Archivio mensile:agosto 2020

Picciridda, con i piedi nella sabbia

Un’altra opera prima cinematografica che viene da un’altra opera prima letteraria del 2006, romanzo di Catena Fiorello, che seguendo il percorso dei fratelli Rosario e Beppe nel bel mondo dello spettacolo, ha sperimentato in tv come autrice e conduttrice e ora sembra felicemente avviata al mestiere di scrittrice. Un romanzo siciliano, fatto di memorie non necessariamente personali ma certo intriso di storie e spunti e umori che da qualche parte sono germogliati come veri, intorno a lei. Non ho letto il romanzo ma essendo coetaneo – di pochi anni più grande – di Catena Fiorello, e come lei provenendo dalla classe operaria, riconosco il sapore dell’epoca in cui colloca la sua storia, gli anni Sessanta, la gente che racconta, le storie taciute, i rancori cupi e un orgoglio che ferocemente difende il “proprio”: la famiglia, la casa, l’onore; gente così presa a difendere i propri ristretti confini, che alla famiglia e alla casa e all’onore resta estraneo il concetto di patria, così sentito altrove, una patria che in realtà è patrigna e dalla quale bisogna emigrare per potere immaginare un futuro.

Proprio con una straziante scena di distacco si apre il film, con la preadolescente Lucia, a picciridda, che si dispera per la partenza dei suoi: verso la Germania nel romanzo, per la Francia nel film, dovendo assecondare esigenze di coproduzione. Fra romanzo e film c’è un’altra dislocazione: nel romanzo la storia si colloca nell’immaginario Leto, villaggio di pescatori lungo la costa fra Catania e Messina, nel film il set è Favignana, sul lato opposto della Sicilia, di fronte a Trapani: un’isola lontana dall’Isola madre, scelta felice che dà pienamente il senso di distanza e di estraneità; una terra aspra che vive di mare e di un arido entroterra, e che pure regala scorci e panorami da cartolina.

La picciridda resta affidata alla dura nonna paterna, la “generala” come la definisce l’inviso cognato, una donna come ce ne sono, o ce ne sono state, in ogni famiglia siciliana, anche borghesi o nobili: indurite dalla vita, di stenti materiali o morali, e che conoscono solo il linguaggio della negazione: tutto è proibito perché tutto è pericoloso, e soprattutto è un pericolo non immediatamente riconoscibile, specie a 11 anni. La sceneggiatura, curata dalla stessa autrice insieme al regista, ha preso la volata con l’apporto di Ugo Chiti, che ha asciugato le ridondanze del racconto e soprattutto i dialoghi, creando i magistrali personaggi della nonna e della sua disconosciuta sorella: una faida antica e dolorosa che resta come sottotraccia e spina dorsale di tutto il racconto; personaggi che si esprimono più con gli occhi che con le parole, essenziali e diretti allo stesso tempo, molto cinematografici e davvero credibili sul piano naturalistico del racconto di un’umanità complessa e portatrice di dolori avvitati su se stessi. Il regista Paolo Licata, raccontando la sua avventura, conferma la scelta di privilegiare il naturalismo e cerca uno stile proprio nei tanti dettagli inquadrati in primissimo piano, nelle soggettive della piccirdda che si aprono a improvvisi campi lunghi: uno stile preciso che però non si imprime con lampi di genio autorale.

