Archivio mensile:Maggio 2021

L’uomo in più – opera prima di Paolo Sorrentino

L'uomo in più – PM

Esattamente venti anni fa, nel 2001, debuttava col suo primo lungometraggio quel Paolo Sorrentino che dodici anni dopo, chi l’avrebbe mai detto, avrebbe vinto l’Oscar con “La grande bellezza”. Napoletano del Vomero, a 16 anni era rimasto orfano di entrambi i genitori e, come lui stesso considera, deve la vita a Maradona perché finalmente il padre gli aveva concesso di seguire la squadra del Napoli in trasferta, e mentre lui era fuori i genitori morirono nel sonno avvelenati dal monossido di carbonio per una stufa difettosa. Dopo qualche anno infruttuoso all’università decide di darsi completamente al cinema dove aveva cominciato a muoversi e lavora come ispettore di produzione, assistente alla regia e poi aiuto regia, che è un gradino più su, poi comincia a scrivere sceneggiature anche per la tv finché a 28 anni scrive e dirige il suo primo cortometraggio, e solo tre anni dopo scrive e dirige questo suo primo lungometraggio col quale vince il Nastro d’Argento come miglior regista esordiente, il Ciak d’Oro per la migliore sceneggiatura e la Grolla d’Oro al protagonista Toni Servillo.

Toni Servillo e Mario Martone

Toni Servillo era passato dal teatro al cinema debuttando con un altro regista debuttante, Mario Martone, per il quale reciterà in quattro film; ma sarà questo ulteriore regista alla sua opera prima a fargli ottenere il primo riconoscimento e la conseguente notorietà, e per il quale diverrà l’attore feticcio interpretando per lui Giulio Andreotti in “Il Divo”, poi l’iconico e laconico Jep Gambardella, il giornalista protagonista di “La grande bellezza” e ancora Silvio Berlusconi nel dittico “Loro”. Torna recentemente a lavorare con Mario Martone per interpretare l’attore e commediografo napoletano Mario Scarpetta in “Qui rido io” le cui riprese sono iniziate appena un mese prima della diffusione della pandemia e la cui lavorazione è continuata nelle difficoltà che sappiamo, e che attualmente è si può vedere in streaming.

L'uomo in più - Italy For Movies

L’altro protagonista del film è Andrea Renzi che con Mario Martone aveva debuttato 14enne a teatro, dove prosegue proficuamente la sua attività alternandola con cinema e televisione ma senza mai assurgere alle vette di notorietà e premiazioni del suo coprotagonista: in effetti qui esibisce un bel volto cinematografico ma una recitazione ancora un po’ manierata, di gran lunga più indietro rispetto al sornione Servillo già dotato di quella grande presenza scenica che non passa inosservata.

Paolo Sorrentino per la sua opera prima mette in scena due mondi che ben conosce e ama: il calcio e la canzonetta popolare, dato che si era cimentato nella scrittura di una sceneggiatura per un film, mai realizzato, sui neomelodici napoletani. Sono protagonisti due uomini diversissimi fra loro ma omonimi, si chiamano entrambi Antonio Pisapia, e non si conoscono direttamente benché noti l’uno all’altro essendo dei personaggi pubblici: uno è un calciatore famoso, timido e introverso, l’altro detto Tony Pisapia è un cantante egocentrico e sbruffone che soffre di essere sempre un passo indietro all’odiato Fred Bongusto nel cui stile e nel cui tempo si muove: Toni Servillo canta le canzoni originali, scritte dal regista insieme a suo fratello Peppe Servillo degli Avion Travel.

Agostino Di Bartolomei, Roma 1978-79.jpg

Il film si colloca in un non immediatamente comprensibile 1980 dato che la vicenda si sarebbe potuta svolgere nel presente narrativo, e già qui mostra una prima debolezza stilistica: il 1980 non è raccontato né visibile, non vi sono precisi riferimenti culturali o sociali, né stilistici nell’ambientazione, scene e costumi, e solo nel cantante si riconosce un abbigliamento desueto ma che può essere inteso come stile personale di un cantante fuori tempo, come in effetti viene raccontato. Per capire il perché di questa collocazione temporale bisogna sapere che il personaggio del calciatore è ispirato ad Agostino Di Bartolomei e al suo tempo; era un uomo schivo e riservato come i calciatori notoriamente non sono, e fu il capitano della Roma che aveva perso contro il Liverpool nella Coppa dei Campioni del 1984; viene ricordato dalla Federazione Italiana Giuoco Calcio come “Un capitano vero, un leader silenzioso, simbolo di un calcio romantico fatto di cuore, polmoni e grinta. E di talento, perché Ago ne aveva da vendere.” Si suicidò con un colpo di pistola e sulle prime si ipotizzarono problemi finanziari, ma poi il ritrovamento di un suo biglietto chiarì le ragioni del gesto: “Mi sento chiuso in un buco” una laconica e definitiva accusa al suo mondo che gli aveva chiuso le porte e lo stava dimenticando.

Ragioni sentimentali, dunque, quelle che hanno spinto Sorrentino a fare il suo primo film collocandolo in questo imprecisato 1980. Ma già si delinea il suo stile e le sue tematiche: quello dell’uomo in purgatorio, che vive ai margini della società che lo esprime, per forza o per scelta, laconico anche quando è logorroico perché anche se parla molto dice poco, e che si muove in un mondo fatto di situazioni sospese, di un passato irrisolto e di un futuro improbabile. Il calciatore è stato messo al tappeto da un calcio che gli ha rotto i legamenti, una ritorsione perché non ha voluto truccare una partita; il cantante finisce in galera per aver fatto sesso con una 16enne che in verità lo ha circuito, ma lui era troppo fatto di cocaina per preoccuparsi dell’età della ragazza. Il primo, non potendo più giocare, prende il patentino di allenatore ma il suo club non lo considera, il secondo esce di prigione e non trova più contratti. Lo sportivo cerca di ricollocarsi nel mondo immobiliare, il cantante pensa di rilevare una trattoria di pesce. Si sfiorano, si riconoscono, passano oltre. L’uomo in più del titolo è direttamente ispirato allo schema a quattro punte applicato dall’allenatore Ezio Glerean con il Cittadella alla fine degli anni ’90, dunque molto in anticipo e ridicolizzato nel 1980 del racconto.

La struttura del film anticipa lo stile che Sorrentino metterà a punto già nel film successivo “Le conseguenze dell’amore”, ulteriore e maggior successo; l’atmosfera rarefatta e il tempo come sospeso in cui i suoi protagonisti si muoveranno qui non sono ancora totalmente centrati e il ritmo del film ne risente: è una partitura musicale che procede per sbalzi e tentativi, dilazioni e accelerazioni non completamente equilibrati che però segnano il punto nel monologo finale del cantante melodico che si è tolto la folta parrucca nera con ciuffo e confessa in diretta tv l’inconfessabile, dopo aver vendicato il suo omonimo in un afflato di immedesimazione: se c’era un Antonio Pisapia in più, quello che è rimasto fa quello che l’altro avrebbe dovuto e non ha avuto la forza di fare perché troppo brava persona: col suo finale il debuttante Paolo Sorrentino allunga una mano sui premi e sui film che verranno. Ma grazie anche a Toni Servillo, ovviamente, e non lo dimenticherà.

I predatori – opera prima di Pietro Castellitto

Mi piace parlare di opere prime. Perché quando ritroviamo vecchi film di autori già affermati ne possiamo osservare i primi passi col senno di poi, in questo blog fra gli altri ci sono Bernardo Bertolucci, Clint Eastwood, Federico Fellini, Stanley Kubrick, Sergio Leone, Ettore Scola, Steven Spielberg; nel caso di attori famosi che passano alla regia è interessante vedere questo loro nuovo punto di vista, cosa li ispira, se si inserisce nel loro percorso di autocelebrazione anche come interpreti protagonisti o piuttosto non sia invece la necessità di esprimere la propria visione di cinema. Nel caso di opere prime assolute, invece, è intrigante cercare di intuire che regista sarà, o vuole essere, il/la debuttante, e cercare di immaginarne il percorso futuro.

