Archivio mensile:gennaio 2022

Ariaferma – il cinema 2020-21 disperso nella pandemia

Nel 2020 i cinema hanno timidamente riaperto in estate per richiudere subito dopo. Nel 2021 si va al cinema col green pass ma le sale sono praticamente deserte: gli spettatori sono decimati dalla pandemia e non mancano solo quelli che non hanno il green pass; fra quelli che ce l’hanno non tutti ritengono opportuno, o necessario, tornare al cinema, e i pochi volenterosi spettatori rimasti sono ulteriormente scoraggiati dall’obbligo della mascherina FFP2. I film usciti in sala passano subito sulle piattaforme web e in tv.

Il cinema carcerario è un genere che a Hollywood è una vecchia e assai frequentata tradizione con dei veri e propri filoni di sottogeneri: il carcerario femminile, il carcerario giovanile, le colonie penali coi lavori forzati, il genere dei condannati a morte e quello delle grandi evasioni, e vengono subito in mente titoli come “Papillon” e “Fuga da Alcatraz”. Negli USA il cinema carcerario esiste sin dai tempi del muto ed ebbe un ulteriore impulso già a partire degli anni ’30 con l’avvento del sonoro, ma soprattutto in seguito a due importanti rivolte carcerarie nel 1929 che ispirarono anche dei lavori teatrali oltre a un dibattito pubblico sulla necessità di una riforma carceraria.

“Convinct 13” di e con Buster Keaton, 1920, distribuito da noi come “Salterello e la forca elastica”

Da quel momento in poi ci fu quasi una gara fra gli studios, e dei registi all’interno degli studios, nel produrre il film più originale e di successo, spesso a braccetto coi genere gangsteristico avendo lo stesso tipo di protagonisti, e il filone andò così bene che dal 1930 al 1939 vennero prodotti più di 70 film. A oggi non c’è divo che non si sia misurato con questo genere, che per la sua natura di contenitore di varia umanità finisce con l’abbracciare molti altri generi, comprese le parodie, e viene in mente “Muraglie” del 1931 con Stanlio e Ollio. In tempi recenti il prison movie si è arricchito anche della versione fantascientifica con prigioni e fughe spaziali, “Alien 3” come titolo su tutti. Mentre il sottogenere del carcerario femminile ha dato vita a partire dagli anni ’70 a un filone mondiale soft porno basato sul nudo, il sesso, il lesbismo e il sado-voyerismo.

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Nel cinema italiano mi vengono subito in mente “Nella città l’inferno”, 1959, con Anna Magnani e Giulietta Masina regia di Renato Castellani, e “Teresa la ladra”, 1973, con Monica Vitti diretta dal direttore della fotografia e allora suo compagno Carlo Di Palma. Ma non si può tralasciare “Sciuscià” del 1946 di Vittorio De Sica, prima di saltare al 1971 col capolavoro di Nanni Loy “Detenuto in attesa di giudizio” con Alberto Sordi; mentre arriviamo alla seconda metà degli anni ’80 con “Il camorrista” di Giuseppe Tornatore e “Mery per sempre” di Marco Risi. Più recente è il bellissimo “Cesare deve morire” di Paolo e Vittorio Taviani che ha riportato il premio berlinese Orso d’Oro al cinema italiano dopo ben 19 anni.

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Il non più giovane Leonardo Di Costanzo, classe 1958, ha scritto “Ariaferma” insieme allo sceneggiatore-regista Bruno Oliviero, e a Valia Santella recentissima vincitrice del David di Donatello per la sceneggiatura di “Il traditore” di Marco Bellocchio, discusso bel film su Tommaso Buscetta, e siamo quindi in argomento; il film segna un altro importante punto nel cinema carcerario italiano, mentre sul piano personale del suo autore segna un ulteriore passo nel suo percorso cinematografico sul confronto di vite sospese in ambienti circoscritti. David di Donatello come Miglior Regista Esordiente nel 2013 con “Intervallo”, ha continuato con “L’intrusa” che gli ha portato altri premi nel 2018, e adesso mette insieme per la prima volta due nomi di punta, Silvio Orlando come anziano camorrista e Toni Servillo come capo guardia carceraria, in un rigorosissimo cast che schiera attori di vaglia come Fabrizio Ferracane che è l’altro capo guardia, Roberto De Francesco che è l’amministrativo della struttura, e Salvatore Striano che da ex manovalanza camorrista già vero detenuto, essendosi appassionato in carcere al teatro e alla recitazione è rinato a nuova vita debuttando al cinema in “Gomorra” di Matteo Garrone e poi protagonista di “Cesare deve morire”. Un altro importante ruolo, quello del giovane scippatore in attesa di giudizio, va al debuttante Pietro Giuliano. Completano il cast nei ruoli più definiti Nicola Sechi, Leonardo Capuano, Antonio Buil, Giovanni Vastarella e Francesca Ventriglia unica donna nel ruolo della direttrice del carcere.

Il progetto del panopticon del 1791

Coprodotto dalla Rai con il sostegno della Sardegna Film Commission il film, ambientato nell’immaginario Mortana, è stato girato nell’ex carcere di San Sebastiano di Sassari, una moderna (all’epoca) struttura ottocentesca costruita secondo i canoni del panopticon, sorta di carcere ideale progettato alla fine del ‘700 dal filosofo e giurista inglese Jeremy Bentham, dove un solo sorvegliante al centro di una stanza circolare poteva osservare (opticon) tutti (pan) i detenuti; il termine deriva dal greco Argo Panoptes, un gigante dotato di un centinaio di occhi che dormiva chiudendone cinquanta per volta, quindi il migliore in assoluto dei sorveglianti. Va da sé che questo tipo di struttura che ottimizza le prestazioni del controllore sui controllati ha ispirato numerosi narratori e filosofi tra cui Michel Foucault e George Orwell, ed è diventata il simbolo del potere che pervade e controlla dall’interno la stessa massa da controllare, non più ponendosi in alto o all’esterno.

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E difatti la sala circolare al centro della vecchia struttura, in dismissione nel racconto cinematografico, diventa teatro della poetica – sì proprio poetica – di Leonardo Di Costanzo, il quale mette a confronto guardie e carcerati in una situazione al limite – una forzata convivenza in uno spazio ancora più ristretto al centro dell’enorme struttura in via di chiusura, il panopticon appunto – poiché per l’ultima dozzina di detenuti è saltato il trasferimento a struttura da destinarsi e restano, controllata da un manipolo di sorveglianti, in attesa della nuova ricollocazione; situazione al limite che fa saltare tutte le regole e che, oltre a mettere a confronto guardie e ladri che si spogliano delle loro divise per confrontarsi come esseri umani, mette a confronto, e in discussione, anche le diverse anime del controllore qui sintetizzate nelle figure degli ispettori più anziani impersonati da Toni Servillo e Fabrizio Ferracane: il primo fa leva sul buon senso e si adatta al meglio per gestire l’inedito momento di passaggio, il secondo resta fermo ai rigori del regolamento e della divisa.

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Ma i giochi di ruolo “poliziotto buono e poliziotto cattivo” e “poliziotto e camorrista” finiscono qui, e se in altre cinematografie il racconto avrebbe preso pieghe più tragiche e spettacolari, nel racconto di Di Costanzo si contiene e i confronti sono asciutti, i dialoghi benché profondi si mantengono essenziali e senza retorica, e nonostante l’azione sembri procedere verso l’inevitabile disastro e un catartico dramma finale, a Di Costanzo non interessa solleticare le aspettative dello spettatore medio e si ferma dove ragionevolmente sembrerebbe impossibile fermarsi, non cede nulla in facile spettacolo e muscolari virili scontri, e con una vena di inatteso ottimismo ci fa capire che il buon senso è il modo migliore per confrontarsi. Un film riuscitissimo e spettacolare anche nel suo minimalismo, esemplare, da autore che non vuole compiacere perché ha già tracciato la sua strada nella nostra cinematografia e non cerca facili consensi.

