Archivio mensile:dicembre 2021

E’ stata la mano di Dio

Un film in stato di grazia. Candidato per l’Italia agli Oscar 2022 ma l’Academy deve ancora decidere se rientrerà nella selezione, candidato al Golden Globe, in concorso per il Leone d’Oro a Venezia ha vinto quello d’Argento Gran Premio della Giuria (quello d’oro è andato all’unanimità al francese “La scelta di Anne”), sempre da Venezia il Premio Marcello Mastroianni al migliore esordiente Filippo Scotti e il Pasinetti assegnato dai giornalisti come miglior film e migliore attrice a Teresa Saponangelo, e fra altri premi minori e candidature la lista internazionale è ancora lunga.

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Ormai sappiamo che i film di Paolo Sorrentino, sceneggiatore e regista, non passano inosservati, sin dal suo primo lungometraggio “L’uomo in più” (2001) col quale vince il Nastro d’Argento come migliore regista esordiente e col quale inizia il suo sodalizio con Toni Servillo, suo attore feticcio. Di film in film e di premio in premio arriva a prendersi l’Oscar nel 2014 con “La grande bellezza” e oggi è in lizza per fare il bis, e i numeri ci sono tutti, il film è di quelli che piacciono agli americani ma bisognerà fare i conti con gli altri candidati di cui al momento nulla si sa.

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Un film in stato di grazia, dicevo, commedia tragica, ché dirlo tragicommedia sembra riduttivo perché sembra volerlo relegare in un sottogenere, mentre questo film percorre tanti generi, dal biografico al film di formazione. Sorrentino ci mette se stesso, la sua giovinezza spensierata di secchione (oggi si dice nerd) che commenta le situazioni coi versi del sommo Dante e che dopo il diploma (ha 17 anni circa) vuole iscriversi a filosofia. Un ragazzo come tanti in una famiglia come tante allargata a parenti ed amici, figure che via via che si allontanano dalla cerchia ristretta del nucleo familiare diventano vieppiù macchiette da raccontare con pochi tratti, poche pennellate sempre magistrali, perché il chiaroscuro dei dettagli e la profondità di indagine e di immagine è conservata per gli affetti più cari, i genitori e il fratello maggiore, riservando alla sorella l’emblematica figura di un personaggio incognito, sempre chiusa in bagno, da cui la vedremo uscire con una maschera dolorosa all’accadere della tragedia.

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Paolo Sorrentino è un narratore eccezionale e fa della sua biografia un racconto esemplare anche e soprattutto nelle piccole cose, perché a raccontare grandi cose, barzellette e tragedie, siamo buoni tutti; tutti abbiamo nelle nostre famiglie soggetti con disturbi della personalità e nelle nostre giovinezze personaggi fuori dalla norma e sopra le righe: Sorrentino ne fa dei ritratti esemplari, ancora una volta, e di straziante bellezza narrativa: la zia Patrizia e la signora Gentile.

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Durante la gita in barca tutti a prua a guardare imbarazzati il nudo integrale di Patrizia
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La Patrizia di Luisa Ranieri della quale sul web non circolano ancora le immagini del nudo integrale nel film, ma solo nudi in film precedenti che non prendo in prestito

La prima afflitta (e nel termine afflitta non vuole esserci giudizio morale) da una esuberanza erotica (o ninfomania) che viaggiando di pari passo a un disagio psichico la porta a prostituirsi per poi raccontare di avere avuto incontri fantastici e e miracolosi con San Gennaro e la mitica figura partenopea del monaciello: il sacro e il profano; la seconda come amica di famiglia, donna dura chiusa in un suo mondo interiore, che a dispetto del cognome Gentile manda sempre affanculo tutti con i termini più coloriti della lingua napoletana, e da tutti sempre derisa: l’attenzione di Sorrentino per questo personaggio di contorno, e il suo affetto sincero, prendono corpo quando nel momento del dolore sarà l’unica a rivolgere al giovane protagonista dei versi di Dante in un dialogo fra pari che si sono compresi fuori dal coro.

