Archivio mensile:dicembre 2020

La Vita è Meravigliosa – e a Natale lo è ancora di più

Il senso del Natale in un film: La Vita è Meravigliosa

Insieme a “Bianco Natale” un altro classico hollywoodiano per le serate natalizie davanti la tv, oltre che un grande classico del suo autore, lo sceneggiatore produttore e regista Frank Capra, che nel 1946, quando il film uscì, aveva già all’attivo 3 Oscar al Miglior Regista per “Accadde una notte” 1935 “E’ arrivata la felicità” 1937 e “Eterna illusione” 1939, oltre all’Oscar del 1943 al Miglior Documentario per il film bellico di propaganda “Preludio alla guerra” primo della serie “Why We Fight” girati per istruire e motivare le truppe statunitensi.

Su invito del Capo di Stato Maggiore George C. Marshall, lo stratega cui si deve il “Piano per la ripresa europea” poi chiamato “Piano Marshall” dal suo nome, Frank Capra si arruolò nell’esercito (1942-45) per coordinare la propaganda bellica attraverso il cinema. Ebbe a dire di quell’esperienza: “Pensavo che fosse il mio lavoro mostrare ai nostri ragazzi le ragioni della nostra guerra. Avevano 18 anni, quei ragazzi, e non sapevano niente di cose di guerra. Non erano soldati, non avevano nessuna disciplina militare. Erano i peggiori soldati del mondo, quando la guerra scoppiò. Ma in due anni, erano i migliori del mondo. E c’è una ragione, per questo: avevano una mente aperta. Era la prima cosa che facevano, vedere i miei film. E quando li vedevano, sapevano cosa fare, perché combattevano. Capivano che non era un gioco. Che era vero.”

“La Vita è Meravigliosa” ebbe cinque nomination e nessun Oscar, dato che quell’anno, il 1947, fu “I migliori anni della nostra vita” di William Wyler a fare man bassa. Fu anche un flop al botteghino con un guadagno netto di centomila dollari: costato tre milioni e duecento ne incassò tre milioni e trecento. Il successo però cresce nei decenni a seguire e sin dall’anno seguente l’uscita nelle sale, Frank Capra cominciò a ricevere migliaia di lettere da fan desiderosi di raccontargli l’effetto positivo che il film aveva avuto su di loro; pare che circa 1500 di quelle lettere furono mandate dai detenuti del carcere di San Quintino. E per restare in tema, nel 1987 un giudice ordinò a un imputato la visione del film come parte della sua condanna per avere ucciso la moglie ammalata e per aver poi tentato di suicidarsi; lo stesso anno, il Consigliere del Presidente per la sicurezza nazionale rivelò alla stampa che la visione del film gli aveva dato la forza di andare avanti dopo aver tentato il suicidio. Perché il film parla di questo: un uomo ordinario, che ha rinunciato a ogni sua aspirazione sacrificandosi alle cause di forza maggiore, la famiglia il lavoro la comunità, nel momento più buio della sua vita sta per suicidarsi, e all’angelo sceso dal cielo per aiutarlo esprime il desiderio di non essere mai nato: detto, fatto. Torna nel suo mondo che non riconosce e dove nessuno lo riconosce perché non è mai esistito, le cose sono volte al peggio e tutto il bene che ha fatto è svanito, e tutte le persone che ha aiutato sono ai margini della società perché non hanno mai usufruito della sua solidarietà: “Strano, vero? La vita di un uomo è legata a tante altre vite. E quando quest’uomo non esiste, lascia un vuoto.” gli dice l’angelo, spiegando anche a tutti noi la morale del film: nessuna vita, neanche nei momenti più bui, diventa inutile.

La favola del film nasce dal racconto “The Greatest Gift” che l’autore, lo storico Philip Van Doren Stern, pubblica prima in forma privata come omaggio insieme a una cartolina natalizia per una ristretta cerchia di amici, e solo due anni dopo, avendo sentore dell’interesse che stava suscitando il suo scritto, ne registrò i diritti; il racconto in forma di omaggio era arrivato nelle mani di Cary Grant che lo propose allo studio presso cui era sotto contratto, la R.K.O. Pictures, la quale ne acquistò i diritti pensando di coinvolgere nel progetto Gary Cooper che avrebbe recitato insieme a Cary Grant: di certo un’accoppiata vincente.

Cary Grant's & Gary Cooper's rumoured bisexuality

Ma dopo tre sceneggiature deludenti la R.K.O. si libera del fardello e vende i diritti all’appena nata Liberty Films di Frank Capra che finalmente realizza il film con l’attore che lui aveva sin da subito avuto in mente, James Stewart. Ma il film, che paradossalmente racconta come i fallimenti non ci debbano abbattere, fu esso stesso un fallimento economico che trascinò alla precoce chiusura la Liberty Film, che aveva appena fatto in tempo a realizzare un secondo e ultimo film, “Lo Stato dell’Unione” con Spencer Tracy e Katharine Hepburn. Nonostante il fallimento, e in linea con l’ottimismo dei suoi film, Frank Capra considera “La vita è meravigliosa” il miglior film da lui prodotto. Nel 1984, in un’intervista del Wall Street Journal in seguito al tardivo successo del film dirà: “Il film ha una vita propria e ora posso guardarlo come se non avessi niente a che farci. Sono come il genitore di un figlio diventato Presidente. Sono orgoglioso… ma i meriti sono del ragazzo. Quando incominciai a lavorarci non pensai nemmeno a una storia natalizia. Mi piaceva semplicemente l’idea.”

