Archivio mensile:febbraio 2021

Il promontorio della paura

IL PROMONTORIO DELLA PAURA Trailer Originale | iVID.it - il portale dei  trailer

E’ del 1962 questo caposaldo di quel cinema che noi chiamiamo di suspense ma che loro, gli americani, definiscono neo-noir dai classici noir degli anni ’40-50 che fecero epoca e scuola, ma che chiamano anche psychological thriller, genere il cui capolista è certamente “Psycho” di Alfred Hitchcock, 1960. Semplificando alla nostra maniera si tratta di film con protagonisti psicopatici. La storia viene dal romanzo “The Executioners”, 1958; l’autore, John D. MacDonald, era un prolifico scrittore di gialli e fantascienza, che dopo il successo del film ripubblicò il romanzo come “Cape Fear” e che ovviamente rimane il suo titolo più noto.

Giovanni da Verrazzano - Wikiwand

Cape Fear esiste davvero ed evidentemente MacDonald lo scelse come set del suo romanzo per il nome fortemente evocativo. Situato nel North Carolina, a nord della penisola della Florida dove lo scrittore viveva e ambientava la gran parte dei suoi scritti, Cape Fear è il quinto più antico nome sopravvissuto negli Stati Uniti e vi approdò nel 1524 l’esploratore italiano Giovanni Da Verrazzano sotto bandiera francese; ma il nome viene dopo, con la spedizione del 1585 dell’inglese Sir Richard Grenville che stava veleggiando verso Roanoke Island (altro nome forte nell’immaginario collettivo americano per la misteriosa scomparsa di un’intera comunità nel 1587) e la cui nave si incagliò proprio dietro quel promontorio, da cui il nome Paura per la paura che ha avuto l’equipaggio di naufragare, nome pauroso che fu tramandato fra i marinai e che restò toponimo. Il luogo non è effettivamente confortevole in quanto caratterizzato da paludi salmastre fitte di vegetazione anche alta, l’ideale per ambientarvi lo scontro finale fra i due contendenti, scena molto ben realizzata nel film.

Cape Fear (1962) Review |BasementRejects


Gregory Peck, coinvolto anche nella produzione, all’inizio avrebbe dovuto essere lo psicopatico, ma oltre a essere stato il Capitano Achab in “Moby Dick” aveva interpretato altri cattivi e temeva che il pubblico lo identificasse troppo con questi personaggi oscuri, così scelse di fare il buono – nuocendo però sia al film che a se stesso: il personaggio dell’avvocato Sam Bowden risulta più sfuocato rispetto al fascino che suscita il personaggi perverso, e la sua recitazione misurata e aderente al carattere ne fa un pavido meno simpatico del malvivente Max Cady; per non dire che Peck era anche più alto e muscoloso di Mitchum e che durante la lotta nella palude gli diede un pugno vero che l’altro risentì per giorni. Uno squilibrio fisico che si ripeterà anche nel remake del 1991 di Martin Scorsese.

Uno statuario Robert Mitchum in spiaggia, all’incirca 25enne

Robert Mitchum, definito dalla critica “l’anima dei film noir” interpretò spesso ruoli di criminali sempre affascinando pubblico e critica e per lui interpretare il freddo calcolatore e assai pericoloso Max Cady fu quasi una passeggiata, oltre che un ritorno alle origini: il film fu girato a Savannah, città nella quale in gioventù era stato spedito ai lavori forzati perché arrestato per vagabondaggio. Era il periodo che seguiva la Grande Depressione di fine anni ’20, e Mitchum era uno di quei ventenni che giravano il Paese in cerca di un futuro qualsiasi. Di suo ci metteva un carattere turbolento e insofferente alle regole, che lo aveva fatto andare molto male a scuola e che gli aveva procurato non pochi guai fra birichinate infantili che da adulto diventeranno risse. Farà il pugile professionista e la sua faccia ne resterà segnata per il futuro successo cinematografico. Ma è stato anche minatore, sterratore, scaricatore di porto. Fu la sorella, cameriera di giorno e attrice di sera, che lo coinvolse in una cooperativa teatrale per la quale lavorò sia come macchinista che come attore all’occorrenza; ma svelò un talento segreto scrivendo poesie e brevi commedie per la sorella, che diventeranno canzoni e testi radiofonici. Mettendo su famiglia si trovò un lavoro stabile come macchinista presso l’industria spaziale Lockheed Corporation ma a causa dell’impiego troppo “normale” cominciò a soffrire di un grave esaurimento nervoso che gli causò un pericoloso calo della vista. Così cercò lavoro nell’industria cinematografica, era disponibile a fare qualsiasi cosa, dal macchinista alla comparsa, e invece fu assunto alla Paramount come attore, e con quella faccia proprio nella parte del cattivo per una serie di film western di serie B che furono il suo trampolino di lancio. Il suo Max Cady ha il fascino perverso del cattivo in abiti buoni e maniere cortesi, uno stalker che non oltrepassa mai i limiti legali e che invece spinge l’avversario a perdere il controllo.

La finezza di questo personaggio, nel quale Mitchum non credeva ma che ha saputo rendere con grande misura, è dovuto alla censura che impose tagli e revisioni alla sceneggiatura. Nel romanzo si dice chiaramente che Max Cady è uno stupratore e, cosa ancora più scandalosa, era un militare, che scoperto dal superiore in grado Sam Bowden venne denunciato alla corte marziale e condannato a otto anni di prigione. Per la morale vigente all’epoca non si poteva parlare di un militare stupratore e così il tizio divenne un qualsiasi malvivente civile, non più stupratore ma solo aggressore, e chi vuol capire capisca. La violenza del cattivo diventa quindi solo psicologica, freddo calcolo, una narrativa in linea con la morale americana ma non ancora con la nostra, dato che il film venne prima respinto dalla nostra censura come contrario al buon costume, e in seguito approvato con il massimo divieto, quello ai minori di anni 18 “data l’atmosfera generale di tensione sessuale.”

Il regista di genere, J. Lee Thompson, forte del successo dell’anno prima “I cannoni di Navarone” dove diresse fra gli altri anche Gregory Peck, fu dal divo chiamato a dirigere questo neo-noir per il quale il regista, ammiratore di Hitchcock, si ispirò al maestro per creare le sue atmosfere in bianco e nero con tagli angolari e soggettive ardite, dando il meglio nel corpo a corpo dei due protagonisti nelle acque della palude.

Come moglie della vittima e vittima lei stessa, Polly Bergen nel ruolo più significativo di una carriera iniziata come cantante e poi come attrice brillante in ruoli di supporto in tante commedie e molta tv. Attrice bambina nelle pubblicità, anche la quattordicenne Lori Martin è qui nel suo ruolo più significativo ed ebbe una carriera discontinua a causa della schizofrenia bipolare di cui soffriva, malessere a cui mise fine suicidandosi con un colpo di pistola a 63 anni; nel film è molto convincente anche se oggi, a decenni di distanza, il suo look di adolescente coi capelli cotonati e sempre in piega appare ridicolo, su un corpo assai minuto e davvero piccolo di statura.

Barrie Chase - Rotten Tomatoes

La ballerina e coreografa Barrie Chase che negli anni ’50-60 ballò in una trentina di film musicali, fra i quali “Bianco Natale”, e che fu partner di Fred Astaire in un premiato show tv, qui interpreta il ruolo drammatico della prostituta che subisce la violenza di Max Cady, talmente traumatizzata da voler cambiare città piuttosto che sporgere denuncia e temere ritorsioni: un personaggio che nel remake prenderà un diverso interessante sviluppo.

Martin Balsam è l’ispettore di polizia e Telly Savalas, che dieci anni dopo sarà in tv il tenente Kojak, è l’investigatore privato dopo essere stato preso in considerazione anche come Max Cady, ruolo per il quale si era fatto avanti anche Rod Steiger che però, avendo saputo che girava il nome di Mitchum, si fece da parte. Robert Mitchum con Gregory Peck e Martin Balsam torneranno nel remake di Martin Scorsese, il nostro prossimo appuntamento.