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Dora Romano come Signora Gentile

Dora Romano la interpreta con sguardi di furore trattenuto e grande adesione. Alla zia Patrizia, sua musa ispiratrice e sogno erotico, Sorrentino dedica tutto l’inizio del film – dopo una lunga silenziosa ripresa aerea che dal mare entra in città a esplorare la lunga fila di maschere grige alla fermata dell’autobus nella quale brilla di erotica bellezza, coi capezzoli dei seni generosi che quasi bucano la camicetta, la zia che si lascia irretire da un fascinoso San Gennaro in limousine con autista che la conduce in un fatiscente palazzo nobiliare dove le compare anche il monaciello della tradizione partenopea: un momento di puro cinema surrealista, o immaginifico alla Federico Fellini, in un film che qua e là si aprirà su altri momenti e scenari emblematici, com’è nel gusto di Sorrentino – “La grande bellezza” in testa – e nella qui dichiarata ispirazione al cinema di Fellini che diventa a sua volta personaggio in commedia. La napoletana del Vomero (come l’autore) Luisa Ranieri si dà completamente a questo bellissimo personaggio che Sorrentino dichiaratamente ama sin dall’adolescenza, ed è forse per lei – che ha debuttato con Pieraccioni vent’anni fa e passando anche per la tv sia come attrice che come conduttrice – l’interpretazione più carismatica della sua carriera.

Vale la pena annotare che il fascinoso signore di mezza età che lei vede come San Gennaro è interpretato da Enzo Decaro, il bello del trio cabarettistico La Smorfia formato nella seconda metà degli anni ’70 con Massimo Troisi e Lello Arena. Sorrentino nel 1991 gli è stato assistente alla regia quando Decaro tentò il percorso di autore cinematografico parimenti ai suoi ex colleghi Arena e Troisi, con differenti esiti.

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In questo film corale è protagonista assoluto l’io narrante Fabietto Schisa alter ego dell’autore che affida il ruolo al ventenne Filippo Scotti nativo della provincia di Como ma trasferitosi a Napoli con la famiglia: i genitori sono entrambi insegnanti. Il ragazzo, già da bambino è interessato alla recitazione e a 11 anni si iscrive a dei laboratori teatrali e da lì in poi si avvia al teatro e poi partecipa a dei cortometraggi; con un piccolo ruolo nel televisivo Sky “1994” e poi con una presenza più consistente nel Netflix “La luna nera” a vent’anni ha già la maturità professionale per questo ruolo da protagonista a cui si richiede il vero talento, secondo la scuola dell’autore Sorrentino, che in questo film mette insieme un cast eterogeneo di professionisti e debuttanti che tutti insieme diventano, sotto la direzione del maestro, un esempio di come si dovrebbe recitare. A tal proposito Sorrentino si prende la briga, attraverso il personaggio del suo primo maestro di cinema Antonio Capuano, qui interpretato da Ciro Capano, di dare una lezione morale di recitazione a quegli attori troppo autoreferenziali e stilosi.

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I genitori sono Toni Servillo (una volta tanto non al centro del film) e una sorprendente e già premiata Teresa Saponangelo, attrice da tenere in gran considerazione fin qui relegata sempre in ruoli di supporto. L’importante personaggio del fratello maggiore è andato a Marlon Joubert, nome mezzo americano e mezzo francese per un attore di cui si sa poco o nulla, neanche l’età grazie al fatto che evita i social; dal curriculum sulla pagina del suo agente cinematografico si evince un po’ di teatro, qualche cortometraggio due dei quali come autore e soprattutto un ruolo ricorrente nella serie tv Sky “Romulus”; qui è alla sua prima esperienza con un importante ruolo da coprotagonista e la mia attenzione è dovuta al fatto che è un attore da tenere in considerazione per il futuro; al suo personaggio di fratello maggiore, che lui interpreta con sincera ed emotiva partecipazione, vanno molti dei momenti più significativi del film: è lui che rinuncia ai suoi sogni di gloria – come ogni giovane ne ha – scegliendo la rassicurante banale felicità del quotidiano fatto di piccole cose, gli spinelli gli amici e l’amore, benedicendo il fratello minore che se ne va con il pesante fardello della perseveranza alla ricerca del successo e, implicitamente, della tortuosa infelicità dell’artista.

