Archivio mensile:Maggio 2022

Diabolik – 1968

1968. Il fumetto Diabolik nato sei anni prima è già un grande successo e dunque la trasposizione cinematografica fa gola ai produttori, soprattutto dopo che Kriminal, nato dopo Diabolik, è già diventato un film e un sequel è in allestimento nonostante il tiepido successo che, in ogni caso, ha portato a casa le spese con gli interessi: non c’è aspirazione al capolavoro ma l’obiettivo è piazzare un buon action-noir fra i tanti spaghetti-western e i film con Franco e Ciccio. Dino De Laurentiis, ancora per pochi anni padrone di Dinocittà a Roma prima di trasferirsi definitivamente negli USA, acquista i diritti dalle Sorelle Giussani e inizialmente, lui che è un grande scopritore di talenti a basso costo, affida la regia al debuttante Tonino Cervi figlio del divo Gino Cervi, ma qualcosa non funziona perché dopo appena una settimana il neo regista viene licenziato, probabilmente perché ha una forte personalità e vuole avere un maggior controllo sul film; tant’è che quello stesso anno debutta con uno spaghetti-western di cui è anche produttore e co-sceneggiatore con Dario Argento: “Oggi a me… domani a te”, che fu pure un successo, tanto da venire distribuito negli USA.

Mario Bava

Lo screzio deve aver irritato non poco De Laurentiis che non se lo aspettava e ora non ha un degno sostituto; si fa avanti un amico delle sciurette fumettiste, anche sceneggiatore dell’uomo mascherato, l’appassionato di cinema e specificamente di cinema horror Corrado Farina, già regista di cortometraggi amatoriali che hanno ricevuto consensi nei festival nazionali ed esteri; De Laurentiis però non se la sente di affidargli una macchina complessa e milionaria come Diabolik e Farina, per nulla offeso dai dubbi, gli consiglia come regista il re dell’horror Mario Bava. Il film necessitava di parecchi effetti speciali e Bava ne era maestro dato che aveva iniziato a lavorare nel cinema proprio come effettista, divenendo poi direttore della fotografia e operatore di macchina prima di passare alla regia: dunque conosceva molto bene il mestiere e nonostante la lunga e variegata carriera sapeva sempre mettersi al servizio dei progetti, poiché spesso abituato a lavorare con bassi budget in tempi stretti e cast non sempre all’altezza, e confezionando comunque film dignitosi anche se inevitabilmente di serie B – molti dei quali oggi divenuti del cult. Per De Laurentiis era il regista perfetto: gli offrì il budget più alto che il regista avesse mai avuto a disposizione, duecento milioni di lire, che per il produttore erano però spiccioli, abituato com’era a produrre kolossal hollywoodiani come “Guerra e pace” di King Vidor, “Barabba” di Richard Fleischer e “La Bibbia” di John Huston, tanto per citare i più noti; e Bava era così abituato a ottimizzare che i duecento milioni non li spese neanche tutti e De Laurentiis ne fu così contento che subito gli propose di firmare per il sequel, ma il regista gli diede un due di picche perché irritato dal fatto che il produttore gli aveva imposto di non girare scene troppo violente perché intimorito dalla censura, scene che Bava riteneva necessarie in quanto più fedeli al fumetto e alla sua visione del progetto. Il regista ha dichiarato: “Mi ha chiamato per dirigere il seguito. Gli ho fatto dire che sono ammalato, invalido a letto, permanentemente”. Come oggi sappiamo il film non fu un gran successo e non ci fu nessun sequel.

Era il momento di chiudere il cast. Con Mario Bava alla regia, che firmava anche la sceneggiatura a 4, decadde il nome del francese Jean Sorel che era stato scelto da Tonino Cervi e De Laurentiis fu felice di sostituirlo con l’americano John Phillip Law che già aveva sotto contratto per il contemporaneo “Barbarella” di Roger Vadim che stava subendo dei ritardi nella lavorazione, così con un piccolo incentivo spostò l’attore da un set all’altro – Mario Bava però alla fine non ne fu contento perché ritenne l’attore troppo insulso. Come Eva Kant la prima scelta era stata una sconosciuta modella in quanto amichetta di qualcuno della produzione, però dopo appena una settimana di girato fu licenziata perché evidentemente non sapeva recitare, non sapremo mai il suo nome, e al suo posto arrivò sul set nientemeno che Catherine Deneuve: una francese per il francese Jean Sorel che era stato fatto fuori, dato che era una coproduzione Italia-Francia, girata però in lingua inglese guardando al mercato internazionale. Ma anche la Deneuve durò pochi giorni perché non voleva girare le scene di nudo e si era scontrata col regista. C’era bisogno di un’attrice più disponibile e venne chiamata l’austriaca Marisa Mell (Marlies Theres Moitzi sulla carta d’identità) già regina della dolce vita romana da quando Mario Monicelli l’aveva importata per il suo “Casanova ’70”, film che però era del ’65…. sarà che andava di moda portarsi avanti con gli anni, forse anche auto consegnarsi una patente di innovatori, dato che già nel 1962 era uscito “Boccaccio ’70” e quello stesso 1968 usciranno “Montecristo ’70” “Manon ’70” e “Gangsters ’70”. Per l’onore e i soldi della Francia scese in campo il divo Michel Piccoli come Ispettore Ginko, mentre per il nostro Adolfo Celi fu addirittura creato un personaggio ex novo, il cattivo Ralph Valmont, dato che Celi si era appena messo in luce nel cinema internazionale come cattivo in “Agente 007: operazione tuono” (1965) cui erano seguiti altri importanti ruoli oltreoceano – qui però l’attore è doppiato da Emilio Cigoli, la nota voce profonda con un leggero birignao di John Wayne. John Phillip Law fu doppiato da Giancarlo Maestri, Michel Piccoli da Gigi Proietti e Claudio Gora da Roberto Villa. Non si ha notizia della doppiatrice di Marisa Mell.

Il film di Mario Bava è ispirato al fumetto “Sepolto vivo” e si chiude con un finale aperto che lascia presupporre un sequel come un seguito c’è nel fumetto, e benché il film sia vecchio più di mezzo secolo, rispetto al Diabolik odierno dei Manetti Bros. è senz’altro più spettacolare e ancora godibilissimo perché è un gioiellino assai visuale di cinema pop molto in tendenza con l’avanguardia artistica dell’epoca che era optical, psichedelica e neo-futurista; è molto colorato e per questo assai distante dal fumetto, non perché il fumetto sia in bianco e nero ma perché è denso di atmosfere cupe che nel film diventano un esplosivo caleidoscopio. Distanti dal fumetto anche i due personaggi principali che, in questa sceneggiatura, diventano comprimari del vero protagonista: Ginko. Il Diabolik di John Phillip Law è funzionale, con un trucco che lo fa assomigliare molto al personaggio, anche se per lui il regista inventa addirittura una tuta bianco argento; mentre Marisa Mell, che potenzialmente poteva essere molto somigliante a Eva Kant, sembra però spiazzata e spiazzante, come fuori parte e non a suo agio; indossa sempre lisce parrucche biondo cenere e mai l’iconico chignon, look che la rende iper-moderna ma poco Eva; inoltre, in linea con lo stile, indossa striminziti e coloratissimi abitini nude-look che la signora dei fumetti, benché assai sensuale, non indossava – tuttalpiù qualche vertiginosa scollatura. I due performano scenette sexy con dei nudi vedo-non-vedo e sembrano più provenire dal mondo del “Barbarella” in contemporanea produzione che dai fumetti delle Sorelle Giussani.

