Archivio mensile:settembre 2020

Robocop, 1987-2014

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E’ divertente rivedere in tv uno di seguito all’altro i due Robocop, l’originale del 1987 e il remake del 2014. Del primo confermo le antiche epidermiche impressioni: la traccia ironica che toglieva drammaticità al film, con i cattivi – sia gli esempi di delinquenza urbana che quelli in primo piano – un po’ grotteschi e sopra le righe; per carità, è lo stile del film e risulta equilibrato, ma all’epoca venendo da esperienze cinematografiche come “Blade Runner” e “Terminator” mi lasciò un po’ deluso, e oggi confermo quell’impressione; l’altro mio dubbio era: come fa a entrare in auto con quell’armatura, e soprattutto come fa a e gestirne i pedali con quei piedoni d’acciaio? trovavo che fosse una leggerezza narrativa non da poco. Oggi la cronaca conferma il mio dubbio: quando Robocop è seduto dentro l’auto l’attore indossa solo la parte superiore e generalmente veniva filmato nell’azione di salire o scendere dalla vettura per potere inquadrare l’intera armatura. Detto questo il film regge bene i suoi 33 anni nonostante la visione avveniristica della tecnologia risulti obsoleta: è ambientato nel 2027, a pochi anni dal nostro presente, e a parte un tracciatore di movimento che somiglia a uno smartphone c’è il solito ambaradan di macchinari e cavi buoni per tutte le stagioni.

Il plot fu scritto quasi di getto da un oscuro dirigente della Universal nonché appassionato di fantascienza, Edward Neumeier; le cronache narrano che insieme a un amico vide un manifesto di “Blade Runner” e chiese cosa fosse; parla di un poliziotto che dà la caccia ai robot, gli spiegò l’amico, e a lui venne in mente la sintesi: creare un poliziotto robot. La sceneggiatura fu però rifiutata da tutti i maggiori registi del momento, così venne offerta all’europeo del momento, l’olandese Paul Verhoeven, già noto negli States per la candidatura all’Oscar del suo secondo film, “Fiore di carne”, debutto sul grande schermo di Rutger Hauer; ma è con “Spetters” del 1980 e “Il quarto uomo” del 1984, che diviene familiare al grande pubblico internazionale, definendo la sua cinematografia col binomio sesso e violenza, filmando in “Spetters” delle scene gay – criticatissime dalla comunità – con violenza sessuale ed erezione in bella vista e poi un pompino dal vero. Prima di lui avevano azzardato, a mia memoria, solo il giapponese Nagisa Ōshima nel 1976 in “L’impero dei sensi”, un film sensuale a tutto tondo, e Liliana Cavani in “Al di là del bene de del male”, l’anno dopo, con una fugace scena di voyerismo sempre su una fellatio omosessuale.

Dunque Paul Verhoeven con “Robocop” dirige il suo primo film americano e andrà talmente bene da diventare uno dei registi di successo al botteghino, basta ricordare “Basic Instinct” in cui spinge una poco riluttante Sharon Stone ad scavallare le gambe senza mutandine. Si vede la sua mano nella ricerca delle location, spettacolari e fatiscenti, e in pochi passaggi di grande finezza narrativa: quando Robocop si toglie la maschera e per la prima volta si specchia, ulteriormente deformato, in un pezzo di latta traslucida. Un altro europeo, la star Arnold Schwarzenegger, era stato scelto come protagonista ma l’olandese si oppose perché temeva, non a torto, che il fisico imponente dell’ex culturista austriaco avrebbe sviluppato un’armatura davvero fuori misura e poco gestibile nella pratica. Schwarzenegger non se la prese e un paio d’anni dopo lo volle alla regia di “Atto di forza”.

