Archivio mensile:settembre 2021

La giornata balorda – un film scritto da Moravia e Pasolini

Dopo “La classe operaia va in paradiso” restiamo sull’accoppiata film-lavoro facendo però un salto indietro di una decina d’anni e arrivando al 1960, epoca in cui il nostro cinema abbandonava lo stile e le istanze del neorealismo per inventare la commedia all’italiana. L’ispirazione sono due racconti di Alberto Moravia, “Il naso” e “La raccomandazione” dalle raccolte “Racconti romani” e “Nuovi racconti romani”, che l’autore trasforma in sceneggiatura insieme a un’altra firma eccellente, Pier Paolo Pasolini.

Pasolini come imputato in tribunale

Di Pasolini basta ricordare che è già stato coinvolto in un processo per atti osceni in luogo pubblico (ha pagato tre minorenni per una masturbazione collettiva) ed era la fine degli anni ’40; trasferendosi poi a Roma scriverà: “La mia vita futura non sarà certo quella di un professore universitario: ormai su di me c’è il segno di Rimbaud o di Campana o anche di Wilde, ch’io lo voglia o no, che altri lo accettino o no.” Nel 1960 oltre a essere già un rinomato poeta ha già pubblicato il suo primo romanzo “Ragazzi di vita”, cui seguirà “Una vita violenta”, grande successo ma accusato di oscenità perché tratta di prostituzione maschile omosessuale e per questo escluso dai Premi Viareggio e Strega. Sul finire degli anni ’50 co-scrive le sceneggiature di un film di Bolognini, “Marisa la civetta” per la star delle commedie Marisa Allasio, e soprattutto partecipa alla scrittura di “Le notti di Cabiria” di Federico Fellini con Giulietta Masina che ottiene l’Oscar come Miglior Film Straniero; tutto mentre continua a scrivere su riviste letterarie e politiche, ovviamente di sinistra. Intanto sta già pensando al suo primo film da regista, “Accattone” che riuscirà a girare l’anno dopo, mentre nel ’62 aiuterà a debuttare il giovane Bernardo Bertolucci con il suo soggetto “La commare secca”.

Moravia con la moglie Elsa Morante

Il più anziano e celebrato Alberto Moravia che si era fatto conoscere già nel 1929 con “Gli indifferenti”, sorta di primo romanzo esistenzialista, messo in film nel 1964 da Francesco Maselli e inutilmente rifatto nel 2019 da Leonardo Guerra Seràgnoli che lo ambienta in epoca odierna e cambia anche il finale. Nel 1952 vince il Premio Strega per “I racconti” e comincia a essere tradotto all’estero mentre questi suoi racconti cominciano a diventare sceneggiature cinematografiche; ed è proprio nello stesso 1960 che Vittorio De Sica dirige “La ciociara” con Sophia Loren che vince l’Oscar come Migliore Attrice. Dunque nella scrittura di questo film si incontrano il cinico distacco esistenziale di Moravia assai critico verso la borghesia, e lo sguardo partecipativo di Pasolini ai disagi della classe operaia e alla descrizione delle periferie.

Pasolini e Bolognini

La regia è affidata all’esteta Mauro Bolognini, non dichiaratamente omosessuale, che deve all’amicizia con Pasolini il suo re-indirizzamento verso un cinema di qualità superiore. Si era laureato in architettura e poi diplomato in scenografia al Centro Sperimentale di Cinematografia, ma nella pratica si orienta subito verso la regia, dapprima come aiuto e poi debuttando come regista di commedie musicali, sentimentali e di cappa e spada passando anche per Totò e Peppino. Da regista di genere, la svolta avviene quando Pasolini gli offre la sceneggiatura di “La notte brava” da un suo racconto, e poi la sceneggiatura di “Il bell’Antonio” dal romanzo di Vitaliano Brancati; segue questo “La giornata balorda” in cui il regista dà il meglio di sé come architetto e scenografo filmando una lunga magistrale carrellata – da applauso – che apre il film sull’interno balconato di un casermone di periferia, che poi chiude il cerchio del racconto concludendo anche il film, e che ispira il titolo per il mercato anglofono “From a Roman Balcony” mentre in Francia esce come “Ça s’est passé à Rome”.

Per la sua struttura oggi lo definiremmo un one day movie svolgendosi tutto in una giornata, assai balorda appunto, ma è anche un film di formazione perché il protagonista, che vaga per Roma alla ricerca di un qualsiasi impiego essendo un ventenne che non sa fare nulla armato però di buona volontà, impara almeno l’arte di arrangiarsi: il boom economico verso cui l’Italia si è avviata e che vedremo in altri film tipo “Il sorpasso” qui non è ancora arrivato, qui in questa periferia di stampo pasoliniano; e in questo il film ricorda assai da vicino “La commare secca” del debuttante Bernardo Bertolucci in cui la scrittura di Pasolini rimane assai presente, un’altra giornata balorda – con omicidio – scandita per momenti e punti di vista: vedere per credere.

Per il resto il film non è un capolavoro ma rimane un gioiellino da vedere come una finestra su una Roma dalle periferie sparite e su un modo di fare cinema – pensarlo, scriverlo, realizzarlo – irripetibile. E’ stato accusato di discontinuità e frammentarietà quando questi due aspetti sono proprio la struttura della storia: frammenti di esperienze diverse e discontinue di un giovane alla ricerca di un impiego qualsiasi, che entra in contatto con persone e ambienti diversi, che però gli rimangono tutti alieni. Risulta davvero debole, invece, la scelta del protagonista, il 26enne francese Jean Sorel nato Jean Bernard Antoine de Chieusses de Combaud-Roquebrune da nobile e antica famiglia. Decisamente gran bel ragazzo che fa la sua figura a petto nudo in diverse sequenze, è credibile come 20enne, ma si porta però dietro quell’aria da rampollo che non ci fa mai credere di essere un borgataro romano, per quanto ben doppiato in romanesco dall’ex attore bambino Massimo Turci, e bene che vada sembra più un attore di fotoromanzi. Di fatto, Jean Sorel, dopo aver debuttato in patria viene adottato dai nostri cineasti e si accasa in Italia con una carriera di tutto rispetto, tornando a recitare occasionalmente in Francia e lavorando anche con Luis Buñuel e Sidney Lumet, mentre in età matura si dà anche al teatro.