L’ispettore Ginko interpretato da Michel Piccoli fece molto discutere perché per molti fan non somigliava affatto al personaggio mentre le stesse creatrici intervennero in difesa (e ci mancherebbe!) dell’attore dichiarando: “Ginko si riconosce per quello che fa, non per il suo volto” e Michel Piccoli lo fa con grande naturalezza, da attore quotato che interpreta un centrato commissario di polizia in un noir, a prescindere dal criminale cui dà la caccia che solo accidentalmente è l’iconico Diabolik e solo casualmente il film è un concentrato di pop art, e la sua interpretazione pervade l’intero film divenendone il vero protagonista. Il cattivo di Adolfo Celi è da antologia e a lui vanno le battute migliori del film. Riuscitissima anche l’interpretazione dell’attore brillante inglese Terry Thomas nei panni del ridicolo ministro delle finanze, doppiato da Renzo Palmer che poi lo sostituisce in figura sulla poltrona da ministro nel film, mentre l’ex ministro delle finanze si ricicla come ministro dell’interno nelle porte girevoli dei palazzi della politica, nella finzione filmica ispirata alla pratica reale. Claudio Gora è l’immancabile ispettore di polizia sempre al seguito del ministro, mentre in ruoli minori sono da segnalare il camionista raggirato da Eva Kant interpretato da Carlo Croccolo, l’anziana lady vittima del furto clamoroso che è Caterina Boratto, Lidia Biondi come poliziotta e Lucia Modugno come prostituta, mentre l’ex pugile Tiberio Mitri è uno sgherro del cattivo Valmont. La colonna sonora fu firmata da Ennio Morricone ma rimase inedita e venne pubblicata in due CD solo nel 2001; l’unico brano che si affacciò sul mercato discografico fu “Deep Down” come lato B di un 45 giri interpretato da Christy (Maria Cristina Brancucci), il cui lato A era “Amore amore amore amore” tratto dalla colonna sonora del film “Un italiano in America” di e con Alberto Sordi: strano destino per una canzone di Morricone.

Come già detto la forza del film è, oltre che nel ritmo, nella parte visiva e va rivelato che Mario Bava, già creatore di effetti speciali e direttore della fotografia, ha inventato per il film degli straordinari effetti visivi: il famoso rifugio-caverna di Diabolik era in realtà un set vuoto e quando Law arrivò per girare la scena con Eva e la Jaguar, rimase sorpreso non vedendo nulla, così chiese al regista dove fosse la scenografia e Bava lo condusse dietro la macchina da presa mostrandogli cosa aveva preparato: pezzi di plastica e vetro colorati che in proiezione sarebbero diventati la scenografia fisicamente inesistente: se non è genio questo! De Laurentiis fu ovviamente piacevolmente sorpreso da quei semplici ma efficaci effetti visivi a costo prossimo allo zero, e compiaciuto dichiarò: “Dirò alla Paramount che questo set ci è costato 200.000 dollari!“. Anche le scene all’interno dell’appartamento seguono la stessa linea creativa.

Con 200 milioni di budget di cui una parte non spesa, il film incassò appena 265 milioni ma ci fu poi un ulteriore ritorno dal mercato estero dove il film, che piacque molto più che in Italia, uscì col titolo “Danger: Diabolik”. La rivista francese Cahiers du Cinéma scrisse: “Gli effetti anamorfici, gli sbandamenti di ordine percettivo in ogni inquadratura, la costante discontinuità spazio temporale, concorrono alla costruzione di un universo dalla bellezza prorompente, improbabile e autoritaria“. E il severissimo americano Roger Ebert, commentò: “Forse perché è meno pretenzioso, Diabolik ha avuto più successo di Barbarella, ed è anche più divertente“. E concludo col mio ben più modesto parere: è molto più divertente del nuovo Diabolik dei Manetti Bros. Il film è disponibile su YouTube.

Diabolik – dal primo fumetto all’ultimo film

Tanto per cominciare lo pronunciamo tutti, anche nel film, Diabòlik, seguendo l’accentatura dell’italiano diabolico, mentre secondo le intenzioni delle autrici e secondo il sito ufficiale – http://www.diabolik.it – la pronuncia dovrebbe essere Diabolìk seguendo l’accentatura del francese diabolique, ma vabbè, vox populi vox dei.

Creato nel 1962 dalle sorelle Angela e Luciana Giussani, di fatto fu inizialmente ideato da Angela, bella signora milanese che dopo aver calcato le passerelle come modella, sposa l’editore Gino Sansoni e comincia a lavorare nella di lui casa editrice Astoria Edizioni che si era specializzata nelle riviste chiuse, pubblicazioni con la copertina chiusa che contenevano materiale per adulti, racconti foto e fumetti, che per essere lette bisognava tagliarne la copertina: dunque non era possibile darci un’occhiata veloce in edicola e andavano comprate; ovviamente la produzione non era tutta lì e la signora Angela si occupò di una collana per ragazzi, salvo poi volere una propria casa editrice per avviare progetti tutti suoi, e dato che era stata regolarmente assunta si licenziò e con la liquidazione creò l’Astorina, sorta di costola dell’Astoria la cui sede venne creata all’interno del vasto appartamento che già ospitava l’Astoria. La signora comincia l’avventura editoriale pubblicando giochi in busta e importando dagli Stati Uniti un fumetto su un pugile, Big Ben Bolt, al quale poi affianca un nuovo progetto ispirato da un romanzo che aveva trovato in treno, Fantômas, un noir rigorosamente francese pubblicato in avventure seriali su uno spietato criminale abilissimo nei travestimenti e dotato di intelligenza diabolica. Nasce così l’italiano Diabolik, con un nome fantasy che non proviene da nessuna lingua, un anglo-francese maccheronico: da noi, a quell’epoca, aggiungere una kappa significava conferire una nota di pericoloso esotismo a nomi altrimenti troppo italiani e dunque banali; sono gli anni in cui vengono creati anche Satanik e Kriminal, il meno noto Zakimort e a seguire arrivano le parodie: Cattivik di Bonvi e il film “Arriva Dorellik” interpretato dal cantantattore Johnny Dorelli e diretto da Steno.