Sergio Castellitto e Margaret Mazzantini: “Per noi la famiglia è tutto” |  People
Qui una foto in posa della famiglia Castellitto-Mazzantini di quando il ragazzo era ancora più ragazzo
Giselda Volodi

Pietro Castellitto, come sappiamo, è doppiamente figlio d’arte, e se dal padre attore e regista Sergio ha imparato il cinema, dalla madre scrittrice e drammaturga Margaret Mazzantini (a sua volta figlia dello scrittore e storico del fascismo Carlo Mazzantini) sembra avere imparato la scrittura: in ogni caso si presenta già come una sintesi, e di successo, dei differenti talenti genitoriali, andando oltre gli specifici di entrambi; e non finisce qui perché Pietro è anche nipote d’arte (oltre che del nonno materno) da parte di zia, essendo sorella della mamma l’attrice Giselda (Mazzantini) in arte Volodi. Ha debuttato 13enne diretto dal padre nel film tratto dal romanzo della madre “Non ti muovere” e fra i successivi quattro film in altri due è stato diretto sempre da suo padre e sempre su sceneggiature della madre: una bottega a conduzione familiare che all’inizio non ha avuto il sostegno della critica tanto che il giovane Castellitto si è più volte definito in varie interviste un attore fallito. Ma il ragazzo ha fatto, come si dice, di necessità virtù, perché convinto di voler continuare nel mestiere del cineasta, al contrario degli altri suoi tre fratelli che non mostrano gli stessi interessi. Così, messa in pausa la recitazione, si è dedicato allo studio e alla scrittura per giungere a questo secondo fortunato momento della sua carriera: 30enne, come attore interpreta Francesco Totti nella miniserie Sky “Speravo de morì prima” e quasi in contemporanea realizza questo film con cui va oltre il padre e la madre, perché scrive dirige e interpreta con una sicurezza stilistica e interpretativa che finalmente gli dà credibilità in autonoma, disgiunta dalla famiglia; per la sceneggiatura vince a Venezia il Premio Orizzonti e a seguire il David di Donatello come regista esordiente.

Il film è un corale che si inserisce nel meglio della commedia italiana, senza mai scadere nel banale, nel volgare o nel già visto, pur restando in linea con illustri predecessori. Mette a confronto due tipiche famiglie romane: quella alto borghese dalle idee liberali e progressiste ma che mostra un gretto conservatorismo radicato nell’animo, un mondo cui ci si può ribellare solo idealmente solo rappando – e quella più rumorosa e generosa, più progressista e liberale nei fatti dove si permette al rampollo dodicenne di allenarsi al tiro di precisione con un fucile automatico; una tipica famiglia borgatara, di Ostia, laddove il borgo è anche notoriamente enclave di nazifascisti dai traffici naturalmente e necessariamente illeciti, perché dietro una legale armeria nascondono un traffico illegale di armi e una collusione con il crimine organizzato. Ma contrariamente a quanto ci si aspetta, e a quanto il nostro cinema ci ha abituato, le due realtà non collidono, non arrivano allo scontro, e il confronto che mette in scena Pietro Castellitto si svolge tutto sul piano morale, non a caso li chiama tutti predatori sin dal titolo, così come Victor Hugo intitolò “I miserabili” una storia che metteva a confronto le miserie fisiche e le miserie dell’animo.

I Predatori”, l'opera prima di Pietro Castellitto a Venezia 77 | RB Casting
La tavola dei borgatari: solare e colorata, all’aperto, iconica nella rappresentazione frontale e che si apre al nostro sguardo come ad eventuali nuovi arrivi
Cinema, Pietro Castellitto debutta alla regia con "I predatori" - Gazzetta  del Sud
La tavola degli intellettuali: al chiuso in un ristorante di lusso dai colori cupi, circolare e dunque autoconclusiva e chiusa all’esterno, ma che diventa anche palcoscenico di accesi scontri verbali per il pubblico intorno

La coralità e la diversità sociale fanno subito pensare a “Ferie d’agosto” di Paolo Virzì del già lontano 1996 – ma ancora vicino per le questioni che racconta, ancora irrisolte; e non è un caso se anche lì il capofamiglia dei borgatari fascistoidi è il titolare di un paio di armerie: la cronaca reale ispira la finzione. Ma “I predatori” richiama alla mente anche le coralità e i confronti intellettuali di diversi film di Ettore Scola e si inserisce di diritto nel filone della commedia italiana di taglio sociale, quella alta, che sa far pensare ma anche sorridere senza ricorrere alle facili scorciatoie di battute ad effetto, dove la comicità è fra le righe e assai corrosiva, e si sorride per la finezza con cui sono delineati personaggi e situazioni, personaggi e situazioni complessi che si offrono a differenti letture stratificate.

Il film si apre con una serie di inquadrature che piano piano ci introduce allo spazio in cui vedremo agire la varia umanità e nell’antefatto riconosciamo subito il predatore dichiarato, quello che si ammanta del fumo di una sigaretta elettronica, che lo nasconde e in cui sparisce, il truffatore che con modi garbati e affettuosi raggira l’anziana e poi sparisce per tutto il film, lasciando il campo agli altri predatori, quelli non immediatamente riconoscibili, che scopriamo un po’ alla volta senza capire cosa li lega, qual è il nesso della storia, che come in un thriller pacato si scopre un po’ alla volta e che dalla frammentarietà del puzzle iniziale si apre a scene drammaticamente complesse, molto parlate, girate in uniche sequenze di taglio teatrale grazie alla bravura degli interpreti, che anche quando si esprimono in romanesco non biascicano e sono comprensibili. Fra essi l’autore si ritaglia il personaggio di un nerd, che in americano è molto più sintetico e molto più significante del nostro secchione sfigato, un appassionato di Nietzsche con seri problemi comportamentali, che già di suo meriterebbe un premio all’interpretazione. Per il resto non fa sconti a nessuno: racconta i retroscena e il sottobosco in cui si muove il nazifascismo romano con sede a Ostia, ma è impietoso anche col mondo benestante e intellettuale da cui realmente proviene e nel cui racconto si colloca: autocelebrativi e immorali, con un significativo e divertente spaccato sul mondo del cinema nella figura della madre regista. Pietro Castellitto chiude almeno due cerchi: nel film il predatore truffatore che apre il film torna nel finale a sorriderci col suo fascino poco rassicurante, e nel suo percorso artistico e professionale chiude il cerchio dell’apprendistato fatto all’ombra della famiglia e si consacra in proprio autore di talento.

I predatori - Film (2020) - MYmovies.it

Miss Marx

Prima presentato in concorso al Festival di Venezia nel settembre 2020 è uscito nelle sale lo stesso mese ma non ha praticamente avuto spettatori data la pandemia in corso e la richiusura delle sale. Recentemente ai David di Donatello ha vinto tre premi tecnici importanti: Miglior Produttore, Miglior Costumista e Miglior Compositore e, insieme a “Volevo nascondermi” che ha fatto incetta di premi, è l’altro film italiano a tema biografico, ma con qualcosa in più, o di diverso: è girato in lingua inglese con un cast internazionale perché scava nelle pieghe della storia europea per raccontare un personaggio minore, e con esso un’epoca da un punto di vista inedito: quello della figlia di Carl Marx. Già per questo, la lungimiranza e il coraggio di spaziare oltre la realtà italiana, merita il premio alla produzione.

Nastri d'Argento. E' “Miss Marx” di Susanna Nicchiarelli il “Nastro  dell'anno” 2021

Scrive e dirige Susanna Nicchiarelli, ancora poco nota al grande pubblico ma autrice assai interessante e di spessore che scrive tutti i suoi film, in alcuni dei quali è anche attrice. Si fa le ossa con documentari e cortometraggi e la sua linea narrativa è presto chiara: le biografie e il comunismo con una visione mitteleuropea del cinema che la proietta sin dall’inizio oltre le Alpi, fuori dai confini spesso troppo stretti di tanto cinema nazionale. Inizialmente, fresca di Centro Sperimentale di Cinematografia, è tentata dalle storie sentimentali al femminile dove l’uomo non è mai quello che dovrebbe essere, ma per fortuna abbandona questo percorso, assai frequentato, e trova l’ispirazione che la conduce fin qui. Dal cortometraggio di animazione “Sputnik 5” spedito dai russi nello spazio nel 1960, in cui racconta l’avventura dell’equipaggio composto da cani topolini e insetti, si lascia ispirare e debutta con il lungometraggio “Cosmonauta” in cui racconta la storia di una bambina italiana nel 1957, di precoce fede comunista, che cresce con la convinzione di poter cambiare il mondo attraverso la rivoluzione comunista che in quegli anni era partita dall’Unione Sovietica che sperimentava i viaggi spaziali: una utopia infantile che si infrange nella realtà del senno di poi. Segue adattando il romanzo di Walter Veltroni “La scoperta dell’alba” che si apre con un omicidio compiuto dalle Brigate Rosse. Poi gira un documentario che parla di amore nell’occasione dell’anniversario della legge sul divorzio, e dopo esce con “Nico, 1988”, film biografico sull’ex musa di Andy Wharol, del 2017, e arriviamo a quest’altra biografia al femminile nel segno del comunismo: Eleanor Marx, che dopo la morte del padre ne segue la strada, propagandando il socialismo nell’Inghilterra fine ‘800 in cui vive, battendosi per le donne e la classe operaia che in lei trovano una felice sintesi per cui l’oppressore è sempre maschio e benestante. Ma sul piano privato è impaniata in una lacerante dicotomia perché vive con un uomo egoista traditore seriale e scialacquatore che, come lei stessa dice, non ha alcun senso morale, ma di cui è irrimediabilmente e tragicamente innamorata: predica la libertà delle donne e lei stessa è vittima di un rapporto mortificante. Muore suicida.