Il promontorio della paura (1962) – Nonsolocinema

Birds of Prey e la fantasmagorica rinascita di Harley Quinn

Questo è uno di quei casi in cui davvero posso dire: io l’avevo detto. Anzi scritto, parlando di “Suicide Squad”: “Però il personaggio più riuscito è Harley Quinn, spalla del Joker nei fumetti qui promossa a super protagonista: bella, sexy, ironica, simpatica e psicopatica è un mix perfetto che tiene testa a tutti i personaggi ed è la vera anima del film, dato che gli altri della squadra non sono così sexy e ironici e psicopatici come dovrebbero essere. Data la riuscita del personaggio, scrittura più interpretazione, non mi stupirei se ai piani alti stessero già pensando di promuoverla protagonista di uno spin-off .” Detto, fatto.

GiovedìFilm: Birds of Prey (e la Fantasmagorica Rinascita di Harley Quinn)  (2020)

Incassato il Critics’ Choise Awards per la sua fantasmagorica Harley Quinn, Margot Robbie non è stata con le mani in mano e dal 2016, anno di uscita di “Suicide Squad” ha fatto otto film in quattro anni, fra cui “Tonya” sulla vicenda della pattinatrice su ghiaccio Tonya Harding coinvolta nell’aggressione a una sua rivale sportiva, un personaggio complesso e sgradevole che le valse la candidatura all’Oscar. E’ stata poi la Regina Elisabetta I in “Maria Regina di Scozia” dove si è imposta sulla collega Saoirse Ronan nel ruolo del titolo, con candidature ad altri premi (BAFTA, Screen Actors Guild Awards, AACTA, Satellite Awards, mentre la Ronan, seppur bravissima, è andata a bocca asciutta. Ed ha interpretato Sharon Tate nella rivisitazione del dramma in cui la moglie di Roman Polanski fu assassinata, nell’imperfetto – per me – “C’era una volta a… Hollywood” di Quentin Tarantino.

Ma poi questo film tutto suo nell’universo DC Comics tanto atteso – ha disatteso le aspettative: il personaggio che funzionava nel giocattolo corale qui non funziona più. L’esplosione di colorata fantasmagoria e il mix perfetto della bella sexy ironica simpatica e psicopatica, dilatati in un film intero mostrano la corda, come si dice: si diceva dei tappeti e dei tessuti pregiati come il broccato o il velluto che invecchiati e lisi mostravano la trama dell’incordatura. E’ come se il film mostrasse le rotelle di un marchingegno inceppato.

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La bella psicopatica parla al pubblico, si sbaglia, torna indietro, e invece di divertire ci confonde e diventa fastidiosa. Le scene di lotta acrobatica, figlie del glorioso kung-fu di Bruce Lee, sono sfacciatamente delle coreografie messe lì perché devono stare lì, e come lo straparlare della protagonista diventano ridondanti. L’antagonista Black Mask è interpretato da un Ewan McGregor che sembra più annoiato di me, mentre fa meglio il suo braccio destro in odor di relazione omo, Chris Messina come Victor Szasz.

Il cattivone Roman Sionis che poi indossa la maschera nera è il tipico boss che gestisce un locale dove ci sono i suoi uccellini, come li chiama lui, le belle ragazze che animano le serate. Ma una di queste, la cantante, è Black Canary, l’unica nel film ad avere un superpotere: una voce che atterra gli avversari. Per il resto fa a botte come tutti, anzi: tutte. Eh sì, perché il film è dichiaratamente un manifesto femminista e attorno all’antieroina si raccolgono, insieme a Black Canary, la Cacciatrice, la poliziotta Renee Montoya già debitamente bullizzata da superiori e colleghi, e la giovanissima sbandata Cassandra Cain, tutti personaggi apparsi nei fumetti DC Comics e che qui sono insieme per la prima volta in un allegro e manesco gruppo di donne che da uccellini si trasformano in uccelli predatori, birds of prey, un pacchetto pronto per diventare protagonista del prossimo spin-off.

In 'Birds of Prey,' the ladies are flying together: Harley Quinn is back  with a group of badass women to save the day
Renee Montoya, la Cacciatrice, Harley Quinn, Cassandra Cain e Black Canary

Spiace dirlo, il pacchetto femminista non funziona. E non perché sia femminista ma perché si è messa troppa carne al fuoco e, restando nell’ambito dei modi di dire, il troppo storpia. E’ zuccheroso fino alla nausea, è politicamente scorretto fino alla noia, è caotico fino a perdere il controllo del caos controllato che il giocattolone dovrebbe essere. Resta sempre godibile, come nella costola da cui è stato generato, la coloratissima parte visiva: costumi, scene, luci, effetti.

Margot Robbie si impegna anche nella produzione su una sceneggiatura di Christina Hodson e Cathy Yan alla regia, prima donna cinese (naturalizzata americana va sa sé) alla regia di un film di supereroi, che è anche il suo secondo lungometraggio dopo il debutto con “Dead Pigs” un film drammatico ambientato a Shangai che dimostra il talento eclettico della regista, che qui firma un lavoro confuso perché è confuso a monte il progetto. Jurnee Smollett-Bell è Black Canary, Mary Elizabeth Winstead è la Cacciatrice, Ella Jay Basco è Cassandra Cain, mentre nei panni della detective Renee Montoya ritroviamo in un ruolo appetitoso la Rosie Perez che nel già lontano 1994 è stata candidata all’Oscar per “Fearless – Senza Paura” di Peter Weir.

Joker e Harley Quinn saranno protagonisti di un film dedicato a loro

In questo fantasmagorico racconto sconclusionato c’è un grande assente: l’ex fidanzato di Harley Quinn, il Joker dai capelli verde smeraldo di Jared Leto che in “Suicide Squad” davvero non ho amato. A parte il mio giudizio su quel Joker c’è che l’attore, che ricordiamo premio Oscar per “Dallas Buyers Club”, è in rotta con la Warner Bros perché si è sentito tradito quando la casa produttrice di “Suicide Squad” ha avviato il progetto del “Joker” con Joaquin Phoenix il cui successo è stato clamoroso. Così Jared Leto ha rifiutato anche di essere nel cast del sequel “The Suicide Squad” programmato nelle sale USA, pandemia permettendo, per il prossimo agosto, in contemporanea streaming su HBO Max. Tornerà però, senza capelli verdi e tatuaggi in faccia e dunque un look rinnovato, e incupito, in un altro progetto frutto di controversie legali: “Zach Snyder’s Justice League”, in pratica il director’s cut del film del 2017 che fu un insuccesso a causa di una serie di eventi sfavorevoli che portarono all’avvicendamento del regista Zach Snyder con Joss Whedon. Rimasto l’amaro in bocca a Snyder e ai tanti suoi fan e sostenitori, anche fra i membri della troupe e della produzione, alla fine Warner Bros consentì il director’s cut per il quale il regista ha anche ricevuto del soldi per girare nuove scene; fra queste c’è l’inserimento del Joker di Jared Leto, assente nella precedente versione del film, e che segna il ritorno dell’attore col suo travagliato e controverso personaggio. Dunque è tutto bene quel che finisce bene? Staremo a vedere.