In ordine di apparizione fanno da contorno a Jean Sorel-Davide, il giovane fauno dinoccolato e piacione, la quindicenne Valeria Ciangottini che nonostante la giovanissima età ha già all’attivo un corso all’Actor’s Studio e ha debuttato in “La dolce vita” di Fellini che esce lo stesso anno, e qui è la ragazzina, vicina di casa e amichetta della sorella del protagonista del quale ha già partorito il figlio; e lui vuole solo onestamente sistemarsi: un’aspirazione che i ventenni di oggi non hanno più perché già troppo ben sistemati a casa con mamma e papà, in una società in cui la fine dell’infanzia, così come la fine della giovinezza e l’inizio dell’età matura, si è molto spostata in avanti negli anni.

Un’altra scena in cui il regista mette a frutto il suo gusto per l’architettura

Un’altra francese – il film e una coproduzione franco-italiana – è la 19enne Jeanne Valérie che è più convincente nel ruolo di Marina, un’altra abitante del caseggiato che la mattina attraversa i pratoni per andare a prendere il tram insieme al protagonista, di cui è un’ex filarino, per andare a fare la manicure, ma scopriremo che va a fare altro, e nel corso della giornata si concederà ancora al piacione fra i tetti di Roma. Fra Francia e Italia e fra cinema e tv Jeanne Valérie resterà un’attrice nell’ombra; è morta in Italia lo scorso anno.

Con un biglietto di raccomandazione di un losco zio traffichino, Davide va a incontrare un personaggio diversamente losco in abito color crema, un viscido trafficante di carte bollate nell’interpretazione da routine, per la non originalità, ma sempre centrata di Paolo Stoppa, che dà al film uno segmento di spessore col suo avvocato Moglie che, nomen omen, tradisce la moglie con la manicurista.

Rik Battaglia con Isabelle Corey

Rik Battaglia, benché protagonista in tanti film anche d’autore – lo ha fatto debuttare Mario Soldati accanto a una giovane Sophia Loren in “La donna del fiume”, e ha anche recitato per il suo amico Sergio Leone – non ha sfondato, restando un attore al margine; qui nel ruolo di un camionista trafficante di olio contraffatto, con un preciso riferimento a uno scandalo di un paio d’anni prima, svelato nel 1958 dall’Espresso nell’articolo “L’asino in bottiglia” che raccontava una clamorosa frode alimentare: il 90 per cento dell’olio d’oliva venduto in Italia sin dal dopoguerra conteneva grassi di animali morti, cavalli, buoi, asini e montoni. Strada facendo i due giovanotti si concedono una pausa con la prostituta Sabina interpretata da Isabelle Corey, altra francese trasferitasi in Italia per recitare nei peplum e nella commedia.

Ed è poi il momento di Lea Massari, all’anagrafe Anna Maria Massatani, che accorciando il cognome si è data il nome di Lea in memoria del fidanzato Leo morto in un incidente a pochi giorni dalle nozze. Attrice a tutto tondo impegnata sia in teatro che in cinema e in tv, indubbiamente dotata di talento e di un fascino felino e sfuggente, recita anche in francese e le sue partecipazioni oltralpe sono forse più importanti che quelle nostrane, in ogni caso quasi tutte interpretazioni di donne borghesi con un lato oscuro. Qui è Freja, l’amica – non moglie, come specifica quasi con ambiguo orgoglio – dell’anziano affarista dell’olio contraffatto, che si lascia affascinare dal bel borgataro dai semplici sogni, ed elegantemente flirta con lui concedendogli fiducia e simpatia, non altro però: troppo scaltra per fare un passo falso così banale. Nella locandina, dove è il secondo nome dopo il protagonista, sovrasta il giovane steso ai suoi piedi alludendo a ciò che di fatto non accade. Lea Massari, oggi 88enne si è ritirata dalle scene a 57 anni.

Notevole anche la colonna sonora jazz di Piero Piccioni. Il film è interamente disponibile su YouTube.

La classe operaia va in paradiso

Cantava Giorgio Gaber alla fine degli anni settanta, con la sua ironia amara, “Anni affollati… per fortuna siete già passati” anni densi di eventi tragici e vissuti da tutta la società italiana con la speranza del rinnovamento; parlando di quegli anni si parla sempre di anni di piombo, il piombo delle armi usate dai terroristi di sinistra ma che oggi deve includere anche il terrorismo di destra più attivo nel piazzare bombe, ma furono anche anni di cambiamenti assai positivi, di crescita sociale culturale e politica: venne abrogato l’articolo di legge che vietava produzione commercio e pubblicità degli anticoncezionali, si ebbero le leggi sul divorzio e sull’aborto, l’università si aprì alle masse, venne creato uno statuto dei lavoratori; ma viene sventato anche il tentativo di colpo stato del fascista Junio Valerio Borghese, vicenda che ispira il film satirico “Vogliamo i colonnelli” di Mario Monicelli. E poi ci fu la questione giovanile, i movimenti e le contestazioni studentesche che dagli anni ’60 a cominciare dallo specifico ’68 studentesco, sono giunti fino alla metà dei ’70 saldandosi con il movimento operaio; e in questo film c’è un lampante esempio di studente-operaio, oltre alla massa lavoro principalmente di estrazione contadina e meridionale, e quelle che sembravano rivendicazioni che venivano dal basso in breve coinvolsero anche altri settori della società, le professioni, quelli che oggi definiremmo partite iva, a cominciare dall’editoria, che si fa megafono delle richieste di cambiamento, e passando poi anche all’imparruccata magistratura e al mondo auto elettivo della medicina. E’ soprattutto il tempo del femminismo, che porta in strada le rivendicazioni del focolare domestico attraverso quello che verrà definito politicizzazione del quotidiano, e dall’emancipazione familiare si passa a quella sociale e politica.

