Archivio mensile:gennaio 2021

E per la prima volta sullo schermo… Alberto Tomba

Alex l'ariete - Il cast

Correva l’anno 2000, il campione dello sci italiano internazionalmente noto come “Tomba la Bomba” aveva vinto tutto quello che c’era da vincere: cinquanta gare in Coppa del Mondo, una Coppa del Mondo assoluta, quattro Coppe del Mondo di slalom gigante e quattro di slalom speciale. Ispirati da cotanto atleta, quei genitori che potevano mandavano i figli a sciare, come più recentemente hanno mandato le bambine a lezioni di nuoto dopo i successi di Federica Pellegrini; di fatto, alla fine degli anni novanta, smessi gli sci e la divisa dei Carabinieri sotto la cui bandiera aveva gareggiato, per tre anni ha attraversato l’Europa con il “Tomba Tour” per lo sviluppo dello sci giovanile; e poiché il giovanotto era anche simpatico, oltre che di bell’aspetto, divenne di casa nei salotti televisivi. E dalla tv al cinema il salto è breve, o per lo meno a qualcuno sembra breve, e pure indolore, perché da noi è sempre valsa la convinzione che a recitare sono buoni tutti, e del resto non gli si chiedeva di vincere il David di Donatello ma solo di far fare al produttore un sacco di soldi.

Oggi il film è un cult del cinema spazzatura per quanto è brutto, e io stesso ho fatto fatica a vederlo dall’inizio alla fine, sostenuto in quest’immane impresa solo dal gusto di poterne qui parlare male, ma con cognizione di causa. Trionfalisticamente uscito con lo slogan “Il primo slalom cinematografico dell’ex sciatore Alberto Tomba” uscì nelle sale a fine luglio e restò in cartellone solo un fine settimana, visto in tutta Italia solo da 285 spettatori, di cui un terzo nella sola provincia bolognese natia; nelle sale romane del circuito Cecchi Gori, che lo aveva prodotto, restò per un’altra settimana accumulando alla fine ben 597 spettatori: il peggio del peggio in termini commerciali, che è la congrua risposta al peggio del peggio sul piano produttivo. A caldo Alberto Tomba commentò che “d’estate al cinema non ci va nessuno” ma non era così dato che “Mission: Impossible 2” ha incassato in Italia due milioni e 300mila euro. Solo qualche anno dopo in un’intervista ha confessato di avere “ricordi belli, ma lontani” ammettendo poi “la mia inesperienza ha contato” e infine, secondo lui, il vero problema era stato che “mi sono fidato di chi mi ha offerto l’ingaggio, ma il montaggio non è stato fatto come doveva, tre ore di film dovevano essere lavorate e trasformate in una fiction di un’ora e non lasciate così com’erano. La sceneggiatura non funzionava, e il regista, Damiano Damiani, bravo ma di una certa età poverino… La verità di fondo è che non volevano che un olimpionico facesse l’attore: non mi hanno diretto né lanciato nel modo giusto. Senza contare che il film è entrato in sala a fine luglio, in piena estate: era ovvio che dopo dieci giorni ne uscisse!”

Lungi dal conoscere i retroscena devo convenire che il poverino ha ragione: non so quanto ci fosse di realmente persecutorio perché quando c’è da fare soldi sono sempre tutti contenti, e prima di lui in Italia avevamo avuto un altro eclatante esempio di ex sportivo, il campione di nuoto Carlo Pedersoli diventato attore come Bud Spencer. E negli USA c’è Dwayne Johnson che col titolo di The Rock era stato un campione di wrestling, e dopo di lui tanti altri sportivi da differenti discipline si sono dati alla recitazione tra cinema e tv: non si chiedono loro raffinate interpretazioni ma solo di fare e far fare soldi. La carriera di Bud Spencer fu costruita con molta attenzione: gli fu affiancato Terence Hill (Mario Girotti) che non era l’ultimo arrivato e crearono una coppia vincente in film di intrattenimento ben costruiti. Alberto Tomba vinse il premio “Cinepernacchie” come peggiore attore protagonista con la motivazione: “Perché, Tomba, perché?” 

TV Sorrisi & Canzoni - Michelle Hunziker - Official Website

La mia sensazione è che Alberto Tomba fu mandato allo sbaraglio e qui recupero la domanda “Perché” rivolgendola idealmente ai produttori di allora, Vittorio Cecchi Gori e gentile consorte Rita Rusic, che da lì a poco avrebbero divorziato; e il luglio dell’anno dopo lui avrebbe anche ricevuto un avviso di garanzia per riciclaggio, cui seguì una perquisizione dell’appartamento – alla presenza di Valeria Marini che all’epoca era sua convivente – e gli trovarono in cassaforte una grossa quantità di cocaina che lui, ripetutamente, si ostinò a definire “zafferano”: una commedia grottesca e surreale come le tante che lui e suo padre Mario avevano sempre prodotto con successo. Ma cosa ha realmente portato Vittorio Cecchi Gori a produrre “Alex l’Ariete” non lo sapremo mai. Come si intuisce dalle dichiarazioni di Tomba il film era stato inizialmente pensato per la tv, Mediaset, due puntate da 90 minuti dal titolo “Turbo” e dato che anche Michelle Hunziker era stata inserita nel cast i due posarono per TV Sorrisi e Canzoni. Ma poi la fiction fu cancellata e la sceneggiatura fu ripensata per il film.

Cinque (8): le cinque migliori scene di “Alex l'ariete” – RumoreWeb

Tomba ha anche, un po’ ingenerosamente, dichiarato che il regista aveva una certa età, poverino: era vero, Damiano Damiani aveva 78 anni ed era al suo penultimo film, e sappiamo che molti registi, con l’età che avanza, non chiudono in bellezza la propria carriera; della sua bisogna ricordare che è stata piena di successi nel filone poliziesco che era seguito a un primo impegno nel cinema politico e civile, e basta ricordare due titoli su tutti: “Il giorno della civetta” e “Pizza Connection”, senza però dimenticare la sua incursione nell’horror americano con “Amityville Possession”. Per quanto vecchio e stanco possa essere stato il regista si sarà certamente accorto che la sceneggiatura era terribile e vi si sarà dedicato, come si dice nel gergo dell’ambiente, solo per fare una marchetta, e di fatto anche tutti gli ottimi caratteristi, che fanno da supporto all’improbabile duetto protagonista, sembrano distratti e svogliati, con un atteggiamento da prendi i soldi e scappa.