Jared Leto: il Joker imita Gesù Cristo nell'immagine della Justice League
Il nuovo Joker di Jared Leto che imita il Cristo in “Zach Snyder’s Justice League”

Moby Dick la balena bianca

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Ho un ricordo assai personale di questo film grandioso che devo aver visto due volte o più nella televisione in bianco e nero di quando ero bambino e ragazzo, e oggi che lo rivedo dopo decenni, a colori, rimane immutata la fascinazione, riaccendendo quelle emozioni che sono depositate in me profondamente. Il capitano Achab di Gregory Peck, un personaggio che mi ha intimorito e attratto al contempo, intrappolato fra i cordami degli arpioni infitti sul corpo dell’enorme balena bianca che lo trascina via per sempre nei flutti senza che la vendetta umana sia compiuta, è rimasto impresso nella mia memoria di cinefilo insieme a tanti altri momenti di tanti altri film diversi.

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L’idea di rivedere oggi il film a colori, io assai più maturo e disincantato, mi suscitava il timore della delusione per una antica emozione che non avrei più ritrovato. Ma non è così, il film è potente ancora oggi, dinamico e moderno, e quel colore polveroso, grigiastro e a tratti cupo, aggiunge un’emozione nuova.

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L’unica delusione è l’invecchiamento che subisce il doppiaggio italiano dell’epoca con toni troppo enfatici; anche nella lingua originale che oggi è possibile selezionare, qua e là affiora un’enfasi evidentemente tipica dello stile recitativo dell’epoca, ma sempre in misura assai più contenuta della versione italiana che arriva a rendere ridicolo il personaggio del selvaggio Queequeg mettendogli in bocca solo verbi all’infinito: io fare questo tu dire quello noi andare là, senza neanche un tentativo di accento per caratterizzare l’alterità del personaggio, mentre nell’originale, l’interprete che era austriaco, parla un inglese molto semplificato e con un vago quanto indefinito accento straniero.

La storia del film è nota, come il romanzo di Herman Melville da cui è tratto con molte libertà, e la più importante è l’ultima scena: la spettacolare morte di Achab trascinato via sul corpo della balena, che nel romanzo accade a un altro importante personaggio completamente ignorato nel film, il misterioso parsi Fedallah, mentre Achab muore trascinato negli abissi perché impigliato per il collo alla corda dell’ultimo rampone che ha scagliato contro Moby Dick.

Moby Dick, definito balena anche nel romanzo, è in realtà un capodoglio, come i due avvenimenti che hanno ispirato il romanziere: nel primo un enorme capodoglio affonda una baleniera, il secondo è l’uccisione del mostruoso e tristemente noto capodoglio albino Mocha Dick; e vale la pena ricordare che il nomignolo Dick non è solo il casuale diminutivo di Richard, perché nello slang inglese sta anche per cazzo e associato a un altro nome proprio, Mocha o Moby che sia, diventa un insulto tipo Moby Testadicazzo.

Risultato immagini per balena e capodoglio

Detto questo, Melville semplifica la natura del cetaceo perché la balena è narrativamente più comune, a cominciare dalla balena che inghiotte Giona, racconto biblico al centro dell’omelia dell’ex baleniere Padre Mapple che nel romanzo e nel film benedice e terrorizza i marinai, per finire col racconto della balena che inghiotte Pinocchio. La differenza fondamentale fra i due cetacei sta nella dentatura: la balena, del sottordine dei misticeti, è fornita solo di fanoni, lamine che filtrano l’acqua trattenendo i minuscoli organismi marini di cui si nutre; il capodoglio, del sottordine degli odontoceti, ha invece quei veri e propri denti che hanno potuto staccare la gamba di Achab.

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Sulla lavorazione del film circola una leggenda metropolitana secondo cui il modello della balena realizzato in gomma dalla Dunlop, lunga 23 metri, pesante 12 tonnellate e munita di 80 batterie ad aria compressa che la facevano galleggiare e muovere mediante congegni idraulici, si staccò dagli ormeggi e prese il largo perdendosi nella nebbia, poi probabilmente affondando per esaurimento dell’energia; da lì in poi il 90% delle riprese fu fatto utilizzando diversi modelli, anche parziali, di varie dimensioni.

bradbury huston
John Huston e Ray Bradbury

Ma i problemi nacquero fin dalla stesura della sceneggiatura, per la quale il regista e anche produttore John Huston aveva ingaggiato lo scrittore Ray Bradbury, innovatore del genere fantascientifico, già noto nel mondo con le sue “Cronache marziane” e con “Fahrenheit 451”. La collaborazione fu conflittuale sin dall’inizio, con lo scrittore che dice al regista che “non era mai stato in grado di leggere quella dannata cosa” e che prosegue anche con liti sui set già allestiti e operativi, tipici dei due galli nello stesso pollaio: Huston stimava Bradbury che ne ricambiava la stima, ma col il suo carattere forte e e la visione autoritaria del lavoro non poteva fare a meno di metterne in discussione il lavoro e ci furono molte scintille.

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1949. Walter e John Huston con i loro Oscar per “Il tesoro della Sierra Madre” diretto dal figlio, il padre come Miglior Attore non protagonista e il figlio premiato per la sceneggiatura.

Non tutti sanno che lo stesso John Huston inizialmente avrebbe voluto interpretare Achab dato che il romanzo era da sempre una sua passione; aveva probabilmente visto i due precedenti film, il muto “Il mostro del mare” del 1926 con John Barrymore, che poi reinterpretò Achab nel remake sonoro del 1930 “Moby Dick, il mostro bianco”. Ma prima che a se stesso come interprete, e fra i tanti ruoli basta ricordare che interpretò anche Noè nel suo “La Bibbia” del 1966, John Huston avrebbe voluto avere in quel ruolo suo padre, Walter, morto per un aneurisma a 67 anni nel 1950, nella stessa villa di Beverly Hills e nel giorno in cui lui, John, stava festeggiando il suo 44° compleanno insieme ai suoi amici, fra i quali Spencer Tracy. Da qui l’attaccamento emotivo al personaggio.

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Dopo l’uscita del film Gregory Peck litigò col regista perché scoprì di non essere stato la prima scelta per quel ruolo e che anzi era stato imposto come nome di punta (a quel tempo aveva già accumulato quattro candidature all’Oscar) dai finanziatori che partecipavano alla produzione. Un peccato d’orgoglio che Peck scontò fino alla fine: anni dopo, essendosi reso conto di avere esagerato, cercò di riappacificarsi col regista, il quale però, ferito nell’intimo per il forte significato che quel film aveva avuto per lui, rifiutò di incontrarlo e non si parlarono mai più. Solo in tempi recenti è giunto un messaggio pacificatore dalla figlia del regista, l’attrice Anjelica Huston che quattrenne aveva incontrato Peck vestito da Achab sul set, e che ha dichiarato che suo padre aveva sempre adorato l’attore nonostante tutto. Dell’attore si sa che non restò contento di quella sua interpretazione: probabilmente aspirava all’Oscar ma l’intero film fu ignorato. Nonostante questo fu un grande successo e oggi è inserito dal National Board of Review nella lista dei dieci migliori film del 1956; se non l’Oscar vinse il nostro Nastro d’Argento come Miglior Film Straniero e altri premi secondari.

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L’io narrante del film, come nel romanzo, è il marinaio avventuriero Ismaele in cui Herman Melville riversa molte delle sue reali esperienze, che si presenta con il noto “Chiamatemi Ismaele” che nei riferimenti culturali del romanziere, non immediatamente leggibili, è come dire: chiamatemi vagabondo, dato che l’Ismaele biblico, figlio della schiava Agar, è stato scacciato dal padre Abramo insieme alla madre nel deserto. Stesso riferimento biblico per il nome Achab, riportato nel film, che nel Primo Libro dei Re è colui che “commise molti abomini, seguendo gli idoli” e che nella narrazione commetterà l’abominio di condurre tutti i suoi uomini alla morte nell’inseguire il suo idolo, la balena bianca.