Il primo numero di Diabolik è interamente scritto da Angela Giussani con i disegni del misterioso Angelo Zarcone detto “il tedesco” perché portava in redazione il biondissimo figlioletto avuto da una relazione con una tedesca, che inoltre andava in giro indossando pantaloncini e zoccoli proprio come un turista tedesco. All’epoca disegnava per l’adulta Astoria il fumetto sexy “Alboromanzo Vamp” e, com’era in uso, gli autori, scrittori e disegnatori, non si firmavano per non essere rintracciati dal fisco; oltre a questo, di Zarcone si sa poco perché era un tipo assai sfuggente: l’editore Sansoni doveva appostarsi sotto la pensione nella quale viveva per costringerlo a farsi consegnare le tavole, puntualmente sempre in ritardo; mentre a sua insaputa stava disegnando anche la nuova creatura d’esordio della di lui consorte, solo che, appena consegnato il lavoro sparì senza lasciare traccia e inutili furono le ricerche. L’albo uscì il 1° novembre del 1962 con la copertina disegnata da Brenno Fiumali, e quando due anni dopo vennero ristampati a grande richiesta i primi 17 numeri, Marchesi ridisegnò il numero uno del misteriosamente scomparso Angelo Zarcone.

Nel 1982, a vent’anni da quel numero uno, le sorelle Giussani ingaggiarono addirittura l’investigatore americano Tom Ponzi per trovarlo, ma senza successo; solo nel 2005 Brenno Fiumali incontra Zarcone, non si sa come e dove, e in seguito ne disegnerà a memoria il volto, mentre la ragione della sua sparizione resterà un mistero, poi indagata dal regista Giancarlo Soldi nel docufilm “Diabolik sono io” in cui si ipotizza un incidente cui è seguita un’amnesia dissociativa – ma oltre le ipotesi la verità resterà un enigma. I Manetti Bros. autori di questo film del 2021, sono presenti come testimonial ed esperti di Diabolik nel docufilm visibile a pagamento su YouTube; qui di seguito il trailer.

Il numero 1

Angela Giussani, con piglio da moderna imprenditrice, condusse un’informale indagine di mercato osservando in prima persona i pendolari alla stazione ferroviaria non lontana da casa: i lavoratori durante lo spostamento leggevano per lo più romanzi gialli, di facile presa; e anche nella rivista allora per eccellenza, Grand Hotel, le storie che avevano più seguito erano quelle a tinte forti, per non dire che i titoli di maggior successo della casa editrice del marito erano quelli con copertine sessualmente allusive e titoli morbosi: dunque erano quelle le tracce su cui muoversi e di suo, la signora, ebbe la brillantissima intuizione del formato tascabile, che entrasse appunto nelle tasche e nelle borse, formato che avrà moltissimi epigoni, di lettura facile e veloce ma che soprattutto doveva costare poco, 150 lire, meno di 2 euro odierni. Il numero 1 non è lo sperato successo commerciale e per il numero 2, pensando anche al risparmio, chiama la sorella Luciana alla co-scrittura della storia che, sparito Zarcone, fa disegnare all’amica modista Kalissa Giacobini. Ed è nel fatidico numero 3, “L’arresto di Diabolik” che entra in scena e nella vita del criminale la fascinosa Eva Kant che deve l’invenzione del suo cognome al filosofo Immanuel Kant su cui Angela aveva fatto la sua prima tesina al diploma magistrale.

È dal 14esimo numero che Luciana viene ingaggiata stabilmente nella creazione degli albi e nella conduzione della casa editrice, e insieme racconteranno di essersi ispirate per la creazione di Diabolik a un fatto di cronaca nera accaduto a Torino nel 1958: un 27enne venne trovato nel suo letto in una pozza di sangue con i segni di diciotto coltellate sul petto; le indagini presero anni creando un mistero che appassionò l’opinione pubblica, fino a che l’assassino non inviò un biglietto al commissariato di polizia in cui si firmava Diabolich, a sua volta probabilmente ispirato dal Diabolic protagonista del romanzo “Uccidevano anche di notte” del giallista Italo Fasan che si firmava Bill Skyline. Il fantomatico Diabolich non fu mai catturato e alla sua vicenda pare si sia ispirato anche l’americano Assassino dello Zodiaco. Realtà e finzione che si ispirano a vicenda, perché forse gli psicopatici assassini hanno bisogno da dare un senso alto, un significato superiore, alle loro azioni, mentre scrittori ed editori hanno bisogno della cruda realtà per rendere più scandalosamente emozionanti le loro storie. E col terzo numero arrivarono i guai giudiziari: l’editrice, per promuovere la sua nuova creatura, ebbe l’idea di distribuire copie omaggio ai ragazzi delle scuole medie, ma questo venne visto come un tentativo di traviare la sana gioventù; ne seguì un processo nel quale Angela Giussani fu assolta perché nella copertina Diabolik compariva con i polsi incatenati e davanti a una ghigliottina a monito per le sue indicibili colpe. Resta da svelare come fu creato il nome dell’Ispettore Ginko: fu semplicemente inserita una K, tanto per non cambiare, all’interno del nome Gino, che era Gino Sansoni marito di Angela.

Il primo film su Diabolik è del 1967 diretto dal maestro degli effetti speciali Mario Bava, che non fu un gran successo commerciale ma che negli anni è divenuto, come spesso accade, un cult. Bisogna aspettare più di mezzo secolo perché un’altra produzione cinematografica si metta in moto su idea dei Manetti Bros., Marco e Antonio, anche direttori della fotografia, produttori e sceneggiatori oltre che registi: registi di genere, appassionati di cultura pop anni ’70 e di horror misto a un gusto dissacrante che vira nella commedia grottesca, un po’ alla Quentin Tarantino de noantri, e nelle loro prime produzioni mischiano generi che tutti insieme non hanno fatto presa al botteghino anche perché i nostri, pur essendo dei cineasti rifiniti, non hanno il genio e la visione dei maestri. E questo loro Diabolik ne è la prova.

