Archivio mensile:luglio 2020

Downton Abbey, il film

Dopo sei gloriose stagioni televisive “Downton Abbey” diventa un film, fortunato e celebrato come le serie tv, che ha fatto in tempo a uscire nelle sale italiane a inizio anno, prima della pandemia che ha cambiato anche il modo di vedere il cinema: in tv, sui tablet e sui pc. Dunque il film approda sui piccoli schermi, e in fondo è la sua collocazione ideale, un ritorno alle origini. Una narrazione attenta anche a chi non ha visto la serie ma in cui i fan di sempre riconoscono richiami, rimandi e sottotracce che danno più spessore al divertimento. Perché di puro divertimento si tratta e il film, come la serie, si lascia seguire con un lungo disteso sorriso.

Per i neofiti, ma anche per rinfrescarci la memoria, la serie racconta le vicende e gli intrighi, sentimentali sociali e anche politici, dei Conti di Grantham che abitano i piani superiori del castello di Downton Abbey, mentre ai piani inferiori vive e lavora la numerosa servitù, anch’essa alle prese coi propri drammi e intrighi che spesso s’intrecciano con quelli degli abitanti dei piani nobili. Snodi importanti di tutta la narrativa sono la contessa Cora, nata “non bene” come avrebbero detto i nobili di una volta, ma di famiglia ricca, e soprattutto americana, cosa che fa sempre arricciare il naso ai nobili inglese; ma il personaggio è necessario perché aggancia gli Stati Uniti alla coproduzione col Regno Unito e soprattutto apre al prodotto l’immenso mercato d’oltre oceano. L’altro snodo narrativo è il personaggio di Tom Branson, autista e meccanico al servizio, che in quanto irlandese introduce nella narrazione il conflitto religioso politico culturale fra l’Irlanda e la Corona Inglese; di più, il personaggio di Branson riduce le distanze fra il piano inferiore e quello superiore quando sposa, con scandalo su entrambi i fronti, la minore delle tre figlie Grantham.

La prima stagione si apre nell’aprile del 1912 con la notizia dell’affondamento del Titanic che coinvolge un cugino del conte lasciando in eredità la contesa Downton Abbey che darà l’avvio a tutta la storia. Ideatore e creatore è Julian Fellowes, attore e regista ma soprattutto sceneggiatore, che nel 2002 ha vinto l’Oscar per la sceneggiatura di “Gosford Park”, gran bel film di successo e premi con la regia di Robert Altman, che con altre dinamiche e problematiche esplora i rapporti fra nobili e servitori, e inglese e americani, nell’Inghilterra degli anni ’30: da lì a qui il salto è breve. Evidentemente portato per il genere storico Fellowes ha anche firmato le sceneggiature di “La Fiera della Vanità” regia di Mira Nair, “The Young Victoria” di Jean-Marc Vallée e la miniserie tv “Titanic” nel centenario del naufragio.

Il numeroso cast del film, come nella serie, è presentato rigorosamente in ordine alfabetico, compresa la gran dama Maggie Smith, unico nome universalmente noto, e per la quale sono scritte le battute migliori di pungente humour (humor in America) inglese; segue, per fama, l’americana Elizabeth McGovern, che ventenne è stata nominata agli Oscar per la sua interpretazione in “Ragtime” di Miloš Forman, film che segnò anche l’ultima interpretazione del vilain d’America James Cagney. Nella terza stagione partecipazione di gran lusso di Shirley MacLaine, come madre dell’americana contessa Cora, i cui duetti con Maggie Smith sono da antologia.

il film racconta una vicenda a se stante che coinvolge tutti i piani di Downton Abbey: la visita di Re Giorgio V con la Regina Maria, con tutto il loro seguito di valletti, servitori, chef e governante che tenteranno di estromettere la servitù residente dall’ambito speciale servizio regale: il divertimento è assicurato, così come l’intrigo che porta in paese un altro irlandese che attenterà alla vita del re; non mancano le palpitazioni sentimentali: c’è l’infelicità coniugale della Principessa Mary, fatto avallato da chiacchiericci storici sempre smentiti dalle fonti ufficiali; c’è la scintilla d’amore che scocca fra l’assimilato irlandese Tom Branson, vedovo della terzogenita di casa, e la new entry servetta-ma-non-solo della dama di compagnia di regina; e per finire nasce anche un nuovo amore omosessuale, a dispetto dei tempi, fra il giovane nuovo maggiordomo Thomas Barrow, già cameriere indisciplinato e rampante traffichino nella serie, e un servo reale. Storie d’amore che rimangono aperte come viale d’ingresso al prossimo film, che era già nelle intenzioni di autore e produttori: se fosse andato bene ci sarebbe stato un secondo film, così la serialità passa dal piccolo a grande schermo, mentre la nostra amatissima Lady Violet di Dame Maggie Smith annuncia alla nipote che presto non ci sarà più: cautele produttive su un’attrice 86enne.