It's a Wonderful Life - Experiment & Movie Discussion — Steemit

L’ottimismo dei film di Capra, però, come ha studiato la critica moderna, è solo di superficie, perché se si va oltre si vede in evidenza un mondo conflittuale e poco rassicurante, in cui l’individuo è contro il sistema del potere affaristico, con racconti di drammi individuali familiari e sociali che trovano nell’improvviso risvolto del finale al positivo una soluzione inattesa e, proprio in tema di favola, incredibile sul piano logico. Ma il dramma non viene cancellato e malgrado i lieti fine traspare un pessimismo di fondo. Realizza favole per adulti ma rimane concentrato nel riprodurre la realtà, pur con qualche deviazione fantastica a volte, come in questo film la conversazione in un paradiso naïf, fra le stelle dell’universo, in cui San Giuseppe consiglia a Dio di mandare sulla Terra un Angelo Custode, di seconda categoria e senza ali, perché se le possa guadagnare assolvendo il suo compito. Una realtà intrisa di fantasia perché Capra vuole che il pubblico si identifichi con i personaggi e gli piace raccontare un realismo senza intellettualismi, che fa sì critica sociale ma in modo generico e superficiale, denunciando sì corruzione e malvagità di singoli individui, ma senza approfondirne davvero le cause, e il mezzo non può che essere la commedia: “Quando la gente si diverte, è più disponibile, crede in te. Non puoi ridere con qualcuno che non ti piace. E quando ridono, cadono le difese, e allora cominciano ad essere interessati a quello che hai da dire, al messaggio.” 

“La vita è meravigliosa” fu per James Stewart l’ultima collaborazione con Frank Capra e la prima cinque anni dopo aver combattuto in Europa la Seconda Guerra Mondiale, come abilissimo pilota delle Fortezze Volanti B-17; dopo venti missioni ufficiali ricevette per due volte la Croce di Guerra e la Croix de Guerre francese, poi accumulando in totale ben 15 onorificenze; senza dimenticare che fu anche la prima star ad andare al fronte poiché Hollywood era riluttante a mettere a rischio il proprio capitale artistico. Per Capra fu l’ultimo film con James Stewart perché da questo film in poi comincia il suo declino, prima con la già detta crisi economica e poi perché sarà uno di quei pochi casi in cui un regista gira remake dai suoi stessi film, implicitamente dichiarando di non avere più ispirazione; sarà anche uno dei primi a lavorare con il nuovo mezzo, la televisione, la quale, assorbendone i temi e i modelli narrativi, divulgandoli e reiterandoli su larga scala in un modello narrativo molto più pervasivo, contribuì al suo tramonto artistico. Poco più che sessantenne abbandona il cinema e si ritira a vita privata, concedendo solo conferenze e partecipazioni a manifestazioni cinematografiche.

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James Stewart con il dopo guerra bisserà il successo degli anni ’30-40, avvierà proficue collaborazioni con Anthony Mann per i western e con Alfred Hitchcock per i gialli, in ogni caso spaziando da un genere all’altro sempre con grande credibilità. Per questo film, di rientro da anni di guerra aerea, non si sentiva più sicuro delle sue capacità interpretative e più volte aveva chiesto a Capra di posticipare la scena sentimentale e sottilmente erotica in cui condivide la cornetta del telefono bocca a bocca con Donna Reed, scena che diventerà fra le più famose del film, e che la censura ritenne troppo ardita insieme al primo bacio che seguì quella telefonata.

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Donna Reed, con un futuro Oscar nel 1954 per “Da qui all’Eternità” di Fred Zinneman, è una delle tante ottime attrici utilizzate da Frank Capra per fare da spalla ai protagonisti del suoi film, tutti film al maschile con la sola eccezione di Barbara Stanwyck, che fu la prima vera star nella sua all’epoca crescente cinematografia, e che tale resterà anche in seguito. Nel ruolo del cattivo, aggiunto da Capra e inesistente nel racconto originale, il veterano Lionel Barrymore esponente dell’illustre famiglia di attori teatrali e cinematografici detta “La Famiglia Reale” di Hollywood. Per il caratterista Henry Travers interpretare Clarence Oddbody, l’angelo di seconda classe, fu l’apice della carriera. H. B. Warner interpreta il vecchio farmacista dove il protagonista lavorava da giovane, e va ricordato che aveva interpretato Gesù nel muto del 1927 “Il Re dei Re” di Cecil B. De Mille, con il quale reciterà il suo ultimo piccolo ruolo accreditato in “I Dieci Comandamenti”, e lo si può ricordare come se stesso nella partita a quattro con Gloria Swanson in “Viale del Tramonto”. Thomas Mitchell, candidato all’Oscar come Non Protagonista nel 1937 per “Uragano” di John Ford e poi vincitore nel ’40 per “Ombre Rosse” dello stesso regista, è stato per le sue capacità mimetiche uno dei più richiesti caratteristi di Hollywood, e lo ricordiamo anche come papà di Rossella O’Hara. La sfavillante bionda platino Gloria Grahame, qui al suo primo ruolo significativo, inaugura la sua carrellata di bionde tentatrici e maliziose e arriverà all’Oscar nel 1952 per “Il Bruto e la Bella” di Vincente Minnelli.

Per la sua grande popolarità il film è stato oggetto di omaggi, citazioni e parodie. Ma già l’anno dopo la sua uscita ebbe un adattamento radiofonico in cui gli stessi James Stewart e Donna Reed reinterpretarono i loro ruoli. Nel 1977 ci fu un film tv e nel 1980 ne fu tratto un musical teatrale, mentre nel 1990 venne realizzato uno spin-off del film tv intitolato a Clarence, l’angelo di seconda categoria. Insomma: se la vita è meravigliosa va sfruttata fino alla fine.

Bianco Natale, in brillante Technicolor

Il Technicolor che caratterizza questo film è stato il procedimento di cinematografia più usato negli Stati Uniti nel trentennio 1922-52, e proprio per i suoi colori saturi e brillanti fu usato soprattutto per girare musical e film in costume, oltre che i film d’animazione di Walt Disney: film che uscivano fuori dalla dimensione del naturalismo quotidiano, un quotidiano dove i colori sono più smorzati e confusi. La Technicolor Motion Picture Corporation, fondata nel 1914, realizzò il primo film a colori già nel 1917, il muto “The Gulf Between” che però è andato perduto. Il procedimento impiegherà ancora qualche anno per perfezionarsi e si arriva al 1932, anno in cui riceve l’Oscar Scientifico e Tecnico in contemporanea all’Oscar Miglior Cortometraggio d’Animazione al disneyano “Fiori e Alberi” che lo utilizza. Nel 1955 verrà fondata a Roma la Technicolor Italiana, che poi nel 1963 inventa in proprio il formato “Techniscope” che, senza scendere in dettagli tecnici, consentiva un notevole risparmio di pellicola; il primo ad utilizzarlo fu Vittorio De Sica con il suo “Ieri, oggi, domani” e poi Sergio Leone lo usò per tutti i suoi western. Questo “Bianco Natale”, del 1954, è anche il primo in VistaVision, un formato per film su schermo panoramico che resistette fino agli anni ’70, quando fra i suoi ultimi impieghi ci furono i primi esperimenti della LucasFilm sugli effetti speciali che porteranno nel 1977 a “Guerre Stellari”.