Intervista allo sceneggiatore Dardano Sacchetti - il Davinotti

E ancora mi chiedo: perché la produzione ha portato avanti un simile progetto? Il difetto primario è nella terribile sceneggiatura che andava cestinata subito, licenziando in tronco lo sceneggiatore che, pure, non era nato ieri: Dardano Sacchetti aveva cominciato a scrivere per Dario Argento e, fra polizieschi e horror, fra cui anche l’Amityville di Damiani, si era fatto un nome nel glorioso cinema di serie B. Da dove viene tanta inconsistenza e tanta banalità narrativa? sembra che le battute di lei siano scritte da una di quelle ragazzine che leggevano Cioè e le battute di lui da un ragazzino appassionato di Lanciostory, per non parlare della trama che fa il verso alle commedie d’azione brillanti americane ed è una stiracchiata inconcludente sequela di luoghi comuni. Non so quanto danno abbia potuto fare il montaggio, a leggere lo sfogo di Tomba, ma c’era davvero poco da cavare da una tale sceneggiatura, e regista e cast al completo se ne devono essere accorti. Solo gli inesperti protagonisti sono caduti dal pero, come si dice, e il produttore che ha avallato il progetto forse perché troppo distratto dall’aroma dello zafferano.

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La Hunziker, che dopo ha fatto solo qualche cinepattone, ha poi ironizzato dicendo che “Alex l’Ariete” l’avevano visto solo lei sua nonna e sua zia. Nei fatti lei fa peggio di Alberto Tomba perché, venendo dalla tv delle paillettes e in generale dal mondo dello spettacolo, ci si aspetta che abbia un’infarinatura di recitazione, invece è totalmente stonata e fa tutte quelle appoggiature su verbi e avverbi e aggettivi che ormai non fanno più neanche gli amatoriali ma solo i bambini alla recita dell’asilo: per essere credibile avrebbe dovuto avere le treccine e il cestino col pranzo.

ALEX L'ARIETE – CINEMA ZOO
Ramona Badescu e Alberto Tomba prima degli artistici bacetti

Anche lui non ha fatto nulla per prepararsi al salto nel vuoto: avevamo imparato a sentirlo parlare in tv e non ci saremmo aspettati da lui una bella dizione e una cadenza pulita dal regionalismo, e quando nel film discetta del più e del meno è assai più naturale di lei: solo quando deve metterci dei sentimenti più forti – la rabbia, lo stupore, l’avvilimento, l’ironia – è evidente che non sa dove trovare quei sentimenti perché gli avranno detto sii te stesso e andrà tutto bene, che è quello che si dice sempre ai principianti impreparati: ma Alberto Tomba non è Alex Corso l’Ariete e se n’è accorto sul set, a cose fatte. Dirà delle scene d’amore dove si sbaciucchia con Ramona Badescu che lui era impacciato perché quelle cose lì le sapeva fare solo in privato…

In quanto al privato, il ragazzone, anzi stavolta ragazzaccio, era apparso nudo nel 1995 su un servizio di Evatremila che lo aveva addirittura messo in copertina con lo zizì, come all’epoca la rivista vezzeggiava l’intimo maschile, coperto da una patina da grattare via con una monetina: gratta e vinci lo zizì di Alberto Tomba, pienamente esposto nelle pagine interne. Seguì polemica non si sa quanto costruita a tavolino perché l’intento sembrava proprio quello di “spogliare” Tomba dalla divisa del carabiniere e dalla tuta dello sciatore per consegnarlo alle masse del pettegolezzo prima del suo debutto sullo piccolo o grande schermo e lanciare una nuova carriera.

Così la critica: Maurizio Porro sul Corriere della Sera: “Tutto ha l’aria di essere al limite della presa in giro, i livelli narrativi sono di guardia, l’epica espressiva dei comprimari da manuale. Tomba è Tomba, un non attore consapevole di esserlo e che gioca il suo fascino”. Luca Bottura sull’Unità: “Il film che ha fatto pentire i fratelli Lumière di aver inventato il cinema”. Enrico Magrelli sul sito FilmTv.it definisce “distratta” la regia di Damiani e giudica la sceneggiatura “meno probabile di certi fumetti del Monello” commentando causticamente che il film aspira “ad un posto d’onore di quel cinema stracult che, nonostante il nome da cenacolo di disperati, resta brutto, abborracciato, scritto da analfabeti reali o da finti illetterati, interpretato da disoccupati male organizzati”.

Assolutamente contenti del clamoroso insuccesso favoleggiarono pure di un sequel: “La gara di Alex”, protagonista stavolta Valentino Rossi, ma non se ne fece nulla ed è un peccato perché oggi io avrei avuto un’altra perla da raccontare. Ma sinceramente, in conclusione, come Bud Spencer ha avuto i suoi successi, star di un cinema per il quale non ho mai speso una lira, scritti appositamente intorno a lui, anche Alberto Tomba avrebbe potuto avere un suo percorso cinematografico con film per famiglie se solo fosse stato circondato da persone intelligenti e lungimiranti. Michelle Hunziker no, per carità, che rimanga a fare la Striscia la Notizia!

E per la prima volta sullo schermo… Eleonora Duse

Per l’unica volta, a dire il vero, in “Cenere” del 1916, dal romanzo di Grazia Deledda. All’inizio di quell’anno l’Italia era già da sette mesi in una guerra che era scoppiata in Europa diciassette mesi prima. Sarà l’ultima guerra dei corpo a corpo e la prima con i carri armati, la guerra antica contro la guerra moderna che lascerà sul campo, oltre ai morti, un numero impressionante di mutilati coi quali le società e le nazioni dovranno fare i conti nel loro futuro. E’ un’epoca in cui nelle famiglie si teme l’arrivo della cartolina precetto per gli uomini abili, figli e mariti, e in cui a Trento e Gorizia, in territorio Austro-Ungarico, vige il “regime bianco”, ovvero il razionamento del latte riservato solo a malati e bambini.

Prima guerra mondiale: grande vittoria o inutile strage?

Il cinema italiano dell’epoca, che non aveva le sale cinematografiche come le conosciamo oggi ma luoghi anche itineranti allestiti per l’occasione in spazi preesistenti o sotto tendoni da circo, ha inizialmente invaso gli schermi di pellicole patriottiche, ma con l’arrivo delle disastrose notizie dal fronte, quelle eroiche gesta di un alpino o di un bersagliere che da solo sgomina un intero reggimento di crucchi, faceva solo ridere, se non fosse che la gente non aveva nessuna voglia di ridere; e mentre il Ministero degli Interni attivò una censura più attenta su questo genere di film gloriosamente spacconi, i produttori fecero un salto al secolo prima e si buttarono nella narrazione di quel Risorgimento dove i nemici erano sempre gli odiati Austriaci ma con altre divise.

