Archivio mensile:febbraio 2020

Man of Tai Chi – opera prima di Keanu Reeves

L’opera prima, la prima regia di una star dello schermo, dice molto su quello che la star vuole dire di sé. Per esempio Robert Redford ha debuttato con “Gente Comune” nel 1980 vincendo l’Oscar: un film con cui, avendo curato solo la regia, si accredita come regista tout court e dunque senza narcisismi da asso pigliatutto, salvo poi essere anche attore nelle regie successive, dato che spesso accade che siano gli stessi produttori a insistere per il pacchetto completo e andare sul sicuro al botteghino.

La scelta di Keanu Reeves in qualche modo non sorprende: nel 2013 ha fatto un film cinese (per ambientazione, produzione e lingua parlata oltre all’inglese) poiché culturalmente è vicino a quel mondo: nel suo DNA confluiscono diverse popolazioni: cinese, appunto, ma anche hawaiane, portoghesi, irlandesi e inglesi; è stato protagonista di “Il Piccolo Buddha” di Bernardo Bertolucci e, soprattutto, è stato Neo nella trilogia di “Matrix” (1999-2003) dei fratelli Wachowski, Larry e Andy, che nel frattempo hanno cambiato sesso (non sono gemelli) e adesso sono le sorelle Wachowski, Lana e Lilly, che lo scorso anno, 2019, hanno annunciato un quarto capitolo della serie. Da quei set viene il coreografo di arti marziali Yuen Wo Ping, ma anche il look total black di Neo che Keanu sfoggia nell’interpretare il suo personaggio nel suo film: Donaka Mark, un oscuro individuo a capo di un’organizzazione segreta che gestisce combattimenti di arti marziali da mandare in streaming per una elitaria platea di ricchi amanti delle lotte, anche, e a volte soprattutto, mortali. Un altro di quei personaggi che Keanu interpreta senza spreco di espressioni e che hanno fatto di lui la star che è: Neo non brillava certo per espressività, come anche l’alieno del remake di “Ultimatum alla Terra” o lo stesso “Piccolo Buddha” la cui interpretazione non necessitava di grande mobilità facciale. Non a caso i premi e le nomination che ha collezionato sono quelle come Attore più attraente, Miglior bacio, Miglior coppia e Miglior combattimento.

Protagonista del film è un campione di Tai Chi (Tiger Chen Linhu) che, in disaccordo col suo vecchio maestro (Yu Hai), applica la tecnica di questa ginnastica-filosofia (fondamentalmente praticata per scopi salutistici) al combattimento inter genere fra diversi stili di arti marziali e, ovviamente, vince sempre nella competizione WuLin. Il giovane combattente viene notato dall’ineffabile Donaka Mark e, dietro ricchi compensi che aiutano il povero ragazzo a fare del bene, lo irretisce nel suo sistema di combattimenti a scopo di lucro e con finale violento. Sistema illegale su cui indaga una solerte ispettrice (Karen Mok) dalle cui indagini inizia il film.

Film che, coi suoi 18 combattimenti per la durata di 40 minuti sui 105 totali, si inserisce di diritto nel genere “arti marziali” inaugurato da Bruce Lee e poi proseguito dal figlio Brandon Lee e da tutte le super produzioni più recenti – è un colossale spreco di denaro e si vede: scenografie sontuose fanno da sfondo ai combattimenti (notevoli) e ai dialoghi (senza vita) di una sceneggiatura che risolve il dilemma del Tai Chi applicato alla lotta in poche battute. Keanu Reeves ha senz’altro la stoffa del regista che dirige con mano sicura grandi sequenze, ma il film, in competizione ravvicinata con capolavori del genere come “la Tigre e il Dragone” risulta perdente: critiche ondivaghe e miseri incassi: a fronte di un budget di 25 milioni di dollari ne incassa negli Stati Uniti solo 5 e mezzo. Dunque sarà difficile che vedremo un’altra regia di Keanu, a meno che per la sua opera seconda non si accontenti dei piccoli budget da cinema indipendente.