“Bianco Natale” è un classico che da decenni vediamo e rivediamo nel periodo natalizio e che non stanca mai. La ragione del suo eterno successo è che è una favola per adulti, e come tutte le favole il suo fascino non si estingue mai. Buoni sentimenti, fraintendimenti che trovano sempre la via della pacificazione, stratagemmi la cui soluzione ci tiene sempre in sospeso e l’immancabile catarsi finale; il tutto scandito da dialoghi brillanti e scene auto conclusive come piccoli quadri teatrali che si chiudono con una battuta o un’azione significative, eccellenti numeri musicali con coreografie che ancora sorprendono per la loro scoppiettante complessità e per quel gusto oggi perduto per il tip-tap. I personaggi non sono mai credibili ma sempre amabili, proprio come nelle favole, e contrariamente a qualsiasi altra favola qui non ci sono personaggi cattivi ma solo cattive circostanze che però i nostri eroi superano sempre, cantando e ballando. Per non amare questo film, o film di questo genere, bisogna non amare i musical, ed è plausibile, oppure bisogna essere degli inguaribili cinici senza fantasia.

Il film si apre con lui, Bing Crosby, che mirabilmente canta una versione rallentata e triste del già famoso successo “White Christmas” che Irving Berlin (pseudonimo del russo Izrail’ Moiseevič Bejlin) aveva scritto per il film del ’42 “La Taverna dell’Allegria” con Crosby e Fred Astaire, canzone che ricevette l’Oscar e che da allora è stata un cavallo di battaglia di Bing Crosby, il quale, quando la sentì per la prima volta disse all’autore: “Ecco un’altra delle tue canzoni per piangere.” E Berlin ne era consapevole se, come dicono le cronache, la mattina dopo averla scritta corse in ufficio per sollecitare la sua segretaria: “Prendi la penna, prendi appunti su questa canzone. Ho appena scritto la mia migliore canzone; diavolo, ho appena scritto la migliore canzone che chiunque abbia mai scritto!” “White Christmas” cantata da Bing Crosby rimane il disco più venduto fino ad oggi, nonostante praticamente tutti ne abbiano fatto una propria versione, da Louis Armstrong a Michael Bublé passando per Frank Sinatra e Barbra Streisand, e nella versione italiana con testo di Filibello (pseudonimo del paroliere Filippo Bellobuono) da Andrea Bocelli a Cristina D’Avena passando per Celentano e Laura Pausini.

L’inizio del film è un cartello che annuncia la vigilia di Natale del 1944 col noto cantante Bob Wallace (Bing Crosby) che per la truppa accampata fra le rovine di Montecassino, Italia, intona le famose note. L’inquadratura si allarga e scopriamo che il quieto paesaggio innevato è il fondale di un precario palcoscenico allestito su un fondale ancora più ampio di uno scorcio visibilmente ricostruito in studio, con rovine di cartapesta: nei decenni passati della televisione in bianco e nero sembrava tutto – paradossalmente – più reale, mentre oggi svela tutto l’artificio della finzione, che però non guasta perché sappiamo che di bella finzione si tratta. Bob Wallace viene salvato dal crollo di un muro dal soldato Phil Davis che ha la maschera plastica di Danny Kaye, che gli si propone come paroliere e il duo si avvia al successo in patria negli anni a seguire. Conoscono due sorelle che si esibiscono come cantanti, le Haynes Sisters, Betty e Judy, Rosemary Clooney e Vera-Ellen, e insieme metteranno su uno spettacolo per aiutare l’ex generale dei due, oggi albergatore in crisi finanziaria, e poi finire in bellezza, formando anche due coppie sentimentali bene affiatate: quella spigolosa litigiosa e principalmente canterina formata da Bing Crosby e Rosemary Clooney, e l’altra principalmente ballerina formata dal gigione Danny Kaye e dalla leziosa e intraprendente Vera Ellen – in un film dove comunque tutti fanno tutto benissimo e cantano e ballano e recitano con un eterno sorriso stampato in viso.

Dirige il rumeno Manó Kertész Kaminer naturalizzato americano nel 1926 col nome di Michael Kurtiz, regista assai eclettico che, benché mancando di uno stile proprio immediatamente riconoscibile, fu uno dei più quotati di Hollywood negli anni ’40. Passò dai film d’avventura con Errol Flynn all’iconico “Casablanca”, al drammatico “Il Romanzo di Mildred” che fruttò l’Oscar a Joan Crawford e ne rilanciò la carriera. Con i suoi lauti guadagni, durante il secondo conflitto mondiale, aiutò diversi ebrei ad immigrare in America ma non poté fare nulla per i suoi genitori che morirono ad Auschwitz.

20 Facts About White Christmas (The Movie) | Sporcle Blog
Library of Congress on Twitter: "Did you know that Bing Crosby got his  nickname from the Bingville Bugle, a weekly satirical newspaper section?  Check out its take on March weather #OTD 1915 #

Bing Crosby all’epoca ha già 50 anni, un Oscar in bacheca per “La mia via” del ’45 e la fama di capostipite dei crooner. Bing, il cui vero nome è Harry Lillis Crosby, è un soprannome che si è meritato a 7 anni, quando era appassionato lettore dei fumetti “Bingville Bugle”. Appena terminati gli studi viene reclutato per il trio Rhythm Boys col quale gira il Paese per un paio d’anni e cresce artisticamente tanto da ricevere delle offerte di contratto da solista, che Bing rifiuta. Pare che durante i tour i tre giovanotti ne facessero di tutti i colori e Bing, in particolare, finì in galera per guida in stato di ebbrezza e perse il contratto da solista in “Il Re del Jazz” del 1930, e fu poi recuperato nell’esibizione del trio; ma alle sue intemperanze e alla dipendenza dall’alcol pare sia dovuto lo scioglimento dei Rhythm Boys allorché, a causa della sua irreperibilità, il gruppo non si presentò a un’importante esibizione. Ma come si dice: si chiude una porta e si apre un portone, e Bing Crosby da solista è diventato il più grande intrattenitore del XX secolo.

