Archivio mensile:febbraio 2022

Adua e le compagne

Nel febbraio del 1958, dunque esattamente 64 anni fa, veniva approvata quella che verrà ricordata per sempre come Legge Merlin, promossa dalla 71enne senatrice Lina (Angela) Merlin, che è stata la prima donna ad essere eletta nel nostro senato fra le fila del Partito Socialista Italiano a cui si era iscritta nel 1919, in un periodo storico in cui l’Italia procedeva verso l’opposto fronte del nascente fascismo. Lina era una maestrina che viveva ed insegnava nel natio Veneto, di solida formazione cattolica ma che aveva anche avuto l’opportunità di studiare a Grenoble, conseguendo una laurea in letteratura francese. Viaggiare e studiare all’estero, all’epoca, non era una cosa alla portata di tutte le ragazze, e tornata a insegnare in Italia si era portata dietro un suo personale bagaglio di differenti riferimenti culturali insieme a una diversa apertura mentale: adesso guardava l’ambiente in cui viveva con occhi nuovi e cominciava a rendersi conto della condizione in cui vivevano le donne dei suoi luoghi e del suo tempo e in particolare, da cattolica osservante, cominciò a non tollerare l’ipocrisia di tanti padri di famiglia che, benché anch’essi ferventi cattolici, ben tolleravano e frequentavano le case di tolleranza, sentite nella percezione maschile dell’epoca come un luogo piacevole in cui svagarsi, e dove i giovani futuri padri di famiglia potevano fare le loro prime esperienze sessuali in tutta sicurezza, e continuare a tornarci anche da sposati, mentre per le loro spose era impensabile avere rapporti sessuali fuori dal matrimonio. Qui potrebbero anche entrare in campo ragionamenti e distinguo di carattere antropologico e sociologico, ma restiamo sul fatto specifico e su Lina Merlin che, novella socialista, comincia a collaborare col periodico “La difesa delle lavoratrici” di cui poi assumerà la direzione, e soprattutto diviene stretta collaboratrice del deputato socialista Giacomo Matteotti a cui comincia a riferire delle violenze messe in atto da squadroni fascisti nel suo padovano.

Nel 1924 Giacomo Matteotti fu rapito e ucciso dai fascisti e per la sua discepola i tempi si fanno duri: in meno di due anni venne arrestata cinque volte e poi venne pure licenziata dal suo impiego di maestra essendosi rifiutata di prestare il giuramento fascista obbligatoriamente richiesto agli impiegati pubblici. Questo il giuramento richiesto: “Giuro di essere fedele al Re, ai suoi Reali successori e al Regime Fascista, di osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato, di esercitare l’ufficio di insegnante e adempire tutti i doveri accademici col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla Patria e al Regime Fascista. Giuro che non appartengo né apparterrò ad associazioni o partiti, la cui attività non si concilii coi doveri del mio ufficio. Va ricordato che su 1251 professori universitari solo in 15 rifiutarono di giurare, perdendo la cattedra; ma va anche ricordato che molti docenti politicamente schierati a sinistra, su consiglio di Palmiro Togliatti accettarono il compromesso del giuramento pur di poter mantenere l’abilitazione all’insegnamento e con esso continuare a svolgere “un’opera estremamente utile per il partito e per la causa dell’antifascismo”. La stessa cosa avvenne nel mondo cattolico dove, su suggerimento di Pio XI, molti buoni cristiano accettarono di piegarsi al fascismo “con riserva interiore”.

Dunque era stato questo il complesso mondo politico e sociale in cui si era impegnata la giovane Lina Merlin e va vista come una naturale conseguenza di tutto il suo impegno la promulgazione della legge che abolisce la regolamentazione della prostituzione chiudendo case chiuse, o case di tolleranza, volgarmente dette bordelli, e introducendo i nuovissimi reati di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione. Lina Merlin, da francesista, era stata ispirata dal movimento dell’ex prostituta ed attivista Marthe Richard che aveva fatto chiudere già nel 1946 i postriboli francesi. Applicata la Legge Merlin, la libera e volontaria prostituzione compiuta da donne e uomini maggiorenni restava però legale nella linea dell’inviolabilità della libertà personale. Sappiamo, col senno di poi, che lo sfruttamento della prostituzione non si è mai concluso, ma se non altro ha tolto allo Stato la gestione di quelle case – come oggi gli si dovrebbe togliere la gestione dei giochi d’azzardo – e soprattutto si è avuta l’introduzione di quei reati specifici nel nostro ordinamento giuridico.

