ascendenze dei titoli per colmare l’oscuro della sua infanzia e da tramandare alla sua discendenza, ora che era divenuto padre. Altisonanti titoli scolpiti nel marmo della sua lapide tombale. Morì nel 1967, l’anno seguente l’uscita di “Uccellacci e uccellini” che rimane il suo ultimo lungometraggio da protagonista; sempre per Pasolini farà in tempo a partecipare a “La terra vista dalla luna” episodio del collettivo “Le streghe” e “Che cosa sono le nuvole?” nel collettivo “Capriccio all’italiana” in cui recita anche nell’episodio “Il mostro della domenica” di Steno. Con “Uccellacci e uccellini” riceve una menzione speciale al Festival di Cannes, e vince come Miglior Protagonista il Nastro d’Argento e il Globo d’Oro.

Ninetto Davoli, Giovanni sui documenti, all’uscita del film è ormai diciottenne ma già sin da quando ne aveva quindici frequenta Pasolini, che lo aveva conosciuto sul set di “La ricotta” dove il ragazzo era andato a trovare il fratello maggiore che vi lavorava come falegname. “Tutto iniziò con una carezza sul capo la prima volta che mi vide e io non sapevo nemmeno chi fosse…”. I Davoli venivano dalla baraccopoli del Borghetto Prenestino dove la famiglia si era trasferita dalla Calabria; baraccopoli romane che se a vent’anni dalla fine della guerra erano ancora una realtà diffusa e plausibile, che l’avanzare del boom economico avrebbe raso al suolo sotto i palazzoni di periferia, oggi sono da considerare un aberrante anacronismo: perché le baraccopoli degli ultimi e dei disperati esistono ancora nei dintorni di Roma e sono abitate dai nuovi calabresi, quelli che vengono da ancora più a sud, gli africani, gli Alì che Pasolini profetizzò nella poesia del 1964 “Alì dagli occhi azzurri”.

Ninetto già due anni prima era tornato nella natia Calabria per fare da esca nei cast estemporanei che Pasolini improvvisava per scegliere fra i locali interpreti e figuranti del suo precedente film “Il Vangelo secondo Matteo” dove egli stesso aveva debuttato come pastorello. Di lui saltano subito agli occhi la simpatia e il sorriso aperto, e l’assoluta alterità rispetto ai cupi Franco Citti e Ettore Garofolo, una leggerezza che lo rende perfetto per questo ulteriore film dell’autore, una favola tragica sulla condizione umana per la quale Pasolini ha voluto, e rivalutato, la maschera di Totò, del quale Ninetto racconta di quella prima volta che andarono a trovarlo a casa: “Ho saputo che quando me ne andai passò il DDT per disinfestare la casa.” Già nel “Vangelo” Ninetto non avrebbe voluto stare davanti la macchina da presa e Pasolini faticò non poco per convincerlo, facendo leva su quello che descrive nella poesia “Il desiderio di ricchezza del sottoproletariato romano”: guarda che ti daranno bel soldini. Il salto di qualità interpretativa richiesta in “Uccellacci e uccellini” lo terrorizzò: “Il problema è stato in seguito, per Uccellacci e uccellini, lì dovevo recitare, oddio, dovevo soprattutto essere me stesso.” E Ninetto nel film è se stesso, ed è – con un termine oggi desueto – un birbante, dalla recitazione rozza che però passa l’esame per la grande simpatia che lui esprime come persona; una naïveté che si fa a sua volta maschera bene affiancata a quella nota di Totò: un arlecchino di borgata, malandrino e infido, pavido e feroce insieme, come feroci sono tutte le periferie di Pasolini, senza speranza di riscatto per gli individui che partoriscono. “Rappresentavo quel mondo che avrebbe desiderato, la semplicità, la purezza, l’ingenuità. Un mondo, mi diceva sempre, che sarebbe scomparso” dice ancora Ninetto in un’intervista al Corriere della Sera.