Ne è protagonista, appesantita e resa più scialba di quanto realmente sia, l’inglese di origini ungheresi Romola Garai, già da una ventina d’anni astro in ascesa che però, nonostante riconoscimenti e ruoli significativi, non brilla ancora di luce propria; ma questo nulla toglie al suo talento e all’aderenza emotiva con la quale affronta il personaggio di Miss Marx. C’è da dire che Susanna Nicchiarelli le serve una sceneggiatura eccellente e, poiché la regista è anche attrice, sa come dirigere il cast, osservando e carezzando gli interpreti, lasciando loro il tempo di esprimere le emozioni. Esemplare la scena in cui la coppia esprime tutta il loro disagio e la loro incomprensione per poi scoprire che si tratta della recita di una scena di “Casa di bambola” di Henrik Ibsen, che la protagonista ha tradotto in inglese. L’uomo definitivo della sua vita è il commediografo Edward Avelling interpretato da Patrick Kennedy, mentre Friedrich Engels lo interpreta John Gordon Sinclair già in “Nico, 1988” della Nicchiarelli.

Premio ai costumi di Massimo Cantini Parrini fresco di candidatura all’Oscar per il “Pinocchio” di Matteo Garrone, e premio al compositore musicale che è il gruppo rock, o post rock per gli intenditori, Gatto Ciliegia contro il Grande Freddo, di cui l’autrice usa i brani ipermoderni per commentare scene fine ‘800 con un’innovazione stilistica che si deve, però, alla Sofia Coppola di “Marie Antoinette”.

Sono certo che per Susanna Nicchiarelli questo sia solo l’inizio: il suo gusto per le biografie, le donne fuori dal comune, il confronto con le nostre radici socialiste e comuniste e soprattutto il suo sguardo fuori dal tempo contemporaneo e dai nostri confini, anche culturali, la porteranno a fare grandi film che riempiranno le sale.

Volevo nascondermi

7 David di Donatello su 15 candidature, l’Orso d’Argento al Festival di Berlino a Elio Germano, Nastro d’Argento dell’Anno e altro ancora. Il film aveva fatto in tempo ad essere presentato in anteprima a Berlino il 21 febbraio 2020 con uscita prevista nelle sale italiane il successivo 27, uscita annullata per le ragioni che sappiamo; ai primi di marzo si è tentata un’uscita con poche copie in poche sale incassando in un solo fine settimana 90mila euro, e poi tutti i cinema sono stati chiusi; è uscito di nuovo ad agosto ma fra zone giallo arancio rosse e cautela degli spettatori il film è stato di nuovo ritirato e venduto in streaming fino all’approdo in chiaro sulla piattaforma Sky; adesso si parla di una nuova uscita per cercare di monetizzare il successo di festival e critica.

Nel 1977 c’è stata una miniserie Rai, che allora si chiamava sceneggiato televisivo, in tre puntate, scritto da Cesare Zavattini, diretto da Salvatore Nocita, che fece conoscere a tutti gli italiani il pittore, e il suo interprete Flavio Bucci. Di Antonio Ligabue va ricordato che nacque a Zurigo figlio di padre ignoto e prese dalla madre il cognome Costa; successivamente la madre si sposò con tale Bonfiglio Laccabue che riconobbe il bambino e Antonio Costa divenne Antonio Laccabue, il quale però da adulto cambiò il cognome in Ligabue in odio al padre adottivo che riteneva colpevole della morte della madre e dei tre fratelli, periti a causa di un’intossicazione alimentare.

ARTE TRASALIMENTI: Antonio Ligabue, l'arte difficile di un pittore senza  regole

Ma la sua storia familiare è ancora più complessa perché a un anno la madre lo affidò a una famiglia di svizzeri tedeschi, i Göbel, coi quali crebbe pur restando in contatto con la famiglia originaria e allargata. Ma se la madre aveva dato il figlio alla coppia perché spinta dalla miseria, anche i genitori adottivi o affidatari che fossero – all’epoca quella regolamentazione legislativa non esisteva – non se la passavano così bene e per motivi di precarietà si spostavano continuamente in cerca di lavoro. Antonio, probabilmente anche a causa di carenze alimentari sofferte nei primissimi mesi di vita, soffriva di rachitismo e gozzo, che unitamente a tutti gli altri disagi compromisero il suo sviluppo fisico mentale e psichico. E l’ignoranza diffusa dell’epoca non poté che esacerbare tutti i suoi disagi.

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A 18 anni fu ricoverato per la prima volta in un ospedale psichiatrico e successivamente cominciò ad alternare i soggiorni con i Göbel a fughe senza meta nella natura, impiegandosi come bracciante in quelle fattorie dove avevano imparato a conoscerlo come uno strano ma non pericoloso. Ma in seguito a una violenta lite con la madre adottiva nella quale la aggredì fisicamente, su denuncia della donna venne espulso dalla Svizzera e inviato a Gualtieri, in provincia di Reggio Emilia, comune d’origine del Laccabue. Ai vari disagi di Antonio si aggiunse la non conoscenza della lingua e questo gli diede un accresciuto stato di alterità, di diversità. Continuò la sua vita di bracciante nomade e incominciò a dipingere, quello che vedeva e quello che sentiva, quello che vedeva come lo sentiva, trovando nel disegno e nei colori sollievo ai suoi disagi, ansie, ossessioni.

Musei Civici Reggio Emilia » Il tè delle Muse
Antonio Ligabue con Renato Marino Mazzacurati
“Giovannetta” 1952 bronzo a cera persa di Mazzacurati

Prossimo ai trent’anni ha l’incontro della sua vita con il pittore scultore emiliano Renato Marino Mazzacurati, rappresentante della Scuola Romana, gruppo eterogeneo di artisti attivi nella capitale fra gli anni ’20 e ’40. L’artista in qualche modo lo adotta, gli fornisce tele e colori e fa conoscere le sue opere a Roma dove Ligabue comincia a vendere avviandosi a trascorrere un periodo sereno, se non addirittura opulento, che però non lo liberò da attacchi di parossismo psichico connotati anche da autolesionismo.

Il film racconta questa vita, che è una vita di disagio, la vita di quello che oggi diremmo una persona speciale ma che nella sua epoca rimase incompresa dal punto di vista medico-psichiatrico e solo fortunosamente venne riconosciuto per quello che era, un grande artista dal talento unico, inserito nello stile naïf e non solo: quando ebbe l’opportunità di accedere a pubblicazioni d’arte si lasciò influenzare dai fauves, i selvaggi francesi dei primi del ‘900, come da Van Gogh e Klimt e gli espressionisti tedeschi in genere. Per il resto la sua ispirazione rimane la sua immaginazione che rielabora i mondi conosciuti mischiandoli a quelli immaginari e fantastici dei film e delle riviste, così agli animali da fattoria alterna bestie feroci che non ha mai incontrato davvero, e il suo linguaggio pittorico non è altro che l’espressione del suo personale linguaggio, quello che non sapeva esprimere a parole, e le espressioni anche feroci dei suoi animali sono le sue stesse espressioni intime e segrete, del suo disagio.