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Mi torna in mente il folgorante debutto di un altro siciliano (di studi e cultura americana), Emanuele Crialese, che dopo il lungometraggio d’esordio, “Once we were strangers” sugli immigrati di New York, e che qui in Italia nessuno ha visto, ha sorpreso la critica e conquistato il pubblico con “Respiro”, 2002, girato su un’altra isola, Lampedusa, e ha poi continuato la sua filmografia in ascesa con “Nuovomondo”, 2006, sugli emigranti siciliani e “Terraferma”, 2011, sugli immigranti africani che continuiamo a definire clandestini anche solo per pigrizia intellettuale. Un regista con una visione precisa che nel 2014 gli è valso il Premio Nazionale Cultura della Pace con questa motivazione: “Per aver mostrato attraverso le sue opere, i suoi film e i suoi racconti, un’umanità in viaggio, alla ricerca di un luogo di vita dignitoso, dove poter esprimere il proprio desiderio di appartenenza al consesso umano ed il proprio progetto vitale. Mostra un’umanità attenta ad affermare, con forza, il proprio essere nel mondo, a manifestare, con semplicità e chiarezza, la cittadinanza mondiale di ogni uomo, al di là di confini e frontiere artificiosamente costruiti. La dignità non ha carta d’identità o passaporto che possa negare il diritto di ognuno all’esistenza.” Da allora Emanuele Crialese purtroppo tace.

Un altro dei meriti del film di Paolo Licata è un cast senza compromessi fatto tutto di siciliani, volti giusti al posto giusto, che parlano un credibile dialetto, benché addomesticato da un forbito italiano in sottotraccia. La Picciridda è la debuttante palermitana Marta Castiglia, che sorprendentemente parla un siciliano appreso dai coach, per l’occasione, dato che appartenendo alla borghesia non lo conosceva, e il risultato è un’interpretazione assai convincente. L’altra protagonista, Lucia Sardo, si trova servito un personaggio molto ben scritto, al quale presta silenzi e sguardi traversi in un’interpretazione che ogni nostra mamma o nonna esprime ogni giorno, ma che nella particolarità dell’opera cinematografica guadagna all’interprete la candidatura ai Nastri d’Argento.

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Ileana

Stessa scrittura per la sorella antagonista, molti sguardi e poche parole, nell’ultima interpretazione di Ileana Rigano, scomparsa lo scorso primo giugno per complicazioni post operatorie. Un’interpretazione assai sofferente, quella di Ileana, che tratteggia con grazia una donna perdente e perduta nella scelta che ha compiuto in passato e che l’ha allontanata dall’indurita sorella. Chiamo Ileana per nome perché era una collega di teatro, e al Teatro Stabile di Catania ha trascorso la sua vita artistica, e non posso che ricordarla come una donna e una compagna di lavoro discreta e sempre in linea, che in questa sua ultima interpretazione ha davvero dato il meglio, e non sorprende, e rammarica.

Completano il cast Claudio Collovà, come suo marito, Tania Bambaci come madre di Lucia, Federica Sarno come Lucia adulta, Loredana Marino come zia che sta in mezzo al dramma familiare, Katia Greco come cugina sedotta e abbandonata, Ludovico Vitrano è il tristo seduttore e la di lui moglie è Valentina Ferrante, collega teatrale molto attiva anche nella drammaturgia, che si diverte a definire con poche pennellate una moglie ilare, sorridente inconsapevole cornuta.

Il film è uscito nelle sale il 5 marzo di quest’infausto 2020 e ha fatto appena in tempo a raccogliere buoni incassi finché la chiusura di tutte le attività non indispensabili lo ha messo nel limbo. Oggi è in streaming su Chili ma contemporaneamente è tornato in alcune sale, per lo più arene all’aperto che hanno organizzato un distanziamento sociale molto efficace; dunque in tempi speciali – offerte speciali, con offerte al pubblico diversificate, che immagino sarà la realtà alla quale ci dovremo abituare: non tutti vorranno tornare nelle sale al chiuso, afflitti da mascherine distanziamento e paura, e prevedo un nuovo modello di distribuzione, contemporaneo sui diversi canali, cinema streaming e home video. Il film è stato proiettato al Taormina Film Festival è ha impressionato positivamente il presidente della giuria Oliver Stone, che stringendo la mano al regista gli ha dato il suo viatico: “Quando ho visto il film sono rimasto sconvolto. Devi essere orgoglioso di questo film. Una cosa del genere vale come un Golden Globe!”. E sulle locandine è subito apparsa la sintesi del suo pensiero: “Un film stupefacente che va dritto al cuore.” Però quando io ho visto il film credo di averci messo poco cuore e troppo cervello.