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Nel resto del cast che sarebbe da premiare tutto in blocco, ritroviamo come zio filosofo l’ormai “grande vecchio” del cinema napoletano Renato Carpentieri qui alla sua prima volta con Sorrentino; nel ruolo dell’ambigua anziana baronessa facciamo la conoscenza della teatrale Betty Pedrazzi ancora poco presente al cinema e sono certo che la rivedremo. Della cinematografia napoletana rivediamo Massimiliano Gallo, Roberto De Francesco, Cristiana Dell’Anna e Lino Musella. La giovane russa Sofya Gershevich fa l’attrice straniera che recita la Salomè di Oscar Wilde in italiano incorrendo nelle ire del purista Antonio Capuano di cui ho già detto. Sorprendente per freschezza e adesione l’interpretazione dell’ex scugnizzo dei Quartieri Spagnoli Biagio Manna che è passato dalla vita di strada alla recitazione, come tanti suoi coetanei che hanno trovato un senso di vita migliore grazie alla frequentazione dei set, non ultima la serie Sky “Gomorra” appena conclusa dopo cinque gloriose stagioni.

La Mano di Dio del titolo è quella che nel 1984, anno in cui si svolge la vicenda, ha portato a Napoli Diego Armando Maradona con grande esultanza di tutti i tifosi fra i quali si annovera Paolo Sorrentino che fa di questo suo film, in seconda istanza, anche un omaggio al grande calciatore; e per dire quanto l’autore sia appassionato di calcio basta ricordare che la sua opera prima “L’uomo in più” si ispira proprio alla vita di un altro calciatore, il meno noto e più sfortunato Agostino Di Bartolomei.

Il prossimo appuntamento è il 9 gennaio per l’assegnazione dei Golden Globe dove Sorrentino se la dovrà vedere con Pedro Almodòvar e il suo “Madre paralelas” che a Venezia si è aggiudicato la migliore interpretazione femminile per Penelope Cruz. Gli altri film in concorrenza vengono da Iran Giappone e Finlandia, da non sottovalutare perché sono stati vincitori in diverse sezioni al Festival di Cannes.

Film d’amore e d’anarchia

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Se n’è andata a 93 anche Lina Wertmüller, ancora sulla cresta dell’onda nonostante la sua fama sia dovuta a non più di quattro film girati negli ormai lontani anni settanta. Quattro film che hanno segnato un’epoca e imposto uno stile unico, il suo, immediatamente riconoscibile, come accade per i grandi, Fellini tanto per dirne uno.

Arcangela Felice Assunta Wertmüller von Elgg Spanol von Braueich è nata a Roma da un avvocato potentino con antiche ascendenze nobiliari svizzere e si avvicina al mondo dello spettacolo grazie alla frequentazione di un’amica e compagna di scuola, Flora Carabella, figlia di un musicista, che poi si iscrisse all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica; anche Lina tentò quella strada ma essendo di due anni più piccola dell’amica, coi suoi 16 anni non si poté iscrivere e allora frequentò i corsi privati di Pietro Sharoff, un russo naturalizzato italiano che in patria era stato allievo di Mejerchol’d e aiuto regista di Stanislavskij, al cui metodo si ispirò come insegnante di recitazione a Roma. Flora Carabella, recitando in teatro nei “Sei personaggi in cerca d’autore” di Luigi Pirandello regia di Luchino Visconti, conobbe e sposò il collega Marcello Mastroianni, il quale divenendo presto un divo del cinema veicolò in Lina la passione per la settima arte (la più moderna dopo le classiche sei: architettura, musica, pittura, scultura, poesia e danza).