Hugh Bonneville è il Conte di Grantham, Michelle Dockery e Laura Carmichael le figlie, e Penelope Wilton come baronessa parente della famiglia; Allen Leech interpreta l’irlandese di casa che dai piani bassi passa a quelli alti, e fra la servitù spiccano il maggiordomo di Jim Carter, Phyllis Logan come governante, i coniugi Bates che sono Brendan Coyle e Joanne Froggat, mentre Robert James-Collier è l’inquieto Thomas Barrow. Altro nome di spicco, nel film, è Imelda Staunton con la sua servetta interpretata da Tuppence Middleton; il re e la regina sono Simon Jones e Geraldine James, mentre la Principessa Mary è Kate Phillips; l’attentatore è Stephen Campbell Moore; tutti nomi e volti noti al pubblico inglese. Dirige con mano sicura Michael Engler, già regista di quattro episodi della serie. Il film, gradevolissimo, rimane un prodotto televisivo anche trasferito sul grande schermo, e senza riservarci grandi sorprese, conferma la piacevolezza delle vicende che intrecciano i piani alti e quelli bassi di Downton Abbey anche con l’esterno e la storia con la maiuscola. Cinematograficamente magistrale la scena del gran ballo, per scrittura e regia, che alterna i piani sequenza dei valzer con i siparietti nei dintorni del salone in cui si sciolgono piccoli drammi esistenziali.

In conclusione una pungente curiosità, nello stile di Lady Violet: nel film documentario di Roger Michell “Un Tè con le Regine” dove insieme a Judi Dench, Joan Plowright e Eileen Atkins, Maggie Smith si lascia andare a ricordi e pettegolezzi, liquida “Downton Abbey” come una grande sciocchezza.

La Rosa Tatuata – in tv

Il film è del 1955 ma è dal 1950, anno in cui aveva scritto la parola fine al suo copione teatrale, che il drammaturgo Tennessee Williams corre dietro ad Anna Magnani per convincerla ad accettare il ruolo di protagonista, dato che aveva scritto “The Rose Tattoo” proprio per lei. Era innamorato di lei, artisticamente si intende, dato che non faceva mistero della sua omosessualità, e venne a Roma per incontrarla al Caffè Doney di via Veneto, che allora era la via del bel mondo e delle star.

Tennessee, Ten come cominciò a chiamarlo Nannarella, era emozionatissimo di incontrare la diva italiana che l’aveva incantato con “Roma città aperta” di Roberto Rossellini e “Bellissima” di Luchino Visconti, tanto per citare due punte di diamante della sua filmografia. Divennero grandi amici, anche lei si innamorò di lui, sempre platonicamente, tanto che se lo portò persino in giro a dar da mangiare ai gatti randagi, lei che amava gli animali più degli esseri umani. Masticava appena l’inglese però e, pur gratificata dall’offerta, non se la sentì di andare a recitare a Brodway, così, baci e abbracci, non se ne fece niente. “The Rose Tattoo” andò in scena con una bravissima Maureen Stapleton e fu un successo, benché era chiaro che non fosse una delle opere migliori di Tennessee Williams.

Eli Wallach e Maureen Stapleton in “The Rose Tattoo” a Broadway

A vedere oggi il film, che confesso di non aver mai visto, se ne notano tutte le debolezze, a cominciare proprio dalla scrittura. Il primo grande successo dell’autore era stato “Lo Zoo di Vetro” e poi aveva sfondato col torrido e torbido “Tram che si chiama desiderio” che gli valse il Premio Pulitzer e da qui in poi i suoi più riusciti melodrammi sensuali e ambigui saranno trasposti in film: “Estate e Fumo”, “La gatta sul tetto che scotta”, “Improvvisamente l’estate scorsa”, “La dolce ala della giovinezza”, tutti concentrati negli anni ’50. “The Rose Tattoo” si colloca cronologicamente dopo i primi due titoli e la sua debolezza sta proprio nell’ispirazione: si capisce che è una scrittura confezionata a servizio e si discosta dai temi e dallo stile che gli sono più congeniali: torbidi drammi familiari, omosessualità represse o latenti nelle figure maschili, figure femminili centrali forti e tormentate in cui l’autore dichiaratamente si riconosceva, tutti sempre ambientati in quel contraddittorio sud degli Stati Uniti da cui proveniva.