Il sorpasso – incidente ferragostano in cronaca

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1962. In una Roma deserta per il ferragosto, un tizio in spiderino con fiancata appena uscita dal carrozziere senza verniciatura, che subito ci dice del suo stile di guida, cerca sigarette e soprattutto un telefono pubblico per chiamare gli amici con cui doveva partire in vacanza alle 11: Ma come sono le 12 e so’ già partiti? non è un campione di puntualità. Come apprenderemo si chiama Bruno Cortona, tipico romano de Roma che nel piccolo del suo particolare è il simbolo dell’italiano medio, dell’epoca, e purtroppo tocca pure dire, di sempre: sbruffone, arrogante, pressapochista, seduttivo, opportunista. Lo interpreta il 40enne Vittorio Gassman, già prim’attore teatrale di cui basta ricordare “Otello” del 1956, anche regia, in cui ogni sera si alternava col collega Salvo Randone nei ruoli del Moro e di Iago.

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Paolo Ferrari e Vittorio Gassman

Anche nel cinema era stato molto attivo e dopo il clamoroso successo di “Riso amaro”, 1949, si ritaglierà anche una carriera hollywoodiana con ruoli di aitante affascinante vilain; ha all’attivo pure “I soliti ignoti” col sequel “L’audace colpo dei soliti ignoti”, 1958-59, e con “La grande guerra”, sempre del ’59, conferma le doti comiche del suo indubbio istrionismo. Sempre del ’59, anno per lui evidentemente magico, è il successo tv “Il mattatore” che sarà anche film nel ’60: una serie di sketch in cui Gassman istrioneggiava con il supporto di altri talenti dell’epoca, il più noto dei quali è Paolo Ferrari.

Inizialmente, col titolo “Il giretto”, il film era stato pensato per Alberto Sordi che era sotto contratto in esclusiva con Dino De Laurentiis, ma la sceneggiatura passò di mano e andò a Mario Cecchi Gori che aveva sotto contratto Vittorio Gassman e con la guida del regista co-sceneggiatore Dino Risi il progetto prese corpo; andava però girato in 60 giorni altrimenti Gassman sarebbe costato un’addizionale, secondo contratto. La sceneggiatura non era definitiva e neanche il cast era completo: mancava addirittura il coprotagonista ma Risi cominciò a girare proprio a ferragosto, filmando la reale città deserta, e mettendo accanto al Mattatore una controfigura. Nella prima inquadratura alla finestra, il nuovo compagno d’avventura è in penombra e quando dopo scorrazzano per la città, l’auto è filmata in campo lungo, con la controfigura che col braccio si copre il viso.

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Brigitte Bardot in costume di scena con Jean-Louis Trintignant preso per mano dal regista Roger Vadim sul set di “E Dio creò la donna”

Come ha poi raccontato Dino Risi in un’intervista: “Cominciai il film senza sapere chi sarebbe stato il compagno di Bruno Cortona: sapevo solo che doveva essere di piccola statura, biondo e, naturalmente, giovane.” Quindi fu scelta una controfigura con queste caratteristiche. Poi, per accordi produttivi e di distribuzione fe fatto venire da Parigi l’attore francese Jean-Louis Trintignant: “Per me sconosciuto. Lo vidi e dissi subito: è lui. Gentile, timido, educato, era il perfetto antagonista di Gassman.” Grave lacuna questa del regista poiché Trintignant era già un giovane divo in patria, giunto al successo nel 1956 con “Piace a troppi” meglio noto come “E Dio creò la donna”, diretto da Roger Vadim, con protagonista femminile Brigitte Bardot, moglie del regista, che durante la lavorazione del film fu colta da amour fou per il collega Trintignant, che a sua volta era sposato con Stéphane Audran, creando sul set un clamoroso triangolo amoroso da prima pagina: i due matrimoni non ressero l’impasse ma anche la relazione fra i due fedifraghi bruciò rapidamente. Evidentemente Dino Risi non aveva visto il film né letto i giornali scandalistici…

