Un film in stato di grazia. Candidato per l’Italia agli Oscar 2022 ma l’Academy deve ancora decidere se rientrerà nella selezione, candidato al Golden Globe, in concorso per il Leone d’Oro a Venezia ha vinto quello d’Argento Gran Premio della Giuria (quello d’oro è andato all’unanimità al francese “La scelta di Anne”), sempre da Venezia il Premio Marcello Mastroianni al migliore esordiente Filippo Scotti e il Pasinetti assegnato dai giornalisti come miglior film e migliore attrice a Teresa Saponangelo, e fra altri premi minori e candidature la lista internazionale è ancora lunga.
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Ormai sappiamo che i film di Paolo Sorrentino, sceneggiatore e regista, non passano inosservati, sin dal suo primo lungometraggio “L’uomo in più” (2001) col quale vince il Nastro d’Argento come migliore regista esordiente e col quale inizia il suo sodalizio con Toni Servillo, suo attore feticcio. Di film in film e di premio in premio arriva a prendersi l’Oscar nel 2014 con “La grande bellezza” e oggi è in lizza per fare il bis, e i numeri ci sono tutti, il film è di quelli che piacciono agli americani ma bisognerà fare i conti con gli altri candidati di cui al momento nulla si sa.
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Un film in stato di grazia, dicevo, commedia tragica, ché dirlo tragicommedia sembra riduttivo perché sembra volerlo relegare in un sottogenere, mentre questo film percorre tanti generi, dal biografico al film di formazione. Sorrentino ci mette se stesso, la sua giovinezza spensierata di secchione (oggi si dice nerd) che commenta le situazioni coi versi del sommo Dante e che dopo il diploma (ha 17 anni circa) vuole iscriversi a filosofia. Un ragazzo come tanti in una famiglia come tante allargata a parenti ed amici, figure che via via che si allontanano dalla cerchia ristretta del nucleo familiare diventano vieppiù macchiette da raccontare con pochi tratti, poche pennellate sempre magistrali, perché il chiaroscuro dei dettagli e la profondità di indagine e di immagine è conservata per gli affetti più cari, i genitori e il fratello maggiore, riservando alla sorella l’emblematica figura di un personaggio incognito, sempre chiusa in bagno, da cui la vedremo uscire con una maschera dolorosa all’accadere della tragedia.
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Paolo Sorrentino è un narratore eccezionale e fa della sua biografia un racconto esemplare anche e soprattutto nelle piccole cose, perché a raccontare grandi cose, barzellette e tragedie, siamo buoni tutti; tutti abbiamo nelle nostre famiglie soggetti con disturbi della personalità e nelle nostre giovinezze personaggi fuori dalla norma e sopra le righe: Sorrentino ne fa dei ritratti esemplari, ancora una volta, e di straziante bellezza narrativa: la zia Patrizia e la signora Gentile.
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La prima afflitta (e nel termine afflitta non vuole esserci giudizio morale) da una esuberanza erotica (o ninfomania) che viaggiando di pari passo a un disagio psichico la porta a prostituirsi per poi raccontare di avere avuto incontri fantastici e e miracolosi con San Gennaro e la mitica figura partenopea del monaciello: il sacro e il profano; la seconda come amica di famiglia, donna dura chiusa in un suo mondo interiore, che a dispetto del cognome Gentile manda sempre affanculo tutti con i termini più coloriti della lingua napoletana, e da tutti sempre derisa: l’attenzione di Sorrentino per questo personaggio di contorno, e il suo affetto sincero, prendono corpo quando nel momento del dolore sarà l’unica a rivolgere al giovane protagonista dei versi di Dante in un dialogo fra pari che si sono compresi fuori dal coro.
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Dora Romano la interpreta con sguardi di furore trattenuto e grande adesione. Alla zia Patrizia, sua musa ispiratrice e sogno erotico, Sorrentino dedica tutto l’inizio del film – dopo una lunga silenziosa ripresa aerea che dal mare entra in città a esplorare la lunga fila di maschere grige alla fermata dell’autobus nella quale brilla di erotica bellezza, coi capezzoli dei seni generosi che quasi bucano la camicetta, la zia che si lascia irretire da un fascinoso San Gennaro in limousine con autista che la conduce in un fatiscente palazzo nobiliare dove le compare anche il monaciello della tradizione partenopea: un momento di puro cinema surrealista, o immaginifico alla Federico Fellini, in un film che qua e là si aprirà su altri momenti e scenari emblematici, com’è nel gusto di Sorrentino – “La grande bellezza” in testa – e nella qui dichiarata ispirazione al cinema di Fellini che diventa a sua volta personaggio in commedia. La napoletana del Vomero (come l’autore) Luisa Ranieri si dà completamente a questo bellissimo personaggio che Sorrentino dichiaratamente ama sin dall’adolescenza, ed è forse per lei – che ha debuttato con Pieraccioni vent’anni fa e passando anche per la tv sia come attrice che come conduttrice – l’interpretazione più carismatica della sua carriera.