Una scena del film, si nota al centro una bruna Sandra Milo

Di due anni dopo, del 1960, è il film “Adua e le compagne” come sorta di instant movie su quel fenomeno che registrò il dissolvimento di un mondo le cui conseguenze furono per lo più infelici per i più diretti interessati: le prostitute, messe improvvisamente sulla strada e non più protette da un oliatissimo sistema di sfruttamento parastatale, per la maggior parte non si potettero o non si seppero – come anche non si vollero – ricollocare con altri ruoli nella benpensante società dell’epoca, e finirono letteralmente per strada e fra le grinfie di sfruttatori peggiori; per gli allegri frequentatori, finito il periodo di proteste nostalgie e rimpianti, ricominciò la frequentazione col rischio, stavolta, di contrarre quelle malattie veneree che nelle case vanivano tenute sotto controllo.

Sandra Milo e Gina Rovere nella cucina della trattoria “da Adua”

Scritto da tre eccellenti nomi, Ruggero Maccari, Ettore Scola e Tullio Pinelli cui si aggiunse lo stesso regista, il produttore Manolo Bolognini (fratello del regista Mauro) affidò la regia ad Antonio Pietrangeli che era molto versato nel ritrarre personaggi femminili e che negli anni a seguire scelse di esprimersi nella nascente commedia all’italiana: “Adua le compagne” è simbolicamente una sintesi del suo impegno professionale. Ma la sceneggiatura dei quattro bei nomi schierati in campo fa un po’ acqua da tutte le parti per varie ragioni: l’argomento è delicato e si sceglie di raccontare il dramma delle protagoniste alleggerendolo con toni da commedia, si evitano certi passaggi più spinosi che meglio avrebbero raccontato quelle storie ma che avrebbero spinto il film verso un dramma più crudo e meno adatto a una platea più compiacente; è un lampante esempio di film in bilico fra il morente neorealismo e la nascente commedia all’italiana, appunto, e dopo un solido inizio sulla casa in chiusura dove con poche battute gli sceneggiatori riescono a raccontare l’intero mondo delle donne, il film si perde via via in tanti rigagnoli inconcludenti.

Emmanuelle Riva, Gina Rovere e Simone Signoret

Adua e le compagne, Lolita Marilina e Caterina, decidono di aprire una trattoria in un casolare fuori Roma con l’intento di tornare all’antico mestiere nelle stanze di sopra non appena l’impresa si fosse bene avviata, ma contrariamente a quanto prevedeva la legge – ovvero che le schede di pubblica sicurezza in cui venivano catalogate come prostitute venissero distrutte – questo non avviene, e continuando ad essere schedate come tali non riescono ad avere dei finanziamenti bancari per sostenere l’impresa già avviata coi loro risparmi. Viene loro in soccorso, un soccorso molto interessato e cinico, un affarista che acquista casa e terreno concedendolo in affitto alle donne ma presentandosi subito come prossimo sfruttatore. Poi, mentre la trattoria sia avvia con successo, a ognuna delle quattro è dedicato un capitolo: Adua, che è la capitana dell’impresa, si lega a un fascinoso intrallazzista di automobili; Marilina, che si presenta come sua nevrotica antagonista, vive il dramma personale di un figlio dato a balia quando esercitava il mestiere; Caterina si innamora, ricambiata, di un assiduo frequentatore della trattoria che nulla sa del loro passato; mentre Lolita, interpretata da Sandra Milo, risulta il personaggio meno definito, molto oca giuliva, un carattere sui generis che resterà incollato all’attrice e che lei stessa coltiverà. I nomi sono chiaramente espressione dell’epoca: Lolita è la conturbante protagonista adolescente del romanzo omonimo di Vladimir Nabokov del 1955 che fece tanto scalpore; Marilina è un chiaro riferimento alla Marilyn hollywoodiana; Adua è un nome in voga all’epoca che viene dalla città di quell’Eritrea in cui l’Italia colonialista si era impegnata bellicamente; e Caterina è il nome vero e normale con cui sceglie di tornare a chiamarsi la più sempliciotta delle quattro, il personaggio umanamente meglio definito.