Scrivono la sceneggiatura con Michelangelo La Neve, loro amico e assiduo collaboratore che fu anche – fu perché è morto 62enne in questo 2022 – sceneggiatore di fumetti come Dylan Dog, Martin Mystère oltre che Diabolik. Nel cast la scelta più infelice, anzi di più, disastrosa, è quella di Luca Marinelli che interpreta il suo Diabolik leggendolo in chiave psicoanalitica e dimenticandosi di avere a che fare con una maschera, un personaggio da fumetto nato nei primi anni ’60, a cui la profondità psicologica è sconosciuta e aliena; ne fa un lugubre psicopatico che a tratti si muove anche come un automa, e gli manca del tutto la caratteristica primaria: quel fascino magnetico foriero di tanti pericoli che il nostro uomo mascherato dagli occhi di ghiaccio possiede; e a dirla tutta Marinelli è anche poco somigliante e appare anche ridicola l’attaccatura a punta sulla fronte. Più centrati e somiglianti i comprimari: Miriam Leone è fascinosa come abbiamo sempre percepito Eva Kant, ma il lavoro migliore lo fa Valerio Mastrandrea come Ginko perché ha dalla sua una recitazione asciutta che non cerca a vuoto facili effetti che non ci sono. Miriam Leone passa l’esame perché fa quello che le riesce meglio, essere credibile, senza però mai arrivare a una vera interpretazione da attrice raffinata che controlla i suoi mezzi espressivi inserendo nel personaggio sfumature che non ha: è bella e fa la bella che sa essere ambigua e seducente, tutto il resto non le compete. Basta guardare l’interpretazione del cameo di Claudia Gerini per capire di che parlo, una vera attrice che interpreta – lei sì – una maschera in commedia, un personaggio inesistente creato da Eva Kant con una maschera di lattice: una sciura milanese con la R moscia che accende lo schermo per la breve durata del suo intervento, e quando Eva Kant si leva la maschera e torna Miriam Leone finisce l’incanto.

Il film, che segue il plot del fumetto n° 3, è un buon prodotto ma non un capolavoro, laddove ai Bros. non è dato creare capolavori: manca un’idea specifica, una chiave di lettura autorale, e si rimane nel film di genere, a tratti anche noioso perché troppo parlato senza avere dialoghi particolarmente brillanti. Se i Fratelli avessero saputo azzardare avrebbero potuto realizzare un film in un tagliente bianco e nero per richiamarsi alle tavole originali del fumetto o, sempre in quest’ottica, montare una serie di inquadrature ferme come fosse appunto una sequenza di tavole disegnate, salvo creare un movimento esasperato nelle scene di azione – invece muovono la cinepresa come se stessero girando né più né meno che un film per la tivù.

Notevolissima, invece, la colonna sonora degli storici collaboratori dei fratelli registi, Pivio (Roberto Pischiutta) e Aldo De Scalzi, che in ogni circostanza del film creano sempre la giusta atmosfera in puro stile anni Sessanta; si aggiungono due canzoni originali di Manuel Agnelli che è l’unico a vincere su 11 candidature ai David di Donatello. Ma sono notevoli anche l’ambientazione tutta in stile italiano, come nei fumetti, con scritte e insegne in italiano nonostante la collocazione sia nella fantasiosa Clerville: un pastiche fantasy pensato e voluto dalle Sorelle Giussani, che colloca le azioni in un immaginario paese estero senza allontanarsi dalla cultura popolare italiana; scenografia di Noemi Marchica, costumi di Ginevra De Carolis, trucco e parrucco di Francesca Lodoli.

Fra gli altri interpreti il ruolo più corposo, quello dell’ambiguo vice ministro innamorato di Eva Kant, è andato a un altro fedelissimo dei fratelli, l’Alessandro Roia (alterimenti Roja) assurto alla notorietà come Dandi nella serie tv “Romanzo criminale” e, proprio perché i Fratelli non pensano a dirigere gli attori, anche lui fa del suo meglio senza convincere del tutto nonostante il personaggio sia molto ben scritto e accattivante. Centrati, invece, tutti gli altri ruoli assegnati a caratteristi di lungo corso che nei loro curriculum hanno anche dei ruoli da protagonisti: Serena Rossi è l’ignara prima compagna di Diabolik che nel fumetto finirà al manicomio, Vanessa Scalera è la compiacente segretaria del vice ministro e Luca Di Giovanni è il cameriere di cui Diabolik indossa la maschera e che è costretto a replicare l’automa a cui Luca Marinelli ha dato vita (si fa per dire!); Roberto Citran è l’azzimato direttore d’albergo, Antonino Iuorio l’ebete direttore del carcere, Daniela Piperno l’adeguata (dis)funzionale direttrice di banca; Urbano Barberini nel piccolo ruolo di un politicante e Pier Giorgio Bellocchio (figlio del regista Marco) interpreta un poliziotto nel tempo libero che gli rimane dall’impegno principale, quello di produttore esecutivo per la Mompracem dei Manetti e per Rai Cinema.

Anche questo film è incappato nelle chiusure della pandemia: la prima uscita era prevista per il 31 dicembre 2020 ed è stata posticipata di un anno, e nonostante la distribuzione accidentata ha avuto ottimi incassi, tanto da far mettere in cantiere addirittura due sequel che gli autori hanno pensato durante il lockdown. Luca Marinelli però è fuori gioco, non si sa se per coscienziosa scelta personale o scelta della produzione: la versione ufficiale è che aveva altri impegni. E a indossare la calzamaglia di Diabolik sarà l’italiano naturalizzato canadese Giacomo Gianniotti che è assurto alla notorietà come dottor Andrew DeLuca nella serie “Grey’s Anatomy” dove era doppiato da Marco Vivio; ma dato che Gianniotti parla anche l’italiano, sentiremo la sua vera voce nei Diabolik numero due e tre? A proposito di voci: quelle di Marinelli e Mastrandrea hanno all’inizio un impatto negativo perché troppo leggere: siamo abituati, viziati, a sentire i personaggi in calzamaglia e in genere quelli iconici con le voci pastose e profonde dei nostri doppiatori, anche riconoscibili di film in film e di serie in serie; ma mentre Mastrandrea nel corso del film risulta accettabile perché convincente è la sua interpretazione, il tenorile biascichio di questo primo Diabolik risulta davvero penoso: archiviato. E ricordandoci che è del 1968 il primo film su Diabolik diretto da Mario Bava, per il futuro non ci resta che attendere.

Giacomo Gianniotti

Metti, una sera a cena – per ricordare Lino Capolicchio

La scorsa settimana se n’è andato dopo una lunga malattia anche Lino Capolicchio che nella memoria collettiva cinematografica di chi ha superato gli anta è l’eterno attor giovane imbronciato in cui si sono immedesimati quelli che oggi vengono definiti nerd e che, volente o nolente, è diventato anche oggetto di una discreta fantasia omoerotica, discreta come discreto e schivo è stato lui, attore protagonista di film importanti ma sempre ai margini, più prossimo alla fuga dietro le quinte che al centro della scena. A innestare su di lui un fascino ambiguo è certamente questo film dove interpreta un sedicente contestatore, un po’ rivoluzionario e un po’ marchetta, e lo stare quasi sempre nudo avvolto fra le lenzuola sembra essere la sua condizione più naturale mentre ospita nel suo letto sia donne che uomini.