Vale la pena annotare che il fascinoso signore di mezza età che lei vede come San Gennaro è interpretato da Enzo Decaro, il bello del trio cabarettistico La Smorfia formato nella seconda metà degli anni ’70 con Massimo Troisi e Lello Arena. Sorrentino nel 1991 gli è stato assistente alla regia quando Decaro tentò il percorso di autore cinematografico parimenti ai suoi ex colleghi Arena e Troisi, con differenti esiti.
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In questo film corale è protagonista assoluto l’io narrante Fabietto Schisa alter ego dell’autore che affida il ruolo al ventenne Filippo Scotti nativo della provincia di Como ma trasferitosi a Napoli con la famiglia: i genitori sono entrambi insegnanti. Il ragazzo, già da bambino è interessato alla recitazione e a 11 anni si iscrive a dei laboratori teatrali e da lì in poi si avvia al teatro e poi partecipa a dei cortometraggi; con un piccolo ruolo nel televisivo Sky “1994” e poi con una presenza più consistente nel Netflix “La luna nera” a vent’anni ha già la maturità professionale per questo ruolo da protagonista a cui si richiede il vero talento, secondo la scuola dell’autore Sorrentino, che in questo film mette insieme un cast eterogeneo di professionisti e debuttanti che tutti insieme diventano, sotto la direzione del maestro, un esempio di come si dovrebbe recitare. A tal proposito Sorrentino si prende la briga, attraverso il personaggio del suo primo maestro di cinema Antonio Capuano, qui interpretato da Ciro Capano, di dare una lezione morale di recitazione a quegli attori troppo autoreferenziali e stilosi.
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I genitori sono Toni Servillo (una volta tanto non al centro del film) e una sorprendente e già premiata Teresa Saponangelo, attrice da tenere in gran considerazione fin qui relegata sempre in ruoli di supporto. L’importante personaggio del fratello maggiore è andato a Marlon Joubert, nome mezzo americano e mezzo francese per un attore di cui si sa poco o nulla, neanche l’età grazie al fatto che evita i social; dal curriculum sulla pagina del suo agente cinematografico si evince un po’ di teatro, qualche cortometraggio due dei quali come autore e soprattutto un ruolo ricorrente nella serie tv Sky “Romulus”; qui è alla sua prima esperienza con un importante ruolo da coprotagonista e la mia attenzione è dovuta al fatto che è un attore da tenere in considerazione per il futuro; al suo personaggio di fratello maggiore, che lui interpreta con sincera ed emotiva partecipazione, vanno molti dei momenti più significativi del film: è lui che rinuncia ai suoi sogni di gloria – come ogni giovane ne ha – scegliendo la rassicurante banale felicità del quotidiano fatto di piccole cose, gli spinelli gli amici e l’amore, benedicendo il fratello minore che se ne va con il pesante fardello della perseveranza alla ricerca del successo e, implicitamente, della tortuosa infelicità dell’artista.
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Nel resto del cast che sarebbe da premiare tutto in blocco, ritroviamo come zio filosofo l’ormai “grande vecchio” del cinema napoletano Renato Carpentieri qui alla sua prima volta con Sorrentino; nel ruolo dell’ambigua anziana baronessa facciamo la conoscenza della teatrale Betty Pedrazzi ancora poco presente al cinema e sono certo che la rivedremo. Della cinematografia napoletana rivediamo Massimiliano Gallo, Roberto De Francesco, Cristiana Dell’Anna e Lino Musella. La giovane russa Sofya Gershevich fa l’attrice straniera che recita la Salomè di Oscar Wilde in italiano incorrendo nelle ire del purista Antonio Capuano di cui ho già detto. Sorprendente per freschezza e adesione l’interpretazione dell’ex scugnizzo dei Quartieri Spagnoli Biagio Manna che è passato dalla vita di strada alla recitazione, come tanti suoi coetanei che hanno trovato un senso di vita migliore grazie alla frequentazione dei set, non ultima la serie Sky “Gomorra” appena conclusa dopo cinque gloriose stagioni.
La Mano di Dio del titolo è quella che nel 1984, anno in cui si svolge la vicenda, ha portato a Napoli Diego Armando Maradona con grande esultanza di tutti i tifosi fra i quali si annovera Paolo Sorrentino che fa di questo suo film, in seconda istanza, anche un omaggio al grande calciatore; e per dire quanto l’autore sia appassionato di calcio basta ricordare che la sua opera prima “L’uomo in più” si ispira proprio alla vita di un altro calciatore, il meno noto e più sfortunato Agostino Di Bartolomei.
Il prossimo appuntamento è il 9 gennaio per l’assegnazione dei Golden Globe dove Sorrentino se la dovrà vedere con Pedro Almodòvar e il suo “Madre paralelas” che a Venezia si è aggiudicato la migliore interpretazione femminile per Penelope Cruz. Gli altri film in concorrenza vengono da Iran Giappone e Finlandia, da non sottovalutare perché sono stati vincitori in diverse sezioni al Festival di Cannes.