Presentato fuori concorso al Festival di Venezia, il film è uscito nelle sale a ottobre 2021 e secondo la classifica (parziale, perché interna al sito) di Cineforum è al terzo posto fra i migliori incassi del 2021 (dopo “Drive My Car” di Ryûsuke Hamaguchi e “Marx può aspettare” di Marco Bellocchio, e seguito dal celebrato “È stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino fermo al quarto posto); conteggiando anche le piattaforme digitali a pagamento “Ariaferma” ha incassato 775 mila euro, non male dati i tristi tempi. È Presentato come “The Inner Cage” sul mercanto statunitense e si aspettano e meritati ulteriori sviluppi.

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The Father – il cinema 2020-21 disperso nella pandemia

Nel 2020 i cinema hanno timidamente riaperto in estate per richiudere subito dopo. Nel 2021 si va al cinema col green pass ma le sale sono praticamente deserte: gli spettatori sono decimati dalla pandemia e non mancano solo quelli che non hanno il green pass; fra quelli che ce l’hanno non tutti ritengono opportuno, o necessario, tornare al cinema, e i pochi volenterosi spettatori rimasti sono ulteriormente scoraggiati dall’obbligo della mascherina FFP2. I film usciti in sala passano subito sulle piattaforme web e in tv.

Come “Comedians” un altro film tratto, ma forse è più corretto dire sviluppato, da un’opera teatrale, e che è anche l’opera prima cinematografica del suo autore, il drammaturgo francese Florian Zeller, che ha scritto un’opera sorprendente ma che è stato anche capace, in pochi anni, di raccogliere il massimo dei consensi mondiali con il massimo dell’esposizione.

Immagine di ricerca visiva
Alessandro Haber con Lucrezia Lante Della Rovere

Dopo l’acclamato debutto francese nel 2012, la pièce è stata tradotta dal britannico Christopher Hampton che l’ha messa in scena a Londra l’anno successivo, e da lì in poi – forte della veicolazione della lingua inglese – il dramma teatrale è stato rappresentato in tutto il mondo; in Italia è stato realizzato dal regista Piero Maccarinelli nel 2017 con l’interpretazione di Alessandro Haber e Lucrezia Lante Della Rovere.

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Jean Rochefort

Del 2015 è il primo adattamento cinematografico, il francese “Florida” diretto da Philippe Le Guay con protagonista l’eclettico commediante, anche frequentatore dei set italiani, Jean Rochefort, alla sua ultima interpretazione; un film che nella scrittura non vede coinvolto il suo autore teatrale e che prende lo spunto del dramma per farne una storia con altre ispirazioni, sin dal titolo.

Quell’operazione non deve aver soddisfatto Florian Zeller, che ora coinvolge l’inglese che l’ha fatto conoscere al mondo, Christopher Hampton, per scrivere la sceneggiatura di un nuovo film; e per non sbagliare stavolta lo dirige pure, debuttando come regista cinematografico con un film in lingua inglese, con grandi interpreti già premiati con l’Oscar, e pronto già sulla carta a raccogliere ulteriori consensi. Ne è protagonista il grandioso Anthony Hopkins, premio Oscar nel 1992 per “Il Silenzio degli Innocenti”, cui gli sceneggiatori pensano sin da subito chiamando Anthony il suo personaggio. La figlia è interpretata da Olivia Colman, Oscar 2019 per “La Favorita”, e per entrambi mi limito a ricordare solo gli Oscar dato che gli scaffali dei loro premi sono più che pieni.

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Frank Langella e Kathryn Erbe nella messa in scena di Broadway del 2016

Il film, come il dramma teatrale, racconta la perdita della memoria, e dell’intera personalità, a causa della degenerazione progressiva dovuta all’Alzheimer, ma è nuovo e vincente, oltre che narrativamente affascinante e coinvolgente, il racconto dal punto di vista del malato: il dramma comincia come un thriller psicologico in cui l’uomo sembra al centro di un oscuro complotto per cui gli vengono tolti i suoi punti di riferimento, e viene inspiegabilmente ingannato da estranei che si sostituiscono ai suoi familiari: qui c’è il colpo di genio dell’autore, quello di fare interpretare a dei doppi i ruoli dei coprotagonisti, facendoci così precipitare all’interno dello spaesamento del protagonista che non riconosce più le persone: sua figlia, che nel film è fisicamente doppiata da un’altra attrice di gran classe, Olivia Williams, mentre il genero ostile interpretato da un altro protagonista del cinema internazionale, Rufus Sewell, ha il suo doppio nel caratterista di provenienza brillante Mark Gatiss, il quale dà alla sua interpretazione un ghigno che vuole essere rassicurante ma che è molto inquietante; conclude il ristretto cast la più giovane Imogen Poots nel ruolo della badante.

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L’autore regista debuttante firma un film di altissimo livello, coinvolgente e spiazzante, come deve essere stato il suo dramma teatrale per chi ha avuto l’opportunità di vederlo: uno spazio scenico che a poco a poco si spogliava di tutti i suoi arredi, come espediente concettuale e visivo della progressione dello svuotamento della mente del protagonista, che alla fine si ritrovava nella stanza di un ospizio per lungo degenti; e se nel dramma teatrale c’era la figlia ad assisterlo, nel film resta a prendersi cura di lui la sconosciuta che ora è un’infermiera. Uno svuotamento di spazi che non è possibile rendere al cinema dove il racconto deve essere più naturalistico e meno simbolico, così la scrittura esplora altre vie narrative: i silenzi, le solitudini dei personaggi e i dettagli minimi, i sogni e le visioni che arrivano improvvisi dietro porte che si aprono su altri spazi e altre epoche, in uno spiazzamento che una scrittura esemplare diventa interpretazione magistrale. Premio Oscar ad Anthony Hopkins, candidature a Olivia Colman e alla sceneggiatura, candidature anche come Miglior Film, Miglior Montaggio e Migliore Scenografia. E ancora mi limito agli Oscar. Qui da noi la BiM ha ritenuto opportuno distribuire il film con lo stupido sottotitolo “Nulla è come sembra” facendolo sembrare una sciocca commedia degli equivoci. Era stato presentato in anteprima al Sundance Film Festival nel gennaio 2020 e successivamente è uscito nelle sale di New York e Los Angeles, poi chiuse per la pandemia, così è stato distribuito on demand; in Europa si è affacciato nelle sale nel 2021 e in qualsiasi uscita ha fatto sempre eccellenti incassi.

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Fra le curiosità va detto che Hopkins con i suoi 83 anni si è piazzato come il più vecchio a ricevere il premio da protagonista: il detentore del primato per anzianità era il 76enne Henry Fonda che però aveva ricevuto nel 1981 l’Oscar onorario e l’anno dopo quello come Non Protagonista per “Sul Lago Dorato”; per trovare il protagonista più anziano bisogna risalire al 1970 e al 62enne John Wayne “Il Grinta”. Il miglior Non Protagonista più vecchio al momento è il recentemente scomparso Christopher Plummer per “Beginners” 2012. Fra le donne le più anziane detentrici del primato sono Jessica Tandy, 80 anni, protagonista per “A spasso con Daisy” 1980 e Peggy Ashcroft, 77 anni, non protagonista in “Passaggio in India” 1985.

Vale la pena ricordare che questo non è il primo film sull’Alzheimer, benché sia il primo che racconta il punto di vista del malato. Per chi volesse recuperarli ci sono stati l’inglese “Iris – Un Amore Vero” del 2001 con Judi Dench e Kate Winslet nel ruolo di Iris nelle diverse età e con Jim Broadbent vincitore dell’Oscar, diretti da Richard Eyre. “Lontano da Lei” del 2006 diretto da Sarah Polley con Julie Christie candidata all’Oscar e premiata con il Golden Globe. Del 2010 è il Sud Coreano “Poetry” di Lee Chang-dong, premiato per la sceneggiatura a Cannes. Del 2011 è l’iraniano “Una Separazione” di Asghar Farhadi, Orso d’Oro a Berlino, Golden Globe e Oscar.