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Gassman con Dino Risi sul set del film “Il Mattatore”

Risi è già un regista di successo dalla metà degli anni ’50 ma è negli anni ’60 che il suo talento verrà consacrato, maestro della commedia all’italiana insieme a Mario Monicelli e Luigi Comencini. Lui personalmente verrà paragonato dai critici a Billy Wilder. Aveva già diretto Gassman in “Il Mattatore” e sapeva di dover lasciare all’attore lo spazio per l’improvvisazione, ma tutto doveva rientrare nel percorso stabilito di una rigida sceneggiatura che alternava i momenti su strada ai vari siparietti: alla commedia contrappone l’indagine sociale con sequenze ancora debitrici di quel neorealismo che lui stesso aveva sperimentato a inizio carriera: “Il sorpasso” è un’indagine sociale, anche spietata benché condotta con mano leggera, sugli italiani del boom economico, qui alle prese con la vacanza effimera del ferragosto, trasversale, che va da chi viaggia in pullman o su macchinette stracariche di gente e masserizie, ai benestanti in trasferta nelle seconde case a Castiglioncello. Non è un caso se il film parte dal quartiere romano della Balduina, Roma nord, regno dei palazzinari dell’epoca subito abitato da attori e cantanti per la qualità che offriva, oltre che da professionisti cum laurea e ricchi commercianti. E dalla Balduina Bruno Cortona si immette sull’Aurelia, la consolare che conduce verso l’alto Lazio, alle località di villeggiatura come Civitavecchia, Fregene, Santa Marinella, Capalbio: una via, l’Aurelia, che diventa percorso e simbolo dei viaggiatori vacanzieri e spensierati. Così come la vettura, non a caso anch’essa Aurelia, Lancia Aurelia B24 potenziata, spider scoppiettante largamente in uso fra i bon vivant di quei primi anni ’60 ma i cui ultimi modelli erano usciti di fabbrica nel 1958. Non va dimenticato il pacchiano clacson tritonale che molti italiani, apprezzando, fecero installare sulle proprie vetture.

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Sono simbolici anche i due personaggi: se Bruno Cortona rappresenta il peggio, l’italiano rumoroso, affarista e anche un po’ meschino, lo studente di legge Roberto Mariani racconta l’altra Italia, quella silenziosa e produttrice che però soccombe al fascino dell’arrogante e si lascia traviare dalla retta via. Novità assoluta l’uso – che oggi ci sembra vecchio – della soggettiva narrativa di Roberto: un’invenzione del Dino Risi laureato in medicina e specializzato in psichiatria secondo i voleri della famiglia. Per la prima volta lo spettatore ascolta il pensiero del personaggio, viene portato al cinema l’io narrante di tanta narrativa, che però qui si limita a momenti circoscritti per descrivere un disagio e un’opposizione che nei fatti vengono sempre disattesi. La voce di Roberto Mariani è quella di Paolo Ferrari. Altra novità che il film introduce nel filone della commedia è quella che gli americani chiameranno buddy-buddy, amiconi e compagnoni, qui impegnati in un duello psicologico di sottile sopraffazione e di un’opposizione indebolita dalla piacevolezza della via narrata in discesa, ma che nasconde curve pericolose. Ulteriore novità è il racconto su strada, e anche gli americani faranno presto a dare una definizione vincente: road movie. “Il sorpasso” è l’antesignano dei road movie, ma questo termine arriva dopo che il film è diventato un cult negli Stati Uniti, e Dennis Hopper vi si ispira per il suo “Easy Rider” del 1969, primo road movie della storia del cinema – quella raccontata dagli americani. Negli USA il film era stato presentato col titolo di “Easy Life”, ben cogliendo l’essenza del film, mentre i francesi l’hanno intitolato “Le Fanfaron”, ponendo l’accento sul carattere del personaggio, italiano, e dunque da deridere. Fu un tale successo internazionale che ancora oggi in Argentina la parola “sorpasso” viene da alcuni usata come “spaccone”. Il film introduce un’ulteriore novità: canzoni tra le più in voga come accompagnamento sonoro, caratterizzazione del personaggio e dei contesti, pratica oggi diffusissima che prende il nome di compilation.