Carrie, lo sguardo di Satana – rivisto in tv

1976. Brian De Palma (che nei titoli di questo film è Depalma) è già un regista acclamato e con una sua precisa linea narrativa: è passato per la commedia ma la sua strada, è ormai chiaro, saranno il thriller e l’horror: è di due anni prima il grandioso (incompreso alla sua prima uscita) horror rock “Il fantasma del palcoscenico” e l’attesa per questo “Carrie” è tanta. L’ispirazione è il romanzo di un 29enne al suo debutto letterario: Stephen King, che all’inizio non credeva nella qualità della sua scrittura e fu spinto dalla moglie a mandare il manoscritto agli editori: da allora non si è più fermato ed è autore di più di 80 titoli; dopo Shakespeare, Agatha Christie e Conan Doyle, è l’autore più adattato per il cinema, oltre a essere il più censurato nelle scuole statunitensi.

Il romanzo, c’è da dire, ha le sue ingenuità che si trasferiscono al film il quale, visto oggi, sembra un B movie. Salta subito all’occhio che il perverso e malato puritanesimo della madre di Carrie, da cui nasce il disagio emotivo della ragazza, non è spiegato, se non frettolosamente alla fine; tutti i dialoghi sono superficiali e retorici, tipici dei romanzetti d’appendice e dei film di second’ordine e il talento che il regista ha mostrato nei suoi lavori precedenti qui sembra al servizio di una scrittura approssimativa che insegue solo il sensazionalismo di una trama ben congegnata ma rozzamente realizzata. Di fatto il film fu un successo clamoroso, candidatura all’Oscar per Sissy Spacek e al Gonden Globe per Piper Laurie nel ruolo della madre, e si impose come capostipite di un genere maleficamente assai proficuo: il teenager horror.

Perché alla fine questo è: un film per teenager con al centro del racconto il famigerato ballo di fine anno, evento che non appartiene alla nostra cultura e che abbiamo imparato a conoscere dal cinema statunitense: momento topico della cultura adolescenziale americana e topos narrativo in cui ne succedono sempre di ogni – come direbbe un adolescente oggi.

Anche l’adolescenza dell’epoca è visibilmente fasulla: Sissy Spacek all’epoca aveva ben 27 anni, e poteva essere credibile anche come 18enne, ma non certo come ragazzina più o meno 14enne alla quale vengono le prime mestruazioni sotto la doccia della scuola, dopo la partita di basket, fra compagne che la ridicolizzano e tormentano, oggi si dice bullizzano. Lunga sequenza, questa della doccia, che deve aver contribuito al successo in sala: Depalma indugia a lungo sul corpo efebico della protagonista, ammicca con riprese da preambolo erotico, così come prima si è aggirato a lungo fra i vapori dello spogliatoio dove vagano nude e complottiste lolite. Anche gli effetti speciali horror del gran ballo sembrano abbastanza ridicoli: non per rudimentalità dei mezzi dell’epoca ma per la già nota creatività del regista.

Il bello del ballo è William Katt, che due anni dopo è stato protagonista del successo internazionale “Un mercoledì da leoni” di John Milius e ha poi avuto una carriera in discesa. La super cattiva era Nancy Allen che ha continuato con De Palma, che nel frattempo ha sposato, nei suoi film successivi ed è stata protagonista dei primi tre Robocop. La cattiva pentita che cede il suo bello a Carrie per il ballo era Amy Irwing che sarà di nuovo con De Palma in “Fury” ma soprattutto sarà per tre anni compagna di Steven Spielberg, col quale rompe giusto in tempo per perdere il ruolo della coprotagonista in “I predatori dell’arca perduta” e successivi tre sequel; salvo poi rimettersi insieme e sposarsi nel 1984, fare un figlio e divorziare nell’89 con una buonuscita di 100 milioni di dollari: niente male. Nel 1988 è stata la voce del cartoon Jessica Rabbit in “Che fine ha fatto Roger Rabbit?” di Robert Zemeckis. Completa il quartetto degli amici-nemici il giovane John Travolta che aveva debuttato l’anno prima con un ruolo secondario in un horror secondario “Il maligno” con Ernest Borgnine, e l’anno dopo diventerà una star con “La febbre del sabato sera” di John Badham. Betty Buckley, al suo debutto cinematografico, è la comprensiva insegnante di educazione fisica, che difende e sostiene la maltrattata ragazza, ma che non si salva dalla telecinetica furia distruttiva di Carrie, il cui “sguardo di Satana” è solo il sottotitolo italiano in un film che non ha niente a che vedere con Satana.

