Archivio mensile:novembre 2021

Dune 2021 – remake o reboot?

Adesso è di moda chiamarli reboot, riavvio, una volta erano semplicemente remake, rifacimento. A voler essere pignoli questo è il rifacimento del film del 1984 che non ebbe sequel, mentre per reboot si intende il riavvio di un’intera saga o serie, come è successo con lo 007 di “Casino Royale” interpretato da Daniel Craig, o “Terminator Genisys” che riavvia la serie di nuovo sotto il controllo di James Cameron, al quale era stato scippato.

Questo remake, che il titolo originale specifica “Dune: Part One” e già sappiamo che è in lavorazione la Parte Due, porta sullo schermo la prima parte del primo dei sei libri scritti da Frank Herbert; nelle intenzioni del regista c’è una trilogia la cui terza parte sarà il secondo volume del Ciclo di Dune. Per gli altri quattro volumi: chi vivrà vedrà.

Nel film c’è di buono che concedendo alla storia lo spazio necessario, risulta comprensibile rispetto al precedente, e ci vuole poco: i rapporti fra i personaggi e fra i diversi popoli sono finalmente chiari, e il problema del mentalismo degli Atreides è risolto brillantemente e semplicemente: leggiamo in sovrimpressione quello che si dicono, come generalmente succede quando in un film si parlano altre lingue o linguaggi, e l’espediente è davvero ridotto al minimo, con la brillante intuizione – dato che il cinema è arte visiva – di accompagnare il pensiero-dialogo con alcuni gesti che imitano il linguaggio dei segni per non udenti. Altra brillante soluzione narrativa è il libro-racconto (un video documentario tridimensionale) che il protagonista consulta per informarsi, come noi oggi facciamo googlando, e per informare noi del pubblico senza ricorrere a quelli che in gergo vengono chiamati spiegoni.

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Altre cose saltano subito all’occhio, a cominciare dal protagonista Timothée Chalamet che ha la stessa età che aveva Kyle MacLachlan; ma mentre nel “Dune” del 1984 l’attore 25enne aveva già l’aspetto di un uomo fatto, e il personaggio risultava sperduto nel senso di confuso (colpa della sceneggiatura e dei tagli al film), oggi Paul Atreides ha il giusto aspetto di un ragazzo, confuso perché alla ricerca della sua identità, in ciò che è sempre il classico percorso di formazione di tutti gli eroi: tormentato e puro di cuore laddove il Paul del 1984 appariva a tratti anche troppo compiaciuto di fare l’eroe.

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Salta subito all’occhio anche il cast multi etnico che risponde agli imperativi delle produzioni anglo-americane e che nel 1984 non esisteva, erano tutti visi pallidi; e poi l’assenza di personaggi chiave del primo film: l’Imperatore, la Principessa sua figlia e il nipote punk del Barone Harkonnen; ma nel racconto ne entrano altri. Le scenografie sontuose sfarzose colorate e luminose sono state sostituite da ampi spazi vuoti, grandi scalinate grige e vuote pareti decorate a rilievo, sempre in ombra, in penombra, al buio, coi personaggi in controluce e soffusi nella foschia, in un vedo-non-vedo assai intrigante che crea atmosfere cupe, opera di Patrice Vermette.

Ché di fondo il film è questo; una cupa vicenda tragica dove illustri famiglie si combattono, anziché da un regno a un altro sulla stessa terra – da un pianeta a un altro; ma i sentimenti sono sempre quelli, mossi dalla voglia di potere, e gli intrighi sono sempre gli stessi, dalle tragedie shakespeariane in poi; Frank Herbert vi ha aggiunto un eroe cristologico al centro di una religione new age, con tanto di reverende madri, anch’essa derivata da un miscuglio di filosofie più o meno religiose che ben conosciamo: il genio dell’autore, come quello di Dan Brown con i suoi thriller a sfondo religioso-iniziatico, sta nella capacità di raccogliere polverosi spunti e più o meno nascosti dettagli della nostra cultura filosofico-religiosa e riscriverli creando una nuova narrativa avvincente.