Nello stesso anno, il 1916, escono film come “Avatar” che niente ha a che vedere col kolossal fantasy di James Cameron ma narra di un amore tragico dal romanzo di Théophile Gautier; c’è poi una “Cavalleria Rusticana” da Giovanni Verga; un “Come le foglie” da Giuseppe Giacosa; “La fiaccola sotto il moggio” da Gabriele D’Annunzio; e a parte il film sperimentale futurista scritto da Filippo Tommaso Marinetti, tutta una sequela di film di genere molti del quali tratti da opere letterarie, appunto. L’Italia è in guerra ma la produzione cinematografica ferve, anche perché le città non erano coinvolte nel conflitto, come accadrà dalla prossima guerra in poi, e i soldati si scontravano quasi esclusivamente sui campi di battaglia, fra le montagne del nord e sulle rive del Piave.

La sarda Grazia Deledda, Premio Nobel 1926, che raccontava la sua terra attraverso i temi di amore e morte, dolore e peccato, espiazione e castigo, un’umanità primitiva in preda al fato, fu dalla critica che sempre necessita di etichette per meglio esprimersi, definita sia verista che decadentista come anche semplicemente regionalista. In controtendenza il critico letterario Natalino Sapegno, che per molti di noi è solo il Sapegno della Storia della Letteratura Italiana, scrisse di Deledda: “Da un’adesione profonda ai canoni del verismo troppe cose la distolgono, a iniziare dalla natura intimamente lirica e autobiografica dell’ispirazione, per cui le rappresentazioni ambientali diventano trasfigurazioni di un’assorta memoria e le vicende e i personaggi proiezioni di una vita sognata. A dare alle cose e alle persone un risalto fermo e lucido, un’illusione perentoria di oggettività, le manca proprio quell’atteggiamento di stacco iniziale che è nel Verga, ma anche nel Capuana, nel De Roberto, nel Pratesi e nello Zena.”

La prima pagina del manoscritto

Il romanzo “Cenere” è del 1904 e narra la storia di una donna che ha un figlio, bastardo come si definiva all’epoca, da un uomo sposato; nell’assoluta indigenza cui la sua condizione di peccatrice l’ha condannata, decide di lasciare il bambino settenne davanti la porta della casa paterna e poi sparire; da adulto il figlio rintraccerà la madre della cui mancanza ha sempre sofferto, e proprio perché vorrà prendersene cura perderà la donna amata che non vuole in casa una vecchia disonorata.

Eleonora Duse - Film "CENERE" 1916 - La magia di un'isola

Il film, del regista e interprete principale Febo Mari, mostra all’inizio questo cartello: “A Eleonora Duse. Cenere è la storia di una povera donna di Sardegna che, abbandonata dal primo uomo che amò, cacciata di casa, raccolta dalla pietà di un’altra donna, dopo anni di miseria riconduce il figlio della sua colpa fino alla porta del padre di lui, perché solo il padre può dargli un avvenire di bene: e lei sparisce nell’ombra. Affido a Lei, cara amica, questa storia di amore e di dolore perché Lei sola può illuminarla con la luce della sua anima e viverla con la sua grande arte sincera. Grazia Deledda.” Con questo incipit, e secondo la nostra visione di cinema, moderna, ci si immagina un film che renda omaggio alla grande attrice, invece la Duse è solo una coprotagonista senza neanche il tributo di un “con la partecipazione straordinaria” come si usa oggi, e Febo Mari fa della sua film, un veicolo per la sua primattorialità. Il taglio delle inquadrature che usa risente della cultura teatrale perché, senza mai usare il primo piano, mostra sempre le figure intere in campo medio e poche volte in mezza figura, quello che verrà definito piano americano. Nella prima parte che racconta l’infanzia del protagonista, la madre che lo accompagna, evidentemente la stessa Duse, ha il capo e il viso coperti da un fazzoletto bianco, per nasconderne l’età avanzata, e perché evidentemente all’epoca non si pensava ancora all’espediente di un’altra interprete per le scene “da giovane”. La vediamo in piena figura solo dopo 10 minuti dei 37 e rotti di durata totale.

La pessima abitudine di fare dei tre puntini di sospensione un trenino di puntini ha radici lontane.

Il film ha sicuramente molte qualità, oltre a quello di immortalare Eleonora Duse. Sul piano tecnico i cartelli che accompagnano la narrazione visiva sono di gran qualità, come possiamo dedurre dall’ombra che lettere in rilievo proiettano, dicendoci che non sono solo stampate ma incollate a rilievo sullo sfondo: solo oggi abbiamo in word la possibilità di ombreggiare i nostri scritti con un solo clic. Sul piano artistico il regista spende le sue carte con grande gusto visivo: il cinema è muto e parla per immagini, il primo incontro fra il figlio adulto e la vecchia madre è privo di cartelli e possiamo intuire quello che si dicono dai loro atteggiamenti; inoltre, essendo un cinema di immagini, ne crea di molto belle, esplicative e poetiche insieme: come quando l’ombra del bambino appena abbandonato dalla madre si allunga sull’interno del mulino della proprietà paterna; o l’ombra delle braccia della madre che si proiettano sotto la finestra per sparire non appena il bambino di affaccia. Sono visioni di un cinema fatto di sola visione e che oggi, con tutta la tecnologia disponibile, nessun regista sa immaginare più.

Antica Messina - Febo Mari (Alfredo Giovanni Leopoldo... | Facebook

Il messinese Febo Mari, all’anagrafe Alfredo Giovanni Leopoldo Rodriguez, la cui famiglia vantava una lontana baronia di origine spagnola come ogni famiglia con cognome spagnolo potrebbe vantare, cominciò a lavorare a Milano come recensore teatrale ma ben presto saltò il fosso per seguire in prima persona la sua passione, e affermandosi come attor giovane presso importanti compagnie, ben presto ebbe la direzione del Teatro Manzoni di Milano, a 27 anni, e già nel primissimo cinema muto divenne un acclamato divo. Fattosi sceneggiatore e regista, al suo secondo film dirige nel 1915 “L’emigrante” con Ermete Zacconi, qui visto in “Processo e morte di Socrate”; Mari l’anno dopo si toglie lo sfizio di dirigere anche la Duse in questo “Cenere”. Muore improvvisamente a 58 anni nel 1939, probabilmente di colpo apoplettico. Eleonora Duse era morta 66enne nel 1924 a Pittsburgh, di polmonite, durante una tournée.

I film muti erano accompagnati in sala da un narratore che leggeva i cartelli per il pubblico analfabeta, e da un pianista che commentava dal vivo le sequenze. La versione oggi conservata e visibile su YouTube ha le musiche della compositrice Francesca Badalini.

Processo e morte di Socrate

Processo e morte di Socrate (1939) - IMDb

Un’occasione più unica che rara per gettare uno sguardo sul teatro ottocentesco di cui Ermete Zacconi è uno degli ultimi rappresentanti ancora attivi nella prima metà del Novecento: il film è del 1939 e lui è già 82enne, acclamato prim’attore che aveva recitato, in Italia e all’estero, anche con la coetanea Eleonora Duse, colei che fu detta la “Divina” da Gabriele D’Annunzio e che morì 66enne nel 1924. Come lei è stato un precursore del verismo interpretativo svecchiando lo stile enfatico che caratterizzava la recitazione.