Carrie ha avuto un sequel nel 1999 “Carrie 2 – La furia” dove ritroviamo Amy Irving, che era sopravvissuta, che più di vent’anni dopo fa la psicologa nella stessa scuola dove in pratica si ripetono gli stessi eventi con un’altra studentessa telecinetica con madre pazza e bullizzata dai compagni di scuola. Nel 2002 esce un altro “Carrie” film tv e nel 2013 un remake per il quale il distributore italiano ha la trovata di anteporre il vecchio sottotitolo al titolo: “Lo sguardo di Satana – Carrie”, film che l'”Alleanza delle donne giornaliste cinematografiche” lo nominò come “remake che non avrebbe dovuto essere fatto”. C’è di buono che la protagonista Chloë Grace Moretz ha 16 anni, e che la psicopatia della madre è stata sviluppata e approfondita tanto da attirare come interprete Julianne Moore. Anche il romanzo, con l’occasione, è uscito in una versione aggiornata. Il film, di certo migliore dell’originale per composizione e realizzazione, non ebbe il successo sperato perché i film cult non si toccano. E basta.

Old Man & the Gun – in tv

82 anni quando il film è uscito, nel 2018, Robert Redford porta in giro le sue rughe come una mappa della sua vita: “Bisogna mostrare la vita sul proprio volto, come è giusto che sia, perché essere anziani, ha il suo fascino. Mi guardo in giro e vedo persone ossessionate dall’età e dalle apparenze. Sono impressionato da quante persone rifatte ci siano in giro: persone senza volto, senza espressione, che rinunciano a mostrare la loro vita”.

E presta questa maschera che sembra di terracotta a un personaggio veramente esistito: Forest Tucker, un vecchio criminale, rapinatore seriale di banche, nonché artista delle evasioni: nel film ne vengono recensite ben 16. Un criminale gentiluomo che, nonostante vittime e testimoni lo raccontino come un vecchio con la pistola, non ha mai sparato un colpo e mai fatto del male a nessuno, perché la pistola è solo per impressionare i rapinandi, che restano pure impressionati dalla sua cortesia.

Diretto con grazia da David Lowery, siamo lontani dalle rapine spettacolari che hanno fatto la storia del cinema di genere: il vecchio gentiluomo, coi due altrettanto vecchi soci, Danny Glover e Tom Waits, si accontentano di poco, quanto basta per tirare avanti fino alla prossima rapina e senza tirarsi addosso troppa attenzione da parte delle forze dell’ordine: sono decenni che vanno avanti così, se non fosse che gli ultimi colpi hanno incuriosito un giovane detective interpretato dal fratello stazzonato di Ben Affleck, Casey, che da bravo segugio in carriera si mette a fiutare le loro tracce in un film che ha l’andamento lento e coinvolgente di una di quelle ballate country che raccontano gli eroi di un west che non c’è più. Ha anche il passo cauto e rilassato del suo vecchio protagonista, che trova anche il tempo di fare il piacione con un’anziana vedova che ha il volto altrettanto segnato dal tempo di Sissy Spacek, star degli anni ’70 e ’80, arrivata alla fama con “Carrie, lo sguardo di Satana” (1976) di Brian De Palma e subito divenuta attrice di culto, e vederli qui duettare ha il gusto di un ingannevole dejà vu, perché i due non hanno mai lavorato insieme, nonostante 50 anni di reciproca conoscenza: tutto il film è pervaso da questo senso di nostalgia, che si acuisce quando nelle immagini “di repertorio” vediamo una serie di ritratti del giovane bandito Redford così come il cinema lo ha consegnato alla nostra memoria, e riconosciamo “A piedi nudi nel parco” come anche “Butch Cassidy” e “Corvo Rosso non avrai il mio scalpo”.