Nato in provincia di Bolzano cresce a Torino dove comincia a frequentare il palcoscenico con Massimo Scaglione, e appurata la sua passione si trasferisce a Roma dove frequenta l’Accademia Silvio D’Amico, e subito dopo è a Milano dove lavora con Giorgio Strehler al Piccolo; ottenendo un personale successo di pubblico e critica ottiene un ruolo nello sceneggiato Rai “Il Conte di Montecristo” e poi nel fatidico 1968 è protagonista del film arrabbiato opera prima di Roberto Faenza “Escalation” che volendo essere un’allegoria della società risulta però soltanto un pasticcio grottesco, ma per Lino è soltanto l’inizio di una carriera del cui andamento però, quando tirerà le somme, dirà che non è andata come voleva. Senza considerare un piccolissimo ruolo non accreditato in “La bisbetica domata” di Franco Zeffirelli, “Metti, una sera a cena” è il suo terzo film, sempre da protagonista; ed è dell’anno dopo “Il giardino dei Finzi Contini” di Vittorio De Sica che vincerà l’Oscar come miglior film straniero.

A tal proposito una curiosità commerciale: il film di De Sica era nel pacchetto Sky Cinema – pacchetto a pagamento, per chi non conosce quel piano commerciale, dove sono visibili centinaia di film senza costo aggiuntivo; dalla morte di Capolicchio, con l’improvvisa impennata dei download, il titolo è passato a pagamento nel pacchetto Sky Primafila che, come suggerisce il nome, contiene i titoli appena dismessi dalle sale, una sorta di prima visione casalinga: nello specifico una pratica commerciale scorretta che Sky ha voluto offrire ai suoi abbonati.

Dopo l’ambiguo Ric di “Metti, una sera a cena” e la bella parentesi del film di De Sica, Lino gira una serie di film a sfondo sexy-perverso – sono gli anni della liberazione sessuale e il cinema cavalca l’onda – fino al successivo incontro fatale con Pupi Avati nel 1976 con “La casa dalle finestre che ridono” ed è l’inizio di un proficuo sodalizio. Come dirà in un’intervista, Avati come Strehler hanno rappresentato per lui la figura paterna che gli era mancata nell’infanzia. Il suo ultimo film è “Il signor diavolo” di Pupi Avati, del 2019.

Il film è la trasposizione a tambur battente della commedia che ha avuto un clamoroso successo al Teatro Eliseo di Roma dove è stata replicata per ben due anni dalla Compagnia dei Giovani con regia di Giorgio De Lullo e interpretata da Romolo Valli, Rossella Falk, Carlo Giuffrè, Elsa Albani e Umberto Orsini. La commedia conclude una trilogia scritta per quella compagnia e iniziata con “D’amore si muore”, 1958, messa in film nel 1972 con la regia, l’unica, di Carlo Carunchio, già assistente di Patroni Griffi; proseguita con “Anima nera”, 1960, messa in film nel ’62 da Roberto Rossellini; e conclusa appunto con “Metti, una sera a cena” che lo stesso autore dirigerà per lo schermo. Una trilogia che mette in scena i complicati rapporti sentimentali all’interno di coppie, scoppiate o allargate o che diventano triplette e dove si moltiplicano nel numero chiuso tutte le varianti possibili scavalcando i generi e il tanto decantato comune senso del pudore: i suoi protagonisti sono tutti spudorati e cinici, e coltivano l’amoralità come unica via possibile di espressione sentimentale e sessuale.

Il gioco delle parti che mette in scena Giuseppe Patroni Griffi è quello che si svolge all’interno di una società alto borghese, la stessa da cui lui proviene con ascendenze nobili in decadimento; i suoi protagonisti sono quelli del suo stesso mondo, attori scrittori commediografi spesso con latenze omosessuali o messi a confronto con l’omosessuale di turno, dove l’omosessualità – quella dichiarata dell’autore – diventa l’unica chiave di lettura di una società in cui gli eterosessuali – in una diffusa quanto errata visione omocentrica – non sono altro che froci latenti che aspettano di essere liberati alla gaiezza della vita, anzi no perché la vita è sempre cupa amara contorta perversa e non c’è salvezza per nessuno.

Ho qui a lungo precedentemente parlato di Pier Paolo Pasolini, omosessuale nevrotico e introverso che è stato costretto a esibire le sue pulsioni nelle aule dei tribunali e nei processi pubblici perché ahilui amava scandalizzare i minorenni, e che ha reagito facendo dell’omosessualità un manifesto politico. Patroni Griffi è invece un omosessuale di un’altra specie più diffusa, quella apparentemente pacificata con se stessa, ma che in realtà volendo omosessualizzare il mondo intero dichiara – ancora una volta – il proprio senso di inadeguatezza, di incapacità a gestire serenamente la propria omosessualità sempre vissuta come diversità, il cui senso sarebbe: se anche gli etero sono un po’ gay siamo tutti un po’ più uguali…

Dal punto di vista drammaturgico la cosa funziona perché spesso il teatro e il cinema sintetizzano e a volte anticipano ciò che sta per accadere nella vita reale: alla fine degli anni ’60 la borghesia coi suoi riti è al collasso e le perversioni di Patroni Griffi diventano parabole sociali, oltre a essere appetibili esercizi di stile per attori in carriera in cerca di novità. L’autore ha debuttato come regista cinematografico nel 1962 con “Il mare” dove racconta di un attore in vacanza, Umberto Orsini, indeciso fra una seducente donna e un seduttivo giovanotto. Messo da parte Orsini che interpreta lo scandaloso Ric nella messa in scena teatrale ma che non è e mai sarà un divo cinematografico, mette insieme con i produttori un cast internazionale per la sceneggiatura scritta col suo aiuto Carlo Carunchio e soprattutto col giovane Dario Argento che l’anno dopo avrebbe esordito come regista con “L’uccello dalle piume di cristallo”; la sceneggiatura a sei mani dà respiro alla scrittura teatrale con scene in esterni pensate come flash-back che col creativo montaggio di Franco Arcalli conferiscono al film una marcia in più e un ritmo assai intrigante.

Producono Giovanni Bertolucci, cugino dei fratelli registi Bernardo e Giuseppe, e soprattutto Marina Cicogna (Mozzoni Volpi di Misurata) figlia di un conte e di una contessa che in quegli anni è attivissima come lesbica dichiarata nella dolce vita romana, la quale durante un viaggio è stata folgorata dalla bellezza androgina di una hostess brasiliana, Florinda Bolkan, e se la porta in vacanza a Ischia: è l’inizio di un sodalizio umano e professionale che durerà più di vent’anni. Introduce la ragazza nel jet set artistico intellettuale della capitale e Florinda, che oltre al portoghese natio parla inglese francese e italiano, è già pronta per il gran salto artistico e gira tre film, uno dei quali è prodotto da Bino Cicogna, fratello di Marina, poco prima che fratello e sorella fondassero insieme la Euro International Film con la quale distribuirono questo “Metti, una sera a cena”.