Anche Danny Kaye, al secolo David Daniel Kaminsky, all’epoca del film con i suoi 43 anni non era di primo pelo, ed era un già noto fantasista che si era fatto le ossa nel varietà e che si è imposto come personaggio eccentrico e assai singolare dotato di grande mimica, con un gusto per il nonsense che esibisce in molte sue filastrocche insieme a tic e mossette che diventano suoi tipici, sfoggiando anche un acrobatismo vocale che gli permette di imitare qualsiasi cosa: animali, strumenti e suoni vari. Con la sua aria perennemente in bilico fra il timido restio e l’avventuriero svagato, prese parte a molti film comici e brillanti, che vanno dal fiabesco al romanzesco al surreale. Nel 1955 ricevette l’Oscar alla carriera, insieme a Greta Garbo, e nel 1982 sempre nel corso delle premiazioni Oscar fu insignito del “Premio Umanitario Jean Hersholt” per il suo impegno con l’Unicef, di cui fu il primo ambasciatore nel mondo, a favore dei bambini poveri; e ancora per questo suo impegno ricevette nel 1986 la “Legion d’Onore” francese.

Rosemary Clooney, ebbene sì zia di George Clooney, ma anche madre del prematuramente scomparso Miguel Ferrer, primogenito che ebbe con il doppio marito José Ferrer che risposò dopo aver divorziato – ma all’epoca da quelle parti usava così, vedi Liz Taylor e Richard Burton. “White Christmas” fu il suo primo ruolo importante, in seguito al quale ebbe un suo programma tv, “The Rosemary Clooney Show” e poi vagò come cantante da un casa discografica all’altra, mentre al cinema non farà molto altro di importante. La sua carriera altalenante, nonostante l’indubbio talento, è probabilmente dovuta al disturbo bipolare di cui soffriva, aggravato dalla tragica perdita dell’amico John Fitzgerald Kennedy al cui assassinio assistette praticamente in diretta televisiva; questo trauma la segnò per il resto della vita tanto da renderla dipendente da medicinali stupefacenti. Morì di cancro a 72 anni nel 2001 e il nipote George ricordò come lo protesse a inizio carriera.

trudy stevens | The Heavy Petting Zoo
Trudy Stevens

Vera-Ellen, senza il cognome Westmeier Rohe, iniziò a danzare a 9 anni e ancora giovanissima divenne star del Radio City Music Hall di New York, approdando poi a Broadway e infine arrivò al cinema grazie al produttore Samuel Goldwyn, dove ballerà sul grande schermo con le grandi star maschili dell’epoca, da Frank Sinatra a Gene Kelly e il suo nome diverrà praticamente sinonimo di musical. “White Christmas” fu però il penultimo film di una carriera infelicemente breve a causa dell’anoressia di cui soffriva e della conseguente artrite che sviluppò, costringendola a ritirarsi dalle scene nel 1957. Oggi, purtroppo, eccezion fatta per i cultori del musical d’antan, è un nome praticamente dimenticato nonostante il suo grande talento. Pochi sanno che benché fosse un’eccellente ballerina Vera-Ellen non fosse altrettanto versata nel canto e in questo film i suoi interventi sonori sono doppiati dalla stessa Rosemary Clooney e, quando le due fanno coppia, da Trudy Stevens.

Altre curiosità sul film. I costumi di Vera-Ellen le coprono sempre il collo che mostrava non ben specificati segni del suo disturbo alimentare. La costumista Edith Head non è neanche menzionata nonostante il suo eccellente lavoro e, per il colmo, fu e ancora è la donna con più nomine e Oscar ricevuti, addirittura vincendone 2 nel 1951 perché erano ancora separate le categorie Film in bianco e nero e Film a colori, così lei vinse in B/N per “Eva contro Eva” e a colori per “Sansone e Dalila”. Danny Kaye non fu la prima scelta e prima di lui rifiutarono il ruolo Fred Astaire e Donald O’Connor. E per finire il critico del New York Times scrisse: “E’ un peccato che il film non centri l’obiettivo del divertimento tanto quanto i colori hanno invece colpito i nostri occhi.”

Nel numero da solista di Rosemary Clooney si nota nel quartetto dei boys un giovanissimo George Chakiris già in carriera a Hollywood e visto anche al fianco di Marilyn Monroe. Dopo questo film nel 1959 entrerà nel cast londinese di “West Side Story” e due anni dopo sarà anche nel film di Robert Wise e Jerome Robbins, per il quale vinse nella categoria Miglior Attore non Protagonista sia l’Oscar che il Golden Globe.

Official Website of Academy Award Winner George Chakiris

Anche lui non avrà nuove occasioni per bissare il successo di cui è stato protagonista. Nel 1996, 64enne, si ritira dalle scene e si reinventa come quotato disegnatore di gioielli.

Resistance – La Voce del Silenzio

Il cinema 2020 in epoca pandemia. Film che escono direttamente su piattaforme on line e in televisione ma a prezzi meno competitivi del cinema dove c’erano le giornate a metà prezzo, le giornate sconto donne, le riduzioni studenti e anziani, così che un film sul web o in tv, vedi Sky Prémière che offre a pagamento i film che avremmo dovuto vedere in sala, costa anche più che al cinema. Ma pandemia o no sembra questo il futuro che si delinea, comodamente seduti in casa propria, senza prendere freddo, mettersi nel traffico, trovare parcheggio, fare file, sopportare i maleducati o fare nuove conoscenze – socializzare. Che è quello che ormai accade per la musica: si clicca, si scarica o si ascolta in streaming e solo i collezionisti o i nostalgici vanno nei negozi a comprare i dischi o cd o dvd che dir si voglia.