Nel 2016, al compiere dei suoi 80 anni, Robert Redford aveva annunciato il ritiro dalle scene, almeno come attore. Poi nel 2017 torna a recitare accanto alla sua amica Jane Fonda in “Le nostre anime di notte”. E nel 2018 si appassiona al progetto di questo vecchio con la pistola. Nel 2019 si lascia tentare ed entra nel cast del kolossal fantasy “Avengers: Endgame” e i registi, Joe e Anthony Russo, dicono che non è escluso che Redford ci ripensi un’altra volta. E una notizia ancora più recente conferma che sarà nel cast della seconda serie del televisivo “Watchmen”, dai fumetti omonimi, in cui in una realtà distopica Nixon è ancora presidente degli Stati Uniti senza più limiti di mandato, avendo fatto uccidere i giornalisti Bernstein e Woodward che volevano incastrarlo col caso Watergate. Robert Redford, interpretando se stesso, succederà alla morte di Nixon e sarà il nuovo presidente degli Stati Uniti, democratico come è il suo reale impegno politico, in un mondo fantasy in cui non c’è traccia del conservatore Ronald Reagan. Robert Redford come presidente che vorremmo, questo sì un bel ruolo con cui dare l’addio alle scene.

“Lo Stato dell’Unione”, e lo stato della scrittura

LaF, canale tv della Feltrinelli che meritevolmente fa cultura perché specializzata in palinsesti che parlano di libri e non solo, manda in onda preziose serie tv con sceneggiature tratte da romanzi, com’è nel DNA di una casa editrice, dai rarefatti gialli scandinavi ai palpitanti classici della letteratura britannica. Nella settimana del devastante (sociologicamente ed economicamente) San Valentino, LaF manda in onda una miniserie: due puntate, dieci dialoghi, ognuno di dieci minuti, di una coppia di quarantenni in crisi, che si vedono al pub di fronte allo studio della terapista cui si sono affidati, per fare il punto del loro percorso: la serie, con tutti i suoi credits, è un successo annunciato, e a tambur battente, l’autore, l’acclamato Nick Hornby, ripubblica i dialoghi in libro e continua a battere cassa. Se non fosse che…

Sin dalle primissime battute è chiaro che si tratta di un esercizio di stile autoriale molto auto celebrativo: dialoghi brillanti che non perdono mai il ritmo, qua e là addirittura scoppiettanti, recitati con grande naturalezza da una coppia di attori in stato di grazia… ma quella naturalezza mal si addice allo stile della scrittura che non ha nulla di naturale: ammirevole, di nuovo, per il brio e lo humour, ma assolutamente artefatto perché nessuna coppia parlerebbe così dello stato della propria unione. Che, con questo titolo (niente a che vedere col film omonimo del 1948 con Spencer Tracy e Katharine Hepburn a regia di Frank Capra) si fa addirittura metafora dello stato dell’unione del Regno Unito a due passi dalla brexit: la coppia è in procinto di separarsi come tutti gli inglesi dal resto degli europei. In questo senso la sceneggiatura è proprio british e l’autore lo conferma: non c’è conversazione fra due inglesi in cui non si parli di brexit. Resta il fatto che i dialoghi sono artefatti, con l’aggravante della banalità: nell’esplorare l’intimità di una coppia in crisi Nick Hornby non affonda mai il bisturi e si limita a ripetere banalità da rotocalco e da social media; la metà delle conversazioni è spesa addirittura in ipotesi e scenari immaginifici, come se due coniugi in crisi non avessero di meglio da dire e, più realisticamente, da rinfacciarsi. E’ l’apoteosi dell’esercizio di stile di uno che sa scrivere molto bene ma che non sa cosa accade all’interno di una vera coppia sull’orlo del divorzio.

Mi sorprende tanto successo, anche della ripubblicazione in libro, o forse no: la banalità esibita come forma d’arte rassicura le persone banali, che sono la maggioranza, e che decretano il successo col loro consenso.

Anche da cotanto regista, Stephen Frears, (“My Beautiful Laundrette”, “Le Relazioni Pericolose”, “The Queen” per citare solo tre dei suoi migliori film) mi sarei aspettato molto di più: qui si limita a filmare i due interpreti – che fanno tutto il lavoro – in modo pulito e scolastico, come avrebbe potuto fare qualsiasi giovane regista appena uscito da una scuola di cinematografia: non mette un segno d’autore, non firma con un’idea specifica, come avrebbe potuto essere una serie di dieci riprese in piano sequenza senza stacchi, dando al lavoro degli interpreti un vero respiro in tempo reale, teatrale, come del resto è la scrittura.