Florinda Bolkan si rivela all’altezza delle aspettative con vere doti attoriali tanto da vincere con questa interpretazione la Grolla d’Oro come migliore attrice esordiente (si sono dimenticati gli altri tre film), una Targa d’Oro ai David di Donatello, e altri premi vincerà con altre interpretazioni; qui è doppiata da Livia Giampalmo. Immediatamente, dato il successo del film e della colonna sonora di Ennio Morricone che vinse il Nastro d’Argento, incise una canzone con le parole scritte da Patroni Griffi. E per non farsi mancare niente recitò il suo ruolo anche in una riedizione teatrale con regia di Aldo Terlizzi e nel cast Michele Placido, Remo Girone, Fiorenza Marchegiani e Fabrizio Bentivoglio; e a seguire Patroni Griffi la diresse in un’edizione dello “Zia Vanja” di Cechov.

Per il ruolo di Max, l’attore bisessuale, fu inizialmente scritturato nientemeno che Gian Maria Volonté che firmò un contratto record di 60 milioni di lire, salvo poi pentirsi durante le riprese: temeva che quel ruolo rovinasse la sua immagine di attore impegnato e ruppe il contratto restituendo i soldi, ma fu citato comunque in giudizio per avere fermato la produzione; dichiarò che aveva temuto di diventare “uno strumento nelle mani di persone che perseguono interessi che non sono i miei”. Peccato, sarebbe stato interessante vederlo in quel ruolo. Ruolo per il quale fu scritturato l’emergente italoamericano Tony Musante che in patria si era fatto notare con ruoli da teppista fra cinema e tv; fu importato in Italia per lo spaghetti-western di Sergio Corbucci “Il mercenario” e con questo ruolo in “Metti, una sera cena” si impose all’attenzione di critica, pubblico e cineasti. Qui è doppiato dal mai compianto abbastanza Luigi Vannucchi. Per i cast-insalate in uso all’epoca gli altri due ruoli andarono ai francesi Jean-Louis Trintignant (doppiato da Cesare Barbetti) e Annie Girardot (doppiata da Paila Pavese) che stranamente, rispetto agli altri interpreti, ha il nome sotto il titolo pur avendo un ruolo alla pari. Ne consegue che alla fine Lino Capolicchio è l’unico italiano di un quintetto di gran classe impegnato in ruoli che risultano vagamente sgradevoli e per i quali, cinici e autoreferenziali, si fatica a provare simpatia. Con l’aggravante che i dialoghi rimangono troppo letterari col risultato che il film, nonostante gli accorgimenti di sceneggiatura e montaggio, resta sempre troppo teatrale, con personaggi talmente carichi di simbolismi e di pensieri assoluti da restare estranei alla realtà.

Giustamente definito d’autore per la sua provenienza, il film fu un clamoroso successo con quella scena di bacio a tre che gli procurò guai con la censura e consequenzialmente code al botteghino e cambio di classificazione: da film d’autore venne proclamato film erotico e inserito per acclamazione in quel filone allora emergente. Le new entries Florinda Bolkan e Tony Musante divennero delle star del nostro cinema d’autore e lavorarono di nuovo insieme in “Anonimo veneziano”, film d’esordio come regista di Enrico Maria Salerno, e in “La gabbia” di nuovo con Patroni Griffi. Musante morì 77enne nel 2013 per complicazioni da un intervento chirurgico, mentre l’ottantunenne Florinda Bolkan è oggi una bella signora pensionata che ha diradato la sua presenza sugli schermi e il cui ultimo ruolo è una piccola partecipazione nel film d’esordio di Ginevra Elkann “Magari” del 2019. Di Lino Capolicchio resta da dire che con quel film divenne, suo malgrado e malgrado il suo fisico mingherlino, un sex symbol, ruolo in cui lui, attore di spessore e con altri obiettivi, non si riconosceva e per il quale ha dichiarato di avere anche ricevuto non desiderate attenzioni omoerotiche. Suo figlio Tommaso è oggi uno sceneggiatore.

Il Vangelo secondo Matteo

1964. Dopo le aspre polemiche e la denuncia per vilipendio alla religione del suo cortometraggio “La ricotta” che compone il film “Ro.Go.Pa.G.”, Pier Paolo Pasolini torna nelle sale con un film intensamente religioso, frutto di meditazioni personali che risalgono a quando adolescente era stato tentato dalla via ecclesiale – segno di una tormentata e intensa vita interiore – poi dirazzata nel comunismo più spinto nella sua presa di coscienza sociale secondo la quale metteva gli ultimi al centro del suo pensiero speculativo: dirazzata perché era un’epoca in cui dichiararsi comunisti significava automaticamente dirsi anche atei. Era l’epoca delle barricate ideologiche perché ancora bruciavano le ferite del fascismo che i quarantenni come Pasolini avevano vissuto sulla loro pelle, un fascismo nero e cattivo che era stato rimpiazzato dal totalitarismo del fascismo bianco accogliente e rassicurante della Democrazia Cristiana, una democrazia che ispirata appunto al cristianesimo metteva al bando e perseguitava anche con l’uso della forza qualsiasi pensiero che avesse radici a oriente, nel comunismo russo e cinese: erano gli anni in cui si temeva che i cosacchi venissero ad abbeverare i loro cavalli in San Pietro, il libero stato del Vaticano che eterodirigeva (e ancora lo fa, anche se a fatica) lo stato italiano.

Ma va considerato che la Democrazia sedicente Cristiana era in realtà soltanto cattolica, sapendo che fra cristianesimo e cattolicesimo ci sono delle sostanziali differenze che non sfuggivano certo all’attenzione di Pasolini che, da questo punto di vista, si poteva definire più cristiano dei sedicenti cristiani di fede cattolica: Cristiano è colui che segue gli insegnamenti del Cristo e sono Cristiani anche i Protestanti e gli Ortodossi che non riconoscono l’autorità del Papa cattolico dato che il Cattolicesimo è una delle tante confessioni che sono nate nel nome di Cristo, la più pervasiva ma non l’unica e assoluta; e laddove il Cattolicesimo si è imposto come una sovrastruttura politica con le sue classi dirigenti con propri palazzi del potere che nulla hanno da invidiare ai palazzi reali – il Cristianesimo, quello puro, si può vedere come la religione dei poveri e degli ultimi a cui il Cristo ha dato attenzione e voce: quel Cristo che ha cacciato i mercanti dal tempio è qui Pasolini che mette i cattolici di fronte a quella stessa scomodissima realtà.

Elsa Morante, Pasolini, Bini e Margherita Caruso e Marcello Morante come Maria e Giuseppe

Pasolini aveva dichiarato: “La mia idea è questa: seguire punto per punto il Vangelo secondo Matteo, senza farne una sceneggiatura o riduzione. Tradurlo fedelmente in immagini, seguendone senza una omissione o un’aggiunta il racconto. Anche i dialoghi dovrebbero essere rigorosamente quelli di San Matteo, senza nemmeno una frase di spiegazione o di raccordo: perché nessuna immagine o nessuna parola inserita potrà mai essere all’altezza poetica del testo. E’ quest’altezza poetica che così ansiosamente mi ispira. Ed è un’opera di poesia che io voglio fare. Non un’opera religiosa nel senso corrente del termine, né un’opera in qualche modo ideologica. In parole molto semplici e povere: io non credo che Cristo sia figlio di Dio, perché non sono credente, almeno nella coscienza. Ma credo che Cristo sia divino: credo cioè che in lui l’umanità sia così alta, rigorosa, ideale da andare al di là dei comuni termini dell’umanità. Per questo dico ‘poesia’: strumento irrazionale per esprimere questo mio sentimento irrazionale per Cristo.”