Paul van Yperen's Blog, page 87

Ma va considerato, oggi, che quel verismo interpretativo, ispirato al movimento letterario promosso sul finire dell’Ottocento da Giovanni Verga e Luigi Capuana fra i capofila, è espressione del suo tempo, perché la naturalezza interpretativa degli attori di teatro, e oggi anche di cinema tv e web, è di fatto lo specchio della società, del linguaggio che evolve nei tempi. Ermete Zacconi ha svecchiato lo stile aulico e pomposo delle precedenti generazioni di attori – di cui purtroppo non possiamo avere testimonianze audio e video, e che possiamo solo immaginare – ma visto e sentito oggi, egli stesso, appare pomposo perché la lingua parlata si è evoluta – ma anche involuta per altri versi – verso moduli ancora più semplificati e insieme anche meno precisi nella dizione e nell’articolazione delle sillabe: oggi è un tripudio del parla come magni come si dice a Roma, o del parlare pisciato come si dice in palcoscenico, con descrizione onomatopeica di una dizione imprecisa e biascicata. Per un esempio di questo tipo di parlata – che ormai è un’espressione che bisogna ritenere disgiunta dall’arte recitativa – basta andare a vedere “Favolacce” dei Fratelli D’Innocenzo, o una delle tante interviste che gli stessi gemelli hanno rilasciato.

La sillaba - Docsity

Va riconosciuto, oggi, che nella recitazione di Zacconi non si perde una sola sillaba insieme al fatto, però, che il parlato è fluido e discorsivo, pur nell’assoluta difficoltà dei testi platonici che non sono certo una chiacchierata al bar fra amici, che lui rende con la medesima naturalezza, tuttavia, pur appoggiando l’accento su ogni sillaba; personalmente mi ricorda certi vecchi professori o avvocati della mia gioventù, che si esprimevano con la medesima enfasi trattenuta ed erano naturali al contempo. Un modello di espressione che oggi non esiste più e che possono ricordare solo i miei coetanei figli del baby boom degli anni Sessanta.

Socrate: pensiero e vita del filosofo greco

Del film va ricordato che l’attore aveva interpretato Socrate in palcoscenico nei “Dialoghi Platonici” proprio l’anno prima della realizzazione del film, è quindi plausibile ritenere che l’ispirazione cinematografica nasce proprio dalla sua interpretazione teatrale che ebbe anche una tournée in America. E il film, poi, di ritorno, influenzò le successive rappresentazioni teatrali. Ma la critica lo giudicò molto severamente: impacciato, scolastico e tecnicamente povero. Di fatto, sceneggiato dallo stesso regista Corrado D’Errico, è la trasposizione di un monologo teatrale, interpuntato da occasionali dialoghi e inserito in un contesto scenografico decisamente teatrale, dove la cartapesta e i fondali dipinti sono assai evidenti; più ricchezza visiva si ha nel raccordo fra la prima e la seconda parte – il film è diviso in tre parti seguendo pedissequamente i dialoghi “Apologia” “Critone” e “Fedone” – momento filmico in cui delle sacerdotesse eseguono un’improbabile danza intorno a un fuoco sacro, a mo’ dei siparietti da varietà.

Bianco&Nero | Attori, Cinema, Ritratti

Per il resto il regista fa un buon lavoro, a mio avviso, cambiando spesso le inquadrature per dare al film un suo movimento interno in un’epoca in cui la cinepresa non si muoveva ancora, e usa tutta la tecnica fotografica disponibile: i primi piani, i campi medi e quelli lunghi, il campo e il controcampo e tutta una serie di interessanti prospettive e punti di vista. Fra gli altri interpreti un giovanissimo Rossano Brazzi che diventerà uno dei protagonisti del cinema di regime, e altri quotati interpreti dell’epoca fra cui Luigi Almirante, zio di quel Giorgio Almirante che fu capo di gabinetto del MinCulPop e poi fra i fondatori del Movimento Sociale Italiano.

Socrate: la vita - Rai Scuola

Ma come mai la critica fu così severa? Come ricordo in “Cinecittà Babilonia” sono gli anni in cui il cinema passa dal muto al sonoro e in Italia prende forma il regime fascista. Il regista Corrado D’Errico era integrato nel regime ed ebbe anche un incarico nel MinCulPop, il Ministero per la Stampa e la Propaganda detto anche Ministero della Cultura Popolare da cui l’abbreviazione usata anche come termine spregiativo; fu corrispondente per il Cinegiornale Luce in Etiopia, e lì contrasse una malattia tropicale che gli fu fatale. Il cinema di quegli anni è quello che vuole il regime fascista, un cinema spensierato e sentimentale, quello dei cosiddetti telefoni bianchi, che porta sullo schermo anche quei drammi storici in cui esso si possa riconoscere e che lo possa esprimere e propagandare: in questo film su Socrate c’è un passaggio in cui una folla di figuranti fa il saluto romano altrimenti detto fascista. Ma probabilmente non basta, e poiché non ci sono note storiche che associano Ermete Zacconi al fascismo, è probabile che la critica ingenerosa sia un attacco indiretto al vecchio mattatore che non si è lasciato inquadrare. Certamente il film è, come dice la critica, impacciato, scolastico e tecnicamente povero, ma l’impaccio è più di alcuni comprimari del prim’attore, scolastico è il contenuto e non può essere altrimenti, tecnicamente povero senz’altro ma è solo uno sfondo in cui si è fatto muovere un grande mattatore. Per me, poi, che non ho mai letto Platone, è anche una ghiotta occasione culturale.

Con “I Dialoghi di Platone” l’80enne Ermete Zacconi calcò per l’ultima volta la scena e farà ancora cinque film prima di morire 91enne nella sua casa di Viareggio, lui che era nato emiliano. “Alle ore 14,40 di ieri, – dice il manifesto fatto affiggere dall’amministrazione comunale – nella sua casa nei Giardini d’Azeglio, si è spento un astro fulgido, Ermete Zacconi. Per più di mezzo secolo questo nome, divenuto a Viareggio concittadino e famigliare, ha rappresentato nel mondo non solo il prestigio dell’arte drammatica più nobile e pura, ma la potenza dell’animo italiano capace di orizzonti profondi e di elevazioni senza pari nell’interpretazione dell’eroismo, della gioia e della umana sofferenza.”