I lodevolissimi interpreti che hanno davvero dato il meglio sono Rosamund Pike, più attiva al cinema che in tv, e Chris O’Dowd, più attivo in tv che al cinema (ma nell’entourage del regista): si intendono talmente bene da rappresentare una credibilissima coppia in crisi, se non fosse per gli scarsamente credibili dialoghi cui però loro prestano grande naturalezza e fluidità. Fanno da contorno come altri clienti della terapeuta che si affacciano nel pub teatro degli incontri: l’anziana coppia Aisling Bea e Sope Dirisu, e il disperato Elliot Levey.

Per l’Italia “Lo Stato dell’Unione” è stato sottotitolato “Scene da un Matrimonio”, decisamente esplicativo ma anche inopportuno dato che richiama alla mente il film omonimo del 1973 di Ingmar Bergman con Liv Ullmann e Erland Josephson, discusso capolavoro del maestro svedese: lunghissime scene, dialoghi intensi che esplorano fin nei più reconditi dettagli la vita coniugale, niente musica, movimenti della camera minimi ed essenziali: film non facile ma che oggi è una pietra miliare del cinema che verrà ancora ricordata quando della coppia in crisi di Nick Hornby non resterà più traccia.

Resta il merito de LaF, che opportunamente sta diversificando le sue competenze: è di quest’inizio dell’anno 2020 la chiusura di due librerie Feltrinelli a Roma, oltre ad altre storiche su tutto il territorio nazionale: il futuro è qui, in digitale.

Parasite, e la Korea invade Hollywood

Con buona pace del tiranno nordcoreano Kim Jong-un si tratta di un’invasione pacifica e festaiola da indimenticabile Notte degli Oscar per il sudcoreano Bong Joon-ho, soggettista co-sceneggiatore co-produttore e regista: quando si parla di cinema coreano si intende sempre quello sud coreano dato che il nord, nazione totalitaria, non ha un suo vero e proprio cinema, o per lo meno non esiste per il resto del mondo dato che si tratta di produzioni propagandistiche e politicamente addomesticate per il mercato interno. Diverso il discorso per le collaborazioni nell’ambito del cinema di animazione, dato il riconosciuto valore dei creativi nord coreani.

“Parasite” aveva già vinto la Palma d’Oro a Cannes, con voto unanime, primo film sudcoreano a ricevere il premio e anche, in seguito, primo film sudcoreano a essere candidato agli Oscar. Da quel momento in poi passando per i Golden Globe e i BAFTA il film non ha più smesso di ricevere premi e riconoscimenti.

Ma c’è da dire che Bong Joon-ho era già noto ai tycoon holliwoodiani per un curioso film fantasy post-pocalittico, “Snowpiercer” del 2013, coproduzione USA-Korea con regia del nostro, con al centro il dramma del divario sociale. Dramma che ritroviamo in questo “Parasite” a riprova del fatto che il problema è lì molto sentito e che Bong Joon-ho se ne fa portavoce.

Il film ci introduce a una famiglia dei bassifondi di Seoul, genitori e due figli, che vive di sussidio e lavoretti: ma non sono dei cialtroni, tutt’altro, sono culturalmente evoluti e preparati, solo che la miseria li ha incanagliti. Con un colpo di fortuna il figlio viene assunto presso una famiglia benestante, dei quartieri alti, alti anche geo-morfologicamente, e da questo momento in poi, il genio fatto canaglia del quartetto, si insinua nella vita dei ricchi, proprio come un parassita, senza riguardo per chiunque sia da ostacolo al loro progetto. Una commedia nera e grottesca in cui la ben congegnata truffa si rivelerà un fragile marchingegno che si incepperà al primo contrattempo, e lì comincia il gioco al massacro dei colpi di scena. L’autore l’ha definita “una tragedia senza cattivi e una commedia senza clown”.

Alla serata degli Oscar prima arriva quello alla miglior sceneggiatura e l’autore è pienamente soddisfatto. Ma poi arriva anche quello al miglior film internazionale e qui Bong Joon-ho è incredulo per l’inattesa doppietta e ci spiega che è felice che quest’anno sia cambiata l’indicazione della categoria: da miglior film in lingua straniera a miglior internazionale, e la differenza, benché sottile è sostanziale, perché da premio anglo-centrico basato sulla lingua, diventa un riconoscimento al Paese che ha presentato il film, un riconoscimento alla cultura a prescindere dalla lingua. Poi arriva il premio come miglior regista, sfilandolo a Quentin Tarantino che ci credeva molto, e a Martin Scorsese che però Bong Joon-ho omaggia come suo maestro suscitando una standing ovation per l’anziano maestro. Per finire arriva anche il riconoscimento come miglior film, primo film in lingua coreana a vincerlo, ed è la consacrazione.