Che nel caso di Dune è la debolezza del film. Dune, come Il Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien, è un mondo a sé, ricco di altri mondi ulteriori, popoli, tradizioni, linguaggi. Bene ha fatto, e il successo lo dimostra, il regista Peter Jackson che ha lavorato in contemporanea a tre film per raccontare l’intera vicenda – benché ampiamente e necessariamente scremata. Questo “Dune” è assai fedele al romanzo ma nel raccontarne cinematograficamente le complesse vicende, territoriali e umane, è appesantito da un andamento lento dove anche le battaglie appaiono come affreschi pittorici in movimento e che non conferiscono ritmo al film, che dura 2 ore e mezza e sono ore che si sentono; a differenza, tanto per dire, delle 4 ore di “Zach Snyder’s Justice League” che forte del successo si è anche tolto lo sfizio di fare uscire il film anche in bianco e nero. Il film risulta dunque un fantasy più adatto agli adulti (non anagraficamente ma culturalmente parlando) che agli adolescenti (di ogni età) educati a videogiochi e blockbusters; ha la solennità di certi racconti bergmaniani conditi da effetti speciali. E soprattutto mancano divagazioni e personaggi accattivanti: il romanzo (che non ho letto) è serio, anche l’autore è serio, e ora il regista si prende sul serio.

Il canadese Denis Villeneuve, che co-scrive la sceneggiatura con Eric Roth, Oscar per “Forrest Gump” e Jon Spaihts specializzato in prequel (Alien) e reboot (La Mummia), sa di essere un autore con la a più o meno maiuscola e non lo nasconde; è abituato a ricevere premi e menzioni sin dagli esordi con film drammatici-esistenzialisti che guardano anche alla realtà della cronaca; poi accede alle produzioni con star americane e si da ai thriller-noir – ma l’eclettismo non è un peccato, anzi; con “Arrival” sbarca come gli alieni del film nella cinematografia sci-fi e si conquista un posto in prima fila: è pronto per il remake del capolavoro di Ridley Scott “Blade Runner” e questo la dice lunga: pensare di fare meglio e/o di rinnovarne l’immaginario è un grande esercizio di autostima; “Blade Runner 2049” fu un successo malgrado fosse un film sbagliato, con errori, e in definitiva inutile; ma il successo commerciale non guarda i peli nell’uovo e Villeneuve si accaparrò un posto nell’olimpo dei migliori in quel campo, dunque quando si presenta l’opportunità di ritentare con Dune, la bestia nera che tante vittime ha lasciato sul suo cammino, perché no? anzi!

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A Timothée Chalamet, americano con cittadinanza francese, fanno da contorno star di prima e seconda grandezza. La svedese (di madre inglese) Rebecca Ferguson, volto non noto al grande pubblico che si è messa in luce nella tv britannica, interpreta la madre di Paul Atreides, mentre il padre è interpretato dal guatemalteco-americano Oscar Isaac, un nome che è già una garanzia dalle parti di Hollywood. Josh Brolin raccoglie l’eredità di Patrick Stewart nel ruolo di maestro delle armi di Casa Atreides, e l’ex wrestler Dave Bautista, che era già con Villeneuve in “Blade Runner 2049”, interpreta La Bestia, nipote del Barone Harkonnen qui interpretato dall’irriconoscibile svedese star del cinema internazionale Stellan Skarsgård. Charlotte Rampling è la Reverenda Madre e la star dei teenager Zendaya nel ruolo della Freman Chani si avvia a fare coppia col protagonista, divenendo protagonista a sua volta della parte seconda in lavorazione. Jason “Aquaman” Momoa è il buono Duncan Idaho e lo spagnolo Premio Oscar Javier Bardem è capo tribù dei Fremen (cui manca una e per essere freemen, uomini liberi) il popolo del pianeta Arrakis che loro chiamano appunto Dune e che qui sono raccontati e abbigliati proprio come dei beduini del deserto africano. Attenzione all’etnicità anche nella scelta dell’interprete del personaggio del Dottor Yueh che nel 1984 era interpretato da Dean Stockwell e qui invece, seguendo il nome, dal taiwanese Chang Chen. Stephen McKinley Henderson raccoglie il testimone dal lynchiano Freddie Jones nel ruolo del mentat (mentalista) mentre l’ambiguo Piter DeVries che interpretava Brad Dourif qui è David Dastmalchian, attore poco noto anche lui già col regista in “Blade Runner 2049”.