Prima di lavorare in teatro con Garinei e Giovannini da cui prende il gusto per la commedia, e con Giorgio De Lullo che la ispira sul piano drammatico, si era fatta le ossa come animatrice e regista nel teatro di burattini di Maria Signorelli, e anche se lei non ne farà cenno nelle interviste successive, questa esperienza segnerà a mio avviso il suo stile, perché utilizzerà i suoi interpreti proprio come marionette: i gesti, seppur minimi, devono essere precisi secondo la sua ferrea direzione, e partendo da un affettuoso “amore devi fa’ così” poi seguito da un più spazientito “amo’ t’avevo detto che devi fa’ così” finiva anche col picchiare e ferire i malcapitati: Luciano De Crescenzo sul set del televisivo “Sabato, domenica e lunedì” (1990) colpevole di agitare sempre il dito per aria, dovette correre in ospedale a farsi mettere tre punti perché Lina, dopo ripetute e inascoltate correzioni, glielo aveva morso a sangue.

#love and anarchy di SLEEPY GOLDEN STORM

Anche gli sguardi e i movimenti degli occhi devono essere precisi al millimetro nei suoi primissimi piani da proiettare in schermi di 15 metri di larghezza in media, e si metteva davanti agli interpreti indicando col suo dito dove e quando girare le pupille. Va da sé che dava anche le intonazioni e il ritmo delle battute, proprio come se gli esseri umani che dirigeva fossero pupazzi di legno a cui lei dava la sua voce, fermo restando che poi rifaceva tutto in doppiaggio, pratica assai abusata in quegli anni, dove si ricreava completamente il parlato del film. Doppiaggio che nel caso di questo “Film d’amore e d’anarchia” creò alla produzione non pochi problemi, arrivando a costare quasi quanto l’intero girato, perché le ragazze della casa di tolleranza provengono da tutte le regioni d’Italia e ne parlano tutti i dialetti.

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Prime da sinistra: Lina Polito e Mariangela Melato; al centro col braccio alzato Isa Danieli, seduta accanto a lei Enrica Bonaccorti; ultima a destra Anna Melato.

Dopo l’exploit di Mimì Metallurgico, nel quale racconta il disagio della classe operaia, e col quale impose all’attenzione di critica e pubblico l’inedita coppia Giannini-Melato – quando i produttori avrebbero voluto imporle altri nomi ben più noti che lei sapeva di non poter dirigere secondo il suo tirannico metodo, con questo film ripropone la coppia vincente e fa un salto nell’immediato passato dell’Italia fascista ispirandosi a un fatto realmente accaduto: quello di un uomo venuto a Roma dalla provincia per uccidere Mussolini e che trascorre tre giorni in un casino, protetto accudito e coccolato dalle prostitute. Il film è drammatico ma il suo modo di trattare la materia, quello grottesco e divertito che sarà la sua cifra vincente, ne fa un’opera magistrale che entusiasma la critica e fa accorrere a frotte la gente a al cinema. Se già con Mimì aveva risvegliato l’attenzione di Hollywood con questo “Love and Anarchy” si guadagnò l’ammirazione incondizionata del severissimo critico John Simon e cominciarono ad arrivare le proposte da Hollywood.

Love & Anarchy (1973) - IMDb

Nel film le sue marionette diventano maschere da commedia dell’arte con tutte le tipologie dialettali del genere e le caratterizzazioni precise e senza le sfumature del naturalismo; le ragazze, come tristi Pierrot, sono pesantemente truccate di bianco (Lina metteva mano anche al trucco) e il protagonista, con la zazzera disordinata e decolorata in rosso, indossa un make-up (8 ore ogni seduta) che gli fa il volto una maschera piena di efelidi: una fantasia dell’autrice che disegna i suoi personaggi direttamente sugli interpreti, diversamente da quanto faceva Federico Fellini – per il quale era stata assistente in “La dolce vita” e “8 1/2” – che disegnava i suoi pupazzi su carta e poi li trasferiva nella fisicità e nella fisionomia degli attori.