Marcello Mastroianni in un ruolo di supporto che però diventa momentaneamente protagonista con tanto di primo piano a sfavore della vera protagonista Simone Siognoret

Adua e Marilina sono le francesi Simone Signoret, oggi considerata una delle più grandi attrici non solo francesi ma della storia del cinema e che all’epoca del film era già una star internazionale, e Emmanuelle Riva, recentissima star dopo il suo folgorante debutto l’anno prima in “Hiroshima mon amour” di Alain Resnais. Gina Rovere, al secolo Regina Ciccotti, è un’ex soubrette di riviste che è passata al cinema con ruoli di spalla e di contorno, e qui è in uno dei suoi ruoli più importanti. Da segnalare Valeria Fabrizi nel piccolo ruolo di Fosca, una prostituta che lasciando il mestiere va a fare la bottegaia a Milano dove ha affidato i suoi risparmi a un uomo di cui non ha più notizie: non sapremo come le andrà e il lieto o triste finale è lasciato alla nostra immaginazione; Marcello Mastroianni è la star maschile (in quello stesso 1960 escono “La dolce vita” e “Il bell’Antonio”) che giogioneggia nel ruolo del piacione romano che si fa una storia con Adua; divo cui il quartetto degli sceneggiatori concede per ragioni commerciali un po’ di spazio più del necessario, deragliando dal racconto principale che segue le donne. Altri attori nel cast sono Claudio Gora in linea coi suoi ruoli come cinico affarista, Ivo Garrani che tratteggia un ex cliente della casa-casino che per caso è in trattoria con moglie e figlio e prende accordi per tornare alle antiche pratiche; il primattore teatrale e caratterista cinematografico Gianrico Tedeschi interpreta un viscido prim’attore di rivista, che insieme al fantasista Calypso cui dà volto Enzo Maggio della nota famiglia napoletana (suoi fratelli minori sono Beniamino, Dante, Pupella e Rosalia) tenta di truffare l’ingenua Lolita prospettandole improbabili successi e paillettes; il sardo Antonio Rais, che interpreta lo spasimante di Caterina, è qui nel suo unico ruolo cinematografico in una carriera fatta di piccoli ruoli tivù; e poi c’è Domenico Modugno come sé stesso, star delle canzonette che si sentono alla radio perché la televisione è all’epoca un bene di lusso (da comprare a rate come prospetta l’innamorato di Caterina mentre le fa la proposta di matrimonio); Modugno, con la sua compagnia, capita nella trattoria e si esibisce alla chitarra in uno dei momenti più imbarazzanti di tutto il film: non perché sia pessima la sua prestazione ma perché il siparietto canterino da film musicarello è davvero fuori luogo. Chiusi tutti i siparietti più o meno brillanti o comunque di costume il film torna alle atmosfere drammatiche del neorealismo e si chiude su una strada di Roma – quella che fiancheggia il fu carcere femminile delle Mantellate, come mònito – dove in una notte fredda e piovosa Adua, e come lei immaginiamo le sue compagne, tornerà a battere dopo che l’impresa nel campo della ristorazione è fallita: un finale che vuole lasciare un frettoloso amaro in bocca e che sembra però una presa in giro, perché se ci piaceva la linea drammatica l’abbiamo persa di vista per tutto il film, ma se ci piaceva la linea brillante ce l’hanno tolta sul più bello.

Il film, che ha avuto un clamoroso successo di pubblico fra i nostalgici dei bordelli e fra quelli in cerca di scene piccanti che però non ci sono, è stato inizialmente ignorato dalla critica colta perché troppo imbarazzata per parlarne male. Esemplare il giudizio dello storico del cinema Giampiero Brunetta: “Discontinuo, pieno di cadute con non poche concessioni a un gusto para-goliardico, conferma l’abilità dell’autore nella caratterizzazione dei personaggi femminili e il suo dominio di più registri. Nel finale si sfiora la tragedia e in questa occasione, come altrove, una sorta di pudore lo blocca sulla soglia di un registro stilistico che, forse, sente ancora al di fuori della propria portata”. Simone Signoret e Emmanuelle Riva furono doppiate da Lilla Brignone e Maria Pia Di Meo, mentre Nando Gazzolo doppia Gianrico Tedeschi che probabilmente al momento del doppiaggio era in tournée teatrale. In conclusione voglio ricordare solo questi tre film italiani che hanno raccontato le case chiuse: “Film d’amore e d’anarchia” 1973, di Lina Wertmüller; “Salon Kitty” 1976, di Tinto Brass che però racconta un bordello berlinese; “Bordella” 1976, grottesco di Pupi Avati su un bordello maschile per sole donne.