Oltre al sequel già in lavorazione stanno ragionando su un prequel in forma di serie tv per Fox, “Dune: the Sisterhood” la sorellanza, che racconterebbe le Venerande Madri, che dai nemici vengono chiamate streghe, e il loro mondo esoterico-iniziatico. Scritta da Jon Spaihts, dovrebbe essere interpretata da Rebecca Ferguson mentre la prima puntata pilota dovrebbe essere diretta dallo stesso Denis Villeneuve che però ha dichiarato che al momento il progetto è in una fase di grande fragilità, un modo poetico per dire che è in stallo. Sopravviveremo anche a questo.

Dune – dietro il flop del 1984 un altro mondo da scoprire

Che botta! Quando lo vidi al cinema uscii dalla sala più confuso che deluso, e amareggiato, perché convinto che a non capire nulla fossi stato solo io; poi, dopo, compresi dalle critiche e dalle opinioni di tanti altri spettatori, che il film era semplicemente brutto e mi misi il cuore in pace. Non ero mai stato un appassionato di fantascienza, non ne leggevo fumetti né romanzi, ma il cinema mi aveva aperto questa nuova sorprendente prospettiva: altri mondi erano possibili, altri mondi erano temibili. Nel 1979 ero stato terrorizzato da “Alien” di Ridley Scott e poi affascinato da tutti i sequel; nel 1982 mi ero divertito col macabro horror di “La Cosa” di John Carpenter; ma soprattutto ero stato irretito dalla favola dalle “Guerre Stellari” di George Lucas che erano cominciate nel 1977 e che, purtroppo, non sono più finite: un franchising che divora la propria ispirazione. Solo qualche anno dopo recuperai “”2001: Odissea nello Spazio” di Stanley Kubrick e “Il Pianeta delle Scimmie” di Franklin J. Schaffner dato che alla loro uscita, nel 1968, ero ancora troppo piccolo, ma poi capii per tempo che la sci-fi cinematografica sarebbe stato uno dei miei generi preferiti.

Rivedo oggi il “Dune” di David Lynch e la delusione è meno personale perché ho più cognizioni e il senno del poi, ma altrettanto vivida è la delusione, per lo spreco di tanto talento. Il romanzo omonimo è del 1965 e lo scrittore Frank Herbert pubblica successivamente una serie di altri cinque libri, fino al 1985, creando una sua personale saga, allungata poi a dismisura dal di lui figlio (cosa non si fa per le royalties) insieme al prolifico scrittore appassionato di sci-fi Kevin J. Anderson, più noto per i suoi sequel e prequel e spin-off di romanzi e film famosi che per le sue creazioni originali: un succhiasangue letterario. I sei libri originali sono ancora oggi considerati una delle pietre miliari di quella letteratura, che hanno ispirato anche Lucas per le sue guerre stellari. La forza di “Dune” sta nella sua ispirazione mistico-religiosa venata di ecologismo, in un’epoca in cui gli autori di fantascienza si indirizzavano tutti verso la modernità contemporanea e il futuro più o meno stellare e più o meno catastrofico: “Dune” guarda al passato e crea dei mondi futuri in cui è atteso un messia che poi, quando si risveglia dalla pre-morte iniziatica si rivolge al padre celeste: una favola che ci era già stata raccontata, e talmente innestata nel nostro inconscio collettivo da farci percepire quella nuova fantascienza come un déjà-vu e archiviarla come il meglio del meglio perché intimamente sentita.

I tentativi di farne un film furono diversi ma quello che prese davvero corpo è del 1971 allorquando il produttore di “Il Pianeta delle Scimmie” opzionò i diritti cinematografici (che per l’autore del romanzo si traducono in guadagni netti anche se il film non si fa) con regia affidata al David Lean di “Lawrence d’Arabia” (1962), ma il produttore morì e con lui il progetto. Un nuovo tentativo si avviò nel 1974 ad opera di una cordata di produttori francesi che coinvolsero nella regia il visionario cileno naturalizzato francese Alejandro Jodorowsky: scrittore, drammaturgo, regista, attore, compositore, scenografo, costumista, sceneggiatore di fumetti: un eclettico che oscilla tra la genialità e la follia, che con i suoi primi tre lungometraggi (che vanno assolutamente visti) – “Il paese incantato” 1968, “El Topo” 1970, “La Montagna Sacra” 1973 – e con le sue atmosfere magiche orrorifiche e surrealiste si ritagliò uno spazio unico in un mondo, quello cinematografico, cui non appartiene se non accidentalmente. Negli anni non si è fatto mancare nulla fino ad approdare alla psicomagia, una pseudo-scienza sulla quale ha realizzato nel 2019 il documentario “Psicomagia, un’arte per guarire” (visto su Sky) e un libro. Ah, in ultimo si è fatto officiante del matrimonio tra Marilyn Manson e Dita Von Teese.