Il giornalista viareggino Adolfo Lippi ricorda una “fotografia” mai scattata: in una caldissima sera del 1946 al tavolo di un bar sedevano e chiacchieravano tre prim’attori di generazioni diverse, e l’uno erede dell’altro: Ermete Zacconi, suo genero Renzo Ricci che aveva sposato l’attrice Margherita Bagni figliastra ma forse figlia naturale di Zacconi, e il di lui genero Vittorio Gassman che aveva sposato l’attrice Nora Ricci; tutti i tre sono legati a Viareggio: Zacconi che l’ha eletta a città patria, Renzo Ricci che grazie al suocero vi iniziò una strabiliante carriera, e Gassman che sarà sempre di casa nella cittadina toscana, tanto che in un cortocircuito persona-personaggio dirà “Io a Viareggio sono di casa” in “Il sorpasso”. Viareggio, con l’innesto di Ermete Zacconi che vi attirò i suoi amici, divenne meta del bel mondo artistico e culturale: vi soggiornarono Eleonora Duse e la sua amica danzatrice Isadora Duncan, i fratelli De Filippo che portarono in teatro “Natale in casa Cupiello”, teatro in cui si esibì anche Ettore Petrolini, e a Viareggio si stabilì anche un vecchissimo Leopoldo Fregoli che vi venne a morire, mentre Luigi Pirandello vi soggiornò amoreggiando con Marta Abba. Memorie da enciclopedia dello spettacolo che un film d’epoca inevitabilmente suscita, dove un nome tira l’altro in una ricerca di curiosità che potrebbe non avere fine…

Eleonora Duse, una donna
Eleonora Duse
Isadora Duncan, la storia della fondatrice della danza moderna
Isadora Duncan
Autografo originale cantante lirica Margherita Bagni | eBay
Margherita Bagni
Renzo Ricci
La dinastia Zacconi - Il Tirreno Versilia
Nora Ricci e Vittorio Gassman a Viareggio
I fratelli De Filippo: partono le riprese | La Gazzetta dello Spettacolo
Eduardo Titina e Peppino De Filippo
Ettore Petrolini nel mare di Viareggio
Leopoldo Fregoli (@_fregoli) | Twitter
Leopoldo Fregoli
Sanremo, incontri per rivivere il rapporto tra Luigi Pirandello e Marta Abba  - La Stampa
Luigi Pirandello e Marta Abba
Da YouTube il film completo

La famosa invasione degli orsi in Sicilia

E’ del 2019 questo cartone animato da recuperare, che gli adulti dovrebbero vedere insieme ai bambini, non perché sia un film anche per adulti ma perché le origini di questo film sono adulte e andrebbero spiegate ai bambini man mano che la storia scorre. Se poi la si volesse leggere insieme, tanto meglio, perché il film viene da un romanzo che a sua volte viene da una pubblicazione sul Corriere dei Piccoli.

Corrierino e Giornalino: La famosa invasione degli orsi in Sicilia

1945. Dino Buzzati pubblica a puntate, da lui stesso illustrata, la favola in cui si racconta di un gruppo di orsi… Ebbene sì, tutte le critiche e i resoconti usano il termine gruppo, che si usa per gli umani, e non branco come sarebbe giusto per gli orsi, perché questi orsi parlano e hanno sentimenti umani, anche migliori degli umani. Dunque, il gruppo di orsi su cui regna Re Leonzio (curioso nome da dare un orso dato che rimanda al leone) durante un inverno molto rigido in cui scarseggia il cibo, incitano il loro re a scendere a valle verso il Granducato di Sicilia per chiedere pacificamente agli umani aiuto e sussistenza. L’altra grande ragione per cui Re Leonzio acconsente è per cercare il figlio Tonio rapito anni prima dai cacciatori. Ma gli umani sappiamo come sono fatti: il vanesio Granduca fraintende le ragioni pacifiche degli orsi e manda loro incontro l’esercito…

La Famosa Invasione degli Orsi in Sicilia - Minerva Auctions

“E così cominciò, in un’atmosfera di meravigliosa allegria, il regno degli orsi, del quale purtroppo si è venuti a conoscere poco o niente. Invano abbiamo interrogato in proposito vecchi cantafavole e professori di storia, abbiamo frugato per anni le più venerande biblioteche: non una parola, non la minima notizia. Noi però continuiamo a cercare: chissà che un giorno o l’altro non si venga a sapere anche questa antica storia.” Conclude Buzzati sul Corriere dei Piccoli, e il chissà che un giorno del narratore ha ben ragione d’essere dato che solo un mese dopo le pubblicazioni riprendono con il titolo “Vecchi orsi, addio” continuando la storia che si era conclusa con la pacifica convivenza di orsi ed umani, e che riprende con oscuri presagi: gli orsi si sono corrotti assumendo comportamenti e vizi umani… Ma questa seconda parte non si conclude perché la pubblicazione viene interrotta alla penultima puntata: il Corriere dei Piccoli già risente della concorrenza dei fumetti americani, di Flash Gordon e di Mandrake, e inoltre, con la caduta di Mussolini il comando alleato impose alle testate giornalistiche un segno di discontinuità, dato che pur di sopravvivere i giornali avevano soggiaciuto ai dettami del regime fascista; così Il Corriere della Sera diventò Corriere dell’Informazione e il suo inserto Corriere dei Piccoli cambiò nome in Giornale dei Piccoli, a un mese esatto di assenza dalle edicole. Dal nuovo giornalino spariscono tutti i personaggi storici, a cominciare dal Signor Bonaventura di Sergio Tofano fino agli orsi di Dino Buzzati. Ci consola sapere che un anno dopo i giornali ripresero possesso dei loro nomi e delle loro identità e il Signor Bonaventura tornò insieme agli altri, ma non la favola di Buzzati.

Lo scrittore e illustratore, nonché giornalista e poeta, drammaturgo e librettista, pittore scenografo e costumista, aveva pubblicato con Rizzoli l’intera favola raccolta in volume che da lì in poi visse di vita propria fino a diventare, nei nostri anni, lettura per le scuole. Nel 1965 il Teatro Colla di Milano ne fece un adattamento teatrale per burattini e attori e dello scorso anno è il film a cartoni animati su cui il fumettista Lorenzo Mattotti ha lavorato per sei anni, curandone, oltre i disegni, la sceneggiatura con i francesi Thomas Bidegain e Jean-Luc Fromental e firmando la sua prima regia cinematografica.

Ripensare Buzzati. Lorenzo Mattotti e La famosa invasione degli orsi -  Limina | Rivista Culturale Online
Tavola preparatoria di Lorenzo Mattotti

Per la parte grafica si è voluto mantenere il più possibile fedele ai disegni di Buzzati senza perdere però libertà creativa. Mattotti ha voluto che gli scenari, molto belli, richiamando i paesaggi mediterranei non eccedessero in verosimiglianza, per mantenere il film in un’atmosfera fiabesca e senza tempo, di modo che le generazioni future, quando vedranno il film, non avranno punti di riferimento temporali per una storia animata che abbia lunga vita. Fa pensare, e anche commuove, il pensiero che un artista che ha lavorato per sei lunghi anni a un progetto, desideri che il suo lavoro non vada perduto nel giro di una generazione. E il film davvero non merita l’oblio.