Questa la sorte di questo interessante e curioso film. Uscito negli Stati Uniti a fine marzo contemporaneamente nelle sale e online, in piena pandemia, resiste nelle sale per due settimane piazzandosi al primo posto negli incassi, prima che i cinema vengano chiusi; da noi arriva a giugno direttamente on demand, e adesso a fine anno, consumato il suo percorso commerciale è ora in chiaro nel pacchetto Sky, mentre altri film dello stesso distributore, Vision Distribution, e in generale altri film on demand, sono ancora a pagamento perché più richiesti dal pubblico che, come sappiamo, non sempre premia la qualità.

No talking! Jesse Eisenberg on playing Marcel Marceau | Saturday Review |  The Times
Marcel Marceau e Jesse Eisenberg che lo interpreta

Il film non ha grandi star. Ha in Jesse Eisenberg un protagonista di gran qualità, arrivato alla notorietà come interprete di Mark Zuckerberg, padrone di Facebook e contorni, in “The Social Network” di David Fincher del 2010; Jesse Eisenberg (che per altro non ha un profilo Facebook) non è (ancora?) una star capace di fare cassetta – come si diceva una volta, quando si metteva il contante nel cassetto – e il film è un’opera corale, un film che ancora una volta parla di olocausto e contorni: ebrei, nazisti, persecuzioni, separazioni, abbandoni, perdite, nascondigli, espedienti, eroismi, fallimenti; argomenti sempre necessari da raccontare per tenere viva la memoria su quegli orrori, perché la società moderna ancora esprime nelle sue pieghe il nazi-fascismo; e sono altresì argomenti sempre graditi in America, seconda nazione dopo Israele a contare la popolazione ebraica più numerosa e influente, nazione che co-produce il film insieme a Francia, Regno Unito e Germania.

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Matthias Schweighöfer interpreta Klaus Barbie, nel riquadro

Coproduzione complessa se fra produttori (coloro che mettono o reperiscono i soldi) e produttori esecutivi (che amministrano i fondi e seguono tutte le fasi della produzione) si contano ben 23 individui, fra cui spicca il nome dell’attore tedesco Matthias Schweighöfer che interpreta il nazista Klaus Barbie, il Boia di Lione. Ci sono un paio di modi in cui un attore può co-produrre il film che interpreta: o mette i soldi, appunto, o lavora gratuitamente e la sua paga non goduta viene considerata come capitale produttivo; nello specifico non si sa com’è andata ma in ogni caso l’impegno dell’attore è notevole.

La storia racconta del giovane ebreo di origine polacca Marcel Mangel che vuole fare l’attore ma la guerra lo travolge. Modificando abilmente il cognome sul passaporto, che all’epoca erano scritti a mano, da Mangel in Marceau, insieme al fratello Alain e le sorelle Emma e Mila, con le quali formeranno anche delle coppie sentimentali, si uniscono alla resistenza con lo specifico compito di nascondere i bambini orfani ebrei. La sua empatia, e la sua simpatia, saranno molto utili alla causa ed è proprio in quel periodo che mette a punto gli elementi essenziali della sua pantomima, con l’espressione dei sentimenti e delle azioni nel forzato silenzio della clandestinità.

Jesse Eisenberg, ebreo praticante che parla anche il polacco, lingua originaria della sua famiglia, come il personaggio Marcel, è l’interprete ideale e aderisce con grande sensibilità. Nella coralità del film spiccano anche i francesi Clémence Poésy che è Emma, l’amore di Marcel, e l’attore di origine ebraica-tunisina Félix Moati che interpreta Alain, il fratello maggiore di Marcel; l’ungaro-slovacca Vica Kerekes è Mila, sorella di Emma e amore di Alain; l’ungherese Géza Röhrig, anch’egli ebreo praticante, è nel ruolo di Georges Loinger, cugino di Marcel e Alain e figura di spicco della resistenza francese, che prima di morire all’età di 108 anni nel 2018 ha aiutato l’autore del film con le sue ricerche; come portavoce dei bambini c’è Elsbeth, interpretata dall’adolescente inglese Bella Ramsey che ha debuttato nel televisivo “Trono di Spade” come Lyanna Mormont; l’austriaco Karl Markovics è il padre di Marcel e Alain; la tedesca Alicia von Rittberg interpreta Regina la moglie del nazista; e, in ruoli minori ma fondamentali, il venezuelano Édgar Ramírez, protagonista del precedente film dell’autore, e che ha anche interpretato Gianni Versace nella miniserie tv “American Crime Story 2” che ne ricostruisce il delitto, è qui il padre di Elsbeth nell’antefatto; mentre il veterano Ed Harris è il generale americano George Patton che rende onore all’arte e al coraggio del giovane Marcel Marceau.

Scrive e dirige il venezuelano Jonathan Jakubowicz, discendente da famiglia ebraico-polacca e scrittore di successo, qui al suo terzo film che ha già incassato il German Film Award e sicuramente lo vedremo agli Oscar 2021. Premiazione che per necessità si apre anche ai film non usciti in sala, “Ma solo per quest’anno.” avverte il presidente dell’Accademia David Rubin, perché sia chiaro che l’Oscar non può andare ai film prodotti solo per la distribuzione on demand, vedi le grosse produzioni Netflix che fa uscire i suoi film in sala per un breve periodo solo per aggirare il divieto e poter concorrere; “L’Accademia crede fermamente che non vi sia modo migliore per vivere la magia dei film che vederli in una sala cinematografica. Il nostro impegno in tal senso è invariato e costante.” continua Rubin: più chiaro di così. Anche io sono per la magia del buio in sala, ma restiamo a vedere cosa ci riserva il futuro. Intanto è certo il prossimo Oscar indosserà la mascherina sanitaria!

Pasqualino Settebellezze

Pasqualino Settebellezze anche lui ferito nell’onore come Mimì Metallurgico, dato che per difendere il suo onore finisce nei guai. Ma se Mimì salva il suo onore con uno sberleffo, Pasqualino l’onore non lo salva e lo perde ancor più, perdendo pure la libertà. Un film amaro, che dal grottesco che sposa il drammatico dei precedenti film, si fa di un grottesco livido venato di tragedia. Non ci sono più neanche i colori brillanti del capostipite dei successi di Lina W. e il film è polveroso, buio, tetro – e a ragione. Ancora tutto costruito sul talento istrionico di Giancarlo Giannini, per intere sequenze perde anche la parola tornando all’espressività del cinema muto, vedi la sequenza del processo tutta fatta di sguardi molto eloquenti, o quella di quando lui che deve disfarsi del cadavere e sono evidenti i richiami alle comiche d’antan.