Il film si conclude con una citazione dello scrittore anarchico Errico Malatesta: “Voglio ripetere il mio orrore per attentati che oltre a essere cattivi in sé sono stupidi perché nuocciono alla causa che dovrebbero servire… Ma quegli assassini sono anche dei santi e degli eroi… e saranno celebrati il giorno in cui si dimenticherà il fatto brutale per ricordare solo l’idea che li illuminò e il martirio che li rese sacri.” E vale la pena elencare il cast che con Giannini protagonista assoluto ha come coprotagoniste Mariangela Melato e la debuttante Lina Polito che giovanissima aveva recitato in teatro con Eduardo De Filippo. Eros Pagni tratteggia la maschera del facinoroso fascista e Pina Cei è la tenutaria del bordello. Elena Fiore, che abbiamo visto in “Mimì metallurgico” è la sguaiata cagna da guardia del casino, mentre alle signorine prestano volto e non sempre voce: Isa Danieli che tornerà più volte a lavorare con Lina, Anna Melato sorella di Mariangela, le giovanissime e irriconoscibili Enrica Bonaccorti e Anna Bonaiuto, e ancora Giuliana Calandra e Isa Bellini. Roberto Herlitzka in una sola scena dà vita a un ispettore di polizia fascista che tratteggia la filosofia del regime: cancellare dalla memoria collettiva gli oppositori del regime.

Nella filmografia di Lina seguirà “Tutto a posto e niente in ordine”, un film che torna al mondo operaio contemporaneo con un cast corale e col quale l’autrice prova ad affrancarsi dalla coppia Giannini-Melato ormai divenuta celeberrima, grazie a lei, e che singolarmente sono avviati in eccellenti carriere; il film non ebbe successo commerciale e posso testimoniare in prima persona, essendo all’epoca un giovane spettatore di Lina Wertmüller, che io stesso non andai a vedere il film perché non c’erano Giannini e Melato. Quello stesso anno, il 1974, torna nelle sale dirigendo di nuovo la coppia fatale in “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto” che sarà la punta di diamante dei quattro film che contano nella sua carriera. Concluderà questo quartetto fortunato “Pasqualino Settebellezze” col quale torna al passato e agli orrori del nazi-fascismo.

A quel punto cede alle lusinghe di Hollywood e gira “La fine del mondo nel nostro solito letto in una notte piena di pioggia” con Giannini e Candice Bergen, un film sbagliato che rompe definitivamente l’incanto e la complicità fra l’autrice e il suo pubblico, e anche con Hollywood che non perdona gli insuccessi: io ero andato a vederlo perché era il primo film americano di Lina e anche perché c’era la bionda glaciale Candice Bergen che avevo ammirato in “Soldato Blu” e “Conoscenza Carnale”, 1970 e ’71. Lina non ne fa un dramma e continua imperterrita a lavorare, e tornata in Italia gira “Fatto di sangue fra due uomini…” nel quale coinvolge ancora una volta Giannini insieme ai divi di più lungo corso Marcello Mastroianni, suo amico personale a cui rinnovò il look aggiungendo una lunga barba, e Sophia Loren con la quale si scontrò subito proprio a causa del trucco: Lina voleva che il suo volto esprimesse la tragedia greca e, in fondo, sappiamo che voleva ridisegnare a suo modo la diva; la quale, ferma alla sua immagine di star internazionale con le sopracciglia ad ali di gabbiano, non voleva assolutamente che qualcuno le cambiasse i connotati: che erano la percezione di sé e insieme l’immagine con la quale il pubblico la percepiva da sempre: vinse Lina e in seguito lavorarono di nuovo insieme. Lei, la terribile regista sempre sorridente, è riuscita a creare intorno a sé una sua propria longeva mitologia senza mai più tornare, però, ai fulgori dei magici anni settanta; è passata alla regia di eccellenti film tv e poi alle regie d’opera grazie all’influenza e al gusto del marito scenografo, che ha curato tutti i suoi film, Enrico Job, che si legge iob e non giob all’inglese.