Qui mette al centro della sua storia un’altra figura femminile forte, ma stavolta siciliana d’origine, ed è il primo scivolone retorico, che poi il cinema statunitense ha alimentato e cavalcato: tutti gli italo-americani sono siciliani, qualche volta napoletani. Serafina è venuta in America tramite un matrimonio per procura ed ha avuto la fortuna di trovare un marito bello di cui innamorarsi profondamente, tale Rosario Delle Rose, con il quale avrà la figlia Rosa, in uno scioglilingua di rose che in immagini retoriche e tatuaggi sul petto tornano per tutto il film in sdolcinature senza precedenti nella drammaturgia di Tennesse Williams.

E’ utile e piacevole vedere il film in lingua originale per apprezzare il lavoro di Anna Magnani, che certamente aiutata da coach linguistici, sfoggia un inglese molto fluido con quel tanto di accento italiano che la caratterizza senza farne una macchietta, ed è così sciolta e sicura da inframmezzare esclamazioni in italiano secondo il suo stile che lascia ampio spazio all’improvvisazione. Dalle inquadrature è evidente che anche il regista Daniel Mann, qui al suo quarto film ma già regista della messa in scena a teatro, è totalmente soggiogato dal fascino scenico di Anna Magnani e si mette a suo servizio, e anche questo nuoce alla composizione del film, tutto troppo “annamagnanicentrico”.

Marisa Pavan e Pier Angeli

Per fortuna le contende lo schermo, nel ruolo della figlia, Marisa Pavan, all’anagrafe Maria Luisa Pierangeli, gemella di Anna Maria Pierangeli che come Pier Angeli ebbe una sua carriera a Hollywood dove per esigenze pubblicitarie le affibbiarono un improbabile fidanzamento con James Dean. Ma in realtà l’amore che l’aveva condotta oltre oceano era stato Kirk Douglas, e seguendo le sue orme anche la sorella Marisa Pavan ebbe una carriera tutta americana. Con all’attivo quattro film si presentò al provino per “La Rosa Tatuata” fra altre 300 e di Anna Magnani ricorda in una recente intervista a “Vanity Fair” che aveva un carattere difficile, era sempre nervosa, vittima di un’insicurezza congenita che le faceva vedere congiure dovunque, esasperata dal fatto che recitava in inglese e non capiva quello che le si diceva intorno. Pare che l’avesse presa di mira proprio perché frustrata dall’inglese fluente della giovane italo-americana, e aveva tentato di confonderla con dei consigli non richiesti: “Nun devi fa’ così, devi fa’ cosà!” al che Marisa le aveva risposto che la regista non era lei e che ce n’era uno al quale affidarsi: non fu un vero litigio ma ci andarono vicino. Fu lei, poi, a ritirare l’Oscar per Anna Magnani dato che la Nostra aveva paura dell’aereo e per girare il film si era imbarcata per l’America insieme a Tennessee Williams sull’Andrea Doria.

Nel 1956 Anna Magnani fu la prima italiana, e genericamente non-americana, a vincere l’Oscar, sbaragliando star come Katharine Hepburn (Tempo d’Estate), Jennifer Jones (L’Amore è una cosa meravigliosa), Susan Hayward (Piangerò domani) ed Eleanor Parker (Oltre il destino), regine dello schermo candidate per lacrimose storie sentimentali che hanno dovuto fare i conti con un’attrice non bella, non glamour e con uno stile per loro totalmente alieno. Anche Marisa Pavan era candidata come non protagonista ma l’Oscar andò a Jo Van Fleet per “La Valle dell’Eden”, attrice che era anche in “La Rosa Tatuata” nel ruolo dell’antipatica Bessie che brutalmente svela a Serafina il tradimento dell’amato marito Rosario Delle Rose con la malafemmina interpretata da Virginia Grey.

Nella seconda parte del film entra in scena Burt Lancaster e il film da melodramma si volge in commedia buffa. La star maschile era stata voluta dalla produzione per assicurarsi l’attenzione del botteghino dato che Tennessee Williams aveva imposto, oltre che se stesso come sceneggiatore, Anna Magnani per il ruolo principale: attrice sconosciuta alle grandi platee che ha fatto sudare freddo i dirigenti della Paramount. Burt Lancaster si vede che si diverte molto a dare vita all’improbabile Alvaro Mangiacavallo, che recita evitando l’ovvio e insostenibile accento italianish ma usa una cadenza da campagnolo, buffo e sopra le righe come prevede il copione ma senza mai scadere nel ridicolo della macchietta. Il suo macho non ha ombre o tentennamenti omosessuali e il lungo battibecco con Serafina è tutta commedia che sfacciatamente abusa di quella retorica, necessaria nel melodramma, ma che qui è tutta al servizio del luogo comune del siculo-miricano. Anche il lieto fine non è in linea con la miglior drammaturgia dell’autore, ma questo è: un film così così che è andato bene al botteghino e che ha fruttato alla Magnani l’Oscar e il Golden Globe che è andato anche a Marisa Pavan.