Personalmente non mi è piaciuto il finale, l’ho trovato un po’ stiracchiato, come se l’autore non sapesse più come uscire dall’incredibile macchina che aveva messo in moto, una brillantissima sceneggiatura che, più di altre, richiede allo spettatore la sospensione dell’incredulità: nel finale si spezza l’incanto della complicità fra spettatore e autore e la lunghissima lettera che viene mandata con l’alfabeto morse è il troppo che stroppia. Ma il film c’è e merita tutti i premi e l’attenzione che sta ricevendo.

In chiusura l’elenco degli Oscar ricevuti dai film che ho visto. Joaquin Phoenix miglior attore per “Joker”, film premiato anche per la miglior musica originale. Brad Pitt migliore non protagonista per “C’era una volta… a Hollywood”, film premiato anche per la scenografia. A “1917” sono andati due premi tecnici: fotografia ed effetti visivi.

The Mule – Il Corriere –

Clint Eastwood a 88 anni è ancora in gran forma e interpreta e dirige un film scritto da Nick Schenk spirato alla storia reale di un ottantenne che per necessità diventa corriere, dapprima inconsapevolmente, di un cartello messicano che movimenta grossi quantitativi di droga. Nella storia, una volta comprese le problematiche familiari del protagonista, non c’è nulla di nuovo – ma il buono, anzi l’eccellente, viene dalla qualità della scrittura che arricchisce di dettagli non banali l’intera vicenda e il protagonista: un vecchio di buon cuore ma sanamente politicamente scorretto che ancora chiama negri i neri e mangiafagioli i messicani, non perché sia razzista ma perché esponente di un’altra epoca. Il film acquista ovviamente spessore per la presenza di Clint come protagonista e regista che si prende e ci prende in giro, complice col suo sceneggiatore, quando qualcuno gli dice che somiglia a Jimmy Stewart (star del cinema in bianco e nero hollywoodiano), cosa che gli è successa nella vita reale, e lui manda sommessamente affanculo.

Il film non ha candidature, né ai Golden Globe né agli Oscar. Oltre al pluri premiato Clint Eastwood il cast schiera altri nome di peso fra i quali Bradley Cooper che quest’anno è candidato agli Oscar come Miglior Protagonista per “A Star is Born” che è anche candidato come miglior film e per la cui regia dice, in un’intervista, di essere stato ispirato dal clima amichevole e rilassato che Clint Eastwood crea sui suoi set. Ma ci sono anche Dianne Wiest (due Oscar all’attivo) Laurence Fishburne, Andy Garcia, Michael Peña, Ignacio Serricchio, Taissa Farmiga e sua figlia Alison Eastwood nel ruolo di sua figlia. Decisamente un film da mettere in agenda anche perché, data la veneranda età di Clint, non si sa quanti ce ne potremo ancora godere.

Orizzonti di Gloria, omaggio a Kirk Douglas

1957. Kirk Douglas, morto un paio di giorni fa alla bella età di 103 anni, è già una star di prima grandezza con all’attivo decine di film e tre candidature all’Oscar: riceverà la statuetta solo nel 1996 “alla carriera”. Il regista Stanley Kubrick è invece a inizio carriera, è qui al suo quarto film e già al suo secondo di ambiente militare: aveva debuttato nel 1953 con “Paura e Desiderio” e con “Full Metal Jacket” del 1987 chiuderà il suo trittico sui film di critica al militarismo: ché di questo si tratta e la sua rigida posizione sull’argomento è sempre stata chiara quanto discussa.