Film d'amore e d'anarchia - Ovvero "Stamattina alle 10 in via dei Fiori  nella nota casa di tolleranza..." - Wikipedia

“Film d’amore e d’anarchia – Ovvero: Stamattina alle 10 in via dei Fiori nella nota casa di tolleranza…” valse a Giannini il premio come migliore attore al Festival di Cannes; Grolla d’Oro alla migliore esordiente Lina Polito; Nastro d’Argento a Giannini e alla Polito; Mariangela Melato si dovette accontentare della candidatura ai New York Film Critics Circle Awards dove arrivò terza dietro alla vincitrice Joanne Woodward (“Summer Wishes, Winter Dreams” mai distribuito da noi) e alla seconda classificata Glenda Jackson (“Un tocco di classe”).

Nel 1977 Lina Wertmüller è stata la prima donna regista a essere candidata all’Oscar per il successivo “Pasqualino Settebellezze” in tre categorie: migliori regia sceneggiatura e film straniero, anche con Giannini candidato come miglior attore. Lina è così diventata per le giovani registe dell’epoca un’icona a cui ispirarsi, dato che è stata anche la prima ad avere un successo commerciale internazionale. “Non si può fare questo lavoro – dichiarerà lei – perché si è uomo o perché si è donna. Lo si fa perché si ha talento. Questa è l’unica cosa che conta per me e dovrebbe essere l’unico parametro con cui valutare a chi assegnare la regia di un film”. E’ stata anche la prima a far recitare en travesti Rita Pavone nel ruolo maschile del televisivo “Il giornalino di Gian Burrasca” ed era il 1964.

La cultura femminile o femminista oggi la indica come un’autrice che ha sempre posto attenzione alla condizione della donna, ma così non è, e io c’ero: Lina Wertmüller, nei suoi film di punta, con eccezione di “Travolti…” dove i ruoli uomo-donna sono assolutamente paritari, non si preoccupava di avere uno sguardo al femminile, tutt’altro; i suoi protagonisti sono stati i personaggi – Mimì, Tunin, Pasqualino – interpretati da Giancarlo Giannini, suo vero alter ego, e le donne erano solo coprotagoniste della vicenda; di fatto lei non si curava di essere femminile o maschile ma solo regista coniugata al maschile: “Il massimo della mia aspirazione – dirà – non era passare alla storia come un regista impegnato, io volevo passare alla storia come un regista che si è divertito.”

E’ più utile dire che ha indagato i ruoli dell’uomo e della donna nella nostra società e in diverse epoche, sempre nell’eterno dialogo tra il Nord e il Sud – lei che si è sempre considerata una donna del sud; e nel contrasto tra la borghesia e il proletariato, sempre guardando la politica e la società con ironia pungente e grottesca, senza mai prendersi sul serio, appunto, e divertendosi divertendoci. Nel 2020 le viene attribuito l’Oscar onorario con questa motivazione: “Per il suo provocatorio scardinare con coraggio le regole politiche e sociali attraverso la sua arma preferita: la cinepresa”.

E’ del 2015 il film documentario di Valerio Ruiz “Dietro gli occhiali bianchi”, visibile nel pacchetto Sky, in cui è raccontata da quanti l’hanno conosciuta e in cui lei stessa si racconta sempre col brio che l’ha contraddistinta, raccontandoci dei suoi occhiali bianchi: “Devo dire che ho sempre avuto una gran simpatia per gli occhialiprima ce li avevo di tutti i colori: verdi giallo rossi, poi a un certo punto c’è stato un incontro fatale, quello con gli occhiali bianchi. Come succede negli incontri d’amore, uno non se l’aspetta quel segno del destino però quando càpita càpita!” E’ questo il creare la propria mitologia: io non credo affatto che una giovane donna, come un giovane uomo, potesse essere felice di dover portare gli occhiali e perciò averne una gran simpatia: ci si convive e si scende a compromessi, ci si piace così come si è. Poi lei continua spiegando che avendo trovato un modello che le piaceva particolarmente, dovendo sostituirlo e non trovandolo più nei negozi, si reca addirittura nella fabbrica che li produceva pensando di acquistarne una mezza dozzina, ma l’imprenditore le spiegò che l’ordine minimo era di 5000 pezzi e così Lina si rifornì dei suoi occhiali bianchi per tutta la vita. E anche oltre.

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