Burt Lancaster si è accontentato del divertimento, ma essendo già una star impegnata su diversi fronti, ha visto lungo su un altro progetto e ha prodotto “Marty” con Ernest Borgnine diretto da un altro Mann, Delbert, film attore e regista che hanno trionfato a quegli Oscar del ’56. L’indomani Borgnine mandò alla Magnani un biglietto: “Congratulazioni, è un grande giorno per gli italiani” includendo se stesso nell’italianità. Borgnine, che stava lavorando a “Pranzo di nozze” diretto da Richard Brooks con Bette Davis, dettò all’amica e collega che voleva complimentarsi in italiano con la Magnani, questo telegramma: “Anna carissima, io lavoro con uno italiano, Ernest Borgnine. Lui vencutto. – Forse intendeva “venciuto”, vinto – Io competo con una italiana, Anna Magnani. Lei vince. Voi italiani meglio se state a casa seriamente. Ernest e io mandiamo tutta la nostra amore e nostri congratulazioni. Bette Davis.” Arrivarono anche telegrammi di registi italiani e stranieri, il suo amico Luchino Visconti le scrisse parole affettuose, ma al ricevimento che seguì si notò l’eclatante assenza di Gina Lollobrigida e Sofia Loren, nonché quella dei divi della farsa italiana come Totò, Alberto Sordi e Renato Rascel coi quali aveva pure diviso le glorie del palcoscenico: brutta cosa l’invidia.

Conclude il quartetto del cast principale l’ex attore bambino Ben Cooper nel ruolo di innocente marinaio innamorato dell’innocente Rosa Delle Rose, quasi un’altra macchietta a riprova del fatto che gli innocenti risultano estranei alla scrittura di Tennessee Williams. Aveva debuttato in teatro a 6 anni nella commedia “Vita col padre” e restando in scena per 4 anni concluse le repliche passando al ruolo del fratello maggiore. 18enne debutta in una serie tv che amplifica la sua fama e il suo primo ruolo importante al cinema, quasi tutta spesa nei western, sarà in “Johnny Guitar” di Nicholas Ray con Joan Crawford. E’ morto 86enne lo scorso febbraio senza sapere che il mondo stava per cambiare a causa di una pandemia, portato via da una malattia neuro degenerativa.

In conclusione un excursus sui nomi scelti da Tennessee Williams: se Mangiacavallo è plausibile perché davvero originario di Monreale, Palermo – Delle Rose, più evocativo per l’autore tanto da imbastirci sopra tutta la trama e i tatuaggi sul petto, risulta più immaginifico dato che è un cognome abbastanza raro in Italia, meno di 90 famiglie in tutto, quasi la metà delle quali in Puglia, e con il Lazio al secondo posto è un cognome assolutamente non presente in Sicilia. Personale pignoleria.

Vogliamo i colonnelli – rivisto in tv

1973. Mario Monicelli dirige un film scritto con Age e Scarpelli e interamente percorso da un istrionico Ugo Tognazzi, un film grottesco di fanta-politica che però dalla politica reale prende molto, a cominciare dalla rissosa seduta in parlamento d’apertura. Un film che viene da cineasti pienamente ascritti alla commedia all’italiana che qui però fanno qualcosa in più: attraverso la lente deformante della satira raccontano la vera politica italiana come oggi non sarebbe più possibile, perché essendo quella un’epoca in cui i politici erano seri azzimati e credibili, e non se ne conoscevano le private debolezze, era facile volgerli al ridicolo; oggi i politici si mettono alla berlina da sé, dal bunga bunga al papeete, per cui non è più possibile fare satira su figure che si sono già consegnate al ridicolo; inoltre “Vogliamo i colonnelli” è una sorta di instant movie sui recentissimi (dell’epoca) tentativi di golpe, dal “Piano Solo” filocominista del generale Giovanni De Lorenzo del 1964 al filofascista “Golpe Borghese” che il principe Junio Valerio (Scipione Ghezzo Marcantonio Maria) Borghese tentò un paio di anni prima, nel 1970. Il film ha dei riferimenti espliciti ai due tentati colpi di stato, e nel titolo richiama la dittatura dei colonnelli instaurata in Grecia fra il 1967 e il 1974. Anni quantomai incerti, quelli, considerando pure che appena sei mesi dopo l’uscita del film in Italia, in Cile Augusto Pinochet rovescia con un golpe il governo di Salvador Allende, con l’aiuto degli Stati Uniti, i quali erano anche “a conoscenza” dei tentati colpi di stato italiani.