Benché coprotagonista assoluto il nome di Jean-Louis Trintignant nei titoli e in cartellone viene terzo, dopo quello di Catherine Spaak, una giovanissima francese di origine belga, nota in Italia più di Trintignant, il quale, dopo il successo di “E Dio creò la donna” dovette mettere in pausa la carriera per il servizio militare svolto ad Algeri. La 17enne Spaak è figlia di un amico del regista Alberto Lattuada che a 15 anni l’aveva fatta debuttare nel discusso e censurato “Dolci inganni”, una storia morbosa sulla falsariga del romanzo “Lolita” di Nabokov giunto al successo in quegli anni; a Catherine Spaak rimase appiccicato il cliché dell’adolescente spregiudicata, che anche qui interpreta come figlia di Bruno Cortona che si accompagna al maturo Bibì interpretato da Claudio Gora; la moglie separata di Bruno è interpretata da Luciana Angiolillo, attrice che aveva debuttato da protagonista ma che dal Sorpasso in poi non riesce a uscire dalla spirale dei secondi ruoli e preferirà abbandonare il cinema. Nell’affollata sequenza di Castiglioncello ci sono le famiglie: Gassman aveva chiesto a Risi di girare lì perché vi soggiornava l’ex moglie Nora Ricci con la figlia Paola, di modo che durante le pause potesse stare in famiglia. La 17enne Paola, coetanea della Spaak, debuttò come figurante, così come i due figli di Claudio Gora, Andrea e Carlo Giordana; ci sono anche un giovanissimo Giancarlo Magalli come ragazzo sul muretto e Vittorio figlio del produttore Cecchi Gori. Una delle due turiste tedesche è la danese Annette Strøyberg, bionda pseudo-Bardot già moglie di Roger Vadim appena sei mesi dopo il divorzio dalla Bardot originale; che nel periodo delle riprese è già l’amante di Gassman, relazione che darà a Vadim il fastidio di un altro divorzio; relazione però di breve durata, come le successive, dato che la danese finirà puntualmente nei letti dei colleghi: Alain Delon, Warren Beatty, Omar Sharif…

“Il sorpasso” è il primo film commedia con un finale tragico, finale che pare sia stato lasciato alla sorte: il produttore Cecchi Gori avrebbe voluto un lieto fine coi due che sfrecciavano felici verso il futuro, e dopo lunghe discussioni si affidarono alla meteorologia: se ci fosse stato bel tempo Dino Risi avrebbe girato il suo finale tragico, e per fortuna così fu – considerando però che un regista accorto è sempre informato sulle condizioni meteo possiamo affermare che Risi ha barato. E in chiusura uno scherzo: sul cruscotto dell’Aurelia c’è uno di quei magneti, come usavano, con scritte benaugurali in cui mettere la foto di una persona cara, su cui è scritto “Ti aspetto a casa” e c’è la foto di Brigitte Bardot: fanfaronata di Bruno Cortona e sberleffo a Jean-Louis Trintignant.

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Johnny Guitar – Joan Star

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E’ del 1954 questo western anomalo diventato un cult malgrado il suo discusso debutto. Anomalo perché letterario, con personaggi psicologicamente indagati e una trama quasi da tragedia greca dove il fato attende i suoi tragici eroi – ed eroine, per carità, non me n’abbia il fantasma della signora Crawford! – che inutilmente hanno cercato di opporsi a quanto era stato scritto dagli dei. Non a caso la sceneggiatura viene da un romanzo di tal Roy Chanslor, di cui rimane scarsa memoria, autore anche di “The Ballad of Cat Ballou” che nel ’65 diventerà un film con Jane Fonda, un western, stavolta, volto in parodia.