The Nostalgist – cortometraggio completo in lingua inglese

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Dell’italiano Giacomo Cimino, autore del recente “Il talento del calabrone”, è sicuramente da recuperare questo gioiellino di cinema fantasy condensato in un premiatissimo cortometraggio del 2014, dal racconto omonimo dell’americano Daniel H. Wilson, 45enne coetaneo di Cimino dove il dato anagrafico conta per meglio collocare le ispirazioni letterarie. Wilson è prevalentemente un autore di libri umoristici, ma essendo al contempo un nerd ingegnere robotico ha scritto il bestseller “Robopocalypse”, una complessa storia di robot in guerra con gli umani stile “Robocop” che nel titolo richiama e omaggia; Giacomo Cimino ne sintetizza la sua sceneggiatura e nel 2014 dirige questo cortometraggio che ha anche prodotto con la sua Wonder Room Productions, parzialmente ricorrendo alla raccolta di fondi tramite Kickstarter.

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Il film è un vero gioiello per gli occhi e per chi non parla l’inglese è comunque comprensibile perché i dialoghi sono ridotti al minimo e lo spettacolo è tutto visivo; effetti visivi talmente notevoli che il film è stato inserito nel programma di cortometraggi cult del British Film Institute ed ha vinto numerosi premi: miglior cortometraggio al Giffoni Film Festival; premio del pubblico a Utopiales, Festival International de Science Fiction; Méliès d’Argent e Premio del Pubblico al Trieste Science + Fiction Festival; miglior cortometraggio professionale al Raw Science Film Festival; e 2° posto Miglior Cortometraggio oltre i 15 minuti al Palm Springs International Festival of Short Films.

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È interpretato dal francese Lambert Wilson assiduo frequentatore di set internazionali, noto come The Merovingian nella trilogia di “Matrix”, e dal bambino in carriera Samuel Joslin. Tornando all’autore Giacomo Cimini, il cui più recente lavoro è “Il talento del calabrone”, devo convenire che ha messo al servizio di questo prodotto italiano di genere il suo personale talento nell’uso di effetti visivi ricostruendo una Milano notturna in studio, al servizio però di una sceneggiatura che guarda troppo a quel cinema internazionale in cui il nostro si è formato, e di cui ha evidente nostalgia. Il mio augurio è che possa realizzarsi in quella cinematografia in cui ha mostrato di saper dare il meglio di sé.

Il talento del calabrone – il cinema 2020-21 disperso nella pandemia

Nel 2020 i cinema hanno timidamente riaperto in estate per richiudere subito dopo. Nel 2021 si va al cinema col green pass ma le sale sono praticamente deserte: gli spettatori sono decimati dalla pandemia e non mancano solo quelli che non hanno il green pass; fra quelli che ce l’hanno non tutti ritengono opportuno, o necessario, tornare al cinema, e i pochi volenterosi spettatori rimasti sono ulteriormente scoraggiati dall’obbligo della mascherina FFP2. I film usciti in sala passano subito sulle piattaforme web e in tv.

Accantonando i film decisamente autorali – non si può vivere di soli autori – sembra che il cinema italiano stia tentando un rinnovamento, un riallineamento su stili e tematiche internazionali, riscoprendo al contempo i filoni della tradizione nostrana come i gloriosi poliziotteschi anni ’70 che sono tornati in forma di polizieschi noir arricchiti del sottogenere malavitoso generato dal fenomeno “Gomorra”; noir a volte notevoli ma più spesso solo espressione di evoluzione tecnologica ma non stilistica: un caso su tutti è “Calibro 9” che si propone come sequel di “Milano calibro 9”.

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Barbara Stanwyck

“Il talento del calabrone” ha il merito di esplorare in chiave tutta italiana quello che ormai negli USA è un vero e proprio genere inaugurato da “Il terrore corre sul filo” del 1948 con Barbara Stanwyck e Burt Lancaster regia di Anatole Litvak; genere di film dove il/la protagonista è al telefono tutto il tempo (o quasi) del film perché dall’altra parte del filo c’è un malintenzionato: il telefono come moderno mezzo di dialogo con uno sconosciuto – un’oscura paura nata con l’invenzione del telefono – che fa precipitare in situazioni pericolose e incontrollabili. Del 1960 è “Merletto di mezzanotte” di David Miller con Doris Day e Rex Harrison; “Quando chiama uno sconosciuto” del 1979 ha avuto un remake nel 2006; “Scream” di Wes Craven è del 1996 con Drew Barrymore; Colin Farrell nel suo primo ruolo da protagonista assoluto intrappolato in una cabina telefonica è “In linea con l’assassino” di Joel Schumacher, 2002; del 2004 è il notevole “Cellular” che si svolge anch’esso in tempo reale, con Kim Basinger diretta da David R. Ellis; Ryan Reynolds è protagonista del claustrofobico “Buried – Sepolto” del 2010 dove non c’è un pazzo di là dalla linea ma l’aiuto che spera di avere essendosi svegliato chiuso in una bara; nel 2013 Tom Hardy è protagonista di “Locke” altro film in tempo reale tutto girato all’interno dell’automobile da cui il personaggio parla al cellulare, regia di Steven Knight; con venature horror soprannaturali nel 2021 è uscito “Black Phone”.