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Viene scelto il più minuto Peter Weller, qui al suo primo ruolo di protagonista assoluto, ma l’attore comincia a lamentarsi per il costume, 20 kg di lattice e alluminio che lo facevano sudare così tanto da fargli perdere 1 chilo al giorno. Regista e produzioni erano talmente stanchi dei “capricci” dell’attore che contattarono Lance Henriksen per sostituirlo, attore di origini norvegesi per cui il regista James Cameron aveva scritto il ruolo di “Terminator”, tanto da presentarsi con lui nel costume del personaggio alla riunione con i produttori… che però gli preferirono Schwarzenegger proprio per la mole. Henriksen, che rimarrà noto come l’androide Bishop nella saga di “Alien”, era però impegnato e la produzione allora si riaccordò con Peter Weller facendogli installare all’interno del costume un condizionatore. E comunque, l’attore, dopo interminabili discussioni con produzione e regia, ebbe carta bianca sullo sviluppo del costume e sui suoi movimenti, che sceneggiatura e regia immaginavano più fluidi e veloci ma che si dovettero adattare alla reale possibilità che il costume consentiva. Una curiosità: la scena in cui Robocop afferra al volo le chiavi della macchina venne girata una cinquantina di volte perché le chiavi rimbalzavano sul guanto di gomma. Il film ebbe due seguiti di minor successo ma impresse Robocop nell’immaginario collettivo, tanto da divenire un marchio assai redditizio ispirando fumetti, videogiochi e 4 serie tv. E’ notizia recente che lo sceneggiatore Neumeier sta lavorando a una serie tv prequel di Robocop senza Robocop, incentrata sulle origini di Dick Jones, qui interpretato da Ronny Cox, capo della divisione sicurezza della OCP, la potentissima multinazionale Omni Consumer Product che ha privatizzato il dipartimento di polizia e ne gestisce le risorse: la nascita di un cattivo che non sa ancora di esserlo. Al fianco del protagonista un’attrice molto attiva in quegli anni, Nancy Allen, che deve la sua fama al suo primo marito, il regista Brian De Palma, che la diresse in vari film a cominciare da “Carrie, lo sguardo di Satana”.

Passiamo al remake del 2014 che ambienta l’azione sempre a Detroit ma un anno dopo dell’originale, nel 2028. Rimane simbolica la conferma di Detroit, scelta dello sceneggiatore originario che qui torna a mettere mano allo script, in quanto una metropoli in declino, proprio dalla fine degli anni ’70, quando chiusero gli stabilimenti della Chrysler e della General Motors e la città si trovò a fare i conti con la disoccupazione e una crescente criminalità da disagio sociale. Ma la OmniCorp, – già Omni Consumer Product – con sede in Cina, è leader mondiale nella costruzione di robot da combattimento largamente impiegati negli scenari di guerra in Medio Oriente, che così anche nel 2028 saranno attivi secondo i cineasti americani, e come nell’originale prende il via la narrazione con la multinazionale che vuole aggirare il divieto su suolo statunitense dell’impiego di robot armati. In questo film vengono colmate due lacune: la presenza più concreta della famiglia del poliziotto, che continua a chiamarsi Alex Murphy, e la figura dello scienziato più o meno pazzo che crea il robocop e che nel primo film mancava totalmente, lasciando la creazione dell’uomo cibernetico ai visionari creativi della OCP. Cambiano i cattivi, l’intrigo si politicizza, i doppiogiochisti salgono di grado e, finalmente, il clima del film perde l’alone ironico e grottesco, persino splatter, e si fa ancora più drammaticamente teso. Il colpo di genio è stato sviluppare il personaggio del commentatore televisivo, che nell’originale era un’onesta coppia di telecronisti che fra una pubblicità e l’altra commentavano le gesta del cyber eroe, e qui diventa un ambiguo manovratore di consensi interpretato da un Samuel L. Jackson che ammicca strabuzzando gli occhi e racchiude nel suo personaggio, che apre e chiude il film, tutta l’inquietante pericolosità di certi commentatori televisivi.

Anche per la regia di questo remake si guarda all’estero e viene assunto il brasiliano José Padilha forte del dittico “Tropa de Elite” Orso d’Oro a Berlino nel 2008 e grande successo anche sul territorio statunitense. Per il protagonista si fecero i nomi di Tom Cruise, Johnny Depp, Keanu Reeves, Chris Pine, Michael Fassebender e un Russell Crowe ormai fuori ruolo per il suo fisico sempre più appesantito. Infine la parte è andata allo svedese naturalizzato americano, dopo il successo della serie tv “Killing”, Joel Kinnaman. Il cattivo, il CEO della Omni Corp, è Michael Keaton mentre il Dr Norton “papà” di robocop è Gary Oldman; Abbie Cornish è l’apprensiva moglie e il ragazzo John Paul Ruttan, che interpreta il loro figlio, si aggiudica l’unico premio andato al film: il Young Artist Award. Il film è drammaticamente denso, più “credibile” nella sua fascia di film “fantasy”, colto nei suoi riferimenti a figure reali di filosofi e sviluppatori di intelligenza artificiale – ma non diventa un film memorabile. Sarà perché gli spettatori sopra gli anta continuano ad amare l’originale e non sentivano il bisogno di un remake, e perché gli spettatori più giovani, senza memoria dell’originale, hanno però visto al cinema molto di più in termini fantasy, e un robocop che a malapena compie un salto non può affascinare più di un supereroe: considerato che il film è del 2014 e siamo nel 2020 è assai probabile che stavolta non ci saranno sequel. Però nel centro Detroit sarà presto installata una statua in bronzo di tre metri, opera di Giorgio Gikas, che riproduce il Robocop che ha immaginato per la città un futuro migliore.