In questo calderone che sobbolle il cinema fa la sua parte e il regista-sceneggiatore-critico Elio Petri, già precoce adolescente comunista interessato al cinema, si pone subito come punto di riferimento nel cinema di impegno civile e denuncia sociale di una stagione cinematografica densa di capolavori, o capisaldi, e irripetibile per il fermento sociale reale che portava nella finzione dei film. Petri morì 53enne di cancro e il suo ultimo film lo firma nel 1979, come a chiusura di quel decennio di contestazioni e rinnovamenti. Scrive questo film con Ugo Pirro, che ha già all’attivo due recenti candidature all’Oscar per le sceneggiature di “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” diretto da Petri e con Volonté protagonista, film che vince l’Oscar come Miglior Film Straniero nel 1971; e di “Il giardino dei Finzi Contini” dal romanzo di Giorgio Bassani e regia di Vittorio De Sica, Oscar Miglior Film Straniero nel 1972.

Gian Maria Volonté, attore feticcio di Elio Petri e genericamente impegnato in quel cinema di denuncia sociale, “rubava l’anima ai personaggi” come ebbe a dire il regista Francesco Rosi, mentre Felice Laudadio lo ha definito “Il più grande attore italiano del suo tempo”. Dopo l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica comincia a lavorare in palcoscenico e subito passa alla televisione dove fra le altre cose interpreta Nicola Sacco in “Sacco e Vanzetti” nel 1963, mentre dieci anni dopo sarà Bartolomeo Vanzetti nel film di Giuliano Montaldo, e per la Rai sarà anche Michelangelo Buonarroti nello sceneggiato “Vita di Michelangelo” del 1964 e Caravaggio nello sceneggiato omonimo del 1967. In cinema aveva avuto piccoli ruoli nel genere peplum-fantasy e si era imposto all’attenzione come cattivo negli spaghetti-western di Sergio Leone. E’ stato attivo in politica e nel 1975 fu eletto consigliere regionale del Lazio, ma appena sei mesi dopo decise di dimettersi: “Mi accorsi che esisteva un baratro tra il mio bisogno di comunismo e la carriera politica che loro mi proponevano. Volevano fare di me un funzionario, un animale politico invischiato nella partitocrazia: io avevo bisogno di ricerca, di critica, di democrazia. Ho capito che stavo perdendo la mia identità e ho scelto il rapporto con me stesso”. In questo film è un magnetico protagonista assoluto, un operaio stakanovista che aspira al benessere economico sottoponendosi a ritmi massacranti in un lavoro pagato a cottimo, e per questo suo impegno viene preso a modello dal padrone come esempio per gli altri operai, che lo accusano di servilismo; un inevitabile incidente gli fa rivalutare le sue priorità e prendendo coscienza della sua alienazione si fa paladino delle rivendicazioni sociali.

La sceneggiatura, e la regia di Elio Petri, non fanno sconti. L’attenzione per il dettaglio, dei macchinari e delle espressioni degli attori quasi sempre ripresi in primissimo piano, non consentono pressapochismi. Le scene di massa, le manifestazioni e i dibattiti, sembrano sequenze di un documentario che si apre ai momenti intimi e alle riflessioni: a cominciare da quelle dell’ex operaio finito in manicomio superbamente interpretato da Salvo Randone, sorta di coscienza intima e storica del protagonista. Mariangela Melato è la compagna di questo operaio-simbolo, come lui alla ricerca del benessere borghese, orgogliosa dei due televisori in casa uno dei quali nel salotto che non va assolutamente frequentato: è uno status symbol i cui divani e poltrone venivano mantenuti sotto cellophane, e la porta della stanza spesso chiusa a chiave, in quelle case operaie e piccolo-borghesi che in quegli anni se li potevano permettere: ma sono benefici che qui l’operaio non riesce a godersi per la grande stanchezza con cui ogni sera rientra, mettendo in crisi il rapporto. Nel cast anche Luigi Pernice come sindacalista; Luigi Diberti come collega di catena di montaggio nonché nuovo compagno della sua ex moglie; Donato Castellaneta e Flavio Bucci sono altri due operai mentre Mietta Albertini e Renata Zamengo sono due debuttanti sul grande schermo nei ruoli della collega-amante e della ex moglie.

Sceneggiatura e regia che non fanno sconti e che sollevano forti polemiche, accolto gelidamente dalla sinistra, sia politica che intellettuale, perché descrive i sindacalisti come degli opportunisti e corruttibili, mentre degli studenti di estrema sinistra fa dei fumosi parolai inconcludenti più attenti agli slogan che alla concretezza delle azioni. Alla prima del film, il cineasta francese Jean-Marie Straub che operava in coppia con Danièle Huillet in un percorso di sperimentazione, dichiarò che tutte le copie del film dovevano essere bruciate. Il film invece fruttò la Palma d’Oro al Festival di Cannes a Elio Petri, con una menzione speciale per il protagonista anche per “Il caso Mattei” di Francesco Rosi; fu premiato come Miglior Film ai David di Donatello (in ex-aequo con “Questa specie d’amore” di Alberto Bevilacqua), David speciale a Mariangela Melato anche per “Mimì metallurgico ferito nell’onore” di Lina Wertmuller; e Salvo Randone ricevette il David come non protagonista.