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Anna Foglietta col regista Giacomo Cimini

Qui il film funziona, il suo meccanismo tiene inchiodati… se non fosse che gli autori della sceneggiatura, lo stesso regista Giacomo Cimini con Lorenzo Collalti anche ideatore del soggetto, a un certo punto, troppo appassionati del cinema d’azione hollywoodiano, dimenticano che il film è ambientato a Milano ed esagerano. La tensione narrativa, pur con degli inciampi che dirò, regge fino al finale ma lì, senza volere fare anticipazioni altrimenti dette americanamente spoiler, la sospensione dell’incredulità che si chiede a noi spettatori viene messa a dura prova. Credibilità messa a dura prova a cominciare dal personaggio del tenente colonnello dei carabinieri scritto, guardando al cinema internazionale, per una donna, ed esagerando nell’ispirazione: la signora, che era a un vernissage, viene chiamata sul luogo dell’azione (mentre i tenenti colonnelli donne, in Italia, ancora si occupano prevalentemente di temi sociali e non vanno in azione) ed essendo la tenente colonnello troppo elegantemente vestita, che fa? si toglie i tacchi e indossa un paio di scarponi come farebbe un’amabile un’eroina hollywoodiana; ma se in quei film siamo abituati a vedere donne che menano le mani e impugnano le armi ormai meglio e più dei maschi, e c’è da specificare che accade solo in film d’azione, nel nostro cinema, senza volere apparire sessista, questa cosa sfiora il ridicolo; soprattutto perché “Il talento del calabrone” è tutto impostato come un rigoroso film drammatico senza sbavature, ancorché thriller poliziesco col giovane Dj Steph intrappolato in diretta telefonica da un terrorista che, alla guida di un’autobomba a spasso per la città, ha già fatto saltare una non specificata torre in periferia e minaccia ulteriori tragiche rappresaglie: la tensione è sempre credibile come il procedere nel crescendo di colpi di scena – ma quando arriva la carabiniera dall’incazzatura facile che non esita a estrarre la pistola e a puntarla in faccia, come se fosse Lara Croft, tutto il plot fino a quel momento sapientemente costruito ha un arresto, per non dire che crolla.

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Lorenzo Richelmy

Anna Foglietta, chiamata a ricoprire il ridicolo infelice ruolo, fa del suo meglio ma il talento non basta a supplire l’insipienza degli sceneggiatori che delineano un personaggio davvero imbarazzante. Le fa da spalla come capitano dei carabinieri assolutamente in linea con la divisa che indossa, David Coco. Il Dj è interpretato dall’ex attore bambino Lorenzo Richelmy, figlio di attori teatrali e lui stesso interprete teatrale fin dall’infanzia; dodicenne debutta al cinema e poi recita in tivù in “I liceali”; da lì mette in pausa una facile carriera televisiva per iscriversi al Centro Sperimentale di Cinematografia come attore più giovane mai ammesso. Si rimette sul mercato scegliendo con attenzione ruoli e opportunità e anche se al momento non è un volto noto al grande pubblico è sicuramente un giovane attore da tenere in considerazione e in questo film, non facile perché è praticamente sempre seduto alla consolle, tiene il personaggio e ne sviluppa le prospettive con grande adesione. Gli fa da contraltare, alla linea telefonica e sullo schermo, quel vecchio volpone che è Sergio Castellitto, anche lui in un ruolo non facile tutto interpretato all’interno di un’automobile – non lo vedremo mai a figura intera se non nei suoi ricordi – che risolve il suo personaggio con grande pathos, grazie alla sceneggiatura costruita per lui dagli autori – qui sì – davvero sempre sul pezzo.