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Anche “Johnny Guitar” è al limite della parodia con la sua carica fortemente melodrammatica, ma nonostante i tumultuosi interpreti, il regista Nicholas Ray è riuscito a firmare un film che farà scuola fra i cineasti europei dei decenni successivi. Ray, che aveva studiato architettura con Frank Lloyd Wright, ha cominciato in teatro affermandosi come attore e regista, e al momento di darsi al cinema aveva già formato una sua personalità artistica capace di imprimere una propria visione e un proprio stile ai film che realizzerà, lirici e struggenti con al centro la figura di un combattente solitario, inquieto, spesso controcorrente: dopo “Johnny Guitar” firmerà “Gioventù Bruciata” con James Dean; e quando negli anni ’60 sarà chiamato a dirigere dei kolossal dal forte impatto spettacolare – “Il Re dei Re” e “55 giorni a Pechino” – la sua vocazione al lirismo si spingerà nel simbolismo e darà anche un senso ai suoi studi di architettura lavorando molto sulle inquadrature. Per “Johnny Guitar” ha lavorato anche alla definizione della scenografia, creando il saloon di Vienna su due piani, come poi spesso vedremo in altri film, e immaginando l’esterno incastonato sul fianco di una montagna, in un film tutto ambientato in montagna, fra gole precipizi stretti camminamenti e passaggi segreti: quanto di più lontano dai classici western girati fra grandi pianure. Non ci sono neanche gli indiani o i messicani, che sono gli antagonisti tipici di quell’epoca western, cinematograficamente parlando, ma ogni personaggio è antagonista di un altro, quando non di se stesso: tutti hanno un lato oscuro, o col quale combattono, o che li perseguita, o che esprimono apertamente, perseguitando l’altro.

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Joan Crawford all’epoca del muto

La star assoluta del film è Joan Crawford, come si può vedere anche dalla locandina, l’unica ad avere il nome prima del titolo, nonostante il film sia abbastanza corale, con almeno quattro protagonisti e un paio di comprimari importanti. La signora ha già 50 anni, ben portati, e la fama di star dalla forte personalità, modo di dire assai elegante che oggi tradurremmo in grandissima stronza rompi coglioni. Aveva debuttato al cinema già negli anni ’20 all’epoca del muto, e aveva anche superato con successo il passaggio al sonoro dove, avendo studiato danza da bambina, si ritagliò una carriera nei musicarelli ballerini tanto di moda con l’avvento del sonoro; ma la ragazza voleva passare al dramma e anche lì fece centro. Ma erano anni in cui le major macinavano le star che avevano sotto contratto e fra la fine degli anni ’30 e i primi anni ’40 la sua carriera ebbe un declino, e nonostante gli otto film girati con Clark Gable, col quale formò un’affiatata coppia di gran successo, le arrivarono sempre meno proposte, anche perché nel frattempo si era fatta la fama che la seguirà per sempre, quella di donna e attrice assai difficile: sul set dell’ultimo film con Gable litigò furiosamente col collega per la posizione del nome nei titoli e in cartellone. Nel 1943, mentre le truppe americane combattevano in Europa, Joan Crawford firmò con la Warner Brothers e partecipò a un film all stars di sostegno alle truppe, ma il suo sogno era interpretare un film tratto da un romanzo di Edith Wharton in cui avrebbe interpretato una “giovane donna” – lei era già quarantenne – che avrebbe portato l’amore nella vita di un uomo infelicemente sposato con una donna arida e meschina, per interpretare la quale aveva pensato – udite! udite! – nientedimeno che a Bette Davis, più giovane di lei di quattro anni, che avrebbe dovuto invecchiarsi imbruttirsi e incattivirsi, signora mia: un ruolo, sulla carta, assai adatto al temperamento della Davis, ma era ancora troppo presto per quel genere di ruoli e le due si confronteranno-scontreranno molto più tardi, nel 1962, nel memorabile “Che fine ha fatto Baby Jane?”.