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Cinecittà Babilonia: sesso, droga e camicie nere

Un documentario che gli appassionati di cinema non possono perdere. Passato a suo tempo su Rai1 è oggi disponibile su Sky, è l’ennesima prova filmica del giornalista critico cinematografico Marco Spagnoli, attento ricercatore, che ha già all’attivo “Hollywood sul Tevere” e biografie di Anna Magnani e Giuliano Montaldo. Qui mette per la prima volta insieme filmati d’archivio dell’Istituto Luce e del Centro Sperimentale di Cinematografia, aprendo il film con l’inaugurazione di Cinecittà voluta da Benito Mussolini.

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Ma cos’era il cinema italiano prima di Cinecittà? C’era stato il glorioso periodo del cinema muto, con la prima società di produzione italiana, la Alberini & Santoni fondata a Roma nel 1905, che realizzò il primo film italiano a soggetto: “La presa di Roma”, girato per celebrare il 35° anniversario dell’ingresso delle truppe italiane nella futura capitale dello Stato unitario. Con l’arrivo di nuovi finanziatori, l’anno dopo, la Alberini & Santoni si trasforma nella Cines, che fu una delle più importanti società di produzione, che realizzava in proprio la pellicola vergine, e che per colpa di quella pellicola, altamente infiammabile, subì un primo incendio nel 1907 e un secondo, definitivo per le sorti della casa, nel 1935.

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Bisogna ricordare che l’epoca del muto fu gloriosa per le produzioni italiane, con il primo kolossal che divenne il più famoso nel mondo, “Cabiria – Visione storica del terzo secolo a.C.” dell’inusitata durata di quasi tre ore, regia di Giovanni Pastrone e didascalie di Gabriele D’Annunzio alla ricerca di soldi facili; che rimase in cartellone a New York per dieci mesi e fu il primo film ad essere proiettato alla Casa Bianca del poco noto presidente William Howard Taft; la pellicola, come si chiamava allora, ma anche la film, fu prodotta dalla Itala Film Torino, e il capoluogo piemontese era all’epoca una delle città in cui si producevano più film, insieme a Roma, Milano e Napoli; ma si produceva anche a Genova, Brescia, l’Aquila, Sanremo, Firenze, Venezia, Cagliari, in pratica si facevano film in tutta Italia, e in quanto siciliano devo ricordare Palermo con la Astrale Film e la Lucarelli Film, Catania che schierava Etna Film, Jonio Film, Sicula Film, Trinacria Film e Katana Film, senza dimenticare la Cephaledia Film di Cefalù, Messina.

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Vittorio Mussolini

Negli Anni Venti questa produzione diffusa entrò in crisi, surclassata dal cinema espressionista tedesco e, non è storia nuova, da quello americano che produceva i colossal di D. W. Griffith e le comiche di Buster Keaton e Charlie Chaplin. Per fronteggiare questo disastro, il capo del governo Benito Mussolini varò nel 1931 una legge che penalizzava le importazioni per stimolare la produzione nazionale, ma fu con il definitivo incendio della Cines che il progetto di Cinecittà prese il via. Mussolini, che amava il cinema e ben ne prefigurava le potenzialità propagandistiche, aveva un valido braccio destro nel suo secondogenito Vittorio, il quale aveva trasformato la sua giovanile passione per il cinema in una vera professione, apparentemente scevra dalla visione politica del padre; nel 1937 era volato negli Stati Uniti, nella fascinosa Hollywood, per allacciare rapporti commerciali con le major; ma per il nome che portava fu accolto con ostilità, un’ostilità che lo stupì e addolorò, data la sincerità della sua passione per il cinema, e ignorando il fatto che suo padre stava in quei giorni costituendo con Adolf Hitler l’Asse Roma-Berlino per sostenere Francisco Franco nella presa della Spagna – o forse aveva ritenuto che una cosa sarebbe rimasta disgiunta dall’altra. Nonostante l’infelice trasferta americana continuò ad ammirare quel sistema produttivo e aveva scritto in un intervento sulla gloriosa rivista “Cinema”: “Per la nostra cinematografia seguire la scuola americana può dir molto; non accodiamoci al cinema europeo di oggi.” Dirigerà poi quella rivista dal 1938 al 1943 e sarà anche sceneggiatore e produttore con lo pseudonimo anagrammatico di Tito Silvio Mursino.