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Sergio Castellitto

Il film, immiserito anziché arricchito dagli eccessi già detti, è però un prodotto assai ben fatto che veicola temi socialmente importanti, come il bullismo, intelligentemente innestati in un film dichiaratamente di genere, che però guarda troppo ad altri generi perdendo qua e là la bussola. Completano il cast Gianluca Gobbi come regista della trasmissione radiofonica e Cristina Marino come assistente-amica speciale del Dj alla quale l’ineffabile coppia degli sceneggiatori aggiunge una ulteriore rivelazione post-finale, della serie: finché la brace arde mettiamo altra carne al fuoco, senza mai considerare che siamo già sazi.

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Le curiosità del film sono che è ambientato negli studi milanesi di Radio 105 che mette al servizio del film nome e logo, ma non gli studi reali dato che tutta la scenografia è stata ricostruita a Roma con dei fondali che mostrano la Milano notturna, e il gioco dei fondali che rivelano ciò che realmente non c’è viene ripreso nel finale… che però non devo svelare. Per chi non sapesse qual è il talento del calabrone lascio la visione del film che vale una serata in tivù.

Del regista va detto che da ragazzo era appassionato di fumetti ma poi va in America a studiare cinema alla New York Film Academy; dirige videoclip e pubblicità e si trasferisce poi a Londra, dove tuttora risiede, per continuare a studiare il cinema alla London Film School. Il suo primo lungometraggio è una rivisitazione di Cappuccetto Rosso scritta e girata in inglese, “Red Riding Hood” del 2003, e 17 anni dopo – anni passati dietro alla realizzazione del superbo cortometraggio fantasy “The Nostalgist”, spesi prima nella raccolta fondi e poi nella minuziosa distribuzione in vari festival dove ha raccolto diversi premi. Cimini torna in Italia per scrivere e dirigere questo suo secondo lungometraggio che non ha avuto la buona sorte di uscire nelle sale, neanche per poco: la prima uscita era stata fissata per il marzo 2020, poi rimandata al novembre dello stesso anno e infine venduto direttamente ad Amazon Prime Video.

In chiusura possiamo ascoltare i brani di musica classica che il terrorista chiede di ascoltare in radio, e anche questo nel racconto filmico ha un suo perché.

Il deserto rosso – quarto e ultimo film per la coppia Antonioni-Vitti

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Confesso che non avevo mai visto Monica Vitti in un ruolo drammatico perché non avevo mai visto nessuno dei cosiddetti film dell’alienazione o dell’incomunicabilità o esistenzialisti della coppia d’arte e di vita che lei formò con Michelangelo Antonioni; e casualmente comincio dall’ultimo, quello a colori del 1964, che la critica ufficiale a volte colloca come ultimo di una tetralogia e altre volte come appendice, a colori appunto, di una trilogia in bianco e nero: “L’avventura”, “La notte” e “L’eclissi”, quattro grandi film in quattro anni che accompagnano e bruciano anche la relazione sentimentale fra l’autore e l’attrice.

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Dorian Gray in “Il grido”

Si erano conosciuti durante la post produzione di “Il grido” (1957) dove lei doppiava Maria Luisa Mangini divenuta famosa col nome d’arte Dorian Gray senza probabilmente aver mai letto il racconto omonimo di Oscar Wilde dove il protagonista è un uomo; ballerina che dalla danza era passata alla rivista e dalla rivista al cinema brillante in ruoli di bellona, senza mai imparare davvero a parlare e a recitare dato che è stata sempre doppiata.

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Claudia Cardinale e Monica Vitti a una serata di gala per il secondo film che la Vitti ha girato con Carlo Di Palma “Qui comincia l’avventura” 1975

Di contro, Monica Vitti, attrice con solida preparazione (e chi ha avuto modo di vederla in teatro ne ricorda il grande magnetismo) per la sua voce graffiata (come quella di Claudia Cardinale con la quale condividerà un iniziale ostracismo perché le attrici all’epoca dovevano essere usignoli) riceveva solo proposte dal doppiaggio dove, benché giovane, dava voce a donne più mature o di vita vissuta. Dunque, mentre era in sala di doppiaggio, alle sue spalle c’era Antonioni che la osservava dalla cabina di regia e che le fece una battuta rimasta nella storia: “Ha una bella nuca, potrebbe fare del cinema” alla quale lei rispose subito con un beffardo: “Di spalle?” Cominciarono a frequentarsi e lui la inserisce in una sorta di laboratorio teatrale che era stato chiamato a dirigere, con giovani promettenti attori ancora poco noti al grande pubblico come Virna Lisi e Giancarlo Sbragia, per una serie di tre spettacoli da presentare al Teatro Eliseo di Roma. Ma diversi contrasti all’interno del gruppo fanno fallire l’esperienza e il regista dirige a teatro l’attrice in un solo spettacolo, “Scandali segreti”, l’adattamento teatrale di una sceneggiatura mai messa in film di Elio Bartolini, scrittore e sceneggiatore con cui Antonioni aveva collaborato in “Il grido” e ancora collaborerà.