La famosa invasione degli orsi in Sicilia, Clip dal film di Lorenzo Mattotti  | Video | Movietele.it

Coprodotto da Rai Cinema e Indigo Films con la francese Prima Linea Production è costato 11 milioni di euro; è uscito in Italia nel novembre 2019 e ha incassato solo 410 mila euro, e oltre che in Francia è uscito a febbraio 2020 solo in Spagna, incassando in totale 1 milione e 850 mila euro, meno del dieci per cento del costo. Non sapremo mai quanto c’è di disinteresse dei mercati e quanto di forzata chiusura dei cinema per pandemia, ma è un segnale che il film passi in chiaro e non a pagamento in tv e altre piattaforme. Sta di fatto che lo studio Prima Linea Production ha chiuso per bancarotta. Parzialmente consola che il film, inserito nel BiFest 2020, il Bari International Film Festival, svoltosi lo scorso agosto con pubblico in mascherina e a distanza di sicurezza, al termine della proiezione ha ricevuto ben 10 minuti di applauso, fatto che non accadeva dal 2018 in occasione della proiezione di “Nuovo Cinema Paradiso” per il suo trentennale.

Giro d'Italia Letterario un appuntamento da non perdere, Buzzati e la sua  favola per grandi e piccini...LA FAMOSA INVASIONE DEGLI ORSI IN SICILIA -  Paperblog

La mia personale considerazione è che il disinteresse per il film, sia del pubblico italiano che dei distributori esteri, sia dovuto a una pervasiva diseducazione culturale che ci ha appiattiti tutti sugli stili e le tematiche americane, dalla nuova Disney alla Dreamworks alla Pixar, e in seconda ipotesi sui manga giapponesi e tutto il cartoonism orientale, senza dimenticare la grafica iperrealistica dei video games. “La famosa invasione degli orsi in Sicilia” è troppo italiana per i nostri ragazzi, e troppo retrò per tutti; vi si parla addirittura di un Gatto Mammone, figura mitica della nostra tradizione contadina, e il mago di corte De Ambrosiis non ha niente che vedere con Mago Merlino e i suoi derivati magicians d’oltreoceano. La narrativa fantastica di Dino Buzzati, definito il “Kafka italiano” per la ricchezza della sua letteratura surreale e magica, si rifà ai racconti che deve aver sentito da bambino, e lui, nato nel 1906, ha potuto attingere ai racconti orali ottocenteschi. Anche gli orsi di Sicilia non sono mera invenzione, poiché appartengono alla fauna estinta dell’isola ed erano di casa sui Monti Nebrodi del messinese, città in cui Buzzati visse come inviato di guerra e operatore militare: non si esclude quindi che abbia studiato anche la storia del territorio.

Brevi note su Lorenzo Mattotti. Classe 1954 pubblica i suoi primi fumetti nel ’75 su testate francesi, è dunque antica la sua collaborazione con i cugini d’oltralpe e attualmente risiede a Parigi. In Italia pubblica su Lotta Continua e poi su Linus. Disegna bozzetti per la pubblicità di alcuni marchi famosi e crea copertine per Le Monde, Cosmolitan, Vanity Fair, Glamour, The New Yorker. Nel 2004 realizza i pannelli di collegamento fra i tre episodi del film “Eros” firmato da Michelangelo Antonioni, Wong Kar-wai e Steven Soderbergh; nel 2007 partecipa al film d’animazione collettivo “Peur(s) du noir”; nel 2012 si occupa delle sequenze animate del film tv di Charles Nemes “Il était une fois… Peut-être pas” e l’anno successivo realizza gli sfondi e i personaggi del film d’animazione “Pinocchio” di Enzo D’Alò.

Jesus Christ Superstar, il film

Il musical originale è dell’ormai lontano 1970, ben mezzo secolo fa, epoca di rivoluzioni sociali e contestazioni: era finita l’allegra spensieratezza degli anni ’60; in ambito musicale si mettono in discussione i canoni creativi e arrivano nuovi generi musicali insieme a sperimentazioni molto ardite per l’epoca. Il rock (evoluzione del rock and roll, con richiami anche al rhythm and blues, al country e al folk) mette in primo piano l’uso della chitarra e del basso elettrici accompagnati dalla batteria; e poi negli anni a seguire darà vita a una innumerevole quantità di sottogeneri e commistioni. Qui basta ricordare gli artisti che misero a segno i più grandi successi rock del 1970: David Bowie, George Harrison, Pink Floyd, Van Morrison, Santana, Simon & Garfunkel, Cat Stevens, James Taylor, The Beatles e molti altri ancora.

In questo scenario musicale e sociale in fermento il duo inglese Lloyd Webber-Rice ebbe l’intuizione di mettere in discussione il mito della passione di Cristo facendone un’opera rock. I due collaborarono per la prima volta insieme nel ’65 creando un musical in stile classico anni ’40-50 sulla figura di un medico filantropo dell’epoca vittoriana, mai messo in scena, e recuperato solo nel 2005 dopo che i due autori sono diventati ultra famosi e anche Sir, per grazia di Sua Maestà la Regina Elisabetta II. Poi nel ’68 ci fu l’avventura e l’insperato successo di “Joseph and the Amazing Technicolor Dreamcoat” ispirato al racconto biblico di Giuseppe e i suoi fratelli, dunque, bibbia e vangeli alla mano, perché non rilanciare addirittura con Gesù?

Prima pagina del Vangelo di Giuda, facente parte del Codex Tchacos ritrovato in Egitto nel 1978.

Ovviamente al tempo della sua prima uscita l’opera suscitò molte polemiche da parte dei conservatori: tralasciando oggi le critiche sulla parte musicale rock, troppo innovativa, i punti più controversi furono Maddalena che dichiara esplicitamente il suo amore per Gesù – e su questo sarebbe seguita molta narrativa – e il punto di vista di Giuda che mette in discussione la santità di Gesù. Ma tema ancora più innovativo è come Giuda vede se stesso in un’anticipazione di tutte le teorie revisioniste che sono sorte in seguito al ritrovamento, anni dopo, del cosiddetto Vangelo di Giuda, gnostico e apocrifo, secondo cui il Traditore si sarebbe sacrificato, alla pari di Gesù, alla causa per salvare l’umanità: senza il suo tradimento, senza il suo tramite, non si sarebbe potuto compiere il sacrificio supremo della crocifissione, dunque senza Giuda non avremmo avuto Gesù: è il fratello minore che si sacrifica per il fratello maggiore. E tutto questo disturbava molto, e ancora disturba, i cattolici osservanti.