Elio Germano è un indiscutibile talento molto attivo, anche con quattro film l’anno. La sua precedente interpretazione biografica, anch’essa premiata col David di Donatello nel 2014, era quella intimista e tormentata di Giacomo Leopardi in “Il giovane favoloso” di Mario Martone. Qui, aiutato da un trucco prostetico, diventa un Ligabue animalesco, e seguito dai coach linguistici che gli hanno fatto parlare il tedesco-svizzero e il dialetto emiliano, e seguendo le testimonianze dirette di chi ha conosciuto Ligabue, Elio Germano cesella un’interpretazione davvero superlativa che segna un’altra pietra miliare nella sua ricca filmografia. Il regista Giorgio Diritti è un cineasta di lungo corso qui al suo quarto lungometraggio: emiliano di Bologna ha collaborato con Pupi Avati ed Ermanno Olmi, e al suo primo film “Il vento fa il suo giro” del 2005 vinse 36 premi su 60 festival nazionali e internazionali in cui si presentò. Se prossimamente il film tornerà davvero in sala merita tutta la nostra attenzione.

Palazzo dei Diamanti - Antonio Ligabue. Una vita d'artista
Antonio Ligabue | Wall Street International Magazine
Antonio Ligabue: Una vita d'artista | Zero

David di Donatello 2021 a modo mio

David di Donatello 2021 vincitori: chi ha vinto la 66esima edizione. I premi

L’anno scorso, in piena pandemia, Carlo Conti ha presentato l’evento tutto solo in studio con gli interventi in collegamento; un anno dopo, quando tutti abbiamo (si spera…) imparato a convivere col virus e le limitazioni che comporta, e avviata la campagna di tamponi e vaccinazioni, la serata si svolge nuovamente in presenza e, come la notte degli Oscar, anche in collegamento da luoghi diversi: un limite che è stato interpretato come momento creativo per re-impaginare l’evento, così come chiunque di noi deve imparare a re-immaginare la propria vita. Show must go on, ora come non mai. Le produzioni cine-televisive, dopo un primo momento di sbandamento, si sono adattate all’andamento, e mettendo in campo tutte quelle misure di prevenzione che noi nella vita civile non sempre siamo in grado di assecondare e/o rispettare, hanno ripreso a produrre.

Un fotogramma dalla serie tv “Grey’s Anatomy”

Le serie tv, le medical drama in testa, e tutte le altre che agiscono nel presente narrativo, hanno inserito la pandemia nel loro racconto, svolgendo un compito non facile, raccontare il presente all’interno di un mondo immaginario, e insieme abituare noi spettatori, molti dei quali sempre refrattari, a una narrazione in cui mascherine e distanza sociale fanno ormai parte della quotidianità.

Laura Pausini canta sul palcoscenico vuoto del Teatro dell’Opera di Roma

Per questo 66° David di Donatello sono stati allestiti due set in collegamento fra loro. Quello principale con la conduzione della serata dallo studio 5 Rai oggi intitolato a Fabrizio Frizzi scomparso nel 2018; il set secondario è il Teatro dell’Opera di Roma dai cui palchi si affacciano i candidati ai premi secondari, i cosiddetti premi tecnici, e via via delle belle hostess porgono la statuetta al vincitore di turno. Ma il teatro diventa set principale quando nel corso della serata quando un’orchestra sinfonica debitamente distanziata sul palcoscenico, condotta da Andrea Morricone, esegue brani del padre Ennio. E da qui comincia la trasmissione, con un monologo autobiografico e insieme auto celebrativo di Laura Pausini che si concluderà con l’esecuzione della canzone “Io sì” dal film di Edoardo Ponti con sua madre Sofia Loren “la vita davanti a sé”, canzone già candidata all’Oscar e ovviamente super favorita in questa serata.

Ma sorpresona il premio è andato a Checco Zalone, al secolo Luca Medici, per la canzone “Immigrato” dal suo film “Tolo Tolo” che ha anche vinto il premio David dello Spettatore. Non è ufficiale ma insistenti voci di corridoio rinforzate da anni e anni di conferme dicono che un film campione di incassi non si può lasciare a bocca asciutta, a prescindere dalla reale qualità del prodotto; e che in ogni caso l’assegnazione di premi come questo David di Donatello o i Nastri d’Argento tengono sempre in conto il successo al botteghino nonché di dinamiche e di equilibri tutti interni all’industria cinematografica che a noi spettatori non è dato sapere. Checco Zalone era anche candidato come Regista Esordiente dato che i suoi quattro precedenti film, altrettanto campioni al botteghino, erano stati diretti da Gennaro Nunziante. C’è però da dire che Luca Medici è un professionista con seri studi alle spalle, e come musicista ha suonato con diversi jazzisti pugliesi oltre a essere compositore del nuovo inno della squadra di calcio del Bari. Qualcosa mi dice che ha solo cominciato: era in collegamento da casa e esordisce con “Se lo sapevo venivo. – per poi continuare, fingendo di chiamare moglie e figli – I miei dormono, non gliene frega niente se vinco. – E ancora: – Mi sono preparato poche parole: “La solita cricca di sinistra che premia i soliti…” no questo era il foglietto se perdevo. Grazie all’accademia per il riconoscimento meritocratico… – Ma chissà come il suo tentativo di fare dell’ironia politicamente scorretta va a finire in un audio pesantemente disturbato che rende il resto del suo intervento incomprensibile: censura Rai?

L’altro favorito perché già candidato all’Oscar era il documentario “Notturno” del già premiato Gianfranco Rosi che con i suoi due precedenti lavori ha vinto nel 2013 con “Sacro GRA” il Leone d’Oro a Venezia, come miglior film nonostante si trattasse di un documentario, e poi nel 2016 ha vinto l’Orso d’Oro al Festival di Berlino con “Fuocoammare”. Ma anche questo pronostico non è stato rispettato e il premio è andato a “Mi chiamo Francesco Totti” di Alex Infascelli, e anche qui le riserve sono d’obbligo a causa della popolarità del personaggio che è stato anche omaggiato dalla miniserie Sky “Speravo de morì prima” dove il capitano d’a Roma è interpretato da Pietro Castellitto.

Pietro Castellitto, doppiamente figlio d’arte di Sergio Castellitto e della scrittrice Margaret Mazzantini, vince nella categoria Regista Esordiente con il film “I predatori” che ha anche scritto e interpretato, la cui sceneggiatura aveva già vinto a Venezia il Premio Orizzonti e che era candidata anche a questo David insieme al musicista e al produttore. Il giovanotto, oggi trentenne, ha ovviamente respirato cinema e letteratura sin dalla culla. Il padre, quand’era lui era adolescente, lo aveva diretto in tre film ma il ragazzo ha faticato a farsi apprezzare come attore e questo, a suo dire, gli ha dato la giusta spinta verso la scrittura cinematografica, facendolo crescere artisticamente, autonomamente; oggi è considerato un astro nascente. Ha concluso il suo intervento di ringraziamento con un veloce e auto ironico: “N’abbraccio a mamma, ‘n bacio a papà”. Gli altri candidati nella categoria erano, oltre al già citato Checco Zalone, Alice Filippi con “Sul più bello”, Ginevra Elkann con “Magari” e Mauro Mancini con l’intenso “Non odiare” molto applaudito a Venezia e che ha fruttato il Premio Pasinetti al protagonista Alessandro Gassmann.

In memoriam: Ennio Fantastichini e Mattia Torre

E visto che abbiamo parlato di sceneggiature i premi Sceneggiatura Originale e Non Originale, ovvero tratta da preesistente opera letteraria, sono andati al prematuramente scomparso Mattia Torre, 47 anni, per “Figli” diretto da Giuseppe Bonito e interpretato da Paola Cortellesi e Valerio Mastandrea candidati nelle categorie Migliori Protagonisti e rimasti a bocca asciutta; ha ritirato il premio la figlia Emma con un bellissimo discorso, lucido e intelligente, assai commovente per la platea che ha risposto con una standing ovation. Il premio Miglior Sceneggiatura Non Originale è andato al film “Lontano lontano” regia e interpretazione di Gianni Di Gregorio da un suo scritto nel cassetto; Di Gregorio era già stato premiato col David di Donatello come Miglior Regista Esordiente nel 2009 alla non più tenera età di 59 anni con “Pranzo di ferragosto”. “Lontano lontano” è anche l’ultima interpretazione di Ennio Fantastichini, scomparso nel 2018 a 63 anni.