Fece ottimi incassi portando al cinema quella classe operaia che si vide rappresentata nel titolo e oggi va visto o rivisto come una delle pietre miliari del cinema di impegno civile del tempo: un film che ancora disturba per l’adesione emotiva degli interpreti e per quel suo senso di claustrofobia – la fabbrica e l’appartamentino, ma soprattutto le mente del protagonista – dove anche le scene negli ampi spazi all’aperto risultano claustrofobiche per la densità di umanità che vi si agita, come in un fitto pollaio. Ennio Morricone compone per l’occasione una colonna sonora diversissima dalle sue solite, bella e incisiva, martellante e ossessiva come il lavoro in catena di montaggio che commenta; una catena di montaggio che è figlia cinematografica dei “Tempi moderni” di Charlie Chaplin, qui in un tempo e in una cinematografia, però, dove non c’è più spazio per le favole, anche se il lieto fine, la vittoria operaia, conclude il film con un fotogramma in cui Ennio Morricone si presta come operaio.

11 settembre 2001

Lo ripetono tutti i media ed è vero: tutti ci ricordiamo il momento, e dove eravamo, in cui abbiamo appreso, in diretta o in differita, di quella tragedia che davvero ha cambiato il mondo. Il cinema non poteva non raccontarla, e lo ha fatto con diversi film il primo dei quali, che è anche il più rappresentativo, è uscito esattamente un anno dopo, l’11 settembre 2002, col titolo originale 11’09″01 – september 11. Un film di 11 episodi della durata simbolica di 11 minuti 19 secondi e un fotogramma, scritti e diretti da 11 registi provenienti da 11 nazioni diverse, ognuno raccontando una propria storia ambientata nel proprio Paese in assoluta libertà espressiva e secondo la propria coscienza, ognuno con un budget di 400.000 dollari, ognuno senza sapere cosa stessero facendo gli altri. Il film è stato acclamato in tutto il mondo, suscitando critiche e polemiche solo da noi, giudicato da alcuni dei nostri critici fuori dal coro come “irrispettoso” e “poco pertinente” in alcuni segmenti, con conseguente indignazione in diretta tv dell’iraniana Samira Makhmalbaf ospite a “Porta a porta”. Di mio posso affermare che avendolo visto al cinema mi è rimasto impresso, nel cuore e nella mente, solo l’episodio firmato da Sean Penn, proprio uno di quelli messi in discussione.

Il primo cortometraggio, Iran, è proprio quello di Samira Makhmalbaf che è stata premiata al Festival di Venezia con il premio Unesco per questo suo episodio che lei aveva intitolato “God, Construction and Destruction”. Non è certo un caso che ad aprire il film sia questo iraniano, dato l’impegno militare degli USA in quell’area. Ambientato presso una comunità di iraniani rifugiati in Afghanistan, nello specifico racconta di un gruppo di bambini che aiutano a impastare la malta con la quale verranno fatti dei mattoni per costruire dei rifugi che, come va ripetendo loro la maestra che li viene a raccogliere per portarli a scuola, non fermeranno certo le bombe atomiche degli americani che verranno a vendicare la tragedia appena subita. L’autrice è figlia di un altro regista, Mohsen Makhmalbaf, sotto la cui scuola si è formata cinematograficamente, ed oggi è ritenuta fra i migliori registi in attività, benché la sua filmografia, per ragioni politiche, sia molto scarna.

Per la Francia, nazione promotrice dell’intera iniziativa produttiva da un’idea originale di Alain Brigand, firma Claude Lelouche, che secondo la linea della maggior parte della sua cinematografia racconta una storia d’amore, qui fra due francesi che vivono a New York, lei sordomuta e lui normodotato che però conosce il linguaggio dei segni avendo un fratello sordomuto, e che per i sordomuti fa la guida turistica a New York, e quella mattina esce per condurre il gruppo alle torri gemelle. Sono protagonisti l’attrice sorda dalla nascita Emmanuelle Laborit, già protagonista di “Marianna Ucria” diretto da Roberto Faenza nel 1997, e Jérôme Horry. Il fascino di questo piccolo film sta nel silenzio, dei dialoghi e delle azioni, con le tragiche sequenze che passano in tivù che la protagonista però non vede e non sente perché sta scrivendo al suo amato una lettera d’addio: a meno che un miracolo… E il miracolo accade quando lui si ripresenta alla porta completamente coperto della polvere dei detriti. L’ultimo film di Lelouche “I migliori anni della nostra vita” del 2019, una storia sentimentale nella terza età con Anouk Aimée e Jean-Louis Trintignant.

Molto più complessa la visione di Yusuf Shahin che firma per l’Egitto. Regista scomodo, politicamente impegnato, critico verso le azioni militare del suo Paese contro Israele nella “guerra dei sei giorni”, e attivo anche nella denuncia della corruzione e del fondamentalismo islamico, ha fatto anche molto discutere per le sue posizioni progressiste, anche in campo sessuale, perché dichiaratamente bisessuale ne ha parlato in una serie di quattro film autobiografici. Fra l’altro è stato lui a far debuttare il divo egiziano Omar Sharif. Qui lui si racconta in prima persona interpretando il suo cortometraggio che si apre con una carrellata dal basso verso l’alto di una delle torri gemelle, ricreata virtualmente, perché lì sta girando un film la cui lavorazione viene interrotta, il giorno prima della tragedia, per una banale mancanza di permessi. Con un doppio salto mortale narrativo lo ritroviamo sulla scogliera davanti casa sua dove gli compare il fantasma, una sua proiezione mentale, di un soldato statunitense (interpretato da un attore arabo decolorato) morto nel 1983 in Libano (terra originaria dei genitori del regista) nell’attentato alle forze multinazionali di stanza nel territorio. La storia si complica quando con un ulteriore salto mortale si sposta, insieme al fantasma, a casa del kamikaze colpevole di quell’azione, e intercorrono veloci conversazioni – bisogna restare entro gli 11 minuti! – sulle origini dello scontro fra il mondo arabo e quegli Stati Uniti depositari di una propria visione del mondo che al mondo impongono: tema non facile da sviluppare in così poco tempo e l’impressione che se ne trae è quella di un assaggio nell’attesa di un ulteriore sviluppo. Yusuf Shahin è morto 82enne nel 2008.