Alejandro Jodorowsky al centro sotto il grande fungo bianco fra gli sposini

Dicendo al volo che anche Ridley Scott nei primi anni ’80 cercò di fare il film e ci rinunciò per la difficoltosa complessità dedicandosi a “Blade Runner” e fece più che bene – l’avventura di Jodorowsky e del suo film mai realizzato è di per sé un’altra incredibile narrazione che il regista Frank Pravich racconta, coinvolgendo anche i testimoni ancora in vita, nel suo documentario “Jodorowsky’s Dune”. Si parte dal produttore francese Michel Seydoux (prozio di Léa che abbiamo appena visto nell’ultimo 007) il quale, innamorandosi del progetto e stimando senza se e senza ma il visionario eclettico, gli mette a disposizione un budget pressoché illimitato perché possa realizzare una nuova creazione, qualunque essa sia. A questo punto ogni persona di buon senso capisce che l’impresa è già avviata al fallimento, ma Seydoux sogna di liberare le esigenze dell’arte dalla tirannia delle risorse materiali, incoronandosi pioniere di un mecenatismo dalla generosità sconfinata, che non conta il vile denaro perché lui rifiuta il pensiero di non poterne offrire all’infinito: un soggetto da internare. In realtà poi il film non si realizzò perché questi capitali infiniti non esistevano se non nella fantasia dell’uomo.

Una proposta di locandina per il film mai realizzato: il classico carro messo davanti ai buoi

Ma l’altrettanto visionario Jodorowsky, fiducioso perché incline alla medesima utopia, si mise alacremente al lavoro e scrisse la sceneggiatura di un film che sarebbe durato 14 ore: una follia. Oggi ne avrebbero fatto una serie tv, come sono state fatte, ma all’epoca l’impresa fu liquidata come tale: una follia. Sulla carta un kolossal fantascientifico per il quale era riuscito a coinvolgere addirittura un suo celeberrimo amico, simbolista e surrealista della prim’ora, il marchese Salvador Dalì, per il ruolo dell’imperatore; c’era poi nel cast, come Barone Harkonnen, il grande e grosso Orson Welles, il quale per vile denaro faceva e fece di tutto; il rocker Mick Jagger arruolato come il di lui nipote Feyd-Rautha Harkonnen; e la divina Gloria Swanson come Reverenda Madre; agli effetti visivi ci sarebbe stato Dan O’Bannon (Alien) mentre la scenografia, psichedelica e new age, l’avrebbe disegnata il maestro dei fumetti fantasy Jean Giraud/Moebius, e last but not least la colonna sonora sarebbe stata firmata dai Pink Floyd. Solo a mettere in fila questi nomi gira la testa.

Alcune delle tavole realizzate da Moebius per il film

Troppa carne al fuoco per dei capitali talmente illimitati da essere inesistenti. Nel documentario “Jodorowsky’s Dune” c’è l’acuto e tagliente punto di vista di Amanda Lear, che all’epoca era amante e musa dell’anziano Salvador Dalì: “Per l’artista, è proprio l’assenza di limiti materiali a delineare il limite maggiore alla concretizzazione dell’aspirazione, a inibirne la progressiva evoluzione in opera d’arte.” E come la storia dell’arte ci insegna molti grandi capolavori sono stati realizzati nell’immanenza di limiti effettivi: dittature che limitano la libertà di espressione, coscrizione fisica, assoluta mancanza di mezzi di sussistenza e via discorrendo. Dalle smisurate 14 ore si passò a una più razionale sceneggiatura per un film di 3 ore, e ora che gli altrettanto smisurati finanziamenti francesi sin erano volatilizzati, si cercò il coinvolgimento di produttori americani, i quali, molto più pragmatici, rifiutarono di finanziare un kolossal diretto da Jodorowsky e a quel punto il progetto si avviò tristemente all’oblio. Quando dieci anni dopo partì la lavorazione di questo film diretto da David Lynch, Alejandro Jodorowsky ci rimase assai male, ma poi andò a vedere il film e commentò: “All’inizio ne ho molto sofferto perché pensavo di essere io l’unico in grado di realizzarlo. Sono andato a vedere il film con molta sofferenza, pensavo che sarei morto, ma quando ho visto il film mi è tornata l’allegria, perché il film è una merda.”