Se ne conclude che l’Alzheimer, restando un dramma per chi lo vive su di sé e per le loro famiglie, si conferma un dramma sempre vincente per l’industria dell’intrattenimento.

Comedians – il cinema 2020-21 disperso nella pandemia

Nel 2020 i cinema hanno timidamente riaperto in estate per richiudere subito dopo. Nel 2021 si va al cinema col green pass ma le sale sono praticamente deserte: gli spettatori sono decimati dalla pandemia e non mancano solo quelli che non hanno il green pass; fra quelli che ce l’hanno non tutti ritengono opportuno, o necessario, tornare al cinema, e i pochi volenterosi spettatori rimasti sono ulteriormente scoraggiati dall’obbligo della mascherina FFP2. I film usciti in sala passano subito sulle piattaforme web e in tv.

Il film completo disponibile in chiaro su YouTube oltre che su Sky

A Gabriele Salvatores dev’essere piaciuta proprio la commedia teatrale inglese “Comedians” se ci torna e ritorna a distanza di decenni. Napoletano di nascita ma milanese d’adozione è passato al teatro direttamente dal liceo e negli anni Settanta, senza alcuna preparazione specifica, co-fonda il Teatro dell’Elfo, compagnia nella quale si forma come regista di spettacoli cosiddetti d’avanguardia, ricerca di stili contenuti e scrittura che sulle nostre scene si era affacciata nel 1959 con Carmelo Bene che possiamo così definire il papà dell’avanguardia italiana. Ma se Bene aveva frequentato prima la scuola di Pietro Sharoff e poi l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, Salvatores è arrivato alla sperimentazione teatrale senza alcuna preparazione specifica, com’era usuale all’epoca: erano gli anni in cui l’intera società era totalmente messa in discussione e una delle derive artistiche fu proprio una certa sperimentazione che, partendo dal nulla, offriva alloggio a chiunque avesse un minimo di creatività, senza necessariamente avere un minimo di talento: solo il tempo, e i consensi immediati, crearono le vere avanguardie teatrali e le specifiche personalità.

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La prima messa in scena londinese di “Comedians” nel 1975, a destra è riconoscibile un giovane Jonathan Price

Ma Salvatores ha preso l’arte scenica molto sul serio e pur continuando a sperimentare si è evoluto verso uno stile più classico mettendo insieme un gruppo di fedeli amici coi quali si è formato. Il suo primo incontro con “Comedians” che Trevor Griffiths scrisse nel 1975 avviene dieci anno dopo, e nel 1985 mette in scena la sua stessa traduzione. Dopo aver debuttato come autore cinematografico nel 1983 rifacendo in film la sua personalissima trasposizione teatrale “Sogno di una notte d’estate” da e non di Shakespeare, torna a fare cinema partendo di nuovo dalla sua esperienza in palcoscenico del 1985 con “Comedians” e nel 1988 firma “Kamikazen – ultima notte a Milano” dove adatta molto liberamente la commedia inglese e la fa interpretare al suo fedele gruppo di amici, con tanti nomi allora poco noti in piccoli ruoli. Dunque quest’ennesimo appuntamento con “Comedians” possiamo considerarlo un remake, oggi assai più fedele all’originale. E torna al cinema corale, quello dei suoi inizi, quello dell’amicizia e del gruppo nostalgico ancorché conflittuale, quello della realtà trasognata e irraggiungibile e, in ultima analisi, quella del cabaret: anche se lui non lo ha mai fatto, il cabaret è il palcoscenico preferito dai suoi amici, siano essi attori che autori, e traspare, molto fra le righe e sempre ben veicolata, una certa goliardia.

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Uno dei vari cast teatrali di “A Chorus Line”

La storia è quella di un gruppo di cabarettisti all’ultimo incontro col loro insegnante prima dell’esibizione che deciderà il loro futuro, dato che un famoso comico televisivo verrà a vederli per scegliere chi scritturare nella propria agenzia e far debuttare in tv. Il plot è furbo e fa immediatamente pensare ad altri successi del genere, come “A Chorus Line” e “Fame”, ambientati nel mondo dei musical, il primo nato a teatro e il secondo nato come film da cui poi è stata sviluppata una serie tv; e la struttura è sempre la stessa: ballerini e cantanti – nel caso di “Comedians” cabarettisti – chiamati a esibirsi per avere un contratto: spettacolo accattivante e insieme finto reality con tutti i drammi personali annessi e connessi. Ma poiché gli stand-up comedians fanno teatro di parola con ampi riferimenti alla cultura contemporanea, l’adattamento deve essere più pervasivo e adattarsi nei contenuti alla nostra realtà, che nel caso di Salvatores è sempre quella milanese, ma con comici che vengono da ogni parte d’Italia, a partire dall’insegnante.

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Walter Leonardi, Natalino Balasso, Ale e Franz, Marco Bonadei, Vincenzo Zampa e Giulio Pranno

Resta dell’originale inglese il personaggio del comico ebreo, che nel mondo anglosassone ha un suo perché essendo espressione di una cultura che ha nello spettacolo, e fra i comici, una presenza pregnante; qui Salvatores lo adatta al meglio anche se da noi non c’è una tradizione di comici ebrei e le battute e le barzellette sull’ebraismo circolano solo fra i correligionari e i loro amici: in televisione non vedremo mai un comico ebreo che scherza su se stesso e la sua religione. E altrettanto resta il personaggio secondario ma determinante dell’immigrato indiano che con la sua cultura apre nuove prospettive. Per il resto la riscrittura di Salvatores mantiene tutto il resto, l’ambientazione e le dinamiche fra i personaggi che si scambiano battute trite e ritrite, spesso amare e anche al vetriolo, mettendo in scena spaccati di vita da clown assai tristi. E se ci torna e ritorna sarà perché questo dramma gli tocca corde assai personali, e se lui è professionalmente lontano dal mondo del cabaret è umanamente vicino a quello dei cabarettisti coi quali si è formato e cresciuto e adesso anche invecchiato. Una storia fatta di riflessioni profonde e tristi sulla vita e sulla vita dei commedianti, e sul senso della comicità: se deve graffiare oppure solo solleticare, se deve essere solo un mestiere o una missione, se deve veicolare messaggi e sollecitazioni o solo raccontare le solite barzellette. Materiale assai pensoso per un film assai drammatico nonostante parli di comicità – ma per quale pubblico?

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La presenza nel cast del duo milanese Ale e Franz, già molto attivi al cinema sia da protagonisti in film propri che solo con partecipazioni, di Christian De Sica, unica vera star del cinema nostrano spesso fatto di cinepanettoni, e Natalino Balasso noto ai telespettatori di Zelig, può far pensare a un film leggero ma che trae in inganno gli incauti spettatori. Invece è un film per pochi, per gli addetti ai lavori, per chi ama le messe in scene dei drammi minimi di vite al margine, per chi si diverte a vedere i suoi beniamini comici impegnati in ruoli drammatici, per il pubblico di Gabriele Salvatores che dopo l’inatteso Oscar per “Mediterraneo” nel 1992 si è divertito a sperimentare, sia con le trame che con gli stili e le tecnologie.

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Sin dalle prime battute e inquadrature è chiaro che fra i comici il protagonista è il più giovane, quello fuori dal coro e che sa sperimentare di più diventando anche aggressivo e sgradevole. A teatro e poi nel film “Kamikazen” era interpretato da Paolo Rossi (nel cast di allora anche Silvio Orlando e Claudio Bisio) e qui si rinnova nell’audace e riuscitissima performance di Giulio Pranno, che diciottenne fu bocciato agli esami di ammissione al Centro Sperimentale di Cinematografia ma che venne fortunosamente (a riprova del fatto che l’arte è un mestiere dove la fortuna conta più di qualsiasi altra cosa) ripescato da Salvatores che lo ha fatto debuttare col ruolo di un ragazzo autistico in “Tutto il mio folle amore” 2018; benché giovane è un già magnetico interprete che in questa sfortunata stagione cinematografica è anche nel film “La scuola cattolica” di Stefano Mordini dove interpreta il leader del gruppo di assassini del Delitto del Circeo, cronaca assai nera, anche politicamente, datata 1975.