Anche Danis Tanović per la Bosnia-Erzegovina riporta il dramma alla storia del suo territorio e racconta di una ragazza che come ripete sua madre, “ogni 11 del mese è sempre la stessa storia”, preferisce ignorare la drammatica notizia, che arriva da una radio nello spazio comune dove sono riunite le donne che hanno perso i loro uomini e le loro famiglie nel massacro della popolazione locale da parte dei soldati serbo-bosniaci, l’11 luglio 1995: come ogni 11 del mese la ragazza guida in piazza il corteo muto delle sopravvissute. Il messaggio è che le tragedie personali, e locali, hanno la priorità anche davanti a tanta eclatante insensatezza.

Idrissa Ouédraogo per il Burkina-Faso (ex colonia francese denominata Alto Volta fino al 1984) racconta una storia che rientra nei ranghi del classico cinema di narrazione: Adamà è un ragazzo che smette di andare a scuola per guadagnare dei soldi per potere pagare le cure alla madre gravemente malata. Due settimane dopo l’attacco alle Torri Gemelle crede di vedere Osama Bin Laden sul quale gli Stati Uniti hanno messo una taglia di 25 milioni di dollari; con l’intento di guadagnare quei milioni, sia per guarire sua madre che tanti altri bisognosi della nazione sofferenti di aids e dissenteria, insieme ai suoi ex compagni di scuola comincia a pedinarlo e a filmarlo per documentarne l’esistenza in loco, ma “Osama” parte e un poliziotto blocca i ragazzi all’ingresso dell’aeroporto e alle loro spiegazioni e proteste li sbeffeggia ché non c’è nessun Osama Bin Laden. Il film non chiarisce se Osama fosse davvero lui, ed è un dato di fatto che è stato avvistato in diverse parti del mondo, così come accadde per Hitler alla fine della Seconda Guerra Mondiale, e il cortometraggio ha comunque un lieto fine allorché i ragazzi decidono di vendere la videocamera, trafugata al padre di uno di loro, per pagare le cure alla mamma di Adamà che così potrà tornare a scuola. Idrissa Ouédraogo, morto 64enne nel 2018, è stato uno dei più significativi autori cinematografici della regione e dell’Africa in generale.

Ken Loach per il Regno Unito, come Danis Tanović, parte dalla data dell’11 settembre per andare a un’altra data, l’11 settembre del 1973, quando Augusto Pinochet attuò in Cile, sostenuto dagli Stati Uniti, un colpo di stato contro il presidente regolarmente eletto Salvador Allende, colpevole di essere marxista e per questo inviso all’amministrazione USA, allora guidata da Richard Nixon, sempre patologicamente terrorizzata dai comunisti e sempre impegnata ad imporre nel mondo la propria visione di democrazia. Ken Loach, attivista politico della sinistra dura e pura e autore notoriamente impegnato sul sociale che sistematicamente mette in film le problematiche della classe operaia inglese, per raccontare questa operazione di confronto storico, con l’ennesima denuncia delle malefatte americane, si fa portavoce di un’altra nazione e immagina che un profugo cileno a Londra, interpretato da Vladimir Vega anche compositore della ballata che esegue, scriva una lettera ai familiari delle vittime degli attentati. La lettera si fa narrazione dei fatti cileni con video di repertorio accompagnati dalla voce del protagonista che narra le nefandezze e i sanguinosi accanimenti sulla popolazione, e alla fine unendosi al dolore delle famiglie nel ricordo delle vittime dell’11 settembre 2001, conclude auspicando che loro, altrettanto, si uniranno a lui nel ricordo delle vittime dell’11 settembre 1973: mettendo in atto un ricatto morale. Personalmente trovo specioso e gratuitamente provocatorio, come per l’episodio di Tanović, utilizzare un rimando di date, pure coincidenze, per spostare l’attenzione su fatti diversi: in un calendario di 365 giorni che si ripete da duemila anni è facile trovare qualsiasi coincidenza a volerla cercare, e poi collocarci significati e richiami che per distanza di spazio e di tempo non sono altro che azzardi. Differente è quando la coincidenza viene cercata a posteriori, come quando undici anni dopo, l’11 settembre del 2012, i talebani hanno attaccato il consolato USA a Bengasi e ucciso, fra gli altri, l’ambasciatore Chris Stevens; o come oggi, 11 settembre 2021, data che era stata significativamente scelta dai talebani che hanno occupato l’Afghanistan (poi dilazionata all’ultim’ora) per instaurare il loro governo. Tornando alla commemorazione di Danis Tanović e alla denuncia di Ken Loach che spara a zero sulle malefatte statunitensi, sono argomenti che sempre meritano discussioni e approfondimenti, ma a parer mio in altri contesti e in altro modo, con più spazio magari, dove le denunce in atto possano essere protagoniste di fatto senza dover rubare la scena all’evento immediato, perché sostituire forzosamente delle vittime con altre toglie solo dignità a tutti.

Più sintetico e drammaticamente coraggioso, oltre che efficace, il contributo del talentuoso pluri-Oscar Alejandro González Iñárritu per il Messico. Con la consapevolezza che tutti avevamo visto e rivisto fino allo sfinimento le immagini dell’attacco alle Torri Gemelle, utilizza i suoi 11 minuti e rotti per montare un documentario in cui sceglie di mostrarci uno schermo nero commentato da un sonoro indistinto di voci quotidiane; poi il nero si squarcia ogni tanto per pochi secondi mostrandoci le più dolorose immagini di repertorio, quelle delle persone che si sono lanciate nel vuoto, e al sonoro indistinto si sostituiscono gli annunci tivù, le urla delle vittime e dei testimoni, il sonoro delle telefonate dalle torri alle famiglie; poi tutto questo, il nero e i frammenti di video con il tragico sonoro, viene interrotto dalla sequenza del crollo delle torri, in agghiacciante silenzio; riprende il parlottio indistinto che si stempera in un’armonia sinfonica mentre lo schermo da nero si fa bianco e compare una scritta, prima in arabo e subito dopo in inglese, che chiede: “La luce di Dio ci guida o ci acceca?” Una domanda che resta come un monito mentre una luce accecante si leva dallo schermo bianco.