Dino De Laurentiis con Slvana Mangano

La merda prende il via nella seconda metà degli anni ’70 con Dino De Laurentiis che acquista i diritti e chiede all’autore di scrivere una nuova sceneggiatura. Il produttore era scappato dall’Italia per riparare con la famiglia – è sposato con Silvana Mangano e hanno tre figlie e un figlio – a causa di un grave dissesto economico procurato dalle leggi italiane: nei dintorni di Roma aveva costruito la sua cinecittà personale chiamandola Dinocittà, dove aveva girato grandi film anche con star internazionali – “Guerra e Pace” di King Vidor e “La Bibbia” di John Huston, tanto per ricordare due titoli. Ma nel 1972 cambia la legge sulle produzioni cinematografiche che ora consente i finanziamenti statali solo a produzioni al 100% italiane, contro il 50% precedente, e De Laurentiis chiude baracca e burattini e se ne va in America a fondare la sua De Laurentiis Entertainment Group con la quale produce film come “Serpico” di Sidney Lumet e “I Tre Giorni del Condor” di Sydney Pollack, tanto per ricordare un altro paio di titoli.

Il regista del momento era David Lynch che col suo secondo lungometraggio “The Elephant Man” aveva commosso il mondo intero sbancando i botteghini e ricevendo otto nomination agli Oscar – quindi poco importava che potesse essere o meno il più adatto a condurre in porto l’epico progetto, bastava che fosse uno dei giovani registi più promettenti del decennio: l’idea di fondo è che tutti possono fare tutto.

Forte del suo clamoroso successo anche come sceneggiatore, David Lynch chiese e ottenne da De Laurentiis di poter scrivere lui il film. C’è da ricordare che aveva appena rifiutato di dirigere “Il Ritorno dello Jedi”, il terzo episodio delle Guerre Stellari, perché pensava che quel progetto fosse troppo predefinito dal suo creatore e gli si chiedesse di essere solo un esecutore tecnico senza la possibilità di esprimere una propria creatività: di fatto, col senno di poi, sarebbe stata una grande scuola, per lui che veniva da piccoli film assai personali, nella gestione di una produzione di dimensioni faraoniche – come di fatto sarebbe stato “Dune”.

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Lynch impiegò tre anni per definire le scenografie e i costumi con Anthony Masters, già candidato all’Oscar per “2001: Odissea nello Spazio” mentre poi la lavorazione del film si protrasse per un intero anno, sei mesi di riprese con gli attori e altri sei per la post-produzione e gli effetti speciali, con un costo finale di 45 milioni di dollari dell’epoca che oggi sarebbero circa 120, e che fecero di “Dune” una delle produzioni più dispendiose per molti anni a venire. Ne incassò in patria circa 38 e riuscì a mettersi in paro con gli incassi del resto del mondo, e in particolare il mercato europeo dove il film restò per diverse settimane in testa al box office.

#virginia madsen di Costume Lovers 🎩🥧

Quei tre anni spesi a definire la parte visuale hanno prodotto il meglio del film, già allora e fino a tutt’oggi. Mentre per la fantascienza lo stile imperante era quello delle luci psichedeliche dei laser e degli effetti pirotecnici, per il film fu studiato e reso minuziosamente il mondo, i mondi, creati dallo scrittore: popoli dalle culture di stampo feudale e con credenze antiscientifiche, per i quali era possibile immaginare una tecnologia che, benché collocata nel nostro futuro, appare rétro, come nei film anni ’50 ispirati alla fantascienza di Jules Verne o H. G. Wells; e per i quali proprio in quegli anni ’80 è stato inventato il termine steam-punk per definire una tecnologia futuristica all’interno di una narrazione del passato, particolarmente l’epoca vittoriana, dove i computer sono macchine meccaniche che vanno a vapore (steam) e l’energia elettrica è ancora, come era nell’Ottocento, sinonimo di innovazione e progresso tecnologico, con la capacità di creare anche enormi magneti capaci anche di modificare nientemeno che l’orbita della Luna: effetti visivi spesso cinematograficamente poco credibili e di scarsa qualità (punk) tipici dei film di serie B.