Cosa è accaduto a Lina Wertmüller? Dopo il successo del 1972 ha battuto il ferro ben caldo sfornando un film l’anno: “Film d’amore e d’anarchia” nel ’73; “Tutto a posto e niente in ordine” film corale del ’74 senza Giannini, e forse anche per questo rimasto in secondo piano; sempre del ’74 un altro clamoroso successo che riunisce la coppia Giannini-Melato, terrone-milanese, proletario-borghese, film che nel 2002 ha avuto un infausto remake con Adriano Giannini figlio di, e Madonna, diretti dal marito di lei Guy Ritchie; Lina W. ha dichiarato di aver ceduto i diritti del film a Madonna per stima nei suoi confronti (tralasciamo il ritorno economico?) ma dopo il clamoroso flop del film ha dichiarato di aver commesso un errore, visto anche lo stravolgimento della trama in cui si perde lo scontro-confronto sociale e politico e diventa solo un’occasione per due differenti tipologie umane.

Pasqualino Settebellezze (1975) | FilmTV.it
Fernando Rey

Il 1975 è l’anno di “Pasqualino Settebellezze”. In questi pochi anni Lina W. ha creato un suo stile e, cosa ancora più ammirevole, ha fidelizzato una grossa fetta di pubblico, creandosi un seguito anche oltre oceano. In questo film per la prima volta ci sono nel cast degli stranieri: lo spagnolo Fernando Rey, portato al successo da Luis Buñuel e subito divenuto un caratterista di lusso nel cinema internazionale molto apprezzato anche per la sua professionalità; qui recita senza farsi doppiare, lui che ha iniziato la carriera da doppiatore ed è stato la voce spagnola di calibri come Tyrone Power e Laurence Olivier, e tratteggia un anarchico spagnolo che ha fallito vari attentati contro Hitler e Mussolini.

Shirley Stoler, come nazista e fuori scena

L’altra straniera è l’abbondante americana Shirley Stoler, anche lei senza doppiatrice, che interpreta la comandante del lager, una forzatura narrativa perché, benché ci siano state anche delle donne fra le SS che gestivano i lager, nessuna è mai arrivata al grado di comandante. C’erano le guardie, generalmente conosciute con il titolo di SS-Helferin (Aiutante Donna delle SS). Nella gerarchia nazista nessuna donna avrebbe potuto dare ordini ad un uomo poiché il rango di SS-Helferin era considerato al di sotto di tutte le cariche maschili, e le donne non erano riconosciute come membri ufficiali, ma solo come ausiliari e nessun campo di concentramento nazista fu mai affidato ad un comandante donna. La Stoler, che nel corso della sua vita è arrivata a pesare anche 250 kili, viene dal teatro sperimentale di La Mama e Living Theatre; i suoi ruoli più noti sono sono quelli in “Il Cacciatore” di Michael Cimino, 1978, e “Seven Beauties” come viene chiamato Settebellezze nel circuito statunitense.

Altri interpreti degni di nota. Elena Fiore, già in Mimì e qui sorella maggiore di Pasqualino che inguaiata dal fidanzato Totonno Diciotto Carati, che prima la mette a fare la sciantosa in una rivista di quart’ordine e poi direttamente a lavorare in un bordello, è causa di tutti i mali del protagonista, ‘nu ‘uappo detto settebellezze perché tiene sette sorelle, che proprio grandi bellezze non sono, ma sono belle ciacione e lo mantengono con la loro attività di materassaie; lui però racconta che lo dicono settebellezze per ironia all’incontrario, ché brutto com’è ha grande successo con le donne. Piero Di Iorio, poco cinema e molto teatro soprattutto con Luca Ronconi, interpreta l’altro disertore, insieme a Pasqualino, che finisce nel campo di concentramento.

Molto interessante la scelta della colonna sonora, apparentemente bizzarra ma lucidamente espressionista sin dall’inizio del film che si apre con filmati di repertorio, una stretta di mano fra Mussolini e Hitler e poi scene di guerra e distruzione, commentati dalla voce beffarda di Enzo jannacci in “Quelli che” e poi più avanti, seguendo Pasqualino nelle sue disavventure, canta “Tira a campà”: accostamenti fra immagini e canzoni anacronistici e in assoluto contrasto ma che proprio per questo sono una scelta forte e vincente. Su questo argomento Lina W. ha scritto: “Ho sempre pensato che la musica sia l’anima segreta di un film, in grado di suscitare con la sua forza misteriosa le emozioni dello spettatore, elevando il racconto per immagini in vera poesia.”

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Con questo film, grazie anche al campo di concentramento che sempre commuove gli americani – vedi l’Oscar a “la vita è bella” di Roberto Benigni – Lina Wertmüller mette a segno 4 candidature agli Oscar: Miglior film in lingua straniera, Miglior regia, Migliore attore e Migliore Sceneggiatura; nessuna candidatura va a segno: miglior film e miglior regia vanno a John G. Avildsen per “Rocky”, miglior attore fu Peter Finch per “Quinto Potere”, premio postumo dato che l’attore morì dopo il completamento del film; miglior sceneggiatura a Paddy Chayefsky sempre per “Quinto Potere”. Ma Lina W. si poté fregiare del titolo di prima regista, donna, e per giunta straniera, a ricevere una candidatura, dopo di lei verranno Jane Campion, Sofia Coppola e Kathryn Bigelow. Interrompendo il ritmo di un film l’anno ne impiega tre per il successivo, che data la notorietà negli Stati Uniti è ora una coproduzione: “La fine del mondo nel nostro solito letto in una notte piena di pioggia” con Candice Bergen accanto a Giannini, film che non ottenne lo sperato successo sia di qua che di là dell’oceano. L’incanto si è rotto, la fascinazione che aveva sul pubblico è sparita. Seguirà un solo altro film con Giannini, sempre nel 1978, “Fatto si sangue fra due uomini per causa di una vedova” con Mastroianni e la Loren, e poi un film tv nel 2002, “Francesca e Nunziata”, ancora con Sofia Loren. Per il resto sarà una regista che camperà di rendita sui successi degli anni d’oro 1972-75, tornerà alla televisione nobilitandola con i suoi film tv e sarà regista teatrale e d’opera.