Anche Amos Gitai per Israele fa il gioco delle coincidenze di date ma lo fa con spirito critico e, benché senza sapere a cosa stessero lavorando gli altri suoi illustri colleghi nel mondo, intuisce che una delle tracce sarà proprio quella, e se ne tira fuori con un caustico spirito critico, spirito critico che ha sempre dichiarato verso la politica del suo Paese, dove non è ben visto; negli anni ottanta, proprio per l’impossibilità di continuare a lavorare in Israele dove era ostacolato, si reca all’estero in auto esilio, prima a Berkeley, USA, dove si laurea, e poi a Parigi, Francia. Forte di diversi riconoscimenti internazionali torna in patria dove però continua a essere osteggiato. Gira i suoi 11 minuti in un unico piano sequenza con decine di attori figuranti e comparse perfettamente coordinati, raccontando di un attentato a Tel Aviv e mettendo in scena il caos che segue e che coinvolge forze dell’ordine, soccorritori, curiosi, testimoni e troupe televisive tempestivamente arrivate. E’ la reporter tv, in ansia di andare in onda e con scarse informazioni raccolte, che partendo dal quel suo 11 settembre con un kamikaze che si è fatto esplodere, comincia a snocciolare tutta una serie di altri 11 settembre di anni e luoghi diversi in cui sono accaduti fatti, a dir suo, eclatanti, come ad esempio un gruppo di persone uccise da un fulmine in India, facendo così pessimo giornalismo pur di continuare a parlare e a filmare. Viene interrotta dalla voce in cuffia del regista che le dice che non la manderà in onda perché qualcosa di davvero terribile è accaduto a New York, avvisandola, e ammonendola, “Ricorda questa data, 11 settembre, perché è una data che nessuno più dimenticherà”. Ma la giornalista, che non capisce, ancora protesta, e il regista le risponde: “Non ti sto parlando dell’11 settembre del 1944 o del 1997, ti sto parlando dell’11 settembre di oggi”. Che è quello che conta in questo film.

Mira Nair per l’India opera una sintesi culturale che supera le divisioni religiose che hanno fatto di India e Pakistan due nazioni distinte e due popoli in eterno conflitto, e per l’occasione racconta una storia vera, quella di una famiglia pakistana trapiantata negli Stati Uniti che ha perso il figlio nelle Torri Gemelle. Ma CIA ed FBI indagano sul ragazzo, perché di fede musulmana, e questo crea un clima di sospetto attorno alla famiglia prima ben vista e rispettata nel vicinato e ora tenuta a distanza. Sei mesi dopo, i resti del ragazzo vengono individuati fra le macerie e si ristabilisce la verità: il giovane musulmano è morto nel tentativo di prestare soccorso e il suo nome viene ora inserito fra quello degli eroi. Nell’elogio funebre la madre considera, e accusa, che se Salman, suo figlio, si fosse chiamato Gesù o David non sarebbe stato considerato un terrorista a priori.

L’episodio che Sean Penn immagina per gli Stati Uniti è una piccola favola dolceamara che da vent’anni non ho più dimenticato. Sarà per la presenza di Ernest Borgnine, unica star in tutto il film, o per il racconto in sé? Ciò che allora mi colpì, e ancora oggi mi colpisce, è il punto di vista del racconto, originale e spiazzante come dovrebbe essere il punto di vista di ogni racconto. Anche in conflitto col sentire comune ma comunque onesto. Sean Penn, attore da Oscar, non è un regista della domenica e i suoi film li possiamo tranquillamente definire impegnati: politicamente socialmente artisticamente. Per il suo 11 settembre immagina un vecchio che vive in un appartamento buio e parla da solo con la moglie morta come se ancora fosse lì con lui, e continua imperterrito a innaffiarle sul davanzale della finestra un vaso di fiori secchi per la mancanza di luce. Finché il giorno della tragedia, mentre dalla tv vediamo il crollo della prima torre, fuori dalla finestra crolla un sipario d’ombra e finalmente la luce del sole illumina il vaso ed entra nell’appartamento. Rose di tanti colori fioriscono all’istante, proprio come nelle favole, ed è ambiguo il sorriso che l’autore ci strappa: alla tragedia di migliaia di persone corrisponde un attimo di fuggevole felicità di un singolo individuo. Felicità che poi si spegne perché con la luce arriva anche la consapevolezza che la moglie non è più con lui a vivere nell’ombra del loro appartamentino. Ernest Borgnine dà spessore e credibilità a una storia simbolica che ci fa interrogare sui punti di vista e sulla relatività di ogni punto di vista. Questo episodio, insieme al successivo nonché ultimo, è stato quello che più ha fatto discutere i nostri critici.

Conclude per il Giappone il regista Shōhei Imamura, uno dei pochi ad aver vinto per due volte la Palma d’Oro al Festival di Cannes. La sua partecipazione a questo film collettivo chiude la sua carriera, poiché muore di cancro 80enne nel 2006. Nel suo cortometraggio, antimilitarista, denuncia in chiave tragicamente grottesca e simbolica, disturbante, le guerre coloniali in cui il Giappone si è impegnato in passato. Colloca il suo racconto nel 1945, alla fine della Seconda Guerra Mondiale che vide il Giappone annientato dalle bombe atomiche, e ci mostra un soldato, un reduce, che affetto da disturbo post traumatico si comporta come un serpente: ingoia persino un topo e viene cacciato di casa, mentre la moglie si consola con un altro uomo. In un flashback viene chiarito il suo comportamento: poiché durante una battaglia si era nascosto viene picchiato da un commilitone che gli chiede perché non stia prendendo parte alla loro “guerra santa”. Quando in seguito la moglie gli chiede: “Ti disgusta così tanto essere uomo?” lui per tutta risposta striscia via ignorandola e in chiusura viene mostrato un serpente sopra un sasso mentre appare la scritta in caratteri giapponesi che un voce fuori campo legge “Le guerre sante non esistono”. Tutto molto simbolico, dunque, con solo un riferimento alle guerre sante e nessun richiamo diretto all’11 settembre. Un cortometraggio che rimane comunque assai ermetico per la ricchezza di simboli, certo più espliciti per la cultura giapponese che per la nostra.