Nel marzo 1973, quando uscì il film, il governo italiano era guidato da un fragile esecutivo, presieduto da Giulio Andreotti, guidato dalla Democrazia Cristiana con altri due partiti-stampella, i Social-Democratici e il Partito Liberale, e che rimase in carica per 1 anno e 12 giorni: all’epoca i governi non duravano quasi mai l’intera legislatura. Sono gli anni di piombo: nel 1969 alle lotte studentesche subentrano quelle dei lavoratori e si coniò il termine autunno caldo. I fascisti Franco Freda e Giovanni Ventura di “Ordine Nuovo” mettono bombe su 8 diversi treni causando 12 feriti. Il 19 novembre 1969 si avrà quella che per diversi storici è la prima vittima degli anni di piombo, l’agente di polizia Antonio Annarumma; il 12 dicembre, in meno di un’ora, ci sono stati in Italia 5 attentati, il più grave dei quali è quello di Piazza Fontana a Milano. Le stragi alzano il livello di manifestazioni e agitazioni fino alla guerriglia urbana. Nel dicembre 1970 abortisce il già detto “Golpe Borghese” e la società italiana, politica e civile, verrà presa in quella che in seguito verrà definita strategia della tensione, ovvero una strategia che si sarebbe basata su una serie preordinata di atti terroristici, da attribuire indistintamente ad anarchici comunisti o reazionari fascisti, secondo la teoria false flag, con l’intento di diffondere nella popolazione insicurezza e paura, così da giustificare svolte politiche di stampo autoritario. Che è quello che accade nel finale del film: il fallito colpo di stato dei fascisti viene cavalcato dal ministro democristiano che instaura un stato d’emergenza nazionale, autoritario e restrittivo, tanto quanto quello auspicato dal protagonista che finirà col riciclarsi come organizzatore a pagamento di colpi di stato in terre straniere.

Un film che nel suo tempo, con la sua contemporaneità, seppur mediata dalla forte carica ironica, non dev’essere piaciuto molto al pubblico, se non si piazza neanche fra i primi cento: un box office, che allora si diceva hit parade, che vede in testa “Altrimenti ci arrabbiamo” con Bud Spencer e Terence Hill che è anche protagonista di “Il mio nome è nessuno” piazzato al 5° posto: il segno è che la gente andando al cinema voleva rilassarsi.

Il film è bello, intelligente, corrosivo, ben fatto. Con la voce narrante di Riccardo Cucciolla che imita il tono stentoreo del fine dicitore dei cinegiornali, proprio come un cinegiornale si svolge, la narrazione di un fatto reale con tanto di nomi e cognomi, professioni e cariche pubbliche, arti e mestieri; un cinegiornale che fa la cronaca del tentato colpo di stato messo in opera dall’onorevole fascista Giuseppe Tritoni che mette insieme alti esponenti militari e delle forze dell’ordine insieme ai villici fascistoidi che si allenano in campi paramilitari e nobili romani che tradendo la fede nella corona si spostano in massa verso i partiti della destra più conservatrice e reazionaria. Cose che sono accadute nella storia reale con altri nomi e che il film racconta facendosene beffe, con nomi e fatti fittizi che riecheggiano assai da vicino quelli reali: Giorgio Almirante diventa Mazzante, il generale De Lorenzo diventa De Vincenzo, l’infarto mortale del presidente della repubblica richiama il colpo aploplettico del presidente Antonio Segni e la palestra di pugilato che fa da base all’operazione richiama quella dove Borghese riuniva in suoi uomini, così come il campo di addestramento paramilitare si rifà ai campi che furono scoperti in Sicilia a Menfi e Zafferana Etnea.