Il veneto Natalino Balasso, già comico pensoso di suo, qui dà il meglio di sé come anziano cabarettista in disarmo che al facile successo con facili battute ha preferito la purezza stilistica dell’auto esilio nell’anonimato, cui si contrappone il suo ex compagno di scena che accettando le regole del successo è diventato il divo del piccolo schermo che verrà a selezionare i cabarettisti, cui si presta con sornione ghigno un Christian De Sica sul filo dell’autobiografico. Meno noti ma altrettanto efficaci gli altri interpreti: Marco Bonadei, Walter Leonardi e Vincenzo Zampa. Ale e Franz, non presentandosi come un duo comico ma interpretando due fratelli comici sono accreditati coi loro nomi all’anagrafe: Alessandro Basentini e Francesco Villa; Aram Kian è l’indiano e Elena Callegari è la bidella cui Salvatores assegna una triste battute a inizio film: Non ho mai capito che cos’è l’aerobica, dev’essere qualcosa che ha a che fare con gli aerei… La tristezza è servita sin dall’inizio per chi vuole cimentarsi nell’interessante visione di questo anomalo film finito subito in chiaro oltre che su Sky addirittura su YouTube.

Il cattivo poeta – il cinema 2020-21 disperso nella pandemia

Nel 2020 i cinema hanno timidamente riaperto in estate per richiudere subito dopo. Nel 2021 si va al cinema col green pass ma le sale sono praticamente deserte: gli spettatori sono decimati dalla pandemia e non mancano solo quelli che non hanno il green pass; fra quelli che ce l’hanno non tutti ritengono opportuno, o necessario, tornare al cinema, e i pochi volenterosi spettatori rimasti sono ulteriormente scoraggiati dall’obbligo della mascherina FFP2. I film usciti in sala passano subito sulle piattaforme web e in tv.

Meritevolissima opera prima del 49enne napoletano, laurea in filosofia, Gianluca Jodice, anche autore di soggetto e sceneggiatura: un nuovo autore che ha già all’attivo premi e riconoscimenti per i suoi cortometraggi e il cui merito è, oltre a quello di confezionare un film importante molto ben fatto, quello di tornare a raccontarci il nostro primo novecento, sempre meno recente e per questo più necessario da ritrovare, anche o forse soprattutto, attraverso figure secondarie: qui il vero protagonista, benché nel titolo si richiami al Gabriele D’Annunzio interpretato da Sergio Castellitto, è il giovane federale bresciano Giovanni Comini interpretato da un altro debuttante, il genovese Francesco Patanè dal cognome siciliano: faccia di bravo ragazzo della porta accanto molto funzionale al ruolo scritto dall’autore ma che manca, a mio avviso, di quel particolare fascino magnetico che devono avere i protagonisti (a meno che non parliamo di film di serie B e questo non lo è) ferma restando la sua interpretazione molto aderente e partecipata; del resto Patanè è stato candidato come migliore attore esordiente, insieme a Castellitto migliore protagonista e Gianluca Jodice miglior regista esordiente, ai Nastri d’Argento 2021 dove il film ha ricevuto solo i premi tecnici per la fotografia dell’eclettico Daniele Ciprì e i costumi di Andrea Cavalletto.

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Il film, che va decisamente recuperato, è un’occasione per esplorare le figure che racconta, a cominciare dal protagonista che è un federale, dispregiativamente definito nel film federalino per la sua giovane età: trent’anni. Il federale, come il podestà e il gerarca, sono figure oggi sparite ma assai specifiche dell’allora apparato fascista. Il podestà, come termine, esiste sin dal medioevo ma con le cosiddette leggi fascistissime il podestà tornò in vita sostituendo la figura del sindaco democraticamente eletto e a capo di una giunta: il podestà era nominato per regio decreto e non aveva intorno una giunta con cui confrontarsi o da cui farsi sostenere e di fatto era un’autorità unica che rispondeva al governo centrale; Il termine gerarca indicava gli alti dirigenti del Partito Nazionale Fascista (PNF) fondato nel 1921; il federale era il quarto in grado di importanza in quella gerarchia e dirigeva sul territorio le federazioni di fasci di combattimento, un po’ le sezioni di partito odierne che però, data la specifica natura di quel partito, fungeva anche da ufficio para militare e para poliziesco.

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Giovanni Comini è ricevuto da Achille Starace che si allena al vogatore nell’enorme sala che gli fa da ufficio all’interno di Palazzo Venezia; di lato quello che oggi diremmo il suo personal trainer insieme a una di quelle donne tuttofare a servizio dell’apparato fascista: un racconto cinematografico fatto di dettagli laterali che danno profondità e spessore all’intero racconto

Un ruolo assai impegnativo per il giovane Comini, già vice podestà di Brescia, che si sente addirittura un miracolato quando Achille Starace in persona, segretario del PNF, lo incarica di spiare Gabriele D’Annunzio introducendosi alla sua corte come ammiratore, e credibilmente, data la sua personale predisposizione alla poesia. Per il Vate, come tutti rispettosamente lo chiamano (appellativo dato anche a Giosuè Carducci) sono gli ultimi anni: il film si apre nel 1936 e si conclude nel 1938 con la sua morte, a 75 anni. D’Annunzio vive da auto esiliato nel complesso del Vittoriale degli Italiani, come ribattezzò una villa nella provincia bresciana, a Gardone Riviera, deluso dall’esito della sua impresa fiumana: nel 1919, alla fine della Prima Guerra Mondiale, si era improvvisato condottiero per riconquistare la città di Fiume che le potenze vincitrici avevano assegnato alla Jugoslavia: un’occupazione avvenuta senza fare vittime, denominata Reggenza Italiana del Carnaro come momento di passaggio all’effettiva annessione politica all’Italia; la reggenza si protrasse per quattro anni fino a quando il Regno d’Italia e il Regno dei Serbi Croati e Sloveni, desiderosi di normalizzare i rapporti, dichiararono Fiume stato libero e indipendente; ma D’Annunzio si rifiutò di ritirarsi e la città fu attaccata dall’esercito italiano che allontanò i legionari dannunziani lasciando sul campo una cinquantina di vittime: eventi specifici la cui conoscenza, nel film, è raccontata per sommi capi, ma altrimenti non poteva essere: la figura di D’Annunzio è gigantesca e nel ripercorrerne un breve periodo non si può fare altro che sfoltire, anche pesantemente. Un D’Annunzio che in questa stessa stagione cinematografica è stato tratteggiato nell’episodio di un film dal tono completamente differente: “Qui rido io” di Mario Martone.