Enrique Irazoqui, Pasolini e accovacciato sul fondo l’aiuto regista Maurizio Lucidi

Secondo il suo stile compone un film scarno con la fotografia in bianco e nero del fidato Tonino Delli Colli, fatto di molti primi piani che si alternano a campi lunghi e lunghissimi, e occasionali carrellate a scoprire i soggetti fermi e fissi come in posa per dei ritratti o a seguire i movimenti lunghi delle processioni. Scrive da solo la sceneggiatura dal Vangelo di Matteo senza aggiungere nulla, e da quel punto di vista è inattaccabile; però non sa rinunciare alla sua visione delle cose e nel primo film che consegna al produttore Alfredo Bini non ci sono i miracoli né la resurrezione perché il suo film intendeva raccontare solo un uomo, l’uomo Gesù, che spogliato dai fenomeni soprannaturali è soltanto trascinatore di quelle masse cui raccontava una nuova verità: per Pasolini il cosiddetto Verbo di Cristo aveva più valore della parte più fantastica e accattivante del racconto. Il produttore invitò alla visione privata il suo amico Monsignor Francesco Angelicchio, che da Giovanni XXIII era stato messo a dirigere il Centro Cattolico Cinematografico, ruolo che lui svolgeva senza piglio censorio ma in modo amichevole ascoltava le persone per meglio aiutarle a indirizzare i loro messaggi, e per questo era diventato intimo di molte personalità del mondo cinematografico fra cui Fellini, Rossellini, Olmi oltre ai più barricadieri Liliana Cavani e Pasolini appunto. Qui di seguito l’intervista Rai su quell’incontro.

Pasolini aveva scelto come set naturali la Basilicata e la Calabria, come anche le desertiche pendici sassose dell’Etna per la sequenza della tentazione del demonio, perché la Palestina, dove aveva fatto un sopralluogo, si era troppo occidentalizzata e lì anche le eventuali comparse non erano più credibili, lui che cercava l’arcaicità e riusciva a trovarla solo nel sottoproletariato, la bassa manovalanza, gli analfabeti, e trova volti segnati, di grande efficacia espressiva anche laddove non esprimono nulla perché il segno è nelle rughe, nei denti poco curati, negli sguardi attoniti e inconsapevoli, e a tutti lui dedica un primo piano. In questo senso è magistrale la sua ricerca dei volti, come lo fu quella di Fellini, ma Fellini truccava e vestiva i suoi figuranti per farli diventare grottescamente simili ai pupazzi che disegnava mentre Pasolini li lascia tragicamente integri.

Così, dopo la chiacchierata con Checco Angelicchio, tornò ai Sassi di Matera e rimise in piedi i set, cercando fra i locali dei veri storpi: anche i miracoli sono quanto di più scarno si possa cinematograficamente immaginare ma sono in linea, e dunque efficaci, col racconto fortemente voluto dall’autore che, va svelato, aveva raggelato i primi entusiasmi del produttore che si era immaginato un kolossal in Technicolor addirittura con Burt Lancaster protagonista, una roba hollywoodiana insomma, che l’anno dopo sarebbe arrivata puntuale con “La più grande storia mai raccontata” di George Stevens. E nonostante il beneplacito del monsignore e dunque del Vaticano, siccome c’erano e sempre ci sono quelli più realisti del re, il film scatenò sulle pagine dei giornali aspri confronti fra sostenitori e detrattori fra i quali si riaffacciarono quelli che ancora gridavano allo scandalo e di nuovo invocavano il vilipendio: l’animosità non era contro il film ma contro Pasolini in quanto scomodissimo intellettuale. Ambiguo fu il giudizio dell’Unità: “Il nostro cineasta ha soltanto composto il più bel film su Cristo che sia stato fatto finora, e probabilmente il più sincero che egli potesse concepire. Di entrambe le cose gli va dato obiettivamente, ma non entusiasticamente atto”: da notare il riduttivo soltanto e la formale e obiettiva mancanza di entusiasmo. Misurato fu il giudizio dell’organo di stampa vaticano, l’Osservatore Romano: “Fedele al racconto non all’ispirazione del Vangelo” che però alla fine chiosa: “Il più bel film su Gesù di tutti i tempi” consegnando ai posteri ma soprattutto ai contemporanei un giudizio positivo che varrà al film il Leone d’Argento Gran Premio della Giuria a Venezia, i Nastri d’Argento alla regia, alla fotografia e ai costumi davvero molto belli di Danilo Donati, e le candidature all’Oscar sempre per i costumi, la scenografia di Dante Ferretti e Luigi Scaccianoce e la colonna sonora con le musiche originali di Luis Bacalov oltre al repertorio classico tanto caro a Pasolini.

Il ruolo di Gesù lo offre a un diciannovenne catalano, Enrique Irazoqui, che per le sue origini italiane dal lato materno, era stato mandato dal sindacato universitario clandestino di Barcellona presso un’organizzazione di studenti fiorentini in cerca di aiuti economici per coprire un grosso debito che gli studenti antifranchisti avevano accumulato con i tipografi della loro città. Da Firenze la raccolta fondi universitaria si spostò a Roma e lì Enrique conobbe Pasolini e la Morante in casa di lui che fu subito intrigato dal suo viso e gli propose il ruolo, telefonando di corsa al produttore: “Ho trovato Gesù! Gesù è in casa mia!” Lo studente però aveva rifiutato l’offerta perché in contrasto con la sua ideologia, ma fu convinto da Elsa Morante e dal produttore Alfredo Bini che gli indicarono la via: interpretare un Gesù gramsciano, politicamente vicino agli ultimi – ma anche l’entità del compenso fu determinante all’accettazione del ruolo, compenso che versò interamente nelle casse del movimento studentesco antifranchista. Rientrato in patria fu punito dal regime per avere interpretato un film di “propaganda comunista” col ritiro del passaporto e l’espulsione dall’università. Divenuto a suo modo una estrella del cine girò altri due lungometraggi della scuola oggi detta barcellonese, entrambi con l’italiana in trasferta Serena Vergano già interprete di “Una vita violenta” di Heusch-Rondi e dunque appartenente a quella che oggi possiamo definire la factory di Pasolini per parafrasare quella newyorkese di Andy Warhol. Poi Enrique si spostò a Parigi per laurearsi in economia e successivamente andò negli Stati Uniti dove conseguì una seconda laurea in letteratura spagnola, materia che insegnò nelle università statunitensi. Ma sin da bambino era stato anche un appassionato di scacchi, tanto che nel 1968 era riuscito a battere il numero tre della squadra olimpica francese, e in seguito, non trovando degni avversari nelle università, cominciò a giocare contro un computer – era l’epoca in cui quelle macchine cominciavano a diffondersi nelle università americane – ma non ritenendolo all’altezza predispose partite fra due pc, apportando così importanti migliorie alle capacità del dispositivo. Nel 2011 è tornato in Italia per una mostra dedicata a Pasolini e in quell’occasione ha ricevuto la cittadinanza onoraria di Matera; ha dichiarato che Pasolini avrebbe voluto fare un film da un suo testo intitolato “Il padre selvaggio” solo a condizione di averlo ancora come protagonista, ma Irazoqui aveva rifiutato dicendosi ormai più interessato a fare la rivoluzione che il cinema. Negli ultimi anni è tornato però davanti alla macchina da presa, prima nel video musicale di Vinicio Capossela “Il povero Cristo” interpretato anche da Marcello Fonte e Rossella Brescia, e poi nel progetto multimediale materano, film più performance dal vivo, di Milo Rau “Il nuovo vangelo”. È morto 76enne nel 2020 ed è ancora inedito il suo ultimo film, “Cenestesia” di Joan Vall Karsunke, ispirato all’omonimo e semi-autobiografico libro di José María Nunes.