Quando in un’intervista le è stato chiesto se avesse mai avuto difficoltà in quanto regista donna ha risposto : “Me ne sono infischiata. Sono andata dritta per la mia strada, scegliendo sempre di fare quello che mi piaceva. Ho avuto un carattere forte, fin da piccola. Sono stata addirittura cacciata da undici scuole. Sul set comandavo io. Devi importi. Gridavo e picchiavo. Ne sa qualcosa Luciano De Crescenzo durante le riprese di “Sabato, domenica e lunedì” con Sofia Loren. Non faceva altro che gesticolare con l’indice di una mano e così per farlo smettere gli “azzannai” il dito.” Nel 2019 le è stato conferito l’Oscar onorario con la motivazione: “Per il suo provocatorio scardinare con coraggio le regole politiche e sociali attraverso la sua arma preferita: la cinepresa”. Lei non è mai stata una regista femminista né una regista femminile nel senso di una sensibilità stilistica immediatamente riconoscibile, come è per Jane Campion o Sofia Coppola, tanto per restare nell’ambito delle registe nominate all’Oscar, pur con un accostamento sicuramente improprio; non ha mai lavorato dalla parte delle donne o fatto della sua influenza culturale un veicolo di quella parte, ma è stata regista senza connotazioni di genere, al di sopra delle parti e sempre politicamente schierata dalla parte del proletariato. Si può dire che i suoi migliori personaggi maschili sono lei. E’ stata anche accusata di anti femminismo dal movimento “Me Too” che si batte contro le molestie sessuali e la violenza sulle donne, per le scene in cui Giannini schiaffeggia la Melato in “Travolti…” ma è una lettura superficiale approssimativa e decontestualizzata che lascia il tempo che trova. Quando a 91 anni ha avuto in mano il suo Oscar, l’ha guardato e ha detto: Perché non chiamarlo Anna? invitando tutte le attrici in sala a pretendere un Oscar-Oscarina.

Giancarlo Giannini, intervistato da Huffpost dice di lei: Mi ha creato. Se non ci fosse stata lei, io non sarei qui e non avrei mai fatto quello che ho fatto nella mia carriera. E’ riuscita a trasformare ogni idea che aveva in un grande divertimento ed è sempre stato un piacere lavorarci insieme e confrontarsi sugli argomenti più disparati. Per me è stata tutto.”

Mimì metallurgico ferito nell’onore

1972. Con questo successo di pubblico e critica comincia il fruttuoso sodalizio, che li porterà all’Oscar, tra la sceneggiatrice regista Lina Wertmüller e Giancarlo Giannini, insieme a Mariangela Melato.

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Maria Signorelli con i suoi burattini

Lina – all’anagrafe Arcangela Felice Assunta Wertmüller von Elgg Spanol von Braueich, romanissima, figlia di un potentino, con un cognome che le arriva da lontane radici aristocratiche elvetiche – viene dall’accademia teatrale del russo italianizzato Pietro Sharoff e poi, per alcuni anni, sarà animatrice e regista del teatro dei burattini di Maria Signorelli; un’impronta, questa dei burattini, che segnerà il suo stile sempre intriso di una visione grottesca della vita in cui i suoi personaggi si muovono, agiscono e parlano, come burattini: più maschere che personaggi realistici, più rappresentazione di un tipo in senso assoluto che tipi di complessa umanità. Farà anche teatro, radio e televisione dove debutterà nel 1964 come co-sceneggiatrice e regista di “Il giornalino di Gian Burrasca” con Rita Pavone, che fra l’altro lancerà la canzone “Viva la pappa col pomodoro” parole della Wertmüller e musica di Nino Rota.

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Nel cinema sarà aiuto di Federico Fellini (“La dolce vita” e “8 1/2”) e debutta come regista cinematografica nel 1963 con “I basilischi”, un ritratto di accidiosi giovani di provincia, molto ispirato a “I vitelloni” del maestro, che se non le vale l’attenzione del pubblico attira però l’interesse della critica: premiata al Festival di Locarno e poi anche a Taormina e Londra. Dirigerà di nuovo Rita Pavone in “Rita la zanzara” e “Non stuzzicate la zanzara” e poi lo spaghetti-western con Elsa Martinelli “Il mio corpo per un poker” nascondendosi sotto lo pseudonimo Nathan Witch. Nel 1972 la svolta con “Mimì metallurgico” che le frutta la nomination Palma d’Oro al Festival di Cannes e consacra Giannini e la Melato: David di Donatello a lui e David speciale a lei, Nastri d’Argento e Globo d’Oro a entrambi come rivelazioni, e Grolla d’Oro solo per lui.

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Giancarlo Giannini e Mariangela Melato, Mimì e Fiore, con i coloratissimi maglioni che lei fa e vende. Nei titoli: i costumi della Sig.na Melato sono di Enrico Job. Che è scenografo e marito di Lina Wertmüller.

Il film inaugura la felicissima accoppiata Giannini-Melato benché il protagonista sia solo lui, che interpreta il catanese Carmelo Mardocheo, diviso fra tre donne: la moglie Rosalia, la concubina milanese Fiore e l’amante napoletana Amalia. la storia, una commedia grottesca in cui i personaggi sono, come detto, delle marionette, o delle macchiette cinematograficamente parlando, si regge tutta sull’espressività dello spezzino cresciuto napoletano Giancarlo Giannini.

Mimì Metallurgico | ciaksicilia
Giannini con Agostina Belli con una folta parrucca nera che la rende quasi irriconoscibile

La sceneggiatura, brillante, accattivante, parte da una Catania grottesca dove si parlano ben tre dialetti: quello autoctono dei caratteristi locali, quello stilizzato e teatrale del prim’attore Turi Ferro che mette a servizio la sua maschera per interpretare diversi ruoli di mafiosi, tutti imparentati fra loro, tutti riconoscibili da tre nei a triangolo sulla guancia destra, simboleggianti il triangolo della Sicilia: riuscito simbolo della tentacolare mafia che insegue dovunque il povero protagonista. Il terzo dialetto è quello che io, da catanese, chiamo sicilianese, un dialetto costruito al cinema da autori e attori che siciliani non sono, finto e inesistente, quanto urticante per le orecchie sicule doc.