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D’Annunzio deve essere controllato perché è una figura ingombrante che il regime non sa come gestire: la sua ristretta cerchia del Vittoriale lo chiama ancora Capitano con memorie e rimpianti fiumani, e di fatto il suo atteggiamento è quello di una personalità pericolosamente alternativa a quella del Duce: sono entrambi dei superuomini, come erano di moda all’epoca, con richiami gloriosi allo Sturm und Drang e ai concetti filosofici di Friedrich Nietzsche, e il sommo poeta non può che disprezzare l’ex vigile urbano: il suo patriottismo, benché muscolare, è più sincero e pregno di valori più alti e spirituali di quelli di Mussolini, il quale in realtà sta solo costruendo il culto della propria personalità in parallelo a quello di quell’altro superuomo che si credeva di essere Hitler. Sono tempi oscuri per la gente ordinaria. Il Vate tenta di far ragionare il Duce che pericolosamente si sta avvicinando al Fuhrer: non vede di buon occhio quell’alleanza ma soprattutto disprezza la politica rozza e anti libertaria di Mussolini, benché sia stato e ancora sia additato come precursore ideologico del fascismo: inizialmente aderì al movimento fondato da Mussolini nel 1919, i Fasci Italiani di Combattimento, e fu uno dei primi firmatari del Manifesto degli Intellettuali Fascisti, ma non si iscrisse mai al PNF consapevole che l’affiliazione avrebbe minato la sua autonomia intellettuale e politica sempre protesa verso il primo posto di ogni podio: D’Annunzio e Mussolini erano come i classici due galli in un pollaio. E diversissimi fra loro. Già nel 1900 il Vate era stato eletto deputato nel Regio Parlamento fra le fila dell’estrema destra ma passò subito all’estrema sinistra con questa celebre frase: “Vado verso la vita”. Poi, nel suo governo provvisorio di Fiume varò una costituzione assai liberale e progressista che prevedeva, oltre ai diritti per i lavoratori e le pensioni di invalidità, il suffragio universale maschile e femminile, la libertà di opinione e di religione, nonché libertà di orientamento sessuale con la depenalizzazione dell’omosessualità, e del nudismo e dell’uso di droga: aperture assai in anticipo su qualsiasi altra carta costituzionale dell’epoca, e toccando argomenti assai invisi al fascismo. Di fatto D’Annunzio esprimeva nella sua visione politica la sua intima natura di gaudente, di uomo sessualmente promiscuo e abituale consumatore di cocaina. Non che i fascisti fossero tutti eterosessuali o non facessero uso di droghe, ma vigeva il sempre diffuso atteggiamento del “predica bene e razzola male”. D’Annunzio, con tutti i suoi difetti, era un libertario perché era intimamente libero. Una figura troppo ingombrante e sempre potenzialmente esplosiva che il Duce pensò bene di tenere sotto controllo accordandogli cariche pubbliche anche non gradite e un perenne sostegno economico, purché se ne stesse buono nel suo Vittoriale.

In questi suoi ultimi due anni di vita percorsi dal film lo vediamo vecchio e malato, minato dall’abuso delle droghe e fortemente amareggiato dalla politica di Mussolini. Gli sono accanto le sue due fedeli muse-amanti Luisa Baccara, detta anche “la Signora del Vittoriale”, e la francese Amélie Mazoyer, figlia di contadini e “bruttina assai” secondo una precisa definizione del Vate, che pare avesse i meriti di “una mano donatrice d’oblio” e “una bocca meravigliosa” per la quale la rinominò Aélis, poetico richiamo al francese hélice, elica, dove per elica intendeva la sua lingua guizzante sulla sua intima virilità. Del resto D’Annunzio usava così, rinominava con epiteti curiosi e poetici di colte ispirazioni le varie contadinotte e prostitute che Aélis gli andava procurando, anche a dispetto della Baccara: le due donne non si sopportavano ma convivevano per amore del Vate.

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Sergio Castellitto lo rende con grande dolorosa partecipazione ma nella sua interpretazione così magistralmente intimistica mancano, a mio avviso, i guizzi del vecchio leone che, pure stanco e malato, non può avere del tutto abbandonato i suoi impeti, le ultime zampate; del dolente discorso che fa ai fedeli ex combattenti fiumani che sono venuti a omaggiarlo fa un encomiabile esercizio di stile interpretativo “di sottrazione”, rende il plateale intimistico, ma mancano così i toni retorici e solenni come io immagino lo stile di D’Annunzio, che era anche lo stile di Mussolini come di Hitler e di tutti coloro che parlavano in pubblico, perché era lo stile dell’epoca, pomposo nei toni come nel vocabolario: siamo negli anni ’30 del ‘900 e anche la gente comune non parlava come parliamo oggi, e mi pare che l’intero cast del film risenta di una mancanza di direzione artistica che indirizzi in uno stile comune preciso e ben riconoscibile. Basta tornare a vedere il lavoro che hanno fatto Mario Martone con gli interpreti del suo “Qui rido io” e Paolo Sorrentino con l’intero cast di “È stata la mano di Dio”, entrambi i film ambientati a Napoli, ma il primo in un primo ‘900 assai teatrale e il secondo nei più recenti anni ’80: recitazione senza sbavature.

Più in linea con lo stile dell’epoca l’Achille Starace di Fausto Russo Alesi, e Tommaso Ragno che interpreta l’architetto del Vittoriale Giancarlo Maroni, nel film raccontato come braccio destro del Vate. Le due femmes fatales sono molto adeguatamente interpretate dalla prevalentemente teatrale Elena Bucci che è Luisa Baccara, mentre nel ruolo della francese Amélie Mazoyer c’è la francese Clotilde Courau naturalizzata italiana, anzi savoiarda avendo sposato l’inutile Emanuele Filiberto di Savoia. Massimiliano Rossi è lo sfuggente commissario Giovanni Rizzo messo al Vittoriale da Mussolini in persona perché D’Annunzio senta la sua presenza istituzionale; Lino Musella tratteggia la necessaria e retorica figura dell’irreprensibile fascista, duro puro e banalmente violento, col quale deve misurarsi la purezza ideologica del giovane Giovanni Comini, che alla morte del Vate verrà rimosso da tutti i suoi incarichi nell’apparato di regime per aver vacillato nel credo fascista. Paolo Graziosi tratteggia la figura del di lui padre. L’ucraina Lidiya Liberman, benché padroneggiando un ottimo italiano, è un po’ stonata nel ruolo dell’amante del protagonista che coinvolge in un dramma personale.

Elena Bucci con Francesco Patanè e Clotilde Courau

Nel suo primo fine settimana di programmazione il film si è piazzato al primo posto incassando 198.730 euro: un primo posto decisamente povero se si pensa agli incassi si facevano in era pre-covid. Dunque eccolo adesso in tivù a racimolare i diritti dei passaggi televisivi.

Doctor Sleep – il sequel di Shining

Stephen King's Doctor Sleep disponibile in Home Video e digitale |  Spettacolo.eu

In “Shining” Jack Torrance è morto assiderato nel gelido finale creato da Stanley Kubrick a dispetto del finale fuoco e fiamme immaginato da Stephen King nel suo romanzo, che nel 2014 pubblica il seguito a quasi quarant’anni di distanza. Ed è immediatamente chiaro il nomignolo con cui verrà chiamato l’ex bambino Danny Torrance oggi Dan e adulto assai problematico: se a cinque anni i genitori lo chiamavano affettuosamente Doc che sta per doctor (una cosa che gli americani fanno abitualmente, chiamare doc o man o missy i loro bambini come noi diciamo giovanotto o signorinella) oggi Doc si completa come Doctor Sleep, Dottor Sonno, perché il nostro accompagna amorevolmente nella loro morte naturale i vecchi dell’ospizio in cui è inserviente, togliendo loro la paura del trapasso, raccontando che è un sonno da cui si sveglieranno in un’altra esistenza. Tutto molto new age spirit, se non sapessimo che Dan ha la luccicanza e vede i morti come noi vediamo gli amici al bar. È improbabile che lo scrittore abbia immaginato quarant’anni fa questo sviluppo, dunque chapeu per l’inventiva con cui parte da un nomignolo dell’infanzia in una nuova identità per l’adulto. Che però è una cosa abbastanza fine a se stessa all’interno del nuovo racconto horror, una nota di colore per aiutare a definire il nuovo personaggio che contiene in sé il bambino ancora traumatizzato dalla terribile esperienza, e che annega, come retoricamente si dice in questi casi, i suoi antichi tormenti nell’alcol.