Il passo successivo che salderà la coppia sarà l’inizio della breve intensa avventura cinematografica che si concluderà appunto con questo “Il deserto rosso” dove lei conosce il suo prossimo compagno di vita e d’arte, il direttore della fotografia Carlo Di Palma che per lei si farà regista dirigendola in tre commedie, la prima delle quali è “Teresa la ladra”. Anche per Di Palma è il primo lavoro a colori e vincerà il Nastro d’Argento per la fotografia. Il film vincerà il Leone d’Oro a Venezia e il Kansas City Film Critics Circle Awards come miglior film straniero. Michelangelo Antonioni spiegherà in conferenza stampa che il suo passaggio stilistico dal bianco e nero al colore è stato un percorso del tutto naturale; fra le altre cose dirà: “La storia è nata a colori, ecco perché dico che la decisione di fare il film a colori non l’ho mai presa, non era necessario prenderla. (…) nella vita moderna mi pare che il colore abbia preso un posto molto importante. Siamo circondati sempre più da oggetti colorati, la plastica che è un elemento molto moderno è a colori, (…) e che la gente si stia accorgendo che la realtà è a colori. Nel film ho cercato di usare il colore in funzione espressiva, nel senso che avendo questo mezzo nuovo in mano, ho fatto ogni sforzo perché questo mezzo mi aiutasse a dare allo spettatore quella suggestione che la scena richiedeva.”

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E lo sforzo è notevole, addirittura magistrale. Il film si apre con degli scorci fuori fuoco in un bianco e nero che vira all’azzurro, paesaggi industriali come sospesi nella nebbia e nella mancanza di colori; colori che entrano in campo con la protagonista in lontananza che conduce per mano un bambino, lei con un cappotto verde brillante e lui con un piccolo eskimo ocra. E per certi versi il film è come se continuasse il discorso autorale in un bianco e nero in cui i colori si aprono a sprazzi, macchie, composizioni espressioniste in cui nulla è lasciato al caso, come composizioni pittoriche o installazioni artistiche che hanno per tema il paesaggio industriale. Antonioni compone da un lato un film tutto visivo e dall’altro, insieme a Tonino Guerra, scrive una storia di disagio dove le parole sembrano non avere profondità e sembrano non suscitare nulla nell’interlocutore occasionale, ma solo altre parole senza profondità e senza deriva; dove anche il marito di Giuliana, la protagonista, e i loro amici, sembrano incontri occasionali, estranei, come pure il figlio piccolo che trasforma il suo capriccio di non volere andare all’asilo in un dramma dell’incomunicabilità madre-figlio: estranei all’anima della protagonista che l’autore ci fa percepire come un’aliena in un mondo in disfacimento che pure lei, come lui, accetta: la deriva dell’industrializzazione, i fumi e i liquami, sono un male necessario che conduce al benessere economico e sociale; lo sfruttamento ambientale, in questo film ante litteram ecologista, non è il nemico da contrastare ma un percorso formativo di convivenza, e sopravvivenza ai veleni. Nel finale il bambino chiede alla madre perché il fumo di una ciminiera è giallo e lei spiega che c’è il veleno; ma allora, ragiona il bambino, se gli uccellini ci passano in mezzo, muoiono; no, spiega lei, perché lo hanno imparato e lo evitano. Così come le anguille che sanno di petrolio sono solo una battuta su cui sorridere, per il bene del progresso.

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Il deserto rosso del titolo, che inizialmente avrebbe dovuto contenere parole come blu e verde, è anche quello una suggestione. Nel film i colori preferiti dall’autore e dalla sua protagonista sono quelli freddi, colori coi quali lei vorrebbe dipingere le pareti bianche di un grande spazio vuoto in cui dice di volere aprire un negozio per vendere neanche lei sa cosa: una ulteriore metafora del suo malessere profondo, del suo grande vuoto che non sa come riempire, e che il marito crede essere il risultato di un incidente dal quale lei non si è ripresa, e che invece è la causa di quell’incidente che è stato un tentato suicidio, ma lui non lo sa. Antonioni fa attraversare alla sua protagonista i suoi quadri e le sue composizioni come fossero un labirinto di spazi aperti in cui non c’è nessuna via d’uscita sul piano spaziale – ma con una speranza, alla fine, su quella temporale: il futuro è un eterno divenire dove anche i miasmi industriali e i disagi sentimentali trovano una loro pacificatoria collocazione.