MIMÌ METALLURGICO FERITO NELL'ONORE movie seduction scenes |  re-edit/rescore – serenagiannini
Giannini stretto fra le braccia di Elena Fiore

Purtroppo Giannini parla il catanese che gli è stato scritto come meglio può, e non è il solo dato che gli fa da spalla come amico comunista il torinese Luigi Diberti. Così sul piano linguistico la sceneggiatura fa acqua da tutte le parti ed è evidente che Lina non si è preoccupata più di tanto della credibilità, del resto la sua è una commedia grottesca. La catanese moglie di Mimì si chiama Rosalia e tutti i catanesi sanno che nessuna catanese si chiama Rosalia, dato che Santa Rosalia è la protettrice di Palermo mentre la protettrice di Catania è Sant’Agata e a Catania ci sono (c’erano, a dire il vero) tante Agata. Mimì, ferito nell’onore, si preoccupa che possa passare per frocio e ricchione, termini romano e napoletano, ma tutti sanno che a Catania si dice puppu e jarrusu. E lo stesso Mimì, zittendo la napoletana Amalia si lascia scappare un napoletanissimo statte szitta! Per il resto il film è un intelligente affresco di fatti sociali dell’epoca, alcuni mai debellati: la mafia appunto, il voto di scambio, l’emigrazione interna di lavoratori da sud a nord, il caporalato, le manifestazioni e le contestazioni, il tutto filtrato attraverso il colorato caleidoscopio di Lina Wertmüller che si farà stile personale.

DAVID COPPERFIELD sceneggiato RAI di grande successo del 1965
Giancarlo Giannini con Anna Maria Guarnieri in “David Copperfield”

Giancarlo Giannini aveva raggiunto la popolarità nel 1965 col televisivo “David Copperfield”, regia di Anton Giulio Majano che nel 1971 lo dirigerà di nuovo in “E le stelle stanno a guardare”. Il suo incontro con Lina W. è dovuto grazie ai due musicarelli con Rita Pavone la Zanzara, ma sul grande schermo si impone nel 1970 con “Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca)” di Ettore Scola, nel quale mette a punto il personaggio dell’operaio fulminato e instabile che tornerà a interpretare molte volte, soprattutto con Lina W.

Fuori Cinema | Film in TV (ma da vedere) _ lunedì 30 marzo | Il Cinema  Ritrovato Festival
Mariangela Melato con Massimo Foschi in “Orlando Furioso” di Luca Ronconi

Mariangela Melato ha studiato pittura all’accademia di Brera e poi ha lavorato come vetrinista alla Rinascente per pagarsi le lezioni di recitazione. Raggiunge la fama interpretando Olimpia nel grandioso “Orlando Furioso” allestito da Luca Ronconi. Al cinema riceve la consacrazione con “La classe operaia va in paradiso” del 1971 col quale vince da protagonista il Nastro d’Argento e il David speciale cumulativo dei due film, La Classe Operaio e Mimì Metallurgico. Anche lei come Giannini avrà un successo internazionale e negli ultimi anni tornerà signora del teatro. Muore 71enne nel 2013 per un tumore al pancreas.

Agostina Belli con Alessandro Momo

Anche Agostina Belli aveva lavorato alla Rinascente di Milano, ma come segretaria negli uffici, e chissà se si erano mai incontrate con Mariangela Melato. Grazie alla sua indubbia bellezza ottiene delle particine nei musicarelli in voga all’epoca, e in alcuni polizieschi; ma il primo ruolo con cui riesce a farsi davvero notare è questo di Rosalia moglie di Mimì. Il ruolo migliore della sua carriera arriverà nel 1974 con “Profumo di donna” di Dino Risi, dove recita con Vittorio Gassman (che non le renderà facile l’impegno) e la giovane rivelazione Alessandro Momo che morì quasi 18enne in un incidente motociclistico alla fine delle riprese; per questa interpretazione verrà insignita del Globo d’Oro alla migliore attrice rivelazione, e in seguito riceverà molte proposte di cinema di qualità che declinerà tutte, preferendo una carriera più facile nella commedia all’italiana e nelle commedie sexy, forse consapevole dei suoi limiti: infatti la sua voce è stata sempre doppiata da altre attrici professioniste, pratica che all’epoca era ordinaria.

Mimì metallurgico ferito nell'onore | Giffetteria

La caratterista napoletana Elena Fiore, qui in un grottesco nudo sicuramente con controfigura, è la terza donna di Mimì, non desiderata ma voluta per ragioni d’onore. Lavorerà ancora con la regista e Giannini in “Film d’amore e d’anarchia” e “Pasqualino Settebellezze”. L’ultimo film in cui ha lavorato è “Il Marchese del Grillo” del 1981. Oggi è 92enne e non si hanno più sue notizie.

Tuccio Musumeci con Giancarlo Giannini

Anche Luigi Diberti, qui nel ruolo dell’amico Pippino, viene dal teatro e il suo primo ruolo importante è quello di Ruggero, ancora nell’ “Orlando Furioso” di Ronconi. Con ruoli da comprimario e caratterista avrà una lunga carriera equamente divisa fra teatro cinema e tv. L’altro amico di Mimì è l’integerrimo, in senso mafioso, Pasquale, interpretato dal caratterista etneo Tuccio Musumeci, oggi ottantenne primattore del teatro catanese. Un film importante questo Mimì, per la regista e per gli interpreti, e anche per la cinematografia italiana dove irromperà questo genere nuovo di commedia amara, venata di grottesco, e in cui non manca l’impegno sociale, che si pone a metà strada, e sempre in bilico, fra la commedia all’italiana e il cinema politico, in un’Italia vittima del terrorismo. Film di quello stesso anno sono “Il caso Mattei” di Francesco Rosi, “Il caso Pisciotta” di Eriprando Visconti e “Nel nome del padre” di Marco Bellocchio. Ma anche “Roma” di Fellini e poi tanti polizieschi e tutta una serie di Decameroni e di Canterbury e fimetti sexy al limite della pornografia. Erano anni di piombo e almeno al cinema ci si voleva divertire.