Ascrivibile al filone della commedia all’italiana di cui il regista Mario Monicelli è uno degli autori di punta, il film si porta dietro il gravoso lascito del neorealismo che ha raccontato il dopoguerra con i suoi interpreti presi dalla vita reale, storie perlopiù drammatiche dove i non-attori rifacevano se stessi recitando in presa diretta; un’abitudine, questa di prendere facce assai espressive fra i non professionisti per poi farli doppiare da professionisti, che si trascina nella commedia all’italiana, il cui tipo più famoso è stato il sardo Tiberio Murgia erroneamente creduto siciliano perché sempre doppiato in sicilianese (ovvero un inesistente siciliano da cinema). In “Vogliamo i colonnelli” il doppiaggio è stato fatto anche spingendo con voci da cartone animato per rendere più estremo il grottesco dei caratteri; questo, insieme all’uso tutto italiano di inserire nel cast degli attori stranieri, sempre da doppiare, oggi toglie qualcosa alla godibilità del film, benché siano peccati professionali largamente in uso all’epoca.

Il brutto della storia è che la storia si ripete, con altre maschere e altri metodi, da un lato più sofisticati e dall’altro più sfacciatamente palesi, e che i reazionari sono sempre all’opera con altre bandiere ma slogan sempre uguali.

Mio fratello rincorre i dinosauri – opera prima di Stefano Cipani

Parlare di quest’ora prima cinematografica rimanda necessariamente a un’altra opera prima, l’omonimo debutto letterario del 19enne Giacomo Mazzariol, debutto fortunoso dovuto più alla fama che gli è piovuta addosso che a un vero e proprio fuoco sacro per la scrittura; poi la faccia tosta, la capacità di mettersi in gioco e di stare ai giochi, la fortuna di essere nato in quest’epoca digitale che rende tutto più facile e immediato e a portata di mano, il tutto unito a un indubbia intelligenza costruttiva, ha fatto del ragazzo Mazzariol un personaggio probabilmente destinato a durare, anche se non necessariamente sugli scaffali delle librerie.

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Come non ricordare i successi letterari giovanilistici di quell’epoca analogica che offriva meno prospettive e vie di fuga ai suoi autori che precocemente avevano consumato e concluso la loro parabola creativa? La siciliana di Licata Lara Cardella ha scritto “Volevo i pantaloni” (Arnoldo Mondadori Editore) nel 1989 a 19 anni, una denuncia del maschilismo siciliano dell’epoca che è divenuto un successo, anche di costume, immediatamente tradotto in film da Maurizio Ponzi; in seguito la Cardella ha anche tentato un “Volevo i pantaloni 2” insieme ad altre prove letterarie che non hanno lasciato traccia, e oggi insegna a Bergamo.

Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire (I grandi ...

Sempre siciliano un altro clamoroso successo letterario giovanilistico, quello della catanese Melissa P. (Panarello) che a 17 anni nel 2003 pubblica con Fazi Editore il romanzo erotico autobiografico (ma più che altro è un diario senza un vero impianto narrativo) “100 colpi di spazzola prima di andare a dormire” che ha venduto 3 milioni di copie grazie al suo contenuto pruriginoso e al lancio editoriale che ha tenuto nascosta per un po’ di tempo l’identità dell’autrice; anche questo debutto narrativo è divenuto film nel 2005 con regia di Luca Guadagnino. Scavalcando l’anno 2000 Melissa Panarello si ricicla come personaggio tv e anche come astrologa sul settimanale “Grazia”; scrive altri tre romanzi, collabora con diverse testate giornalistiche e nel 2015 partecipa a “L’isola dei famosi” nel segno di si fa quel che si può.

Mio fratello rincorre i dinosauri, Giacomo Mazzariol. Giulio ...

Ma sono davvero tanti gli adolescenti che tentano la via della scrittura, i quali, spesso non avendo nulla da raccontare sulla loro troppo giovane vita, scimmiottano i romanzi di avventura fantasy, che è il terreno sui quali sono fino a quel momento cresciuti. Nessuno ha venduto così tante copie da diventare un altro caso. Giacomo Mazzariol ha venduto appena 150mila copie e coi tempi che corrono si può già dire un best seller, ma lui era un caso prima ancora che scrivesse il libro, come racconta nel libro stesso: romanzo di crescita e formazione di un ragazzo che rifiuta il fratellino con un cromosoma in più, la Sindrome di Down, perché se ne vergogna e ad amici e compagni di scuola lo racconta come un fratellino morto, suscitando pure pietà e simpatia. Il fratellino Down però impara a fare video in famiglia e a pubblicarli su YouTube col rischio di sputtanare il fratellone, il quale corre ai ripari cancellandoli e poi dando la colpa a fantomatici neonazisti. Le cose precipitano, nel piccolo tranquillo paese, Pieve di Cento in Emilia Romagna, e la sua famiglia con il comune organizzano una manifestazione contro i presunti neonazisti, e qui, Giacomo, prendendo coscienza si autodenuncia, finalmente dicendosi fiero di avere un fratello diversamente abile col quale, per rimediare e fare ammenda, gira il video “The simple interview” (dal titolo in inglese perché si sa che ormai siamo tutti americani) che diventa virale su YouTube e di cui si comincia a parlare anche sulla stampa.