Lino Musella

Guardando trasversalmente le candidature salta subito all’occhio la doppietta di Alba Rohrwacher, ormai una garanzia dei casting, protagonista in “Lacci” di Daniele Luchetti e non protagonista in “Magari” di Ginevra Elkann, e stavolta non vincerà niente. Con ben tre presenze come non protagonista è Lino Musella, candidato per “Favolacce” dei Fratelli D’Innocenzo ma presente anche in “Lasciami andare” di Stefano Mordini, e con una partecipazione più pregnante e significativa in “Lei mi parla ancora” di Pupi Avati dove interpreta, con grande adesione e sensibilità, Renato Pozzetto da giovane.

Elio Germano - Wikipedia

Con tre presenze ma tutte da protagonista si piazza al primo posto Elio Germano con “Favolacce” e “L’incredibile storia dell’Isola delle Rose” di Sydney Sibilia e soprattutto “Volevo nascondermi” di Giorgio Diritti dove interpretando il pittore Antonio Ligabue – sotto abbondante trucco prostetico – vince il premio come Migliore Attore Protagonista in una cinquina composta anche dal già citato Valerio Mastandrea per “Figli”, Kim Rossi Stuart per “Cosa sarà” di Francesco Bruni, l’ottantenne Renato Pozzetto recuperato in chiave drammatica da Pupi Avati in “Lei mi parla ancora”, Pierfrancesco Favino che interpreta – anche lui con abbondante trucco prostetico – Bettino Craxi in “Hammamet” di Gianni Amelio, film che vince il premio tecnico per il Miglior Trucco.

“Volevo nascondermi” è il film della serata. Oltre al premio per il protagonista riceve anche i riconoscimenti come Miglior Film fra gli altri che erano: Hammamet”, “Favolacce” che vince solo il Miglior Montaggio, “Miss Marx” di Susanna Nicchiarelli che vince i premi Miglior Produttore, Migliori Costumi e Miglior Compositore, piazzandosi con 3 premi. Chiude la lista dei Migliori Film in competizione “Le sorelle Macaluso” di Emma Dante che è l’unico film della cinquina a non ricevere nessun premio; è film che ho amato molto, per certi versi sperimentale, geniale visionario ed emozionante, ma che secondo il mio personalissimo parere sconta nell’ambiente cinematografico del volemose bene la ruvidezza dell’autrice che non brilla di immediata simpatia. Oltre a Migliore Attore e Miglior Film “Volevo nascondermi” vince anche per la Regia, la Fotografia, la Scenografia, le Acconciature e il Suono, portando a casa 7 statuette. I premi agli attori non protagonisti sono andati all’astro in ascesa Matilda De Angelis e l’assente ingiustificato anche in video conferenza Fabrizio Bentivoglio, entrambi per “L’incredibile storia dell’Isola delle Rose”, film che vincendo anche i Migliori Effetti Visivi si piazza a quota 3 premi con “Miss Marx”.

Fra le tante chiacchiere della serata vale la pena riportare l’ironico intervento di Valerio Mastandrea che, dovendo presentare la cinquina delle scenografie, ha scherzato sul fatto che tanta gente fa confusione fra i termini sceneggiatura e scenografia: “Molto spesso mi è capitato di sentirmi dire: “Ho visto un film bellissimo, dei dialoghi straordinari, chi l’ha scritta la scenografia?” Purtroppo è un errore molto comune e io stesso posso aggiungere per esperienza diretta che scenografia viene anche confusa con coreografia. Ppi Pierfrancesco Favino, introducendo il premio al Miglior Documentario ricorda che tutti i più grandi autori del cinema italiano sono stati registi di documentari: Rossellini, Antonioni, Petri, Comencini, Zurlini, Olmi, Pontecorvo, Visconti, Risi… perché l’occhio di un autore di allena sulla realtà. E poi cità Fritz Lang: “Se volete fare un film non acquistate un auto, prendete la metro, l’autobus o camminate, osservate da vicino alle persone che vi circondano”.

Collegata da Sofia dove si trova per lavoro, Monica Bellucci riceve il David Speciale, riconoscimento per il quale molti sui social stanno storcendo il naso dato che onestamente non si può dire che di lei che sia una brava attrice ma solo una bellissima donna che ha saputo costruirsi un’invidiabile carriera. Questa la motivazione: “Una carriera stellare e tuttavia saggia che parte da Città di Castello e dalla nostra commedia e si lascia valorizzare da grandi autori come Francis Ford Coppola e Giuseppe Tornatore diventando subito internazionale, con in più la devozione del cinema francese dalla sua parte ma senza perdere di vista il lavoro creativo e la comunità artistica. Carismatica, cosmopolita e insieme profondamente italiana”. Nulla da eccepire. Altro David Speciale a Diego Abatantuono che solo nella seconda parte della vita si è dato al cinema di qualità grazie alle opportunità che ha avuto prima da Pupi Avati col dittico “Regalo di Natale” e “La rivincita di Natale”, e poi da Gabriele Salvatores. Questa la motivazione: “Un grandissimo protagonista del nostro panorama artistico con una carriera sorprendente, protagonista poliedrico e amatissimo, passato attraverso film cult come “I fichissimi” o “Eccezziunale veramente” per poi incontrare autori come Luigi Comencini, Giuseppe Bertolucci, Carlo Mazzacurati, Ettore Scola e, specialmente, Pupi Avati e Gabriele Salvatores, con il quale ha intrapreso un vero e proprio sodalizio che lo ha portato fino all’Oscar con “Mediterraneo”. Infine Enrico Brignano entra sul palco a conferire un altro David Speciale e simbolico alla memoria di Luigi Proietti e a seguire Carlo Conti ricorda gli scomparsi dell’anno: Franca Valeri, Ennio Morricone, Michel Piccoli, Gianrico Tedeschi, Marco Vicario, Daria Nicolodi, Peppino Rotunno, Claudio Sorrentino, Enrico Vaime, Ezio Bosso e tanti altri.

David di Donatello 2021: Sophia Loren miglior attrice protagonista, Zalone  batte Pausini – Tutti i vincitori | DavideMaggio.it

Grande momento la premiazione di Sofia Loren che a 87 anni ha vinto, e trepidato come una debuttante, come Migliore Attrice Protagonista diretta dal figlio Edoardo Ponti in “La vita davanti a sé”, e omaggiata con una standing ovation. Giacché ancora la vedo e la rivedo in tv nel fulgore dei suoi anni migliori, mi si è stretto il cuore vederla muoversi a fatica, sorretta dal figlio, commossa e piegata dagli anni, che ha cominciato la lettura del suo discorso scritto su un foglietto mormorando nel suo napoletano un “Madonna mia… aiutateme!” sfuggito dal cuore: “E’ difficile credere che la prima volta che ho ricevuto un David sia stato più di 60 anni fa… (in realtà sono esattamente 60: nel 1961 ricevette il David di Donatello per “La Ciociara” di Vittorio De Sica, che le valse anche l’Oscar; probabilmente ha messo nel conto anche la Targa d’Oro vinta nel 1959 per “Orchidea Nera” film americano con Anthony Quinn diretto da Martin Ritt che le fruttò anche la Coppa Volpi a Venezia) …Ma stasera sembra di nuovo la prima voltama l’emozione è la stessa e anche di più, e la gioia è la stessa… – Ansima, respira a fatica, fa delle lunghe pause: ringrazia la produzione, Netflix, la squadra, cita il bambino protagonista Ibrahima Gueye: Un attore di grandissimo talento che in questo film è davvero magico. E infine ringrazio il mio regista Edoardo – che se possibile è ancora più commosso della madre – Il suo cuore e la sua sensibilità hanno dato vita a questo film e al mio personaggio… per questo io anche a mio figlio sono molto grata perché è un uomo meraviglioso e ha fatto un film veramente molto bello. – Poi, smettendo di leggere: – Forse sarà il mio ultimo film, questo non lo so, ma dopo tanti film ho ancora voglia di farne uno sempre bello, con una storia meravigliosa, perché io senza il cinema non posso vivere. – E dopo l’abbraccio del figlio che le consegna il premio scherza: Non posso prendere il premio sennò cado, io e il premio!”

Le altre candidate nelle stessa categoria, oltre alle già citate Paola Cortellesi per “Figli” e Alba Rohrwacher per “Lacci”, erano Micaela Ramazzotti per “Gli anni più belli” di Gabriele Muccino e Vittoria Puccini per “18 regali” regia di Francesco Amato, film premiato con il David Giovani assegnato da una giuria nazionale di studenti degli ultimi due anni di corso delle scuole secondarie di 2° grado.