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Il trucco e i costumi più riusciti: le Reverende Madri
Silvana Mangano, Francesca Annis e Siân Phillips

Lo stile visivo del “Dune” creato da David Lynch coi suoi eccellenti collaboratori (il direttore della fotografia è il doppio Oscar Freddie Francis) è sontuosamente steam-punk a partire dalle scenografie della casata Atreides in uno stile che coniuga barocco e modernismo, e insieme agli altrettanto straordinari costumi lo si può definire eclettismo ottocentesco. In quegli anni ’80 non c’era ancora la tecnologia digitale e tutta la fantascienza del film è meccanica: è l’italiano Carlo Rambaldi che ha creato gli enormi vermi che viaggiano sotto la sabbia delle dune e gli altri effetti speciali meccanici del film. Rambaldi era stato chiamato negli Stati Uniti proprio da De Laurentiis per creare il King Kong del 1976 che gli valse subito un Oscar; ne seguirono altri due, per “Alien” e per “E.T.”, e le figure meccaniche di questo film sono più credibili e fluide degli stessi attori che, al contrario, appaiono meccanici e finti. Il film, per essere goduto appieno, andrebbe visto ad audio spento, ammirando solo i mondi e gli scenari fantastici.

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Carlo Rambaldi, in secondo piano, al lavoro su una delle creature del film

Anche perché i dialoghi sono pessimi. Gli Atreides comunicano tramite il pensiero, leggono i pensieri dei loro nemici, e quando usano la voce diventano pericolosi perché ne sanno usare una, profonda e speciale, capace di effetti sulla materia e sulla stabilità dei malcapitati. Materia, questa, la forza del pensiero e quella della parola detta in modo speciale, assai affascinante, in cui lo spirituale mentalista Alejandro Jodorowsky si sarà certamente trovato a suo agio, ma David Lynch non capisce la portata di quel mezzo espressivo e banalmente fa esprimere i suoi personaggi con voce fuori campo, dando suono ai pensieri, come nelle più scadenti soap opera.

Data l’enorme materia narrativa il film che ne ha tirato fuori aveva una durata di circa quattro ore ma De Laurentiis intervenne pesantemente tagliando circa un’ora e mezzo di girato, col risultato che il film andato nelle sale risulta incomprensibile oltre che sbagliato sotto svariati aspetti. Il New York Times scrisse con ironia tagliente: “Molti dei personaggi di Dune sono sensitivi, il che li mette nella posizione unica di essere in grado di capire ciò che accade nel film.” Il critico del Chicago Sun-Times: “Ci sono voluti a Dune circa nove minuti per spogliarmi completamente di ogni aspettativa. Questo film è un vero casino, una incomprensibile, brutta, non strutturata inutile escursione nei reami più oscuri di una delle sceneggiature più confuse di tutti i tempi.” David Lynch fu così scottato da quella disastrosa esperienza che da lì in poi pretese da contratto il final cut.

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Kyle MacLachlan con Sean Young

Il film è anche un “per la prima volta sullo schermo” del protagonista Kyle MacLachlan scelto fra centinaia di attori dal produttore insieme alla figlia Raffaella allora sua collaboratrice e oggi erede. L’attore e il regista divennero grandi amici tanto che il primo divenne l’interprete feticcio del secondo, che lo porterà a vincere un Golden Globe come protagonista della serie tv “Twin Peaks”, mentre il regista, che è anche un quotato pittore esposto al Museum of Modern Arts di New York, verrà definito dalla rivista AllMovie come “Uomo del Rinascimento del cinema moderno americano” che però sforna film di alterne fortune tutti improntati su una ben precisa narrativa: le piccole città di provincia in cui si annidano segreti e pericoli e oscure trame con al centro una donna da salvare.

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Nel cast il 72enne Josè Ferrer alla sua ultima interpretazione, al ruolo dell’imperatore (che in un mondo parallelo era stato pensato per Salvador Dalì) conferisce l’autorevolezza di un caratterista che è stato una star della Hollywood degli anni ’40 e ’50. Il tedesco Jürgen Prochnow, qui in uno dei suoi rari ruoli di buono, è il padre del protagonista, mentre l’inglese Francesca Annis, che si era fatta notare come la Lady in “Macbeth” di Roman Polansky, interpreta la madre.