A questo film ne sono seguiti altri, a cominciare dal documentario del sempre scomodo Michael Moore “Fahrenheit 9/11”, che nel titolo richiama il romanzo “Fahrenheit 451” di Ray Bradbury da cui il film del 1966 di François Truffaut che Ramin Bahrani ha inutilmente rifatto e aggiornato nel 2018; Moore nel suo documentario fa le pulci alla famiglia Bush in affari con gli arabi e la famiglia di Osama Bin Laden. Segue nel 2006 “World Trade Center” di Oliver Stone. Dello stesso anno “United 93” di Paul Greengrass che ricostruisce, dalle telefonate dei passeggeri ai parenti, ciò che è accaduto sul volo United Airlines 93 dirottato da terroristi ai quali i passeggeri e il personale di volo si sono ribellati, facendo schiantare l’aereo in aperta campagna, mentre era destinato ad abbattersi sul Campidoglio o sulla Casa Bianca. “Molto forte, incredibilmente vicino” del 2011 di Stephen Daldry dal romanzo di Jonathan Safran Foer che parte da quella tragedia per una narrazione di più ampio respiro. “La 25ª ora” diretto da Spike Lee e uscito nel 2002 è uno dei primi film girati a New York dopo la tragedia e il primo a mostrare Ground Zero; il film interpretato da Edward Norton avrebbe dovuto avere come protagonista Tobey Maguire che però rinunciò per interpretare “Spider-Man” diretto da Sam Raimi e girato a New York poco prima dell’attacco, tanto che in una sequenza comparivano le Torri Gemelle: la clip e il trailer vennero censurati dalla produzione, le Twin Towers sparirono dal film la cui l’uscita, essendo un block-buster di pura evasione, venne anche rimandata. Solo lo scorso anno la Sony ha rilasciato il trailer originale che era stato oscurato.

Abuna Messias – fulgido esempio di cinema fascista

la Coppa Mussolini

Girato nel 1939, appena tre anni dopo La Guerra d’Etiopia, nota anche come Campagna d’Etiopia o Seconda Guerra italo-abissina, fu presentato lo stesso anno alla VII Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia che si è svolta dall’8 agosto al primo settembre, giorno in cui la Germania di Hitler invase la Polonia dando inizio alla Seconda Guerra Mondiale; la mostra, sostenuta sin dal suo nascere nel 1932 dal regime fascista, quell’anno venne disertata dagli americani dato il precipitare degli eventi internazionali. Nata come mostra, senza premi appunto, viene aggiornata già nel 1934 con l’istituzione della Coppa Mussolini, per il miglior film italiano e per il miglior straniero, anche se ancora non esisteva una giuria: il premio era assegnato discrezionalmente dalla presidenza della Biennale d’Arte (al cui interno era nata la mostra) sentiti i pareri di esperti e gradimento del pubblico. La Coppa Mussolini, che era il premio internazionale più antico dopo l’Oscar (e che non fu l’unica coppa intitolata all’allora capo del governo, dato che esistevano altre coppe Mussolini per meriti sportivi) fu la mamma del più ecumenico Leone d’Oro, e già nel 1940 venne messa in discussione da molti critici internazionali che accusarono il regime fascista di favorire l’alleato tedesco, poi fra il ’43 e il ’45 non venne assegnata a causa del conflitto, alla fine del quale, che coincise anche con la fine di Mussolini, la coppa venne abolita e sostituita dal Leone d’Oro che già nel 1946 venne assegnato agli Stati Uniti con “L’uomo del Sud” del francese in esilio politico Jean Renoir. Gli equilibri erano ristabiliti.

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Tipico dei regimi è appropriarsi di temi culturali e figure storiche per piegarle al proprio racconto, per spiegare alle masse una propria storia in cerca di radici. Protagonista del film è il cardinale ottocentesco Guglielmo Massaia, assistente spirituale di Vittorio Emanuele II e dello scrittore Silvio Pellico, che a un certo punto sentì l’urgenza di farsi missionario recandosi in Etiopia, che raggiunse dopo quattro anni di viaggio e dove trascorse, anche fra prigione ed esili, 35 anni di apostolato durante i quali riuscì a fondare diverse missioni e centri assistenziali, e realizzando il primo catechismo in lingua galla, una lingua afro-asiatica molto diffusa nell’area che oggi viene chiamata lingua oromonica o oromigna, poiché il termine galla è caduto in disuso e oggi viene considerato un dispregiativo usato solo dagli europei. Sui suoi scritti si basa la sceneggiatura del film che usa la vicenda per fare un’opera di legittimazione dell’ingerenza italiana in quelle terre, in linea con le mire espansionistiche in Africa delle nazioni europee, e fa di Massaia un vecchio bonario ammantato di retorica e paternalismo, e se la retorica appartiene al gusto dell’epoca il paternalismo nasconde sotto parole e gesti affettuosi un pervasivo senso di superiorità morale e culturale.

E gli africani, gli indigeni come ci avvisa un cartello all’inizio del film, che divisi in fazioni stanno combattendo le loro guerre territoriali già prima dell’arrivo degli invasori italiani, vengono raccontati come infidi e cospiratori: è l’epoca del bianco e nero non solo nei colori della pellicola ma anche in quelli della narrativa dove non ci sono sfumature, che racconta i buoni completamente e i cattivi davvero cattivi, secondo il punto di vista del narratore, però: anche gli indiani del cinema americano erano i cattivi nel racconto degli invasori europei. Ma c’è da dire che il cartello che spiega la logica linguistica ha un suo valore, se si considera che nei decenni a venire il cinema italiano ha sempre fatto parlare gli stranieri con un forbito italiano senza logica nell’ambientazione; un colonialismo linguistico come ancora oggi avviene in certi film americani dove le scritte dei paesi stranieri, cartelli stradali manifesti titoli di libri e lettere sono, senza alcuna logica, in inglese: un film su tutti “Storia di una ladra di libri” del 2013, ambientato in Germania.