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Lo interpreta Richard Basehart, un ottimo attore che non è mai diventato una star assoluta, e che per un periodo ha vissuto in Italia dove ha seguito la sposina Valentina Cortese conosciuta sul set di “Ho paura di lui” di Robert Wise; Il matrimonio non durerà molto ma nel frattempo ha avuto l’opportunità di lavorare con Federico Fellini in “La strada” e “Il bidone” accanto a Giulietta Masina. Friedrich Von Ledebur è Queequeg; Leo Genn è il primo ufficiale Starbuck, e Harry Andrews è il secondo Stubb.

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Orson Welles sul set del suo Moby Dick

Nel ruolo del predicatore, una sola scena ma molto significativa, un altro maestro del cinema statunitense, Orson Welles, che Valentina Cortese ricorda sempre con un bicchiere di whisky in mano e sempre alla ricerca di finanziamenti per i suoi film, non stupisce quindi che accettasse quelle partecipazioni straordinarie pur di fare cassa. Ma c’è di più: Welles è fresco reduce di una sua riduzione teatrale di Moby Dick andata in scena a Londra, dove era ovviamente Achab, esperienza da cui in futuro avrebbe tentato invano di farne un film nel 1971, che purtroppo rimase incompiuto, purtroppo anche per noi spettatori: un film sperimentale in cui lui leggeva il romanzo davanti a un blue screen su cui sarebbero state proiettate delle immagini che non sapremo mai.

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La mia giovanile impressione di Gregory Peck nel ruolo di Achab, mi diede la confusa sensazione – ero uno spettatore assai giovane – che l’attore, a differenza di tutti quegli altri divi hollywoodiani che passavano nella tivù in bianco e nero – Spencer Tracy, Clark Gable, James Sterwart, Gary Cooper – fosse un attore con un lato oscuro, come il personaggio che aveva interpretato. Nei film americani dell’epoca, western commedie drammi, quei protagonisti erano sempre i buoni e i finali erano quasi tutti positivi, mentre lui, Gregory Peck, con Achab aveva mostrato i tormenti di un’animo esasperato e distruttivo che, con segrete fascinazione e paura, trovavo assai più congeniali alla mia natura. Poi da ragazzo divenni adulto e cominciai ad andare al cinema da solo, a scegliermi i miei film, e mentre gli altri divi americani morivano o si ritiravano, lui, Gregory Peck continuava a interpretare quei suoi personaggi problematici se non addirittura agghiaccianti: il noir demoniaco “Il Presagio” 1976; la controversa figura del generale in “Mac Arthur, il generale ribelle” 1977; il nazista Joseph Mengele in “I ragazzi venuti dal Brasile”; fino al suo ultimo film, il remake di “Il promontorio della paura” del 1991 regia di Martin Scorsese, film di cui era stato protagonista nel 1962 con Robert Mitchum nel ruolo del cattivo, e adesso entrambi, Peck e Mitchum, in ruoli secondari nel remake, anche con Martin Balsam che nell’originale era il capo della polizia e nel remake un giudice. Così, oggi, anche rivedendo Gregory Peck nel rassicurante “Vacanze romane” resto sempre sul chi vive.

Bordella

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1976. Un unicum nella cinematografia di Pupi Avati: satirico, grottesco, surreale, demenziale e via dicendo, senza dimenticare che è anche stato vietato ai minori. Beh certo già il titolo deve avere allarmato i benpensanti tutori morali dell’epoca, inconsapevoli che era un’epoca che stava lì lì per esplodere una seconda volta dopo il recente ’68.

In quell’anno muoiono Agatha Christie e Mao Tse-tung mentre in Italia nasce il quotidiano La Repubblica e oltre oceano nasce la Apple di Steve Jobs mentre IBM sta lanciando sul mercato la prima stampante laser: prove tecniche di un futuro dagli sviluppi inimmaginabili. Sul nostro territorio nazionale gli attacchi terroristi dei brigatisti ci facevano rinchiudere in quelle case da dove le femministe, però, uscivano sempre più spesso a manifestare per le strade a favore della legge sull’aborto per la quale furono raccolte 700mila firme, definite all’epoca “firme delle puttanelle”, ma l’aborto rimane reato tranne quei casi eccezionali in cui è a rischio la salute della donna. In parlamento entrano per la prima volta i Radicali e il Partito Comunista Italiano è al 34% subito dopo la Democrazia Cristiana che è al 38%.

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Il 6 maggio un violento terremoto scosse e distrusse gran parte del Friuli, e il 10 luglio scoppia il reattore di una fabbrica di prodotti chimici a Seveso, alle porte di Milano: una nube di diossina invade il territorio e le conseguenze saranno da film dell’orrore: prima cadono stecchiti gli insetti, poi gli uccelli, a seguire i polli non stanno più in piedi e i cani cominciano a impazzire mentre i gatti diventano feroci come tigri, prima di morire le mucche muggiscono a lungo di dolore e per ultime muoiono le capre.

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Al cinema esce “Taxi Driver” di Martin Scorsese mentre la Corte di Cassazione condanna al macero tutte le copie di “Ultimo tango a Parigi” del 1972 di Bernardo Bertolucci, che intanto esce di nuovo nelle sale col suo monumentale “Novecento” diviso in due film – grande novità nella nostra cinematografia più abituata ai cortometraggi e agli sketch dei film a episodi – e che ancora fu sequestrato a Salerno per oscenità e blasfemia ma poi rimesso in circolazione con un nulla di fatto. E’ anche l’anno del “Rocky” di Sylvester Stallone, del disturbante “L’inquilino del terzo piano” di Roman Polanski, dell’horror “Carrie, lo sguardo di Satana” di Brian De Palma e dei politici “Quarto potere” di Sidney Lumet e “Tutti gli uomini del presidente” di Alan J. Pakula. E chiudo la carrellata con un altro Pupi Avati che esce lo stesso anno: il giallo horror “La casa dalle finestre che ridono”.

Risultato immagini per bordella luigi proietti

Il critico Giovanni Grazzini scrive: “Siamo spesso nel cabaret televisivo, nel paradosso goliardico. L’ambizione di Avati, di darci un’immagine emblematica della civiltà confusa degli anni Settanta, è poco adeguata alle sue virtù di narratore originale. Se è vero che la commedia all’italiana ci ha stancati, è dubitabile che film come “Bordella” possano proporsi quali modelli d’una nuova comicità internazionale.” Di fatto il film, un soggetto di Avati, di suo fratello Antonio e di Gianni Cavina cui si è aggiunto Maurizio Costanzo nella sceneggiatura, lo si potrebbe definire come un prodotto di cervelli in libertà. Si apre e si chiude con immagini di repertorio del potentissimo Henry Kissinger che con sapiente doppiaggio si fa promotore della multinazionale American Love Company gestita dal Mr Chips che manda il siculo-americano Eddie Mordace (doppiato però in pugliese da Carlo Croccolo) ad aprire una succursale a Milano. Di nuovo c’è che il bordello è per signore e vi si prostituiscono ruspanti giovanotti in una sequela di quadretti e siparietti ancora oggi divertenti quanto improbabili: si passa dal grottesco al burlesque maschile con numeri da musical e colpi di scena surreali in un film goliardico dove ogni interprete dà davvero il meglio di sé in assoluta libertà espressiva.

Gianni Cavina si disegna il ruolo del pugile suonato Adone Tonti con certi problemini di erezione che però non scoraggiano le donne con animo da infermiera e l’impeto da “io ti salverò!” ma che poi finisce per dare il meglio di sé con un pompiere travestito. Il venticinquenne Christian De Sica si lascia andare, è proprio il caso di dirlo, come aristocratico decaduto, tale Conte Ugolino Facchini, facendo forse il verso al Conte Max di suo padre Vittorio, ed è lui che apre le vie del musical con vezzi e mossette che nei decenni successivi faticherà a tenere a freno in una carriera lunghissima fatta di pochi alti e molti bassi. Il maniaco sessuale Ivanohe Zuccoli che nell’impresa mette a frutto il suo talento è un divertito e divertente Gigi Proietti, anche lui libero di fare e disfare quello che gli pare – in un film però sempre tenuto sotto controllo dal regista, pur nell’apparente anarchia generale. Lo statuario Luigi Montefiori, l’unico col physique du rôle, star dei B-movie italiani con lo pseudonimo di George Eastman, è il marinaio Silvano “Sinbad” Silingardi e chiude la squadra il caratterista polacco Vladek Sheybal qui nel ruolo di Francesco Brandani detto Checco ma anche checca dato che subito si traveste e fa il maestro di cerimonia in una casa bordello-bordella dove l’omoerotismo, divertito o reale, è più che palese.