Patrizia e Ninetto Davoli in una recente foto

Il momento di crisi arriva nel 1973 quando Ninetto sposa la sua Patrizia e mette su una famiglia che terrà lontana dai riflettori, e per Pier Paolo è un dramma, come scrive all’amico scrittore Paolo Volponi: “Sono pazzo di dolore. Ninetto è finito. Dopo quasi nove anni Ninetto non c’è più. Ho perso il senso della vita. Penso solo a morire o a cose simili. Tutto mi è crollato intorno: Ninetto con la sua ragazza, disposto a tutto, anche a tornare a fare il falegname pur di stare con lei”.  L’amico eterosessuale (la specifica è d’obbligo dato il contesto) cerca di consolarlo come può, usando toni lirici: “Capisco la tua solitudine e il tuo dolore, so quanto contasse Ninetto per te e so anche che solo un dio potrebbe fartene trovare un altro altrettanto caro e splendente.” In realtà poi il rapporto si ricompone, a tal punto che il poeta diverrà padrino dei due figli della coppia, che in omaggio a lui e al di lui fratello morto verranno chiamati Pier Paolo e Guido Alberto. Quando nel 1975 fu ritrovato a Ostia il cadavere di Pasolini fu Ninetto a riconoscerlo, e conclude l’intervista: “Mi manca Pier Paolo, la persona. Era mio padre, mio fratello, mia madre. È un mondo che mi porto dietro. Non riesco a condividerlo con nessuno.”

Il produttore Alfredo Bini col corvo e Totò fra figuranti e curiosi

Torniamo al film. Pur realizzando una favola surreale e grottesca, Pasolini prosegue il suo discorso intimamente politico sugli ultimi e le periferie e, benché a tratti Roma sia riconoscibile sullo sfondo, e il romanesco di Davoli non lascia dubbi, disegna un mondo irreale, appunto, dove i cartelli a nominare gli uomini illustri delle strade di quella periferia sono: Via Benito La Lacrima – disoccupato, Via Antonio Mangiapasta – scopino, Via Lillo Strappalenzola – scappato di casa a 12 anni; in cui colloca la storia apparentemente senza capo né coda di un padre e di un figlio che si chiamano, guarda un po’, Totò e Ninetto, che all’inizio del film incontrano, come in ogni favola che si rispetti, un corvo parlante cui dà voce lo scrittore Francesco Leonetti che aveva già interpretato Erode Antipa nel Vangelo pasoliniano; un corvo filosofo molto simile al grillo di Pinocchio col quale condividerà la tragica fine, anzi di più, finirà mangiato dai due affamati protagonisti, e all’inizio viene presentato con questa didascalia: “Per chi avesse dei dubbi o si fosse distratto, ricordiamo che il corvo è un intellettuale di sinistra – diciamo così – di prima della morte di Palmiro Togliatti” e dunque, intende Pasolini, di quegli intellettuali duri e puri non ancora minati dal germe del consumismo occidentale: ricordiamo che Palmiro Togliatti, membro fondatore del Partito Comunista Italiano, prese nel 1930 la cittadinanza sovietica e alla sua morte gli fu intitolata la città che noi italiani chiamiamo erroneamente Togliattigrad, mentre per i russi è solo Togliatti, Тольятти, ex Città della Croce sul Volga. Del suo solenne funerale che si svolse a Roma nell’agosto del 1964 (era morto per ictus a Jalta dove era in vacanza con la compagna Nilde Iotti) cui parteciparono circa un milione di persone, Pasolini inserisce nel finale del film ampi stralci di immagini di repertorio.