Al caratterista di lungo corso Kenneth McMillan venne affidato l’ambito ruolo (pensato per Orson Welles) del barone volante Harkonnen, detto nel film ciccione volante, omosessuale psicopatico e assassino di bei figlioli con la faccia devastata da pustole e bubboni: personaggio che fece insorgere le associazioni omosessuali che non gradirono il gay cattivo (come se i gay, al pari di chiunque altro, dovessero essere tutti buoni) e per di più pieno di pustole che somigliavano tanto, a sentir loro, al sarcoma di Kaposi (tumore dell’AIDS) che cominciava a mietere vittime nella comunità, e non solo. Il suo ambiguo e spietato nipote Feyd-Rautha (pensato per Mick Jagger) va a un altro rocchettaro un po’ più punk e un po’ più giovane, Sting.

Nel resto del cast altri nomi di punta in ruoli più o meno sacrificati, non si sa quanto dai pesanti tagli. Max Von Sydow è il planetologo imperiale. Il caratterista inglese Freddie Jones, direttamente dal cast di “The Elephant Man”, sarà un altro dei fidati attori del regista. Lo shakespeariano Patrick Stewart, che diverrà famoso con le serie “Star Trek” e “X-Men”, in quel 1984 è praticamente uguale a com’è oggi. Il riluttante Brad Dourif, forte del suo Golden Globe per “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, accetta dopo molti tentennamenti il corteggiamento del regista, col quale girerà anche il successivo “Velluto Blu”. Everett McGill, caratterista dalla faccia quadrata per personaggi in azione, sarà un altro degli affezionati attori del regista. L’ex attore bambino Dean Stockwell, che nei primi anni ’60 è stato il primo attore a vincere per due volte come migliore attore a Cannes, è l’ambiguo Dottor Yueh e Paul L. Smith è Rabban l’altro nipote psicopatico del barone, detto La Bestia. Richard Jordan è Duncan Idaho, un cortigiano di Casa Atreides nonché schiavo sfuggito agli Harkonnen (fonte internet perché nel film non si capisce chi sia).

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Max Von Sydow, Patrick Stewart, Kyle MacLachlan e Jürgen Prochnow

Fra le donne spicca l’ambigua Reverenda Madre della gallese Siân Phillips sulle altre due attrici del momento: la nana Linda Hunt che, primo caso nella storia del cinema, ha appena vinto l’Oscar interpretando un ruolo maschile in “Un anno vissuto pericolosamente” di Peter Wier; oggi è nota come Hetty nella serie tv “NCIS: Los Angeles” dove ha dovuto diradare la sua presenza a causa di un brutto incidente automobilistico; l’altro nome di punta è Sean Young, che venuta alla ribalta con “Blade Runner” si avvierà verso un triste declino a causa di vari incidenti di percorso, alcuni reali, altri legati alla sua fama di attrice difficile, alcolista e, per chi non gliele manda a dire, decisamente rompicoglioni: nel 2012 è stata arrestata perché ha dato in escandescenze quando le è stato impedito l’accesso a una esclusiva festa a invito, che non aveva, per i partecipanti alla cerimonia degli Oscar. Virginia Madsen, qui al suo terzo film, rimarrà famosa per questo suo ruolo di principessa, per il quale ha dovuto girare il ruolo di narratrice (esplicatrice) che apre il film dopo che era stato tagliato di un’ora e mezza. Per la prima volta sullo schermo l’inquietante bambina Alicia Witt che crescendo continuerà a lavorare con Lynch, ritagliandosi una buona carriera fra cinema e tv. Per ultima mi piace ricordare Silvana Mangano nell’incomprensibile (perché tagliato?) ruolo della Reverenda Madre Ramallo. Come è evidente nella foto sopra, in posa con le altre due attrici che indirizzano all’obiettivo uno sguardo fiero e intenso, lei ha uno sguardo doloroso, molto personale: si sta separando dal marito Dino De Laurentiis e vive una profonda depressione dacché il figlio Federico – cui il film è dedicato all’inizio dei titoli di testa – è morto 26enne in un incidente aereo su un Piper che si è schiantato in Alaska mentre girava un documentario sui salmoni. Silvana non si riprenderà più e a breve le verrà diagnosticato un tumore allo stomaco. Questa sua inutile partecipazione a “Dune” sarà la sua penultima apparizione cinematografica: seguirà “Oci Ciornie” di Nikita Michalkov con Marcello Mastroianni. Muore a 69 anni nel 1989.

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L’intero progetto di “Dune” di David Lynch e Dino De Laurentiis si può archiviare come uno spreco, più di talento che di denaro. E’ di quest’anno il remake di Denis Villeneuve di cui è già in lavorazione il sequel e un prequel tv: staremo a vedere.