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Non manca il personaggino di un massaggiatore assai gaio interpretato da Tito Le Duc, anche coreografo del film, noto come componente delle Sorelle Bandiera che in quegli anni avevano sdoganato, grazie a Renzo Arbore, il travestitismo in tivù. Le sciure milanesi apprezzano la bordella mentre Taryn Power, sorella minore della più famosa Romina, fa un’improbabile fanatica religiosa americana che viene a perseguitare i peccatori anche a Milano. Il potente Mr Chips che fa il verso al Hugh Hefner di Playboy è interpretato da Vincent Gardenia e il protagonista era Al Lettieri, morto d’infarto alla fine delle riprese e a cui il film è dedicato; ricordiamo che era un caratterista che raggiunse la notorietà con “Il Padrino” di Francis Ford Coppola.

Il film non poteva che fare scandalo già dal titolo, in un’Italia ultra cattolica, anche perché racconta una cosa per quei tempi sconvolgente: le donne hanno una loro sessualità anche al di fuori del talamo coniugale, e avrebbero dovuto lottare decenni per dichiararla liberamente. Anche se oggi persecuzioni e femminicidi raccontano di uomini fermi alla preistoria.

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Al Lettieri davanti a un manifesto di Adone il pugile sexy

Lei mi parla ancora

Dico subito che non ho mai visto un film di Renato Pozzetto né al cinema né in televisione, benché già lo avessi apprezzato in tivù negli ormai lontani anni fra la fine dei Sessanta e la metà dei Settanta in coppia con Cochi Ponzoni nel duo Cochi e Renato. E’ che non riesco a farmi piacere i comici al cinema dato che apprezzo la loro comicità solo concentrata nel piccolo schermo e mai dilatata nel tempo di un film e sul grande schermo, tanto più che in genere si ripetono nel genere film commerciale per famiglie e dintorni. I film di Pupi Avati però li ho sempre visti.

“Lei mi parla ancora”, produzione 2121, esce direttamente in tivù causa protrarsi pandemia e, in questa fame di cinema, crea un piccolo caso proprio per la partecipazione dell’ottantenne Renato Pozzetto, qui al suo primo ruolo drammatico e, per di più, in cattive condizioni di salute, dato che visibilmente ha gravi problemi di deambulazione.

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La storia è quella del tardivo unico romanzo del farmacista Giuseppe Sgarbi, padre del mercuriale critico d’arte Vittorio e dell’editrice Elisabetta, in cui l’uomo racconta, a 93 anni, della moglie Caterina, il suo perduto amore di una vita, 65 anni di vita insieme, andato in stampa con l’editrice Skira col titolo “Lungo l’argine del tempo: memorie di un farmacista” e ripubblicato, dopo il film, come “Lei mi parla ancora” appunto. Libro immaginato e voluto dalla figlia che vive nel mondo dell’editoria, e che come il film racconta, ingaggia un ghostwriter per scrivere le memorie del padre che continua a parlare con la moglie anche dopo la di lei dipartita: non vede un fantasma ma piuttosto, semplicemente, continua a parlarle per dissipare la sua improvvisa e dolorosa solitudine dopo un’intera vita trascorsa insieme. E il film, andando oltre il romanzo di cui pare tralasci molte memorie (non l’ho letto) narra – alternando le memorie del passato – il difficile rapporto tra il vecchio e lo scrittore che si vende solo con la prospettiva di vedere pubblicato un proprio romanzo, un do ut des con la figlia editrice.

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Chiara Caselli ed Elisabetta Sgarbi

Elisabetta Sgarbi, da gran signora qual è, fa le cose per bene: non sappiamo se ha rispettato il patto con lo scrittore fantasma pubblicandogli il libro, ma nel dare alla stampa il libro del padre evita di farlo con la sua casa editrice “La Nave di Teseo”, evitando il conflitto di interessi, e si rivolge agli amici di “Skira” che, in quanto casa editrice di libri d’arte, fa uno strappo alle regole e pubblica il romanzo-memoria.

Chiara Caselli, Passione
“Passione” di Chiara Caselli

La interpreta, con altrettanto garbo e fine intensità, Chiara Caselli, un’attrice decisamente sofisticata e talentuosa che con successo si è data alla fotografia dato che in Italia, dopo i 40-50 anni, per le attrici sono rari i ruoli interessanti. E non c’è neanche da pensare subito all’America e a Meryl Streep perché basta varcare le Alpi e trovare nella cinematografia francese film costruiti attorno a magnifiche attrici âgée, a cominciare dalla 78enne ancora splendida Catherine Deneuve.

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Stefania Sandrelli e Renato Pozzetto

Stefania Sandrelli, che interpreta il piccolo ruolo della moglie del farmacista, ha 75 anni, e anche lei ormai da qualche decennio non fa un film da protagonista assoluta. Il suo ruolo da giovane lo interpreta la palermitana Isabella Ragonese che ha la stessa solarità della giovane Sandrelli. Il napoletano Lino Musella, molto teatro e ruoli secondari al cinema, presta il suo volto e un’interpretazione partecipe e delicata al personaggio di Pozzetto da giovane.

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Lino Musella e isabella Ragonese


Fabrizio Gifuni interpreta lo scrittore che nella sceneggiatura degli Avati padre e figlio, Pupi e Tommaso, acquista una preponderante dignità narrativa che arriva a indagare le sue inquietudini personali e familiari su un altro piano narrativo e che a mio avviso distrae dal plot principale, la storia d’amore infinita fra Nino E Rina, di cui rimane ben poco, tanto che alla fine mi avanza la domanda: ma che cosa mi ha raccontato questo film? Resta la frase di Cesare Pavese che nei suoi “Dialoghi con Leucò” dice: “L’uomo mortale non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia.” che è l’adagio su cui il protagonista costruisce le sue memorie.

Pupi Avati ancora una volta esplora i luoghi della sua memoria e della sua provincia emiliana con la delicatezza che gli è congeniale anche nella direzione degli attori, differentemente da tanti altri registi che si preoccupano solo della parte tecnica lasciando che gli attori facciano da sé il proprio lavoro. E’ un maestro nel muoversi all’interno del suo mondo, rurale e magico anche con incursioni nel gotico, raccontando il diavolo delle paurose tradizioni contadine, quel diavolo che, come lui fa notare, non è più nominato neanche dalla Chiesa e sta via via scomparendo dall’immaginario collettivo. Un mondo magico e terragno da cui a volte dirazza nel sociale e nel sentimentale senza mai dimenticare, però, il sapore delle sue origini. E’ un maestro nel dirigere gli attori – fra i quali nel tempo sceglie i suoi interpreti feticcio: Lino Capolicchio, Gianni Cavina, Carlo Delle Piane – e con i quali instaura un rapporto di proficua continuità, lanciando volti nuovi e recuperando glorie appannate.