Dalle chiacchiere moraleggianti del corvo prende vita sullo schermo un racconto morale in cui due frati francescani, stavolta Ciccillo per Totò mentre Ninetto, che come sappiamo non recita ma è se stesso, è sempre Ninetto; i due frati sono stati incaricati da un San Francesco molto marxiano a evangelizzare uccellacci e uccellini, ovvero falchi e passeri, e a porre fine alle loro dispute; in questo segmento i momenti più godibili del film che oggi possiamo definire come meta-linguaggio: i due si rivolgono ai falchi fischiando e ai passeri saltellando, secondo i loro linguaggi e, benché riuscendo nell’impresa di evangelizzazione, non riescono a far fare pace ai due gruppi socialmente lontani degli uccellacci e degli uccellini, parabola delle classi sociali della borghesia e del proletariato. Continuando nel loro percorso senza meta, Totò e Ninetto fanno degli incontri occasionali e anch’essi simbolici: dei violenti proprietari terrieri e una miserabile famiglia, degli immorali attori ambulanti e un grottesco gruppo autocelebrativo di dentisti dantisti. Nel loro percorso hanno la piacevolezza dell’incontro, consumato da entrambi, con una di quelle figure tanto care all’autore, una prostituta sincera generosa e accogliente, di certo meno immorale delle tante espressioni borghesi invise a Pasolini.

Il ruolo di Francesco è andato a Cesare Gelli, giovane attore di rivista in crisi per il declino di quel genere, che ha avuto la capacità di reinventarsi nel teatro classico con Luca Ronconi e poi proseguendo una carriera da caratterista in cinema e tv, oltre che come doppiatore. All’inizio del film ritroviamo la Rossana Di Rocco come autocitazione del Vangelo: lì interpretava l’Angelo, qui interpreta un angelo con ali di cartapesta in una sacra rappresentazione paesana. La prostituta è interpretata dalla giovane italo-jugoslava Femi Benussi (Eufemia) che viene dal teatro ma che da qui in poi – è il suo ruolo più importante e il suo quarto film – si specializzerà in ruoli sexy ed erotici durante tutti gli anni Settanta, sono soldi facili, ma poi abbandona quel genere senza però potersi più riciclare nel cinema generalista perché non le vennero offerte più scritture, cosa che denunciò durante il convegno “La donna nello sfruttamento della pornografia” organizzato nel 1980 dal Circolo della Stampa di Torino: è del 1983 il suo ultimo film “Corpi nudi”. Tornata in Jugoslavia, ne è fuggita durante la guerra civile degli anni Novanta per rientrare a Roma e sparendo totalmente dai radar.

Carlo Croccolo e Totò in uno dei tanti film girati insieme

Altro meta-linguaggio del film sono i titoli di testa, ma anche di coda, con Domenico Modugno che canta i nomi e i ruoli del cast artistico e tecnico: un momento unico nella cinematografia, su musica di Ennio Morricone che cura l’intera colonna sonora che è stata pubblicata in CD solo nel 2006. Fra le altre curiosità va segnalato che il corvo sono in realtà tanti corvi diversi, e tutti sembravano voler cavare gli occhi solo a Totò, chissà forse avvertendo la sua cecità. Di fatti il principe era ormai pressoché cieco da anni e già dal 1957 il suo doppiatore ufficiale, che aveva scelto personalmente, era Carlo Croccolo; doppiaggio che avveniva per le scene girate in esterno, dove non era possibile coi mezzi del tempo avere una traccia sonora di buona qualità e dunque Totò, non potendo leggere il copione in sala di doppiaggio dovette ricorrere a un sostituto; differentemente, le scene girate in interno avevano una buona traccia sonora, seguendo la quale l’attore poteva doppiarsi da solo, e l’apporto di Carlo Croccolo era talmente calzante che non ci siamo mai accorti delle differenze. Anche per “Uccellacci e uccellini” Carlo Croccolo si offrì di proseguire nel suo impegno di doppiatore ufficiale ma Pasolini, forse con l’intento di togliere Totò dalle sue comfort zone per stimolarne la creatività, gli preferì Oreste Lionello. Il film piacque molto alla critica ma non al pubblico, tanto che rimane il film di Totò coi minori incassi. Disponibile su YouTube.