Prende in mano il film il canadese Norman Jewison, sceneggiatore produttore e regista fresco del successo del musical “Il violinista sul tetto”, cineasta già assai eclettico che ha debuttato dirigendo commedie con Tony Curtis e Doris Day ma che ben presto si è dedicato al dramma che indaga le piaghe sociali americane: il gioco d’azzardo (Cincinnaty Kid) la paranoia da guerra fredda (Arrivano i Russi! Arrivano i Russi!) il razzismo (La calda notte dell’ispettore Tibbs). Co-sceneggiando “Jesus Christ Superstar” immagina che la compagnia di hippie che mette in scena il musical arrivi su un pullman in Medio Oriente, fra le rovine di Avdat nel deserto del Negev, una location che permette al regista grande libertà creativa e visiva, spaziando fra lunghe distanze e primi piani, e quasi creando una propria partitura musicale con le sue immagini e le sue invenzioni sonore: silenzi che si alternano ai numeri musicali, uso di effetti visivi come il fermo immagine, o lo slow-motion che in quegli anni si era diffuso in Italia col termine maccheronico di rallenty. Molto bella la presentazione dei sacerdoti che in mantello nero stanno appollaiati come corvi su una struttura di tubi innocenti (tubi che poi torneranno nella scenografia del rock opera live) e il loro battere sui tubi aggiungendo una diversa sonorità alla partitura musicale.

Andrew Lloyd Webber – This Jesus Must Die Lyrics | Genius Lyrics

Fatto un accordo con l’esercito israeliano, Norman Jewison riesce a ottenere due jet dell’aeronautica militare che sfrecciano sul set, disponibili per un solo ciak, e cinque carri armati che spettacolarmente spuntano dal crinale di una collina. Il film, già musicalmente moderno alla sua uscita, ancora oggi non risente del decenni trascorsi, grazie anche alla sua collocazione fuori dal tempo, dove gli hippie sono sempre hippie in ogni epoca e il rock melodico non ha mai smesso di piacerci. Grande successo anche in Italia, dove si accaparrò il David di Donatello come Miglior Film Straniero, ma soprattutto passò il vaglio dell’Osservatorio Romano e proiettato privatamente a Papa Paolo VI al quale pare che piacque, pare perché le fonti ufficiali tacciono e la notizia arriva da Ted Neely in una recente intervista. In ogni caso le canzoni principali del musical divennero delle hit a Radio Vaticana.

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Ted Neely che interpreta Gesù. La sua partecipazione al musical inglese comincia come sostituto del protagonista in palcoscenico, e come tale ebbe una standing ovation durante un tour; in seguito a questa affermazione divenne titolare del ruolo nella messa in scena di Broadway. Identico iter per il suo amico Carl Anderson, prima sostituto di Giuda e poi protagonista in palcoscenico e nel film. Fondamentalmente rimarranno entrambi legati a questi ruoli, anche se Anderson intraprende una valida carriera da solista che però una fulminante leucemia interrompe all’età di 59 anni. Neely come attore farà molto poco fra cinema e tv e recentemente Quentin Tarantino, regista esperto in ripescaggi di vecchie glorie, lo ha voluto nel cast di “Django Unchained”. Inoltre alla non più tenera età di 70 anni ha ripreso il suo Gesù in una produzione tutta italiana.

Yvonne Elliman - Radio King

La nippo-irlandese Yvonne Elliman è Maddalena sin da Broadway, e durante il tour ebbe una focosa storia d’amore con Eric Clapton, peccato che lei fosse sposata con l’uomo che l’aveva presentata al cantautore; scrisse delle canzoni per i Bee Gees e “La febbre del sabato sera”.

Barry Dennen

L’americano Barry Dennen, 22enne ebbe una breve ma proficua relazione con la 18enne Barbra Streisand: le ha fatto da mentore, e lei ha sostenuto lui nell’apertura di un proprio night club nel quale trova la sua strada di attore e cantante, anche gay. Lasciata Barbra al suo brillante destino si trasferisce a Londra e sarà la sua fortuna perché per 15 anni sarà il maestro di cerimonia nel musical “Cabaret”, ruolo che al cinema darà la fama a Joel Grey; e poi sarà Ponzio Pilato, un Ponzio Pilato molto intrigante a mio avviso, sia in palcoscenico che nel film; dice di aver suggerito lui a Norman Jewison di fare il film e il regista non smentisce; continua nel cinema con ruoli minori in film di successo, da “Batman” a “Shining” fino a “Titanic” e muore 79enne per le conseguenze di una caduta.

Bob Bingham (Caiaphas) and Kurt Yaghjian (Annas) in 'Jesus Christ  Superstar', 1973. | Jesus christ superstar, Jesus christ superstar 1973, Jesus  christ
Bob Wingham e Kurt Yaghjian

Anche il baritono Bob Wingham viene dal palcoscenico col suo Caifa, e la sua prima partecipazione importante è nel musical “Hair” mentre successivamente interpreterà Dio in “Up from Paradise” da una novella di Arthur Miller. Il sopranista di origine rumena Kurt Yaghjian interpreta il viscido sacerdote Annas; comincia a cantare da bambino in un coro di voci bianche e viene notato dal compositore Gian Carlo Menotti che lo volle come protagonista di “Amahl and the Night Visitors” una sua opera natalizia per la tv americana, paese dove il compositore italiano si era trasferito su consiglio del maestro Arturo Toscanini; nell’allestimento di Broadway Yaghjian farà da jolly, sostituendo i titolari nei ruoli di Annas, appunto, ma anche Giuda e Pilato e altri ruoli minori.

JESUS CHRIST SUPERSTAR E L'OSSIMORO DELL'ANTITESI - Polisemantica

Il caratterista Josh Mostel, figlio per più noto Zero Mostel, interpreta un Erode che il regista immagina in una sua oasi artificiale sulle rive del Mar Morto, circondato da prostitute e travestiti. Non è un gran cantante né un ballerino ma risulta ridicolo quanto basta per rendere il personaggio.

L’aitante Philip Toubus interpreta Pietro, dopo aver già preso parte anche lui ad “Hair”, e questo rimane il suo ruolo più importante nella carriera musicale; otterrà però un successo internazionale con lo pseudonimo di Paul Thomas cambiando genere e diventando uno dei protagonisti dell’età d’oro del porno americano, a dimostrazione del fatto che le vie del signore sono infinite.

Nella scena della crocifissione Norman Jewison si ispira alla più classica delle iconografie.
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E riprende l’Ultima Cena di Leonardo Da Vinci.