Qui continua a dirigere Alessandro Haber nell’importante ruolo del cognato morto, ruolo che sembra soffrire lo spazio limitato che la sceneggiatura gli concede. Torna a lavorare anche con l’ormai ultrasessantenne Serena Grandi sul cui volto gonfio d’età resta la triste traccia del silicone, qui impensabile in una contadina degli anni ’60. Il pugliese Nicola Nocella è il tuttofare di casa, già protagonista per Avati in “Il figlio più piccolo” nel 2010 che gli valse il Nastro d’Argento, che doppiò l’anno dopo come protagonista del corto “Omero bello-di-nonna”. Gioele Dix compare come agente letterario mentre Vittorio Sgarbi ha il volto di Matteo Carlomagno.

Di Renato Pozzetto la critica dice un gran bene, della direzione di Pupi Avati si scrive che ha lavorato di sottrazione: un modo elegante per dire che si poteva fare meglio. Con l’assoluto rispetto che si deve a un ottantenne che male si regge sulle gambe e che si mette in gioco con abnegazione, confermo che non è, come non è mai stato, un grande attore, e presta la sua maschera stralunata di sempre a questo vecchio addolorato e sognatore che suscita grande simpatia e a tratti anche commozione, ma con la consapevolezza che le prestazioni attorali sono un’altra cosa. E sul lato emozionale Avati è sempre mirabilmente attento a non spingere quel pedale e a non cercare mai facili reazioni emotive con stratagemmi retorici.

Dunque applausi sempre convinti al regista, un po’ meno allo sceneggiatore, stavolta. Ricordiamo però che Pupi Avati è anche un prolifico e sapiente scrittore la cui ultima uscita è “L’archivio del diavolo”, un’altra delle sue storie gotiche di provincia. “Il meraviglioso e l’orrendo sono contigui – dice in un’intervista – sono forme della dismisura del pensiero che mi attraggono fortemente. – E continua: – La narrazione della cultura contadina era estremamente sorprendente e improbabile” e “ognuno di noi ha una specie di mondo archetipale che coincide con l’incontro con le cose e con le persone nei primi anni di vita. Anche se faccio un film ambientato nell’oggi ha sempre un riverbero della stagione in cui ho incontrato le cose per la prima volta.”

Era mio figlio – l’ultimo film di Christopher Plummer

Il 5 febbraio 2121 ci lascia il 92enne Christopher Plummer, consegnando ai posteri una carriera, nell’ultimo decennio, piena di grandi soddisfazioni: nel 2010, a 81 anni, riceve la sua prima candidatura all’Oscar per “The last station” dove interpreta Lev Tolstoj durante il suo ultimo anno di vita, e nei successivi dieci anni interpreta ben diciassette film, fra cui il bellissimo “Remember”; nel 2012 riceve il suo primo Oscar – che è il primo riconoscimento di una serie di sei altri premi – per “Beginners” in cui interpreta un vecchio padre che a 75 anni dichiara al figlio la propria omosessualità; nel 2019 è al centro dell’intrigo di “Cena con delitto – Knives Out” in cui è la vittima che si prende gioco dei convenuti al suo compleanno mortale. Nel 2020 esce nelle sale statunitensi questo “Era mio figlio”, un film corale dove interpreta il padre di un soldato eroicamente morto in Vietnam.

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Scritto e diretto da Todd Robinson, narra di un avvocato del Pentagono, dapprima restio perché più interessato alla carriera politica, a cui viene assegnata l’inchiesta volta al conferimento postumo della Medal of Honor, che è la più alta onorificenza militare assegnata negli Stati Uniti. Ma indagando sulla vicenda, di cui il film ci mostra le drammatiche sequenze della più cruenta battaglia avvenuta nella giungla del Vietnam, e incontrando i vecchi genitori del militare e gli anziani reduci che gli devono la vita, l’uomo s’impegna via via nel classico percorso di formazione, e vincendo le resistenze umane da un lato e il muro di gomma politico dall’altro, riesce a portare a compimento l’incarico, realizzandosi come un uomo migliore.

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Va detto: se non fosse per le interpretazioni dei tanti veterani di Hollywood, il film varrebbe ben poco perché non riesce a sfuggire al didascalico, aggravato dal gusto assai banale dell’autore che relega il prodotto a un film adatto per la tv; Todd Robinson rovina tutte le sofferte prestazioni dei grandi interpreti che ha a disposizione spalmandole di musica retorica che toglie drammaticità e potenza e rende le scene solo strappalacrime.

D’altro canto è un film necessario per la società statunitense che deve ancora fare i conti con gli orrori della guerra in Vietnam, così come noi europei con quelli del nazi-fascismo. Una guerra in cui gli americani si sono impegnati dal 1965 al 1975 subendo oltre 58.000 morti e più di 153.000 feriti, molti dei quali mutilati e/o con sindrome da stress post traumatico, il cui disagio è continuamente raccontato al cinema. Ragazzi che all’epoca avevano vent’anni e più e che oggi sono ottantenni, una generazione in via di sparizione, così come da noi sono già quasi tutti spariti i testimoni degli orrori nostrani.

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Christopher Plummer, divenuto noto al grande pubblico come il Capitano Von Trapp del musical “Tutti insieme appassionatamente” e con una lunghissima carriera dalle alterne vicende, interpreta qui il padre dell’eroe, accanto a Diane Ladd che ne è la madre. Jeremy Irvine interpreta l’eroe che si è sacrificato per salvare tante altre vite, vite che rendono testimonianza con le interpretazioni di William Hurt, Ed Harris, Samuel L. Jackson, John Savage e Peter Fonda che, morto nell’agosto del 2019, è anche lui, qui, alla sua ultima interpretazione, ricordata nei titoli di coda: un attore, Peter Fonda, che non ha avuto la carriera che il suo talento meritava. Nel cast anche Amy Madison, Linus Roache, Alison Sudol, Dale Dye, LisaGay Hamilton, Bradley Whitford; e Sebastian Stan è il protagonista che conduce l’inchiesta.

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Peter Fonda co-protagonista e co-sceneggiatore candidato all’Oscar nel 1970 per “Easy Rider”

Assicurasi vergine – una sedicenne Romina Power

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Corre l’anno 1967. In Parlamento si discute un disegno di legge sul divorzio ma interviene Papa Paolo VI stigmatizzando quella “egoistica visione della società, opulenta e arida che ora sta insinuandosi anche dentro l’unità della famiglia” e il divorzio dovrà aspettare fino al 1970 per divenire legale in Italia. Si discute anche, e sono già decenni, la riforma dell’università, ma stavolta c’è di nuovo che i giovani sono in fermento, scendono in piazza, fanno le occupazioni e le barricate in difesa del diritto allo studio per tutti, lo slogan è “Una libera università dentro una libera società” e quelle prime agitazioni studentesche si allargano alla società civile, si teorizza una rivoluzione politica, si creano i movimenti pacifisti contro gli americani in Vietnam e si inneggia a Ho Chi Min e Mao Tse-tung e a Che Guevara che quell’anno viene ucciso: i suoi poster riempiranno le camerette e le case degli studenti: sta arrivando il famoso Sessantotto.

Al cinema è l’anno dei tanti spaghetti western, dei musicarelli e dei poliziotteschi, di Franco e Ciccio ma anche de “La bisbetica domata” di Franco Zeffirelli, del “Don Giovanni in Sicilia” di Alberto Lattuada, di “Edipo Re” di Pier Paolo Pasolini e del tempestivo “I sovversivi” dei Fratelli Taviani. E non mancano i filmetti che ammiccano al proibito, come questo “Assicurasi vergine” che però ammicca solo nel titolo e la star Romina Power non mostra (ancora) neanche un centimetro di pelle.