David di Donatello 2021, il look di Sofia Loren | DiLei

Subito a seguire la premiazione dell’87enne Sofia arriva l’88enne Sandra Milo per ricevere il David alla Carriera e si mostra subito più in forma dell’antica rivale (senza dimenticare l’altra regina in campo, Gina Lollobrigida che ricevette il David alla Carriera nel 2016): eh sì, perché stessa età, stesso periodo di attività e medesime taglie da maggiorata nel cinema italiano degli anni ’50, ma mentre Sofia andava per Oscar, Nastri d’Argento e David di Donatello a gogo, Sandra, detta Sandrocchia da Federico Fellini ha in bacheca solo due Nastri d’Argento come Non Protagonista per “8 1/2” e “Giulietta degli spiriti” del Fellini di cui dichiarò durante una punta di “Porta a porta” del 2009 di esserne stata amante per ben 17 anni. Sempre bamboleggiando con la sua vocina in falsetto conclude il suo breve ilare discorso con un “Non è mai troppo tardi per ricevere un premio! Grazieee!”

Miglior Film Straniero “1917”, altro film che ho molto amato e fresco di tre Oscar tecnici: Fotografia, Effetti Speciali e Sonoro. Riconoscimenti speciali le Targhe David 2021 appositamente pensate come espressione di riconoscenza ai professionisti sanitari Silvia AngelettiIvanna Legkar e Stefano Marongiu per l’importante contributo alla ripresa in sicurezza delle attività delle produzioni cinematografiche e audiovisive a Roma e in Italia durante la crisi Covid-19. Delle targhe che, come ha ribadito la presidente e direttore artistico dei David di Donatello Piera Detassis nell’intervento istituzionale e conclusivo, ci si augura di non dover consegnare mai più; più avanti fa un riferimento del tipo parlo a chi mi capisce ma che noi spettatori comuni non comprendiamo: “Il David è la casa del cinema, è la casa di tutti quelli che fanno cinema, e anche se c’è qualcuno che a volte scappa di casa poi noi siamo pronti ad accoglierlo a braccia aperte…” Con chi ce l’aveva? chi, è scappato, e perché?

Dicono le cronache che il colpevole è Gabriele Muccino che è ha abbandonato il suo posto in giuria quando ha appreso che il suo film “Gli anni più belli” non sarebbe stato inserito nelle cinquine dei migliori film e migliori registi. Sono rimaste le candidature al David Giovani, a Micaela Ramazzotti come migliore protagonista e a Claudio Baglioni per la canzone originale e come visto nessun premio è andato assegnato. Muccino ha scritto: “Sono uscito dalla giuria dei David di Donatello. Non mi riconosco nei criteri di selezione che da anni contraddistinguono quello che era un tempo il premio più ambito dopo dopo l’Oscar. Non mi presenterò più nelle categorie di Miglior Regia e Miglior Sceneggiatura, in futuro.” Buon pro gli faccia, personalmente non sono mai riuscito a vedere un suo film e anche armato di buona volontà al massimo dopo un quarto d’ora mi annoio, anzi peggio, mi innervosisco: li trovo insopportabilmente zuccherosi e troppo volutamente strappalacrime, insinceri e costruiti a tavolino. Un po’ come quei bambini che piangono guardandosi allo specchio, dove si vedono così belli fra le lacrime da voler piangere ancora per un po’.

I film presi in considerazione sono tutti quelli usciti dal 1° gennaio 2020 al 28 febbraio 2021, che in piena pandemia non hanno potuto godere di una distribuzione appropriata e molti sono già in chiaro in tv, dove possiamo trovarli sia a pagamento che in chiaro. Per consultare in modo ordinato tutte le candidature e i vincitori:


https://www.daviddidonatello.it/

Boccaccio ’70

Boccaccio 70

Dice il cartello all’inizio del film “Scherzo in quattro atti ideato da Cesare Zavattini” e i quattro atti, come se fossimo a teatro, sono introdotti e chiusi da un sipario dipinto.

I atto: Renzo e Luciana

Roma spettacolo: settembre 2013

Già dal titolo riconosciamo la fonte dell’ispirazione: quei Renzo e Lucia di manzoniana memoria, coppia osteggiata dagli uomini e dagli eventi che faticheranno non poco per coronare il loro sogno d’amore. Ma allora che c’entra Boccaccio? L’episodio, anzi il primo atto, scritto a sei mani dalla prolifica e acclamata sceneggiatrice Suso Cecchi D’Amico; dallo scrittore Giovanni Arpino, meno attivo al cinema ma ben rappresentato: suo il romanzo da cui fu tratto “Divorzio all’italiana” di Pietro Germi, 1962; da un suo racconto fu poi scritto “Profumo di donna” di Dino Risi, 1974, da cui il remake americano “Scent of a woman” di Martin Brest, 1992; e poi “Anima persa” sempre di Risi, 1977; terzo sceneggiatore fu lo scrittore Italo Calvino che veicolò il cortometraggio da un suo proprio racconto, “L’avventura di due sposi” dalla collezione “Gli amori difficili”. Ma allora, di nuovo, che c’entra Boccaccio? Praticamente nulla, come avvisato all’inizio del film è uno “scherzo”, puramente intellettuale, messo in opera, come stiamo vedendo, da grandi firme della letteratura contemporanea e con le direzioni di altri quattro grandi registi dell’epoca.

7 film di Monicelli su Iris: cosa vedere e cosa (si può) evitare | Nuovo  Cinema Locatelli

Il film è del 1962 e con quel ’70 allunga una mano sull’incognito futuro, come a volersene appropriare, ma piuttosto che essere il precursore di una serie di film a episodi ben scritti e diretti, farà da ispirazione a una lunga sequela di film di serie B, più o meno boccacceschi, decisamente più ammiccanti fino a sfiorare la pornografia nel peggiore dei casi; in ogni caso, come già detto altrove, schema narrativo come esercizio di stile per gli italici divi dell’epoca. in realtà “Boccaccio ’70” è un film di costume che mette in scena l’Italia di quei primi anni ’60 con il boom economico che portò in ogni casa la lavatrice rigorosamente pagata a cambiali mensili, lo sviluppo delle periferie, e i conseguenti mutamenti nel costume sociale. Monicelli realizza un film garbato che oggi possiamo vedere come uno spaccato sulle condizioni socio-economiche di quel proletariato, soprattutto in chiave femminile, dato che fondamentalmente racconta l’uso e l’abuso dei contratti di lavoro in cui si chiedeva alle donne di mantenersi nubili e sterili pena il licenziamento, contrattualità che verrà abolita e regolamentata e punita non prima del 1970, inizio di un periodo di ulteriori sconvolgimenti sociali, in chiave più drammatica, che presenteranno i conti aperti nell’allegro decennio precedente. Vale la pena ricordare che questo racconto di Italo Calvino aveva anche ispirato la “Canzone triste” di Sergio Liberovici.

Marisa Solinas, Playmen Magazine May 1968 Cover Photo - Italy

Mario Monicelli sceglie come protagonisti due debuttanti di bell’aspetto e convincente interpretazione. Renzo è Germano Gilioli, qui doppiato da Renzo Montagnani, che dopo aver preso parte due anni dopo al misconosciuto “Le conseguenze” regia di Sergio Capogna, scompare dal mondo cinematografico. Lei è Marisa Solinas, che sarà anche cantante di musica leggera, coinvolta nello scandalo che seguì il suicidio di Luigi Tenco a Sanremo, per il quale dichiarò che il cantautore si era tolto la vita a causa dei debiti contratti per una tangente di 6 milioni di lire pagata agli organizzatori del festival; ovviamente la società coinvolta la denunciò e lei in seguito raddoppiò dichiarando di avere ricevuto minacce per il figlio se non avesse rettificato: vero o falso che sia il tutto, si sa che dove c’è fumo anche se non sempre c’è un arrosto c’è comunque qualcosa che brucia. Marisa Solinas si ritaglierà anche uno spazio nell’erotismo posando nuda per Playmen e per la Gina Lollobrigida fotografa autrice di “Italia mia”, e incidendo anche due canzoni pseudo erotiche sulla falsa riga della francese “Je t’aime… moi non plus”. In un piccolissimo ruolo, come Ercole circense, l’ancora poco noto Giuliano Gemma qui doppiato da un Alighiero Noschese già frequentatore degli studi Rai ma non ancora approdato alla fama di imitatore, anche politico (cosa non facile all’epoca) nei varietà.