L’interpretazione del ragazzo è intensa e convincente ma necessitando di essere doppiato viene chiamato a dargli voce Enrico Maria Salerno che è di 22 anni più anziano e questo si sente, la voce non corrisponde al volto in quello che in gergo si dice voce scollata; ma c’è di buono che stavolta il lavoro del professionista svolto nel buio della saletta di registrazione viene riconosciuto sin nei titoli di testa. Il resto del cast, come detto, è formato dalla manovalanza locale e dagli intellettuali amici di Pasolini che ormai fanno la fila per apparire nei suoi film. In testa c’è la maschera tragica di Susanna Pasolini, madre dell’autore nel ruolo della vecchia dolente Maria.

La giovane Maria è interpretata dalla studentessa 14enne Margherita Caruso, che subito dopo avere preso parte al film ricevette una proposta dal già hollywoodiano Dino De Laurentiis per interpretare una nuora di Noè in “La Bibbia” di John Huston; Margherita, che nel frattempo è divenuta perito chimico e vive a Milano, racconta 50 anni dopo che a scattarle alcune fotografie ai giardini comunali fu il padre, ma non era il book professionale che avevano richiesto gli americani e la cosa finì lì. L’ex ragazzina racconta che Pasolini era giunto da quelle parti accompagnato dal 16enne Ninetto Davoli: i due già si frequentavano a Roma ma Ninetto era nativo proprio della Calabria e gli avrebbe fatto da gancio con i locali; nello specifico si era avvicinato alla ragazzina guardandola con fare ammiccante e lei, abbassando lo sguardo intimidita era tornata nella comitiva dei suoi amici: quello era stato il primo provino. Subito dopo si sentì bussare su una spalla: era lui, Pasolini, che le dice: “Mi conosci?”. “No”, aveva risposto lei. “Sono Pasolini, ti piacerebbe fare un film?”. Ci fu un boato tra gli amici, più per la parola film che per il nome Pasolini. I provini lui li aveva fatti così, per strada: mandava Ninetto Davoli a fare domande provocatorie a quelli che aveva puntato e se ne stava in disparte a guardare come reagivano, come si muovevano: li sceglieva per l’espressività e poi sul set si lavorava senza copione, diceva all’ultimo momento quello che bisognava fare. “Ma io ho fatto un provino anche a casa sua; c’erano Morante, Moravia, Siciliano, Maraini.” Anche suo padre fece il figurante e interpretò il fariseo che dice del Cristo: “Dobbiamo trovare un modo per farlo morire”.

L’importante ruolo di Giuseppe va invece allo scrittore Marcello Morante fratello della più nota Elsa Morante già carcerata in “Accattone”, e padre dell’attrice Laura Morante, qui doppiato da Gianni Bonagura. Un altro scrittore e poeta, Mario Socrate, interpreta il Battista doppiato da Pino Locchi e a discesa tutti gli altri ruoli, grandi e piccoli, interpretati da intellettuali e affini: Natalia Ginzburg è Maria di Betania e Enzo Siciliano è Simone; Giacomo Morante, figlio di Marcello e fratello di Laura, interpreta Giovanni l’Apostolo; il filosofo Giorgio Agamben è Filippo; lo scrittore e giornalista Francesco Leonetti è Erode Antipa; il poeta scrittore pittore Alfonso Gatto è Andrea; il principe palermitano Alessandro Tasca di Cutò è Ponzio Pilato; il contadino partigiano e rivoluzionario intellettuale Rosario Migale è Tommaso; il poeta scrittore argentino naturalizzato italiano Rodolfo Wilcock è Caifa; gli attori professionisti Elio Spaziani e Renato Terra interpretano Taddeo e un fariseo; Amerigo Bevilacqua da borgataro di “Accattone” assurge al ruolo di Erode il Grande; lo studente 17enne Luigi Barbini è Giacomo di Zebedeo, e dopo quest’esperienza continua per altri pochi anni la carriera di attore girando anche una mezza dozzina di film di nuovo con Pasolini ma anche con un piccolo ruolo in “Giulietta degli spiriti” di Fellini e un paio di peplum, ma alla fine ha lasciato la carriera cinematografica per laurearsi in Teologia; la 12enne Paola Tedesco debutta come Salomè e la notorietà le arriva in tv come valletta di Pippo Baudo, cui seguirà una carriera di attrice in film di secondo piano; Rossana Di Rocco è l’angelo, e se lo aggiudicherà lei il ruolo della nuora di Noè in “La Bibbia” che era sfuggito a Margherita Caruso, e avrà anche una particina nel film di Alessandro Blasetti con Walter Chiari “Io… io… io… e gli altri” prima di tornare alla vita cosiddetta civile. Anche Ninetto Davoli debutta come pastorello e subito dopo sarà coprotagonista con Totò in “Uccellacci e uccellini”: da notare che fra i giovani proletari lanciati da Pasolini lui è l’unico che appare sempre apertamente sorridente, nelle fotografie in posa gli altri hanno molto più spesso uno sguardo sfuggente o un sorriso amaro o di sola circostanza: già in quello sguardo aperto e senza vergogna si vede che sarà vicino a Pier Paolo fino alla fine.

“Il miglior film su Cristo, per me, è Il Vangelo secondo Matteo, di Pasolini. Quando ero giovane, volevo fare una versione contemporanea della storia di Cristo ambientata nelle case popolari e per le strade del centro di New York. Ma quando ho visto il film di Pasolini, ho capito che quel film era già stato fatto.” Martin Scorsese. Su YouTube il film completo.