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La neonata Romina coi genitori

Eh già, perché la sedicenne Romina è già una star adolescente, qui al suo terzo film, col nome sopra il titolo, e debitamente doppiata si avvia a fare un film dietro l’altro in cui vengono sfruttati commercialmente la sua adolescenza, appunto, e il nome, in quanto figlia di Tyrone Power, che si inventò il nome Romina perché innamorato di Roma dove venne a sposarsi con Linda Christian. Morto prematuramente il padre, la madre sposò Edmund Purdom che trasferì la famiglia a Roma perché si stava ritagliando una carriera nei peplum italiani. La ragazzina era assai graziosa quanto vivace e scorrazzando liberamente fra Roma Londra e Los Angeles divenne un’abituale consumatrice di LSD, la droga psichedelica degli hippy dell’epoca. Cominciò a fare cinema a 13 anni ed ebbe anche modo di mostrarsi nuda finché in un musicarello non conobbe Albano Carrisi e mise la testa a posto, diventando una signora della canzonetta nazional-popolare.

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In questo film Romina è il perno narrativo attorno a cui ruotano diversi ottimi caratteristi al servizio di una storia assai dinamica e professionalmente diretta, mentre la ragazza bamboleggia con espressioni da fotoromanzo. La trama pare fosse ispirata a un fatto realmente accaduto in Sicilia, dove il film si colloca, secondo cui un padre assicura con tanto di polizza la verginità della figlia da dare in matrimonio al signorotto del paese; lo spunto, già grottesco, si sviluppa narrativamente nel padre, che in difficoltà finanziare, pensa di incassare il premio che gli sarà dovuto qualora la ragazza dovesse perdere la verginità prima del matrimonio, e le prospettive sono assai positive perché la vergine ama riamata il bello ma povero verso le cui braccia viene spinta… ma la vergine è restia perché devota alla Madonna e pure il giovanotto è un fervente che teme le fiamme dell’inferno, così l’illecita unione che tutti sperano, e che gli spioni detective dell’assicurazione temono, si posticipa di scena in scena… Paolo Mereghetti nel suo “Dizionario dei film” scrive: “Commedia boccaccesca di inganni nel consueto Sud da barzelletta”, e questo è.

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E’ anche il penultimo film per il regista Giorgio Bianchi e per l’attrice Daniela Rocca. Lui, attore all’epoca del muto, diventa un regista di vaglia di commedie brillanti fra cui “Il Conte Max” con Vittorio De Sica. Lei, Daniela Rocca, ex Miss Catania sedicenne nel 1953, si trasferisce a Roma dopo aver partecipato a Miss Italia e si dà al cinema, con un importante ruolo nel 1961 in “Divorzio all’italiana” accanto a Marcello Mastroianni di cui interpreta la moglie brutta, pesantemente truccata, in un ruolo che per la prima volta nasconde la sua bellezza e mette in risalto le sue doti artistiche: questa interpretazione la consacrò star internazionale con la candidatura Migliore Attrice Straniera al British Academy Film Awards.

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Pietro Germi sistema i capelli a un’imbruttita Daniela Rocca

Su quel set nacque anche la travagliata relazione sentimentale con il regista, Pietro Germi, e questo contribuirà a minare profondamente la sua già fragile psiche: tenterà più volte il suicidio e dilapiderà i suoi averi in un assurdo progetto cinematografico, “Il peso del corpo”, del quale avrebbe dovuto essere, oltre che protagonista, produttrice e regista. A questo “Assicurasi vergine” dove è l’amante storica del signorotto che deve sposare la vergine, e fa di tutto per mettergli i bastoni fra le ruote, segue un ultimo film assai brutto e del tutto dimenticato, “Un giorno, una vita”. Tornerà sullo schermo intervistata in un documentario d’inchiesta sugli aspetti meno edificanti dell’industria cinematografica, “La macchina cinema” del 1978, un film che racconta le esperienze di quattro giovani cineasti: Sandro Petraglia, Stefano Rulli, Silvano Agosti e Marco Bellocchio che intervista l’attrice già lontana dai set e precipitata nell’emarginazione e nelle solitudine della malattia mentale. Nel video l’estratto della sua testimonianza, penosa e straziante. Morirà in una casa di riposo nel 1995.

Il resto del cast. Vittorio Caprioli è il signorotto che parla un sicilianese identico a quello che Giancarlo Giannini parlerà cinque anni dopo in “Mimì metallurgico ferito nell’onore”. Leopoldo Trieste è lo zio traffichino che imbastisce tutta la trama dell’inganno all’assicurazione, e anche lui, calabrese, si spaccerà per siciliano per tutta la sua carriera, parlando qui un’altra edizione di siciliano inesistente, con frasi tipo “che mi stai a dire?” che è la trasposizione del romanesco “che me stai a di’?” dello sceneggiatore Alfredo Giannetti che poco si è curato, e non è il solo, della credibilità delle forme dialettali siciliane. Di Salerno sono Jole Fierro, che è la madre della vergine, e Dino Mele che è lo spasimante; mentre il padre è interpretato dal messinese dop Oreste Palella, l’unico fra i ruoli principali ad avere una vera cadenza sicula. Nei ruoli di contorno alcuni dei gloriosi interpreti del teatro tradizionale catanese che, nel loro piccolo, danno una lezione di recitazione.

Ciccino Sineri
Nina Micalizzi
Turi Scalia


Padrenostro

Un film che gioca con la memoria, immediatamente assimilabile per mezzo della figura paterna centrale nel racconto, all’opera prima di Marco Mancini “Non odiare”, anch’esso con un protagonista premiato a Venezia 2020 con il collaterale Premio Pasinetti, Alessandro Gassmann. Ma raccontati sul filo della memoria abbiamo recentemente anche visto due film al femminile e siciliani: l’onirico “Le sorelle Macaluso” di Emma Dante e “Picciridda” di Paolo Licata – come se una buona fetta dei nuovi cineasti italiani sentisse la necessità di ridefinire il presente, e la nostra identità umana e sociale, attraverso il passato, qualsiasi esso sia stato e da qualsiasi punto di vista oggi lo si guardi.

Johannes Bückler в Twitter: "Il vicequestore Alfonso Noce uscì ferito  quindi si parlò di un attentato fallito. Ma qualcuno ci aveva lasciato la  pelle. Un povero onesto lavoratore. E questo mio ricordo

“Padrenostro” si ispira a un fatto accaduto nel 1976: l’attentato al vicequestore Alfonso Noce, padre del regista, da parte dei Nuclei Armati Proletari, in cui Noce rimase solo ferito mentre persero la vita un poliziotto e un terrorista. Ma Claudio Noce parte dalla storia vera per raccontare una favola, un punto di vista narrativo che da quel fatto tragico procede in un racconto di formazione e, soprattutto, di pacificazione.

Pinocchio and Lucignolo – Glenda Vaccaro – Bessarte

Il punto di vista è quello del dodicenne Valerio, figlio del vicequestore Delle Rose che dalla finestra assiste all’attentato, e già in questo l’autore opera una trasfigurazione, in quanto all’epoca lui aveva solo due anni e fu il fratello maggiore ad assistere alla sparatoria. la favola continua con un novello Lucignolo, l’enigmatico Christian di due anni più grande, che avvicina il Pinocchio-Valerio per condurlo in un paese dei balocchi che non c’è, come l’isola di Peter Pan, un mondo alternativo a quello degli adulti fatto di patti infantili, piccoli segreti e innocenti monellerie, in cui si evidenziano la misteriosa ed amara solitudine dell’orfano Christian, ancora una volta assimilabile a un personaggio classico delle favole, l’orfano Oliver Twist, che osserva e invidia il perfetto quadro familiare dei Delle Rose in cui pian piano si introduce, e non si sa con quali intenzioni. Come nelle favole il racconto cinematografico fa leva sulla nostra sospensione dell’incredulità, e noi facciamo finta di non chiederci come mai un poliziotto, già vittima di un attentato, non si chieda chi sia quel nuovo amico del figlio e non indaghi l’identità del ragazzo, e la sua provenienza. Per chi non avesse visto il film non svelerò qui questo mistero.