Qui finisce il romanzo e comincia la genesi del romanzo stesso: gli viene chiesto di scrivere un libro (lui è ancora all’ultimo anno delle superiori) e anche se il ragazzo non ha mai scritto niente si butta nell’impresa sicuramente guidato da necessari editor che lo aiutano a confezionare il prodotto prima che la bolla si sgonfi: il libro venderà bene perché parla di disabilità e di redenzione, e verrà anche circuitato nelle scuole come lettura consigliata agli studenti. Vince il premio “John Fante Opera Prima” e il giovane autore va ospite da Fabio Fazio a “Che tempo che fa” perché i buoni sentimenti fanno più audience del pruriginoso con buona pace di Melissa P. Viene assoldato anche da “La Repubblica” che gli affida un blog online che darà voce alla “Generazione X” ovvero i pargoli nati dopo il 1995: è qui che entra in gioco il successo dovuto al digitale, perché non stampando nulla anche numeri piccoli sono sempre un guadagno.

Ovviamente il successo editoriale non passa inosservato alla macchina cinematografica e Rai Cinema mette insieme una coproduzione che affida la regia al debuttante 33enne Stefano Cipani. Di lui si sa che gli stava stretta l’etichetta di “figlio del sindaco” dato che suo padre è stato sindaco di Salò per quattro mandati non consecutivi, ha però studiato Storia e Critica del Cinema all’università di Bologna e poi si è trasferito a Los Angeles per un master in regia alla New York Film Academy, e ha poi diretto cortometraggi e video musicali. Il film incassa in Italia più di 2 milioni e mezzo di euro e raccoglie critiche positive, certamente veicolate anche dal successo del romanzo e dall’argomento che tratta: chi vuol parlare male di un film che parla di Sindrome di Down? in effetti il film è gradevole, mantiene sempre un buon ritmo ed è una di quelle regie che, come ho detto altrove, non saltano subito all’attenzione perché totalmente al servizio della storia, il che, se da un lato è un bene, dall’altro lato può essere il risultato di un mestiere imparato bene da un regista che non ha molto da dire, di suo: è necessario attendere l’opera seconda per potersi fare un’idea di questo regista che ha confezionato un prodotto di largo consumo da un romanzo di largo consumo: la pappa era già pronta. Cipani, che ha vinto anche il Young Audience Award 2020 della European Film Academy, pubblico internazionale di ragazzi per film di ragazzi, sta lavorando alla stesura di altri progetti, uno a quattro mani con Giacomo Mazzariol.

Su Mazzariol resta da dire che non ha dormito sui soffici cuscini della gloria e si è dato da fare: lavorando insieme a un gruppo di altri ragazzi, il Collettivo Grams, ha scritto un cortometraggio che poi si è sviluppato in una sceneggiatura di più ampio respiro, “Baby” sulle baby squillo dei Parioli romani, che è diventata serie per Netflix, vista in tutto il mondo e già prenotata per una seconda stagione; Mazzariol ha dato alle stampe il suo secondo romanzo “Gli squali” ma sembra proprio che il suo futuro sia nella sceneggiatura mentre la rivista “Forbes” lo ha inserito fra i 100 giovani italiani che guideranno il futuro.

Nel cast del film, insieme ai giovani debuttanti Francesco Gheghi che è il protagonista Giacomo, Lorenzo Sisto che è fratello Down, Anna Becheroni l’amichetta del cuore, e Roberto Nocchi che si impone sugli altri per credibilità artistica nel ruolo dell’amico Vitto(rio), fanno da supporto l’eccentrica zia spagnola Rossy De Palma, e come genitori dei ragazzi la sempre luminosa Isabella Ragonese e un Alessandro Gassmann che in età matura ha finalmente trovato una sua dimensione artistica, dopo aver debuttato troppo precocemente a teatro con l’ingombrante padre mattatore Vittorio, da cui sembra voler prendere le distanze recuperando una seconda n finale nel cognome di famiglia del nonno tedesco Heinrich, che Vittorio aveva lasciato cadere all’anagrafe.

The Nest (Il Nido) – opera prima di Roberto De Feo

Il lancio del film è “horror di atmosfera”, ma che significa? In effetti c’è una costante atmosfera da film horror che inquieta e al contempo spiazza, per la mancanza di musica ansiogena, di maniglie che ruotano lentamente, di mostri che sbucano dal buio, di crocifissi attaccati al muro, insomma di tutto quell’armamentario tipico del film horror. Quello cui assistiamo è più vicino a un dramma famigliare, per quanto fuori dagli schemi, dove ciò che conta sono le cose non dette e i misteri che si accumulano.