Per questo suo film fortemente metaforico Antonioni torna ancora una volta alla sua Ferrara natia in cui già aveva scelto di ambientare il suo film d’esordio “Cronaca di un amore”; ma si spinge nella periferia est, verso il mare e la valle del Comacchio rinomata appunto per le sue anguille e di cui l’autore mostra un inedito grigio panorama che si perde nella nebbia, fatto di capannoni e ciminiere, con ampi e affascinanti (per chi apprezza l’architettura industriale) scorci di stabilimenti, di cui però non ci è dato sapere cosa producano perché non importa, sono lì per trasformare l’ambiente e le vite.

Il rosso del titolo lo vediamo solo su una fiancata di nave e nelle pareti dipinte dell’interno di un casotto in cui Ugo, il marito di Giuliana, invita a pranzo degli amici per parlare, ancora, di industrie e di affari. Nella sonnolenza postprandiale le tre donne e i tre uomini sono quasi distesi gli uni sugli altri e nello stretto spazio si comincia a parlare di afrodisiaci, viene a ripararsi una coppia di amanti clandestini che credeva vuoto il casotto, Giuliana dice al marito che ha voglia di fare l’amore e per completare il quadro c’è uno specchio incorniciato da figurine di sexy pin-up: ma ancora è solo un’orgia di parole in cui i personaggi si incartano a cominciare da Ugo che non coglie l’esplicita richiesta amorosa di Giuliana perché troppo preso a parlare di imprese. Giuliana tenta l’amore con Corrado, l’imprenditore venuto a chiudere affari con Ugo, sin da subito affascinato dalla donna che si mostra sempre inconcludente in un rimbalzo di conversazioni mai conclusive perché anche lui è un’altra anima in pena in cerca di ulteriori approdi.

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Nel ruolo del marito lo sconosciuto che rimarrà tale Carlo Chionetti. Come coprotagonista, che in realtà fa sempre da spalla a Monica Vitti, venne scritturato l’irlandese Richard Harris – venuto a mancare nel 2002 e che i millennial ricorderanno come Albus Silente nei primi due film della saga di Harry Potter; attore che all’epoca era una nascente star internazionale, che dal Free Cinema inglese degli anni ’50-60 era passato a Hollywood e dopo un ruolo secondario in “I Cannoni di Navarone”, 1961, aveva avuto un ruolo di rilievo in “Gli Ammutinati del Bounty”, 1962, e assurgerà al vero grande successo personale qualche anno dopo, come protagonista di “Un Uomo Chiamato Cavallo”, 1970. Antonioni, dopo avere affiancato a Monica Vitti i francesi Jeanne Moreau In “La notte” e Alain Delon in “L’eclisse”, nonostante anche questo film sia coprodotto con la Francia, che però gli dà carta bianca in virtù dell’adorazione che suscita oltralpe, si prende la libertà di guardare verso il mercato cinematografico d’oltreoceano cui è già proiettato: il suo prossimo film infatti, girato in inglese, sarà una ulteriore sperimentazione, “Blow-up”, 1966.

Il film, come gli altri dell’incomunicabilità, non ebbe successo di pubblico ma fu osannato dalla critica e accrebbe, se ce n’era ancora bisogno, la fama di Antonioni all’estero. Divenne famosa la frase di lei “mi fanno male i capelli”, battuta alla quale il pubblico in sala rise e che ancora oggi viene talvolta citata con ironia, perché decontestualizzata; la frase completa è “mi fanno male i capelli, gli occhi, la gola, la bocca” e la frase completa inserita nel più ampio contesto di un dialogo dà totalmente il senso di sperdimento della protagonista; ricordando pure che è una citazione dalla poetessa Amelia Rosselli e che dal punto di vista medico è una vera patologia, dolore dovuto all’infiammazione del cuoio capelluto, che si sintetizza in questa frase.

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Monica Vitti, recentemente scomparsa in vita dopo essere a lungo scomparsa dallo schermo a causa dell’alzheimer che l’ha anche fatta scomparire a se stessa, è stata in qualche modo profetica nel suo libro del 1995 “Il letto è una rosa” dove ha scritto: “Lasciatemi l’emozione, e tenetevi pure la memoria. Io non la voglio, perché è una truffa, e non la si può nemmeno portare in tribunale perché vincerebbe lei. La memoria non è con me, ma contro di me…”

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