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Ma torniamo a Cinecittà. Tale Carlo Roncoroni, deputato della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, aveva dapprima acquistato gli studi della funzionante Cines che, come detto, vennero definitivamente distrutti da un incendio nel 1935, e rimangono i dubbi sulla reale natura dell’incendio. Sta di fatto che Roncoroni, grazie a un generosissimo contributo di 4 milioni di lire del Ministero delle Finanze, aveva preventivamente acquistato a sud della città, lungo la via Tuscolana, in piena campagna, un’area di circa 600mila metri quadrati dove, guarda caso, fu decisa la realizzazione della nuova città del cinema con tutte le modernità tecniche e i conseguenti nuovi metodi produttivi appresi a Hollywood e per fare concorrenza a Hollywood. Il 30 gennaio del 1936 fu posta la prima pietra e già quindici mesi dopo, il 28 aprile del ’37, Cinecittà fu inaugurata.

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Si inaugura così la cosiddetta epoca cinematografica “dei telefoni bianchi” quando l’oggetto comune nelle case comuni, seppur benestanti borghesi, era fatto di nera bakelite: il telefono bianco è dunque sinonimo di un’altra società, più alta società, socialmente e geograficamente non ben definita, dove venivano raccontati commedie e drammi sentimentali in stile feuilleton, romanzi d’appendice, atti a far sognare le masse con quelle messinscena scintillanti quanto inesistenti: la guerra è vicina. Quelle storie, dette anche “commedia all’ungherese” per via delle trame che spesso erano tratte dalla letteratura, allora in voga, di quel paese, erano comunque ambientate genericamente nell’Est Europa dato che trattavano argomenti come tradimenti e divorzi che non potevano essere veicolati come comportamenti italici. E va detto che la censura fu in quel periodo assai blanda dato che gli autori si auto censuravano, preventivamente e compiacentemente. Divi di quel cinema, ispirato principalmente alle commedie glamour dell’americano Frank Capra (nato Francesco Rosario Capra a Bisaquino, periferia di Palermo), furono principalmente Rossano Brazzi, Gino Cervi, Vittorio De Sica, Amedeo Nazzari, come protagonisti di un cinema storicamente e necessariamente maschilista. L’intento di questo documentario è rendere omaggio alla bellezza e al talento, e qualche volta al coraggio, della controparte femminile, una serie di dive oggi ingiustamente dimenticate per quel loro essere state protagoniste di un cinema maschile e misogino. Con questo intento l’autore immagina delle testimonianze dirette delle varie Clara Calamai, Maria Denis, Elsa De Giorgi, Carla Del Poggio, Doris Duranti, Luisa Ferida, Isa Miranda, Alida Valli, facendole interpretare alle allieve del Centro Sperimentale di Cinematografia, vestite da Maurizio Millenotti con i costumi Tirelli, e truccate dal premio Oscar Manlio Rocchetti appena prima della sua scomparsa. E questa parte fiction è la più debole del film, perché per fare fiction bisogna prima saperla scrivere e poi saper dirigere gli interpreti: Marco Spagnoli confeziona per le ragazze dei monologhi che mettono insieme reali testimonianze imbastite in una narrazione dallo stile che rimane giornalistico, con eccesso di verbi e avverbi, e ognuna delle interpreti con quel materiale fa quel che può, qualcuna facendo meglio, altre facendo del loro meglio. La voce narrante è quella di Vinicio Marchioni, il Freddo della serie tv “Romanzo Criminale”, da cui proviene l’altra voce, Alessadro Roja (il Dandi), che dà il suo timbro troppo giovanile e la sua dizione da rivedere a scuola, a Vittorio Mussolini.

In chiusura voglio ricordare che di quella schiera di attrici che il documentario omaggia, quelle che ebbero una carriera duratura, fino alla vecchiaia, furono Elsa Merlini, nata nell’austro-ungarica Trieste come Elsa Tscheliesnig, che forte di una carriera teatrale, e anche come cantante, non si lascia coinvolgere dal sistema cine-fascio e torna al palcoscenico per poi approdare alla televisione.

L’altra diva dalla lunga carriera fu la statuaria e bellissima Alida Valli, nata nell’italica Pola oggi in Croazia come Alida Maria Altenburger von Marckenstein und Frauenberg: antifascista, esce allo scoperto nel 1943 rifiutando di trasferirsi nella Repubblica di Salò per continuare la carriera nei film di propaganda, e rimane a Roma nascondendosi alle retate. Alla fine della guerra si trasferisce a Hollywood su invito per del produttore David O. Selznick che voleva lanciarla come la Ingrid Bergman italiana; ma dopo pochi film, fra cui “Il Caso Paradine” di Hitchcock, non sopportando le regole imposte dal produttore rescisse il contratto pagando una forte penale. Negli ultimi anni si darà al teatro.