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Chi è la più falsa fra le due?

Ma era il 1943, Bette Davis rifiutò sdegnosamente e il film non si fece mai. A quel punto Joan Crawford mise gli occhi su un altro copione, “Il Romanzo di Mildred” ma la prima scelta dello studio era sempre Bette Davis, che anche stavolta si tirò indietro senza sapere che avrebbe lasciato campo libero alla rivale: sapeva che il regista Michael Curtiz stava facendo pressioni per avere Barbara Stanwyck, e che diceva di Joan Crawford: “Viene qui con le sue arie e le sue maledette spalline… perché dovrei sprecare il mio tempo dirigendo il passato?”. Giudizio arrogante e ingeneroso. Ma il passato per la Crawford aveva ancora un futuro e il ruolo fu suo, nonostante tutte le opposizioni, e la portò fino all’Oscar nel 1946, mentre Bette Davis si sarà sicuramente mangiata le mani: dalla Warner Bros. ora i copioni migliori andavano a Joan mentre a Bette lasciavano le seconde scelte, conducendola a un declino qualitativo interrotto dal successo di “Eva contro Eva”. Ovvio che le due non si amassero. Attraverso altri successi, altre nomination Oscar e un brutto film, l’unico nel quale ha recitato coi capelli rossi, il dramma musicale “La Maschera e il Cuore”, arriviamo al dunque. Ormai star freelance sganciata dagli studios aveva acquistato i diritti di “Johnny Guitar” per ritagliarsi l’appetibile ruolo dell’avventuriera Vienna, proprietaria di un saloon con un passato turbolento, anche come prostituta, come si lascia intuire. Nella sua prima apparizione sullo schermo indossa calzoni e stivali e guarda dall’alto della balconata dentro il saloon tutti i convenuti al suo cospetto, tutti sotto di lei, amici e nemici. Il suo sguardo è magnetico, il fascino da prima donna indubbio. I critici diranno di lei che è troppo hollywoodian, nel senso che è troppo manierata e stilosa per essere la tenutaria di un saloon. Ma come detto il film è un dramma letterario in cui il regista accentua il pathos, e che la storia sia un western è secondario.

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Finte amiche e un sorriso per la stampa

Ma fa sempre meglio della sua antagonista, nel film e fra le quinte, Mercedes McCambridge, già premio Oscar come non protagonista al suo debutto cinematografico nel ’50 in “Tutti gli Uomini del Re”; avrà una carriera sempre in ruoli di supporto ma ben definiti, il cui apice rimane questa sua interpretazione in “Johnny Guitar”, una cattiva assoluta che l’attrice rese in modo troppo estremo, nevrotica, certo nevrotizzata dal fatto di doversi confrontare e competere, con discussioni a macchine spente, con cotanta Joan Crawford: i critici la massacrarono, e giustamente, perché è sempre sopra le righe, e per darsi forza e dare forza alle sue battute, gira sempre la testa in scatti nervosi da automa, fino al monologo finale in cui darà il suo meglio e il suo peggio. Non dev’essere stato facile per lei sostenere il confronto con Joan Crawford, la quale, da vecchia marpiona, nella prima scena, più la cattiva antagonista era sovreccitata e sopra le righe, più lei si manteneva sottotono e tranquilla, così da far risaltare gli eccessi della giovane collega e darle una lezione di stile.