Rebecca Ferguson as Rose the Hat | Rebecca ferguson, Doctor sleep, Ferguson

Il film si apre con un antefatto che ci presenta la nuova bella affascinante cattiva, Rose Cilindro (Rose the Hat), che è a capo di una piccola setta autodefinita Vero Nodo con i quali Stephen King inventa i vampiri del terzo millennio: non succhiano il sangue ma quello che loro chiamano vapore, che è insieme respiro ed energia vitale, tanto più succulento e nutriente quanto più la vittima è terrorizzata e soffre: davvero perversi questi nuovi vampiri succhiavapore.

Chiuso l’antefatto siamo di nuovo nel 1980 e nell’Overlook Hotel dove il piccolo Danny percorre ancora col suo triciclo i lunghi corridoi del labirintico albergo speculare al labirinto di siepi che c’è lì fuori, e che sappiamo sarà teatro dell’esperienza più terrorizzante del piccino: rincorso nella neve dal padre armato di enorme ascia. E nei flashback che seguiranno ritroveremo tutti gli altri luoghi simbolo dell’hotel maledetto insieme a tutti i suoi abitanti, ancora vivi o già morti: le gemelline, la vecchia signora nel bagno della camera 327, il precedente guardiano che sterminò la famiglia e lo stesso Jack Torrance, ma andiamo con ordine. Anzi no, perché non sono qui per raccontare la trama.

Doctor Sleep e Shining, fotogrammi delle scene a confronto
1980 e 2019: il set è stato conservato e riutilizzato

Il film è scritto diretto e montato da Mike Flanagan, uno da sempre appassionato di horror che si forma come regista di genere, e in quel genere è ben quotato avendo firmato buoni film senza mai però arrivare al capolavoro. E serve a Stephen King un prodotto che gli rende giustizia, senza gli azzardi e i voli pindarici dell’inarrivabile Stanley Kubrick; fantasmi e atmosfere sono quelle care allo scrittore e la composizione del film è paradossalmente rassicurante nel trattare il genere horror: fa addirittura uso e abuso del suono del batticuore, che abbiamo già sentito in centinaia di film e telefilm, per accompagnare le scene più pulp, e questo è rassicurante perché sappiamo che genere di film stiamo vedendo, cosa non immediatamente comprensibile con i capolavori di Kubrick. Rende giustizia a Stephen King anche riscrivendo il finale, perché nel romanzo “Shining” accadeva che l’albergo andasse in fiamme per lo scoppio della caldaia mentre Kubrick lo mantiene integro spostando il finale tragico nel ghiaccio; dunque nella narrativa di King l’albergo non c’è più, irrimediabilmente distrutto; ma cinematograficamente è ancora esistente e Flanagan ne tiene giustamente conto rendendo a Cesare quel che è di Cesare e a King ciò che era di King: fa scoppiare la caldaio e l’Overlook Hotel va finalmente a fuoco. Meglio tardi che mai.

Per il resto, ritmo e spettacolarità sono garantiti, anche se a mio avviso si perde l’essenza del primo romanzo che metteva al centro del racconto un nucleo familiare isolato in un luogo sperduto: un dramma da camera moltiplicato in infinite camere e corridoi interni ed esterni. Restano funzionali i richiami al 1980 dove ritroviamo il piccolo Danny e sua madre Wendy oggi interpretata da Alex Essoe, giovane e bella attrice canadese che avendo lavorato spesso col suo mentore Mike Flanagan ha nel curriculum solo horror; anche se imbruttita resta molto più bella di Shelley Duvall, anche lei inarrivabile col suo volto cavallino e i dentoni e gli occhi a palla. Torna anche il primo amico di luccicanza di Danny, il cuoco nero oggi interpretato da Carl Lumbly.

Henry Thomas, l’ex bambino protagonista di “E.T. l’extra-terrestre” per interpretare Jack Torrance indossa un trucco che non rende onore né a lui né a Jack Nicholson a cui si pretende di farlo somigliare (ma si vede che si è divertito ed è probabilmente il suo ruolo più significativo da quando è adulto); mi chiedo se non sarebbe stato meglio, dato che la tecnologia lo consente, riavere l’attore originale ringiovanito con il photoshop cinematografico, e come me se lo sono chiesto in tanti, al punto che il regista ha dovuto spiegare: “La cosa da tenere in considerazione per quel ruolo è che le regole dell’Overlook impongono che le persone abbiano la stessa età di quando sono morte lì dentro. Così avevamo solo due possibilità: la prima era ricreare un Jack in digitale, anche con l’aiuto di Jack Nicholson. Ma io non sono un fan delle tecniche di ringiovanimento in CGI. Anche se la tecnologia migliora di continuo, mi fa uscire dalla storia. Passo il mio tempo ad analizzare la tecnologia invece di concentrarmi sulla storia. Non volevo che questo accadesse nel mio film. Il secondo problema riguarda il fatto che Jack Nicholson è molto felice di fare il pensionato e non ha nessuna intenzione di tornare a recitare. Credo che la scena di Jack sia una delle più grandi sorprese del film e sia anche la scena più controversa. Me lo aspettavo, ma è anche la ragione per cui volevo fare il film”. Apprendiamo così che l’ormai 85enne Nicholson non tornerà sui set: il suo ultimo film è la poco vista commedia del 2010 “Come lo sai” diretta dal suo amico James L. Brooks che gli aveva fatto avere un Oscar nel 1984 con “Voglia di tenerezza”.

12 cose da sapere e Easter Egg di Doctor Sleep di Mike Flanagan - Il  Cineocchio
Il Vero Nodo dei succhiavapore

Nella nuova storia con nuovi personaggi l’adulto Dan Torrance è un banale alcolista che si redime diventando un banale buono senza alcun fascino, come ne abbiamo visti a migliaia, e anche il necessario apporto di una star come Ewan McGregor non basta a infondergli fascino narrativo. Quel fascino che invece hanno sempre i cattivi e qui primeggia la conturbante Rosa Cilindro di Rebecca Ferguson, personaggio talmente riuscito che dispiace vederla morire tra atroci contorcimenti infernali, ma non è detto perché abbiamo imparato che l’industria cinematografica fa resuscitare qualsiasi cosa prometta meraviglie al botteghino. La ventenne Emily Alyn Lind, figlia d’arte e già attrice bambina, è la cattiva di nuova generazione succhiavapore, ma anche lei soccombe esalando vapori malefici. La quindicenne Kyliegh Curran è qui al suo secondo film e al primo ruolo da coprotagonista: è Abra (da Abracadabra, ma come ti viene in mente, Stephen King? a tutto c’è un limite!) l’adolescente con una potente luccicanza che aiuterà Dan a sconfiggere i nuovi vampiri. Altro fondamentale sostegno al protagonista è dato dall’amico con flebile luccicanza interpretato da Cliff Curtis, mentre nel ruolo del dottore che guida il gruppo di sostegno c’è il l’attore cine-tv sempre in importanti ruoli di sostegno Bruce Greenwood; Zahn McClarnon, mezzo pellerossa e mezzo irlandese, è il cattivissimo braccio destro di Rose, mentre il gigante (2 metri e 13) Carel Struycken, noto per essere stato il maggiordomo nel dittico “La Famiglia Addams” è l’anziano del gruppo dei succhiavapore. Il 13enne già super premiato Jacob Tremblay, che passa dai protagonisti ai generici, qui è il ragazzino che dalla squadra giovanile di baseball va a finire sotto le mortali grinfie di Rose Cilindro; e per finire ritroviamo Danny Lloyd, l’ex bambino protagonista di “Shining” come coach della squadra di baseball, un ruolo davvero insignificante per una partecipazione che avrebbe meritato un cameo, dove per cameo si intende un ruolo piccolo ma significativo: nei titoli di coda non è neanche accreditato col suo nome ma solo come spettatore, e questa potrebbe essere un’orgogliosa scelta del professore di scienze tornato occasionalmente, ma inutilmente, sul set.