Il Nido è una villa in cui una piccola comunità vive isolata dal mondo seguendo regole e divieti che sembrano farne una setta, ma una setta il cui scopo rimane però misterioso, anch’esso. La gestisce con ferreo rigore una padrona di casa dopo che nell’antefatto abbiamo appreso che suo marito è morto in un incidente automobilistico, proprio nel tentativo di abbandonare la villa, portando con sé il figlio piccolo. Nel presente narrativo Samuel è un preadolescente costretto su sedia a rotelle proprio a causa di quell’incidente e viene cresciuto da sua madre, e da precettori servitori e medico al servizio, come prossimo capo di quella piccola comunità, educato all’apprendimento della gestione della proprietà e delle sue risorse. Ma è sempre più chiaro che non tutto è come sembra: la madre, distaccata intransigente e iperprotettiva, in privato soffre e si mortifica; il medico giornalmente somministra una necessaria ancorché misteriosa cura al ragazzo, ma in me spettatore si insinua il dubbio che più che una vera cura sia piuttosto un farmaco che costringe il ragazzo all’immobilità, e allora mi chiedo: perché? perché una donna che sembra amare così tanto il suo unico figlio, vuole mantenerlo inabile, oltreché all’oscuro sul mondo di fuori e sulla reale natura di quella comunità? qual è il male che possiede la donna?

Il regista debuttante ci conduce con mano sicura negli spazi di questa villa, che grazie alla scenografia di Francesca Bocca (“La Terza Madre” di Dario Argento) e alla fotografia di Emanuele Pasquet, insieme alla regia attentissima al dettaglio, sembra contenere e quasi avvolgere i suoi abitanti, sia proteggendoli che intrappolandoli, una villa che diventa un’altra inquietante interprete protagonista.

Roberto De Feo sa quel che fa. Sin da ragazzo è appassionato del genere horror e lo conosce talmente bene da averne un sua personale visione: rispettando e anche omaggiando il lavoro dei capostipiti Dario Argento, Lamberto Bava, Lucio Fulci, prende però le distanze dagli ulteriori tentativi di cinema horror all’italiana, intrisi di tutti quei luoghi comuni del genere che non ne hanno decretato il successo al botteghino. Il suo horror di atmosfera sin dal titolo in inglese guarda al mercato internazionale e l’atmosfera claustrofobica della sua villa è la stessa del pluripremiato “The Others” di Alejandro Amenábar, anche lui come il nostro, autore di soggetto e sceneggiatura, e pare che De Feo abbia segnato il punto: il suo film è stato venduto in Francia, Belgio, Lussemburgo, Olanda, Russia, Giappone, Polonia e Taiwan: nessun paese di lingua inglese, e perché? perché l’americana Gotham Group – che fra altri ha prodotto “The Spiderwick Chronicles” e la trilogia di “Maze Runner” – ha già acquistato i diritti per un remake.

Mette insieme un cast assai interessante. La tormentata nonché tormentatrice madre è la televisiva Francesca Cavallin, eccellente interprete di un ruolo non facile, e dalla serialità tv viene anche Maurizio Lombardi che interpreta il medico di famiglia, un po’ medico di campagna e un po’ Joseph Mengele; il ragazzo protagonista è l’italo-canadese Justin Korovkin, 12enne perfettamente in ruolo, che possiamo vedere anche in “Favolacce” dei Fratelli D’Innocenzo, e che qui suona bene anche il pianoforte, in un corredo musicale che con “La gazza ladra” di Rossini omaggia “Arancia Meccanica” di Stanley Kubrick.

Nel cast l’adolescente Ginevra Francesconi che fa scoprire al ragazzo il mondo di fuori; il veterano del doppiaggio Carlo Valli qui dà il volto a un sofferente anziano che viene da fuori e che, portatore di una piaga nera, viene ucciso, e non sarà l’unico morto di morte violenta nell’accogliente villa in cui il talento dell’esordiente regista ci intrappola facendoci quasi dimenticare che oltre il ben protetto cancello della villa c’è un fuori da cui è giunta in casa un’oscura piaga: è lì il vero horror, nel finale a sorpresa che ribalta i punti di vista come accadeva venti anni fa nel bellissimo “The Others”. Se riuscirà a non ripetersi e a serializzare Roberto De Feo ha un brillante futuro.