Jesus Christ Superstar, rock opera live

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Natale 2020, quello che verrà ricordato come il natale del covid, tutti chiusi in casa, e non sappiamo niente dei natali futuri. Per distrarci Sky mette in programmazione questo eccezionale film tv di due anni prima, tratto dall’opera rock di Andrew Lloyd Webber con testi di Tim Rice. Operazione anomala, metà teatro e metà tv, ovvero messa in scena dal vivo con pubblico osannante gli “Hosanna” del coro in palcoscenico, ma prodotto costruito per le riprese televisive, col pubblico su tre lati e scenografia mastodontica fatta di tubi Innocenti.

Il famoso tubo per le impalcature da costruzioni deve il nome al suo inventore Ferdinando Innocenti creatore anche della Lambretta. Come nota di colore aggiungo una chiacchiera che girava nei teatri il secolo scorso: Adriana Innocenti, figlia dell’impresario e ottima attrice caratterista equamente divisa fra teatro cinema e tv, allorché si impegnò nella produzione di uno spettacolo, alla domanda “Dove prendi i soldi?” rispose allegramente “Dai tubi di papà!”

La prima assoluta del musical originale avvenne nel 1971 e dato il clamoroso successo si fece subito il film nel 1973, e per tutti gli anni ’70 continuerà ad essere rappresentata, chiudendo nel 1980. Nel 1992 il musical venne ripreso con gli interpreti originali di Gesù e Giuda; nel 1996 ci fu una nuova versione londinese a cui prese parte il controverso Alice Cooper nel ruolo di Erode, che torna in questa produzione.

Coprodotto per la NBC dagli autori insieme al protagonista John Legend, è stato concepito per includere nelle riprese 1500 comparse pagate per fare il pubblico in delirio, con ben 12 telecamere per riprendere lo spettacolo-evento; fu anche registrata un’anteprima con un numero di spettatori ridotto e a invito diretto, per avere del materiale di riserva nell’eventualità che durante la diretta televisiva si verificassero degli intoppi: cautele necessarie data l’entità dell’impegno produttivo. Alla messa in onda fu un clamoroso successo di pubblico e critica, ben meritato a mio avviso. Agli Emmy Awards fu praticamente nominato in tutte le categorie portando a casa solo: spettacolo in diretta tv, disegno delle luci, scenografia, mix sonoro, direzione tecnica e video, miglior film tv, casting, miglior parrucco. Riuscitissima la sequenza della sparizione fra le quinte della croce come se sparisse in cielo.

Brandon Victor Dixon con John Legend, Giuda e Gesù

L’occasione è ghiotta per sentire dal vivo, anche se la registrazione è oggi vecchia di un paio d’anni, delle star della musica fuori dalla loro confort zone e confrontarsi con espressioni canore e melodie che sono ormai dei classici e appartengono al bagaglio musicale collettivo degli amanti del musical. John Legend è pienamente all’altezza del ruolo esprimendosi con una ricchezza vocale di indubbio talento, ma le sue incursioni nel cinema restano per adesso limitate data l’evidente inespressività della sua faccia da bravo ragazzo che cantava nel coro della chiesa battista. Gli fa da controparte nel ruolo di Giuda, scritto come antagonista con pari spazio scenico, Brandon Victor Dixon, cantantattore molto espressivo che già al suo debutto a Broadway nel 2005 fu premiato con il Tony Award, dunque carriera ancora breve ma tutta in ascesa, che non merita ancora il nome in cartellone nonostante sia il secondo protagonista; con questa sua performance conferma pienamente le sue doti, non solo come interprete canoro ma anche come attore che sente intensamente il dilemma cui è chiamato, e col suo Judas ruba la scena al Jesus di John Legend, modulando le note più difficili nei momenti più sofferti con grande maestria. lo si è visto in tv nella serie noir “Power”.

Alice Cooper Racconta Paranormal - Corriere della musica

Alice Cooper, al secolo Vincent Anton Furnier, è effettivamente un uomo brutto, a dispetto del suo pseudonimo femminile, che si è imposto sulla scena rock con degli allestimenti dark e horror: trucco cadaverico, bambole impalate, ghigliottine, serpenti e simili; anche i suoi testi hanno contenuti horror benché poi trovino spazio anche altri temi come la libertà di espressione, il pensiero religioso, la società americana e simili. Va da sé che tutto quest’ambaradan proviene da un’infanzia forzosamente votata alla religiosità più pura, dato che nonno e padre erano apostoli della Chiesa di Gesù Cristo. Alice Cooper era inizialmente il nome di una band di cui ha fatto parte sin da metà anni ’60, nome derivato da una strega bruciata a Salem nel XVII secolo. Pare che per il trucco cadaverico la banda avesse tratto ispirazione dal loro film preferito: “Che fine ha fatto Baby Jane?” dove Bette Davis sfoggiava impunemente una maschera bianca densa e prossima allo disfacimento. Sia Furnier che il gruppo Alice subiscono diversi colpi di assestamento: l’individuo entra ed esce dalle cliniche per alcolisti e il gruppo cambia spesso formazione, tanto che il nome Alice Cooper rimane appannaggio del front-man rimasto in piedi, seppur traballante, ma sempre iconico, e in effetti il suo ingresso in scena come un Erode da operetta ha un suo perché.

Sara Bareilles To Headline Tina Fey's 'Girls5eva' Comedy Series For Peacock  – Deadline

La cantautrice Sara Bareilles, lunga gavetta che la porta alla notorietà nel 2008, fra piano-bar e varie collaborazioni e composizioni di successo, eccola aggiudicarsi il ruolo di Maria Maddalena, che canta molto bene ma che mi ha dato l’impressione di trovarsi lì per caso, fregata forse dall’emozione per cotanta diretta tv. E’ un attore di lungo corso l’inglese Ben Daniels che qui interpreta Ponzio Pilato passando con passione dalla recitazione al canto e, al contrario dei cantanti professionisti, è più attore che cantante, sgranando qua e là la voce e perdendo qualche nota, ma ben vengano certe imperfezioni se si rende credibile il personaggio. In tv ha interpretato, fra le tante cose, il ruolo di Caifa nella miniserie “The Passion” anch’essa incentrata sugli ultimi giorni del Cristo. Il ruolo di Caifa è interpretato dal baritono Norm Lewis, che a volte perde le note più basse della partitura, ma questo poco toglie alla performance del cantante, che altrove è impegnato principalmente nei musical: è stato il primo nero a interpretare “Il Fantasma dell’Opera”. Il sud-coreano Jin Ha, interpreta Annas, l’altro sacerdote cattivo consigliere dello già sconsiderato Caifa. L’attore ballerino hawaiano Jason Tam qui canta anche nel ruolo di un Pietro molto giovanile, mentre lo svedese cantante hard-rock-metallaro Erik Grönwall è Simone lo Zelota. Un cast molto variegato che aggiunge ricchezza interpretativa e visiva a un musical vecchio di cinquant’anni da sdoganare nel terzo millennio.