“Doctor Sleep” ha deluso i fan americani e ha incassato solo 14 milioni di dollari a fronte dei 50 spesi e ne è stata rilasciata la classica director’s cut con materiale inedito per incentivare gli ultimi indecisi. Stephen King lo difende come una sua propria creatura ma il fatto è che scrivere un romanzo di successo – benché relativo come per questo sequel – sia una cosa completamente differente dal produrre capolavori cinematografici, e non a caso fra i suoi romanzi diventati film restano nelle classifiche principali solo la Carrie di Brian De Palma e lo Shining di Stanley Kubrick. Tutto il resto è roba che fa mucchio sugli scaffali. Qui non bastano i riferimenti al film di Kubrick per farne un vero sequel: sarebbero stati necessari uno sforzo stilistico che, al di là delle capacità in campo, avrebbe dovuto perlomeno tentare di inseguire l’irraggiungibile originale non solo coi riferimenti ma con un vero impianto stilistico. Detto questo il film è gradevole e non è così orribile come gli americani scrivono sul web, ha il ritmo e la spettacolarità necessari a farne un ottimo film di genere. Ma di genere, appunto. Come nel caso di “Blade Runner 2049”: se il film originale è diventato un cult lasciatelo in pace, lasciateci in pace.

Shining – Extended Edition

Shining - CinCinCinema

“Se può essere scritto, o pensato, può essere filmato” è l’assioma, e anche l’estetica, di Stanley Kubrick, autore completo che, nascendo fotoreporter, oltre che nella regia e nella sceneggiatura si è cimentato nella direzione della fotografia, nel montaggio, nella creazione di effetti speciali, e anche come come produttore e scrittore. Un autore che in circa 40 anni di attività ha realizzato solo 13 film, la maggior parte dei quali sono capolavori che hanno rinnovato il genere con cui si è confrontato.

Great inventions by Garrett Brown, the inventor of the Steadicam | The  Average Viewer
Stanley Kubrick con Garrett Brown che indossa la sua steadycam, nel labirinto di siepi teatro di una delle sequenze più esemplari

Perché Kubrick – di cui ricordo la sua opera prima antimilitarista “Paura e Desiderio” – è stato un grande ed eclettico sperimentatore di generi, come anche di tecniche cinematografiche, applicando spesso importanti innovazioni tecnologiche: in “Shining” fa per la prima volta un uso massivo della nuova steadycam (videocamera indossata dall’operatore tramite un corpetto, che permette riprese in movimento molto fluide) inventata dall’operatore Garrett Brown “Con un risultato finale – disse Brown – tuttora insuperato, per eleganza e capacità espressiva.”

If you like The Shining | Central Rappahannock Regional Library

Del successo editoriale (4 milioni di copie vendute nell’edizione economica) di “The Shining” di Stephen King, da cui ha sviluppato la sua sceneggiatura (firmata insieme alla scrittrice Diane Johnson, mai tradotta da noi) Kubrick ebbe a dire: “Ho trovato geniale il modo in cui il romanzo è stato scritto. Leggendolo, si pensa che quello che succede sia un prodotto della sua immaginazione: questo permette di accettarlo. Secondo me la storia è reale. Io accetto, ai fini della storia, che sia tutto vero.” Si racconta che aveva incaricato il suo staff di portargli da leggere dei romanzi horror, per il suo prossimo film, e che aveva cominciato a leggerli chiuso nel suo studio; nella stanza accanto la sua segretaria lo sentiva puntualmente lanciare i libri contro il muro, fino a un giorno in cui fu incuriosita da uno strano silenzio: entrò nello studio per controllare e lo vide immerso nella lettura del romanzo di Stephen King. Riguardo all’ispirazione che il libro gli diede, Kubrick disse, ancora: “C’è qualcosa di intrinsecamente sbagliato nella personalità umana. C’è una parte malvagia. Una delle cose che le storie horror possono fare è mostrare gli archetipi dell’inconscio; possiamo vedere la parte malvagia senza doverci confrontare con essa in modo diretto.”

Loudd | Stephen King | Cujo

In perfetta sintonia col pensiero dello scrittore: “Una storia dell’orrore è anche una riaffermazione dell’immaginazione, in questo senso il lavoro dello scrittore di romanzi fantastici consiste nel farci riprecipitare nell’infanzia. Se in uno dei miei racconti dò un dono speciale a un bambino, come in Shining, con la luccicanza di Danny, la capacità di prevedere il futuro, o la telecinesi di Carrie, è un altro modo per dire al lettore: guarda il tuo bambino. Quale dono ha il tuo bambino? Hai notato in che modo ragiona il tuo bambino? Perché i bambini non pensano in modo lineare, si dirigono verso altre prospettive o girano oltre gli angoli, sono flessibili. Quello che mi interessa molto dei bambini è che sono in grado di aprire la porta a nuove credenze e fantasie. Credono a tutto. Se dici loro che le persone possono volare, ci credono. Be’ ci credono perché sono fuori di testa. E noi gli permettiamo di essere fuori di testa. I bambini parlano con persone che non ci sono, finché non entra in gioco il disturbo della razionalità. Noi permettiamo ai nostri bambini di essere fuori di testa finché non hanno circa otto anni. A quel punto cominciamo a dire: perché non cresci? E loro crescono, diventano dottori, ingegneri. E che cosa ne è stato della loro immaginazione? Si restringe. Mentre i loro corpi crescono, la loro capacità di immaginare, l’intera gamma, l’intero mondo di meraviglie, inizia a rimpicciolirsi. Noi paghiamo un prezzo per diventare adulti. Un caro prezzo. E con gli adulti, possiamo insegnare loro a usare di nuovo l’immaginazione? Sì, io credo che sia possibile, e credo che uno dei motivi per i quali essi si avvicinano ai miei libri sia per ciò che cerco di dire loro, che è: Guardate! Usate di nuovo la vostra immaginazione!

Ewan McGregor to play Jack Nicholson's grown son in 'The Shining' sequel |  abc10.com

“Ti voglio bene Danny. Ti voglio bene più di ogni altra cosa. Di ogni cosa al mondo. E non potrei mai farti niente di male. Mai. Lo sai questo, vero?”
Come credergli, con quella faccia?

Stephen King prima di “The Shining” aveva pubblicato dei racconti su riviste letterarie e due soli romanzi: “Carrie” 1974, subito grande successo tramutato in film due anni dopo con firma di Brian De Palma; e “Le Notti di Salem” 1975, che diventerà film nel 1987. Pubblica “The Shining” nel 1977 dopo averci lavorato un intero anno e averne fatto, a suo modo, un’opera molto personale: si identifica totalmente col suo protagonista, lo scrittore alcolista in piena crisi creativa Jack Torrance, e racconta che l’ispirazione gli è venuta quando trovò i suoi fogli dattiloscritti messi in disordine dal figlio che però gli aveva anche lasciato dei disegni con la scritta “ti amo papà”. Lui, che era appena uscito dall’anonimato e dalla povertà scrivendo storie horror, partì da quello spunto reale, e amorevole, per immaginare un padre che, sconvolto da un’entità maligna che lo possiede, cerca di uccidere il figlio. Gli invidiosi e i maligni, quelli reali, hanno poi speculato asserendo che lo scrittore odia suo figlio.

Doctor Sleep senza Nicholson, perchè? – Io Nerd e la mia vita

Jack Torrance nel film, nella scena onirica in cui si confessa al barman, dice: “Io le mani addosso non gliele ho mai messe. Non l’ho toccato. Io quella sua dolce testolina santa non la toccherei nemmeno con un dito. Io lo amo quel mio figlietto di puttana! Io farei qualsiasi cosa per lui. Qualsiasi cazzo di cosa per lui. – Quella… stronza. Lo so che fino a quando vivrò farà tutto il possibile perché io non dimentichi. – Io gli ho fatto male una volta, ok? Ma è stato un incidente! Senza nessuna intenzione! Non l’ho fatto mica apposta. Ma può succedere a tutti, è stato tre maledetti anni fa! Quello stronzino aveva buttato a terra tutti i miei fogli di carta! e allora io gli ho preso un braccio e l’ho tirato via!… È stata una mancata coordinazione muscolare, nient’altro. Capisci? Soltanto qualche chilogrammo di energia in più per secondo! Per secondo!”