Venezia77: “Padrenostro” con Pierfrancesco Favino vincitore della Coppa  Volpi

Pierfrancesco Favino ha vinto la Coppa Volpi ma c’è stato anche il premio collaterale Miglior capo macchinista a Raffaele Alletto. Notevoli le interpretazioni dei ragazzi Mattia Garaci come Valerio e Francesco Gheghi come Christian, senza dimenticare Barbara Ronchi nel palpitante ruolo della madre-moglie.

Festival di Venezia, Pierfrancesco Favino travolgente al photocall di  Padrenostro

Fanno da cornice a questo racconto sospeso fra l’incanto di un punto di vista infantile e il ricordo di una tragedia, un antefatto e un epilogo in cui ai giorni nostri si ritrovano Valerio e Christian da adulti, con un abbraccio che cancella tutte le questioni sospese: le memorie personali e la memoria collettiva, i sensi di colpa e quelli di vendetta, il senso condiviso di inadeguatezza. Lo scenografo Paki Meduri si presta a dare il suo volto al Valerio adulto e Giordano De Plano è Christian. In conclusione un fatto biografico che intelligentemente diventa qualcos’altro, nella consapevolezza che qualsiasi biografia è sempre un racconto di fantasia, vuoi perché la memoria è naturalmente selettiva e vuoi perché ognuno sceglie di raccontarsi come meglio gli pare. Se ne conclude, rifacendosi a Pirandello, che la verità non può mai essere raccontata. E se poi diventa dichiaratamente una favola tanto meglio.

PadreNostro - Lucca Cinema

Il grande passo

Il cinema della pandemia visto in casa. Il film è uscito in sala nell’agosto 2020 e stava registrando incassi tutti in salita che però sono stati troncati dal lockdown del successivo settembre. Precedentemente presentato, nel novembre 2019, al Torino Film Festival si era aggiudicato il premio Miglior Attore ex aequo ad entrambi gli interpreti. Coppia di interpreti che, lo confesso, era da qualche anno che aspettavo di vedere insieme, non foss’altro che per la loro stazza inusuale fra i protagonisti del cinema italiano, e immaginandoli in una commedia grottesca e surreale.

Giuseppe Battiston è Orson Welles all'Ambra Jovinelli

Ma a parte la fisicità i due non hanno nient’altro in comune. Giuseppe Battiston è un attore raffinato che viene e va dal teatro e che lavora di cesello sui suoi personaggi, una carrellata di tipi sempre diversi dal grottesco, appunto, al drammatico, e che fra David di Donatello e Nastri d’Argento ha già accumulato una bella serie di vittorie e candidature.

Stefano Fresi a Castelnovo Monti per "autori in prestito" Reggionline –  Quotidianionline – Telereggio – Trc – TRM |

Stefano Fresi, al contrario, è un interprete istintuale che funziona per la sua immediata simpatia e naturalezza non studiata, e la sua carriera procede con personaggi di bonaccione al posto sbagliato nel momento sbagliato. Non tutti sanno che nasce musicista, compositore e cantante, parte di un trio musicomico che si è fatto conoscere in teatro.

Giuseppe Battiston e Stefano Fresi migliori attori al Torino Film Festival  | RB Casting

Insieme fanno una coppia che cinematograficamente funziona a meraviglia, non certo per la sola fisicità quanto piuttosto per quella cosa impalpabile detta alchimia. Con il burbero e scontroso Dario di Battiston e il comunicativo pieno di buon senso Mario di Fresi, è evidente che il film è stato pensato e scritto per loro due, per sfruttarne al meglio le specifiche, sia interpretative, che regionali, dato che Mario è romano e Dario è veneto (ma in realtà l’interprete è friulano) e sono entrambi figli di un padre che è meglio perdere che trovare; i due fratellastri si ritrovano a causa di un incidente e il film prosegue sulla scia della nuova commedia italiana che i nuovi registi collocano nelle loro terre d’origine, o dove trovano i finanziamenti grazie allo sviluppo nell’ultimo ventennio delle Commissioni Cinematografiche Regionali, dette Film Commission, che con soldi pubblici finanziano il cinema con l’intento dello sviluppo culturale del territorio.

Stasera al cinema… Finchè c'è prosecco c'è speranza di Antonio Padovan |  gialloecucina

Antonio Padovan, veneziano che è andato a studiare cinema a New York, è tornato a casa e si è subito messo all’opera mostrando di avere imparato bene l’arte della scrittura cinematografica col suo primo lungometraggio “Finché c’è prosecco c’è speranza” del 2017, un noir con tanto di morti fra i vigneti veneti che lo ha imposto all’attenzione di pubblico e addetti ai lavori. Già in quel film era protagonista Giuseppe Battiston che torna in “Il grande passo” insieme ai colleghi Roberto Citran e Teco Celio come espressione di attori del nord-est italiano, e con un piccolo ruolo c’è anche lo scrittore Vitaliano Trevisan che Matteo Garrone nel 2004 ha fatto debuttare come protagonista del film “Primo amore”, una disturbante storia di anoressia e dipendenza psicologica. Completa il cast del nord-est la giovane Camilla Filippi anche lei debuttante per Matteo Garrone in “Estate romana” del 2000.

Con questo suo secondo lungometraggio Antonio Padovan dimostra di saper fare il cinema di intrattenimento con qualcosa in più, un gusto personale e un punto di vista interessanti, che andranno però verificati nei lavori futuri per capire se continuerà a sperimentare nuove soluzioni narrative della commedia imponendosi con uno stile proprio, facendosi un nuovo capofila, oppure si ripeterà restando un professionista del genere.

File:Pablito Calvo e Ludovica Modugno.jpg - Wikipedia
Pablito Calvo e Ludovica Modugno

Fra le attrici di lungo corso ci sono due romane. Ludovica Modugno, che qui interpreta la madre di Mario, che da bambina ha debuttato come doppiatrice nel 1956 dando voce italiana al Pablito Calvo di “Marcellino pane e vino”.

Gabriella Ferri e Luisa De Santis

Luisa De Santis, figlia del regista Giuseppe De Santis di cui basta ricordare “Riso amaro” (1949), nella prima metà degli anni Sessanta ha formato un duo canoro con Gabriella Ferri e come “Luisa e Gabriella” hanno un boom dopo essere apparse in tv con Mike Bongiorno cui segue un film musicarello.

Dopo lo scioglimento del sodalizio canoro continua come attrice sia in teatro, anche musicale, che tv e cinema, con un curriculum fatto di caratterizzazioni di tutto rispetto, oggi subito riconoscibile con il suo aspetto odierno di brillante settantenne, che confesso di aver conosciuto fuori dall’ambiente dello spettacolo come una donna di grande simpatia che come una gazza ladra è attratta da tutto ciò che brilla.

Addio a Flavio Bucci, fu Ligabue in tv - Spettacoli - Il Centro

L’altro nome di peso è Flavio Bucci nel ruolo del padre indegno di cui si parla nell’intero film e che vedremo sotto finale in una sola scena molto significativa. L’attore è visibilmente sofferente e nella camminata con cui appare sullo schermo si sorregge chiaramente ai colleghi che gli fanno da spalla, e poi continua la sua scena appoggiato a un muretto da cui si stacca con un mezzo giro e immaginiamo che salga le scale di casa solo attraverso lo sguardo del figlio Dario-Battiston in una delicata soluzione registica. Flavio Bucci muore a 72 anni, portati male purtroppo, il 18 febbraio 2020, di infarto. Il suo lungo percorso cinematografico era cominciato nel 1971 con “La classe operaia va in paradiso” di Elio Petri ma era divenuto noto al grande pubblico con il televisivo “Ligabue” del 1977. Con la sua faccia dai lineamenti forti e sostenuto da un indubbio talento venato di forti inquietudini è stato un jolly protagonista e caratterista di molto cinema d’autore e poi di interessanti messe in scena teatrali.

Il grande passo - Film (2019) - MYmovies.it