II atto: Le tentazioni del dottor Antonio

Boccaccio '70 – Le tentazioni del Dottor Antonio - Italy For Movies

Fellini firma questo secondo atto e il suo stile è subito evidente: quello grottesco e surreale che al contempo si prende gioco della società, di quella società prevalentemente guidata da un imperante perbenismo di tracimazione cattolica. Ne è protagonista assoluto un Peppino De Filippo in gran spolvero, mattatoriale una volta tanto, dato che la sua carriera è di eterno secondo: fratello minore, anche artisticamente, di Eduardo, e poi spalla di Totò. Peppino era stato protagonista per Fellini in “Luci del varietà”, debutto del regista in co-regia con Alberto Lattuada, grande insuccesso e terreno di successive polemiche sulla paternità del film. Fellini, che in quell’occasione rimase incantato da Peppino De Filippo, ebbe a dire di lui: “Era un attore che mi piaceva moltissimo, un buffone glorioso, un attore comico straordinario e a mio parere molto più bravo del fratello Eduardo, più cattivo, più originale: il povero cristo che impersonava sempre Eduardo era stato già anticipato in tanti racconti di Cechov, in tanto teatro, lo stesso Viviani in fondo lo aveva interpretato in maniera molto più scattante, diavolesca e potente. Mi sembrava che Peppino fosse una delle incarnazioni più riuscite di questo personaggio sfrontato, patetico nella sua spavalderia, come sapeva muoversi in scena, con l’arroganza e la disinvoltura di certi cani, una presunzione, una spavalderia solo sua”. Peppino era morto nel 1980, Fellini morirà nel 1993.

49 idee su Peppino De Filippo | attori, cinema, personaggi

L’altra protagonista è l’iconica Anita Ekberg, la statuaria ex Miss Svezia già Golden Globe a Hollywood come migliore attrice emergente per “Hollywood o morte” del 1956 con la coppia Jerry Lewis – Dean Martin. Anitona, come affettuosamente la chiamerà Fellini, approderà nella Hollywood sul Tevere per girare un peplum e da lì parte la sua storia artistica tutta italiana e felliniana. Qui recita se stessa, quella resa nota da “La dolce vita”, con la sua voce e quel suo accento sufficientemente alieno da trovare posto nell’immaginario di un Fellini sempre alla ricerca di volti particolari che abbina sempre a doppiaggi altrettanto fuori dal comune: in questo film, ad esempio, fa doppiare una donna brutta da un uomo in falsetto. Anitona, in gigantografia da un manifesto che pubblicizza il latte, turba la fantasia del dottor Antonio Mazzuolo che, nomen omen, da puritano intransigente mazzìa e perseguita tutti quelli che, a suo dire, disturbano la morale comune e il comune senso del pudore: in realtà anche il clero e i politicanti si mostrano più tolleranti e compiacenti di lui. In un incubo notturno e durante un temporale Anitona esce dal manifesto in tutta la sua enormità e duetta con il misero omettino tentandolo come una fascinosa e gigantesca diavolessa, mentre risuona ossessivo il motivetto di Nino Rota della pubblicità. Motivetto che, dopo aver visto il film in tivù decenni fa da ragazzino, ancora ricordo, così come il vagare notturno dell’affascinante gigantessa fra i palazzi modernisti dell’EUR.

Anche in questo cortometraggio, introdotto dal racconto di una bambina nei panni di un Amorino capriccioso che poi conclude il film, non c’è alcun riferimento diretto a Boccaccio, ma tant’è. E’ scritto da Fellini con lo scrittore Ennio Flaiano e con Tullio Pinelli, primogenito dei piemontesi conti Pinelli già brillante autore di commedie teatrali finché vinse una selezione come sceneggiatore cinematografico alla Lux Film di Roma, sorpassando calibri come Vitaliano Brancati ed Elio Vittorini. Qui conosce Fellini col quale collaborerà praticamente a tutti i suoi film.

Fra le curiosità c’è da riportare che nella scena in cui Antonio Mazzuolo schiaffeggia una donna seduta al tavolino di un bar per la sua generosa scollatura, riprende il vero accadimento in cui un giovane Oscar Luigi Scalfaro (Presidente della Repubblica dal 1992 al 1999) allora presidente di Azione Cattolica, schiaffeggiò una donna in un locale pubblico per l’identica ragione. Poi, secondo gli autori di “A New Guide to Italian Cinema” del 2007, l’Anitona di Fellini sarebbe stata ispirata dalla gigantessa di un B-movie americano del 1958, “Attack of the 50 Foot Woman” dove i 50 piedi americani corrispondono a circa 15 metri: quel film non è mai arrivato in Italia e l’ipotesi, ancorché plausibile, non trova conferme nei fatti.

III attoIl lavoro

Un’inquadratura del film che esemplifica l’incomunicabilità fra i due coniugi, distanti, lui riflesso in uno specchio: simbolo cinematografico del doppio ma anche del narcisismo, come pure di parossismo schizofrenico: in ogni caso disagio esistenziale.

Dirige Luchino Visconti, che scrive il cortometraggio con Suso Cecchi D’Amico, la quale passa con nonchalance dal proletariato del primo atto a questa ricca borghesia, meglio ancora nobiltà, del terzo episodio, sempre ambientato a Milano. E ancora una volta Boccaccio non c’entra in quanto la storia è derivata da un racconto di Guy de Maupassant, “Au bord du lit”, tradotto da noi sia come “Accanto al letto” che “Sul bordo del letto”, un dramma morale in forma di beffa amara che può ricongiungersi ai temi narrati nel “Decamerone” dal Boccaccio: una donna, scoperte le numerose relazioni del marito puttaniere, decide di concedersi a lui solo dietro compenso. Luchino Visconti di Modrone conte di Lonate Pozzolo si diverte a farne un film molto personale in cui con tagliente autoironia svende la sua classe sociale allo spettatore medio in cerca di brividi scandalistici, ed è anche l’unico episodio dove si intravede un nudo femminile, per la gioia degli occhi e il prezzo del biglietto, dato che per il resto è tutto uno sterile esercizio di stile abbastanza freddo, cerebrale, in cui Visconti mostra anche una copia tedesca de “Il Gattopardo” che è il racconto da cui stava preparando il suo film successivo. Un piccolo film di auto citazioni.

In un lungo antefatto mette in scena lo sproloquio di un avvocato che introduce il tema delle numerose ragazze squillo con le quali si è sollazzato il giovane piacente conte Ottavio, tutto nella norma per carità, se non fosse che una delle ragazze ha parlato e lo scandalo è finito su tutti i giornali; ma non è tanto lo scandalo a preoccupare il conte e il suo avvocato, quanto piuttosto la reazione del suocero che chiude i cordoni della borsa. Da qui, dopo aver subìto il monologo dell’avvocato, il conte passa a duettare con la moglie Pupe, tedesca che parla in tedesco col padre al telefono, al quale dice che vuol trovarsi un lavoro, come da titolo del film, pur non sapendo cosa davvero significhi quella parola: è un capriccio che la trama non giustifica, fine a se stesso come ogni capriccio della nobiltà, ma un capriccio che introduce l’anima del racconto: poiché al marito piace pagare le donne, e nel contempo continua a desiderare anche la bella moglie, lei gli si concederà dietro compenso, quadrando il cerchio: trova un lavoro e beffa il marito, ma a che prezzo? la consapevolezza di poter fare solo la puttana.

Boccaccio '70: le location del film con Romy Schneider e Sophia Loren

Benché l’uso e l’abuso di attori stranieri sia la tendenza del cinema italiano dell’epoca sempre in cerca di co-finanziamenti e lasciapassare per il mercato estero, in Visconti è anche un gusto personale che segue la sua formazione artistica: ha cominciato a lavorare nel cinema francese al seguito di Jean Renoir; e nella sua cinematografia la nobiltà e l’alta borghesia, e la decadenza sociale e umana, diverranno filo conduttore, dal prossimo film “Il Gattopardo” all’ultimo “L’Innocente”, mentre prima di questo momento di svolta si era espresso dentro la vena del neorealismo a cominciare dal suo primo film “Ossessione” e poi con “La terra trema” e “Bellissima” e “Rocco e i suoi fratelli” fra i quali inserisce quello che fu considerato il suo primo tradimento al neorealismo: “Senso”.