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Sterling Hayden posa come modello

Sterling Hayden è il Johnny del titolo, protagonista emerito. In passato noto come temibile pistolero Johnny Logan, un passato turbolento che condivide con Vienna, oggi si accompagna a una chitarra, da cui il nuovo nome, e fa il menestrello pacifista, finché gli dei non lo ricondurranno al suo destino in questa tragedia di pistolettate. Attore assai anomalo, Hayden, mai candidato a nessun premio e per cui il mestiere di attore era un altro modo di guadagnare, oltre che di incontrare belle donne: 5 matrimoni e 6 figli. Una carriera spesa in figure di avventurieri, cowboy o militari, molto in linea col suo personale percorso di gioventù: si imbarca come mozzo a 17 anni, poi fa il pescatore sui grandi pescherecci d’altura, farà il pompiere e a 22 anni sarà già capitano di navi in giro per il mondo. Sempre per soldi farà il modello e viene notato dalla Paramount che dapprima lo scrittura come controfigura. Durante la Seconda Guerra Mondiale va coi Marines e sarà molto attivo sul fronte jugoslavo: sfondando le linee tedesche si paracaduta in aiuto ai patrioti croati, con pubblico riconoscimento del Maresciallo Tito e conferimento della Stella d’Argento delle forze armate americane. Di quest’avventura gli rimane l’ammirazione per i patrioti comunisti europei e si iscrive al Partito Comunista degli Stati Uniti d’America. Ma l’America non è l’Europa, ha altri fantasmi, e Sterling Hayden si vedrà stroncata la carriera dalla “Commissione per le attività antiamericane”, con simili intenti ma organo differente dalla più nota commissione di Joseph McCarthy.

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Il quarto perotagonista è il meno noto, oggi, Scott Brady, nel ruolo di Dancin’ Kid, inutilente tradotto in italiano nel brutto e ridicolo Kid il Ballerino, bandito innamorato di Vienna e di cui è innamorata la cattiva Emma di Dolores MacCambridge: gelosie e vendette che non portano a nulla di buono. Anche Scott Brady ha combattuto durante la Seconda Guerra Mondiale, in marina, e fu pugile e taglialegna, altro uomo vero dunque, che poi come fratello minore dell’attore Lawrence Tierney, si scelse un nome d’arte e si buttò ne business anche lui; nonostante abbia recitato da protagonista, anche per lui “Johhny Guitar” rimane il suo film più celebre e celebrato.

Borgnine riceve l’Oscar da Grace Kelly

Completano il cast, come banditi cui Vienna dà rifugio nel suo locale, Ernest Borgnine, qui al suo settimo film dopo una carriera a Broadway; anche lui aveva prestato servizio in marina durante la guerra, alla fine della quale era uno sfaccendato irrequieto che preoccupava la madre; tentò la carriera in palcoscenico e siccome gli piacque, e piacque, si trasferì a Los Angeles per fare il cinema: la sua faccia lo condusse a una carriera da caratterista, spesso antagonista come in questo film dove è il malmostoso e malfidato Bart, ma è già dell’anno dopo “Marty” dove come timido macellaio vincerà l’Oscar contro ogni pronostico. L’ex attore bambino Ben Cooper, di cui parlo più diffusamente in “La Rosa Tatuata” è il giovane Turkey che risveglia l’istinto materno di Vienna e che sarà la prima vittima dell’ecatombe finale, ecatombe con lieto film hollywoodiano.

Il film fu girato in uno di quei primi tentativi a colori e ogni major procedeva sperimentando in proprio, prima che la Eastman Kodak brevettasse la pellicola che verrà utilizzata da tutti; in questo film la Republic Pictures utilizzò il Tru-color dalla saturazione piena con colori accentuati, che il regista ebbe l’accortezza di usare come cifra stilista del suo film senza lasciare nessun dettaglio al caso. Divenne nota anche la canzone omonima scritta dal musicista Victor Young con le parole di Peggy Lee, anche interprete. Come accennato il film è diventato un cult grazie ai francesi François Truffaut che lo citerà in “La mia droga si chiama Julie” e Jean-Luc Godard che lo richiamerà in due film: “Il bandito delle unidici” e “la cinese”; anche Pedro Almodòvar metterà Carmen Maura a doppiare Vienna in “Donne sull’orlo di una crisi di nervi”, forse non a caso, dato che le due donne di questo film sono anche loro sull’orlo di una crisi di nervi: una da santificare in abito bianco e l’altra da condannare all’inferno nel suo abito nero.