Oggi il film ha un suo valore anche come documentario in quanto inserisce ampi momenti di cultura locale, canti balli e riti; e anche le scene e i costumi, secondo le critiche dell’epoca, sono assai verosimili: del resto l’esperienza diretta degli italiani nel Corno d’Africa è dell’altro ieri. Il regista Goffredo Alessandrini, già sportivo ostacolista e a vent’anni detentore di un record, si avvicina al cinema prima entrando nella redazione della rivista “Cinematografo” fondata da Alessandro Blasetti di cui poi divenne aiuto regista. Orgogliosamente fascista fu uno dei primi a inaugurare il genere detto dei telefoni bianchi, sottogenere della commedia d’evasione necessaria al regime per intrattenere le masse insieme ai film di propaganda, dove il telefono bianco – che nella realtà era nero e peraltro solo nelle case borghesi – diventava un simbolo di alterità, ricchezza e benessere ambientati in un estero di comodo dato che le vicende amorose, inganni e tradimenti, non potevano essere raccontate come vicende dell’incorruttibile popolo italico portatore di sani e sacri principi. E accanto al genere commedia Alessandrini coltivò con successo sin da inizio carriera il genere kolossal, cui questo film si iscrive.

Sul versante del pettegolezzo: nel 1935 sposò Anna Magnani ma la relazione fu sin da subito turbolenta e si separarono cinque anni dopo per poi divorziare legalmente nel 1972. L’aveva diretta nel ’36 in un ruolo secondario, una canzonettista, nel film “Cavalleria” che lanciò Amedeo Nazzari; la dirigerà di nuovo nel 1952, quando sono già separati e ai ferri corti, in “Camicie rosse” dove lei interpreta Anita Garibaldi, ma lui abbandona il set prima della fine delle riprese per non averci più niente a che fare, e il film verrà ultimato dal giovane emergente Francesco Rosi.

Girato con gran ricchezza di mezzi e sapientissimi movimenti di masse – masse reali perché costavano poco e non c’erano ancora i trucchi ottici che moltiplicavano le folle e men che mai il digitale che crea dal nulla – è un film di grande spettacolarità che oggi fa pensare, per gli spazi, le battaglie, l’ambientazione e una certa ambiguità dei personaggi locali, a “Lawrence d’Arabia”, fatti i dovuti distinguo, non ultimi i 23 anni di distanza, anche tecnologica.

Anche le scene dialogate che mischiano attori italiani truccati da indigeni e attori improvvisati scelti fra i locali, gente che molto probabilmente non era mai stata davanti a una cinepresa, sono girate magistralmente e la scelta di doppiare solo quando necessario al racconto risulta vincente perché dà al film un sapore di verità che nella sua epoca deve essere stata dirompente. Un discorso a parte merita la lingua italiana, che oggi può apparire manierata. Io che ho qualche decennio sulle spalle posso testimoniare che quando ero bambino in pubblico e nelle occasioni ufficiali si parlava un’altra lingua, che oggi diremmo più formale, che però era l’espressione del suo tempo e a quel tempo usuale: la lingua si corrompe nel parlato, in casa, nel gergo di strada, gergo che piano piano entra nella lingua scritta e la evolve – ma secondo alcuni la corrompe – così che l’italiano odierno non è più l’italiano in uso alla fine di questi anni Trenta, quando era consueto usare termini quali cosicché e d’altronde nel parlato. Un processo che è avvenuto e avviene in ogni lingua, anche nel greco nell’inglese e nel tedesco, e un’ampia porzione di noi europei che un tempo parlavamo latino oggi parliamo lingue diverse proprio a causa della corruzione/evoluzione: difendere la purezza della lingua, come di un’eventuale ancorché inesistente razza, è solo sterile e nostalgico esercizio di stile.

Il cast, interamente costituito da rinomati caratteristi dell’epoca è composto da Camillo Pilotto come cardinale Guglielmo Massaia che nella lingua locale viene detto abuna – saggio, anziano – e Massaia viene corrotto in Messias, da cui il titolo del film; lo specialista in ruoli da antagonista è Enrico Glori, qui come Re Menelik; Mario Ferrari è Abuna Atanasio, il capo locale della chiesa copta grande oppositore per ragioni idelogiche-religiose-politiche di Massaia; ed è da notare che le voci e la perfetta dizione di questi interpreti sono riconoscibili in quanto doppiatori dei grandi attori internazionali dell’epoca.

Il film fu girato nei luoghi reali allora denominati Africa Orientale Italiana, dopo aver vinto la Coppa Mussolini e ottenuto il necessario visto della censura, viene giudicato pellicola di interesse nazionale e ammesso a godere del beneficio delle programmazioni obbligatorie: sorta di autoritarismo statalista, di natura fascista, come forma di aiuto finanziario al film la cui distribuzione veniva resa obbligatoria sul territorio nazionale perché di interesse culturale nazionale. Il film oggi in programmazione in tv è una versione ridotta: dal primo visto si enuncia che sono stati tagliati 94 metri di pellicola riguardanti un prologo in cui un cappellano militare visita i luoghi della guerra italo-abissina; altri 32 metri riguardanti la figura di Cavour li perde nell’immediato dopoguerra, nel 1947, allorché il film venne rieditato col titolo “Abuna Messias – Vendetta Africana”, mentre una copia integra è conservata alla Cineteca Nazionale del Centro Sperimentale di Cinematografia. All’estero il film venne proiettato solo in Francia nel 1948 col titolo “L’apôtre du desert”. Dal 2010 è disponibile in un DVD pubblicato dalla San Paolo Audiovisivi.