Romolo Valli e Paolo Stoppa

Protagonista di questo episodio è Thomas Milian, nato a Cuba durante i regimi pre Castro che, dopo avere assistito al suicidio di suo padre, ex generale di regime caduto in disgrazia nel regime successivo, fugge negli Stati Uniti dove prende la cittadinanza e la via della recitazione. Sul finire degli anni ’50 venne in Italia a esibirsi al Festival di Spoleto in una pantomima di Jean Cocteau, e gli andò bene perché gli erano rimasti in tasca solo 5 dollari: lo notò Mauro Bolognini che gli aprì una carriera cinematografica in serie A, fino a questa regia di Luchino Visconti dove è doppiato da Corrado Pani; percorre tutto il film facendo in realtà da spalla ai protagonisti dei due segmenti della storia: nel primo, come detto, fa da interpunzione al monologo dell’avvocato interpretato da Romolo Valli, grande interprete teatrale con importanti incursioni al cinema, prematuramente scomparso a causa di un incidente stradale, a 55 anni. Nella seconda parte Thomas – come dai titoli – ma poi Tomas Milian, fa da spalla a Romy Schneider, doppiata da Adriana Asti, un’austriaca naturalizzata francese e resa famosa dalla trilogia di film sulla Principessa Sissi ma dalla cui zuccherosità volle subito prendere le distanze cercando ruoli più impegnativi. A questo terzetto bisogna aggiungere la partecipazione di Paolo Stoppa, altro amico e collaboratore di Visconti, qui nel ruolo muto e beffardo di un secondo avvocato.

Tomas Milian diventerà famoso passando agli spaghetti-western e ai poliziotteschi dove sarà “Er Monnezza”, mentre Romy Schneider proseguirà con una fulgida carriera stroncata a 43 anni da quello che si credette un suicidio ma che in realtà fu un arresto cardiaco dovuto sia ad abuso di alcol che a una profonda depressione per i postumi di un cancro, e soprattutto per la tragica morte del figlio 14enne trovato infilzato su un cancello che voleva scavalcare. Ma secondo un articolo del 2009 del quotidiano tedesco “Bild”, l’attrice fu vittima di spionaggio da parte della Stasi, i servizi segreti della DDR, per il suo sostegno a un comitato di opposizione al regime sovietico, e si adombra l’ipotesi dell’omicidio.

IV atto: La riffa

Sophia Loren, Boccaccio '70 | Sophia loren, Celebrità, Attrice

Il quarto atto è tutto al servizio di Sophia Loren che già nei titoli del manifesto non condivide il suo spazio con un secondo interprete, come accade per gli altri episodi; del resto produce suo marito Carlo Ponti e dirige il suo maestro d’arte Vittorio De Sica: “Chi mi ha in segnato a credere in me stessa? Vittorio De Sica: non solo un grande amico, ma anche un importante mentore nella mia vita” ha dichiarato recentemente l’ottantasettenne diva, e anche: “Devo ringraziare mio marito e De Sica. Ho cominciato dal niente. Mia madre era una povera signora, ci morivamo di fame e siamo andate a Roma. Senza persone che credono in te non vai da nessuna parte. Incontrai Carlo Ponti, il mio futuro marito, e mi fece conoscere Vittorio De Sica. Lo porto nel cuore.

Un piccolo grande miracolo: Vittorio De Sica, Cesare Zavattini e “La porta  del cielo” | Associazione Cinematografica "La Dolce Vita"
Vittorio De Sica e Cesare Zavattini

Scrive la sceneggiatura originale quel Cesare Zavattini che si è praticamente inventato l’intero film. Artista eclettico – scrittore giornalista poeta commediografo ma anche pittore e sceneggiatore di fumetti – ha avuto un lungo e proficuo sodalizio con De Sica col quale ha creato film come “Sciuscià” “Ladri di biciclette” “Miracolo a Milano” imponendosi come autore di punta del neorealismo ma nel contempo artisticamente e culturalmente impegnato a svecchiare l’arte del cinema che considerava duttile e insieme popolare, un’espressione artistica che secondo il suo sentire avrebbe potuto avviare un rinnovamento civile della società sottraendola alle sterili leggi del mercato.

Qui, partendo dal neorealismo, colloca il suo racconto a Lugo di Romagna durante una fiera del bestiame con un ampio antefatto affollato di gente vera, interpreti presi dalla strada, tipi particolari come piacciono anche a Fellini, con la differenza che Fellini li trucca e li veste e li fa muovere dando vita all’immaginario dei suoi bozzetti, mentre De Sica li filma così come sono, limitandosi a estrapolarli dal contesto per metterli al centro del racconto immaginato da Zavattini: in entrambe le soluzioni sempre doppiati. La storia è una favola sulla cui logica bisogna passare oltre. Nella fiera andiamo a scoprire lentamente la protagonista: il personaggio della popolana sfrontata e dal buon cuore sulla quale la Loren ha costruito l’intera carriera. Qui è Zoe, una napoletana che nella fiera gestisce una baracca di tiro a segno insieme a una coppia locale, con la cui complicità ha messo su un’attività illecita: una riffa il cui biglietto vincente, il primo estratto sulla ruota di Napoli ovviamente, darà al fortunato vincitore l’ambitissimo premio di giacere con cotanta maggiorata, che però fa la difficile e vorrebbe ma non può scegliere l’uomo da premiare, e nel frattempo si dà da fare col belloccio del paese, il buttero Gaetano. E’ chiaro che si tratta di prostituzione bella e buona ma in questa favola la buona e bella Zoe mantiene un cuore innocente e tanti leciti sogni che pensa di realizzare con i guadagni, già cospicui, un vero tesoretto, delle riffe che ha già organizzato nelle fiere di paese in paese. Vince il timido scialbo sacrestano e il biglietto vincente diventa l’ambito oggetto di un’asta al rialzo sempre più ardito fra i vari tipi che interpretano se stessi con i lori veri nomi, ma il sacrestano è risoluto nel volere godere il suo inaspettato e altrimenti irraggiungibile premio, la prorompente napoletana con un vestito rosso che sembra dipinto addosso. A questo punto un paio di ben congegnati colpi di scena danno alla vicenda dei risvolti inaspettati… Accanto alla Sophia nazionale Alfio Vita (cinque soli film all’attivo) è l’impacciato sagrestano e Luigi Giuliani (a quota tredici film) è il bello della fiera, mentre tutti gli altri interpreti, come detto, sono presi dalla strada, eccezioni fatta per Annarosa Garatti, l’amica del tiro a segno, professionista con pochi film che si è dedicata successivamente al doppiaggio.

Questo è l’unico episodio che, benché senza riferimenti diretti, resta in linea con la narrativa del toscano Giovanni Boccaccio e del suo Decamerone che incontrano l’arte di arrangiarsi partenopea: dunque, a mio avviso, l’episodio stilisticamente più riuscito all’interno di un film a episodi in cui del Boccaccio nel titolo non c’è traccia: uno scherzo in quattro atti ideato da Cesare Zavattini, appunto. L’episodio che rimane più impresso è di nuovo quello di Fellini, come accadrà per “Tre passi nel delirio” e c’è da riportare l’incidente avvenuto con la distribuzione all’estero: presentato fuori concorso al Festival di Cannes che quell’anno, il 1962, ha premiato il dimenticato film brasiliano “La parola data” – mentre c’erano in concorso “L’eclisse” di Michelangelo Antonioni, “Il processo di Giovanna d’Arco” di Robert Bresson, “L’angelo sterminatore” di Luis Buñuel, “Il lungo viaggio verso la notte” di Sidney Lumet, “Divorzio all’italiana” di Pietro Germi – da “Boccaccio ’70” è stato eliminato l’episodio “Renzo e Luciana” diretto da Monicelli per portare nelle sale un film di durata più consona: l’originale dura più di tre ore e mezza; ne ha fatto le spese l’episodio con meno appeal, con protagonisti sconosciuti e un tipico racconto della realtà sociale italiana del momento. Per protesta e solidarietà col collega escluso De Sica Fellini e Visconti disertarono il festival. Qui di seguito i manifesti francese, che come sempre francesizzano anche i nomi propri, inglese e tedesco.

Boccace 70 de Luchino Visconti, Federico Fellini, Vittorio De Sica, Mario  Monicelli (1962) - UniFrance
Boccaccio '70 (1962) - IMDb
BOCCACCIO 70 (1962) – Cinema Italiano Database