In realtà Stephen King ha saputo dare voce, senza auto censure auto rassicuranti, a quei lati oscuri che in ognuno di noi esistono ma che subito scacciamo come nocivi e perversi: solo i pazzi criminali li inseguono e li assecondano. E poi ci sono gli artisti visionari che li veicolano nelle loro creazioni. Stephen King e tutte le altre produzioni horror, in qualsiasi forma esse vengano realizzate, hanno successo perché dialogano con l’oscuro che si cela in ognuno di noi, da sempre: ricordiamoci (o riscopriamo) le tragedie greche dove madri uccidono i figli, i figli uccidono i padri e si accoppiano con le loro madri… Sono racconti che ci esaltano perché alla fine ci fanno sentire migliori dato che siamo in grado di tenere imbrigliati i nostri più indicibili istinti.

Awesome (and useless) facts about The Shining… before the sequel comes  along – Filmsane

Stephen King ha odiato il film perché se ne è sentito profondamente tradito. La sua narrativa è viscerale, istintuale, debordante e anche splatter, mentre l’adattamento cinematografico di Stanley Kubrick è algido e cerebrale, stilizzato, com’è nel suo stile che gli fa guardare le cose con l’occhio distaccato e poco emotivo del fotoreporter che è in lui: più che farci partecipare al racconto ce lo documenta. E lo scrittore, in una delle sue numerose conferenze dirà: “Stanley Kubrick è l’uomo più freddo dell’universo. E io sono più un uomo caldo, appiccicoso, sentimentale. La differenza tra la sua versione e la mia versione di Shining è che la mia finisce con un hotel che brucia e la sua finisce con un hotel nel ghiaccio.”

Il mattino ha l'oro in bocca - Il Post

Non tutti sanno che Stanley Kubrick ha voluto realizzare quel film horror a causa del clamoroso insuccesso del precedente film, il capolavoro storico “Barry Lindon” oggi considerato una delle più grandi opere cinematografiche mai realizzate. Decise quindi da dare al pubblico qualcosa di più appetibile senza però voler rinunciare alla sua visione artistica.

Per il ruolo del protagonista furono fatti i nomi di Harrison Ford (da lì a poco Indiana Jones) Robin Williams (star della serie tv “Mork e Mindy” che aveva debuttato al cinema col barzellettistico “Il film più pazzo del mondo”) Robert De Niro (già Oscar per “Il padrino Parte II” e che in seguito dichiarò di aver fatto brutti sogni per un mese di fila dopo aver visto il il film) e Jack Nicholson (anche lui un Oscar per “Qualcuno volò sul nido del cuculo”) che alla fine rimase l’unico candidato dopo che gli altri erano stati bocciati da Stephen King che ora, dopo il successo di “Carrie, lo sguardo di Satana” aveva voce in capitolo.

Shelley Duvall – attrice non bella principalmente attiva sui set di Robert Altman che l’aveva scoperta e valorizzata fino a farle ottenere il premio come migliore attrice a Cannes nel 1977 con “Tre Donne” – qui sembra un po’ sacrificata nel ruolo della moglie middle-class un po’ stupidina, e di fatto il suo rapporto col regista fu alquanto burrascoso proprio a causa delle battute e dello stile di recitazione che Kubrick le imponeva: ne subì un tale stress che cominciò a perdere i capelli. Anche Stephen King non fu generoso liquidandola come una cretina che urla sempre.

Shelley Duvall: la malattia "Shining" e il rapporto con Stanley Kubrick

Il metodo del pignolo Kubrick causò tensioni con l’intero cast: Jack Nicholson arrivò persino a buttare i fogli del copione che gli assistenti dell’autore via via gli fornivano, rifiutandosi di imparare a memoria delle battute che poi nel corso della giornata sarebbero cambiate diverse volte, e prese la sana abitudine di memorizzare i dialoghi solo pochi minuti prima del ciak. Scatman Crothers, il caratterista nero di lungo corso qui nel ruolo del cuoco dell’albergo che come il bambino ha la luccicanza e lo avverte dei pericoli oscuri cui va incontro, minacciò di abbandonare il set per la lungaggine e la pesantezza delle riprese; Joel Turkel, interprete del barista, confermò quell’andamento dichiarando in un’intervista che la scena del bar, circa cinque minuti di dialogo, lo impegnò per sei settimane arrivando anche a tredici ore di lavoro al giorno. L’intera lavorazione durò così quasi un anno, dal maggio 1978 all’aprile 1979 e con la post produzione in film uscì nel 1980. D’altro canto la maniacalità di Kubrick ha prodotto risultati eccellenti e i vari dialoghi – il cuoco e il bambino, il bambino e il padre, il padre e il barman – sono pezzi da antologia, con quel ritmo di battute innaturalmente rallentato che rende appieno lo straniamento e suscita una sottile inquietudine.

Danny di «Shining», Chunk dei «Goonies» e gli altri, ecco cosa fanno oggi  gli attori bambini di Hollywood - Corriere.it

Complicata fu anche la ricerca del bambino per il complesso ruolo di Danny Torrance: furono visti 5000 ragazzini fra Chicago Denver e Cincinnati, un triangolo di città scelte da Kubrick per trovare un bambino che avesse un accento a metà strada fra quello dei due attori nei ruoli dei genitori. Danny Lloyd, 6 anni, fu scelto per la sua capacità di restare serio e concentrato anche per un tempo lungo: è rimasta a tutt’oggi celebre la sua interpretazione del bambino con poteri speciali, la luccicanza come viene tradotto nel doppiaggio del film per seguire il labiale con la A centrale di shining (splendente luminoso rilucente) che nella mitologia creata dallo scrittore è una sorta di aura che consente di vedere oltre. Il bambino partecipò poi a un film tv e contrariamente a tanti altri attori bambini che hanno continuato la carriera artistica anche rovinandosi la vita con abusi ed eccessi di ogni tipo, tornò a scuola e a una vita normale; oggi è un insegnante di biologia che è tornato sul set con un cameo nel sequel di Shining, “Doctor Sleep”.

La versione estesa del film di 144 minuti contiene 25 minuti in più rispetto all’edizione che da noi è andata nelle sale nel 1980 ma è praticamente identica a quella che era stata distribuita negli Stati Uniti: lo stesso Kubrick tagliò e rimontò la versione più breve per il mercato internazionale, preoccupandosi anche di far dattiloscrivere nelle lingue europee, e di farne delle riprese da montare per i singoli Paesi, il folle manoscritto in cui Jack Torrance ha ripetuto per 500 pagine (dattiloscritte dalla segretaria di Kubrick in mesi e mesi di certosino lavoro) il proverbio: “All work and no play makes Jack a dull boy” che per noi era diventato “il mattino ha l’oro in bocca”; ma quelle riprese andarono perdute nella versione home in DVD e oggi esiste solo la versione anglo-americana sottotitolata. I 25 minuti aggiunti nel 2017 sono stati ovviamente doppiati al momento: Giancarlo Giannini torna a essere la voce di Jack Nichilson, mentre Shelley Duvall che era stata doppiata dall’allora signora Giannini Livia Gianpalmo, nel 2019 è stata doppiata da Francesca Fiorentini, voce italiana di attrici come Gwineth Paltrow, Milla Jovovich e Catherine Zeta-Jones. Da sottolineare che la versione estesa del 2019, oltre a riaccendere l’interesse commerciale sul film, è stata una manovra pubblicitaria per lanciare il sequel di “Shining” che è tratto dal sequel del romanzo di Stephen King: “Doctor Sleep” che ha come protagonista il piccolo Danny Torrance oggi diventato un adulto assai problematico. E come potrebbe essere altrimenti? Dunque andiamo a vedere questo sequel interpretato da Ewan MacGregor.