La sceneggiatura del film nasce dal romanzo omonimo del canadese Humphrey Cobb che realmente aveva combattuto in Francia durante la Prima Guerra Mondiale, e prende spunto da alcuni discutibili eventi accaduti all’interno dell’esercito francese: un generale, in vista di riconoscimenti politici, non esita a mandare al massacro i suoi soldati per espugnare “il formicaio”, una strategica e inespugnabile postazione tedesca. E poiché un terzo del suo esercito si ribella agli ordini e non esce dalle trincee, visto il sanguinoso fallimento dell’azione, il generale non esita a dare l’ordine di sparare con l’artiglieria pesante sui suoi stessi uomini per stanarli dalle trincee.

Già apprezzato dai critici, Kubrick si impose all’attenzione e in seguito questo film verrà considerato il suo primo capolavoro per l’uso che fa dei piani sequenza: i generali che dialogano nella sala rococò del castello non stanno mai fermi e la camera li segue con movimenti avvolgenti mostrando sullo sfondo la ricchezza dell’ambiente; e poi il piano sequenza dentro la trincea (che certo avrà ispirato Sam Mendes per il suo “1917”) e altre acrobatiche sequenze sul campo di battaglia che nulla hanno da invidiare ai film moderni.

Il film però, pur con tutti i distinguo odierni – spirito antimilitarista, grande regista, grandi interpreti – resta un film legato ai modelli dell’epoca in cui i buoni sono buoni e i cattivi sono cattivi, senza quei mezzi toni e i caratteri sfumati della cinematografia più moderna. Il cattivo generale è interpretato da George Macready con gran classe, mentre il buono di Kirk Douglas, il colonnello che gli si oppone rischiando la carriera, oggi ha meno fascino, data anche la recitazione del divo che non era certo fatta di sfumature, complice anche la sua bella faccia che sembrava intagliata nel legno. Ma Kirk Douglas ha un altro merito: la produzione, la United Artists, spingeva per un lieto fine ma la star si è opposta e il film ha mantenuto il suo finale amaro, come nel romanzo: tre uomini presi a caso vengono fucilati – uno dei quali portato addirittura in barella – come esempio di rigore a tutta la truppa. Poi i soldati si rilassano a uno spettacolo di varietà prima di essere mandati di nuovo al macello.

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In tarda età Kirk Douglas si è dedicato, anche tramite un suo blog personale, alla campagna morale che chiedeva agli Stati Uniti d’America di chiedere perdono agli afroamericani per le deportazioni dall’Africa, per la schiavitù subita e per tutte le altre ingiustizie: battaglia vinta nel 2008. Del 2004 è la sua ultima interpretazione, “Illusion”, un film onirico in cui recita il ruolo di un vecchio regista morente che fa i conti con l’arte e con la vita. Del 2003 è “Vizio di Famiglia” in cui recita col figlio Michael e col di lui figlio Cameron, nei ruoli di nonno figlio e nipote.

Ultime curiosità: nel film compare una sola donna, Susanne Christian (nome d’arte di Christiane Harlan), una giovane tedesca che canta nel varietà, e che sarà la terza e ultima moglie di Stanley Kubrick. Il terzo ruolo del film, Adolphe Menjou, che interpreta un altro generale bon vivant e poco critico con l’antimilitarismo del colonnello di Kirk Douglas, quando vide il film montato andò su tutte le furie, dato il suo conservatorismo. Winston Chirchill invece lodò molto il film e sottolineò, avendo preso parte personalmente a quel conflitto, come le trincee francesi fossero assai verosimili (e molto simili alle trincee del recentissimo “1917”). “Orizzonti di Gloria” è un film bellico anomalo perché si svolge tutto all’interno delle fila francesi e non mostra mai il nemico. Le riprese si svolsero in Baviera perché la Francia era molto irritata dal progetto, tanto che il film vi venne distribuito solo dal 1975. Kirk Douglas volle di nuovo Stanley Kubrick a dirigere “Spartacus” dopo aver licenziato il regista Anthony Mann per incompatibilità; ma anche Kubrick non fu a suo agio perché la star era anche produttore e per lui era sempre più chiaro che non avrebbe più lavorato sotto costrizioni contrattuali: finito il film emigrò nel Regno Unito per ridefinirsi come l’autore cinematografico che ha preso il controllo su tutte le fasi di produzione dei suoi film.

1917, sorprendente macchina ad orologeria

All’inizio non ci si fa caso. Ma dopo il primo raccordo, nel rifugio dove il generale dà l’incarico ai due soldati, comincia la corsa claustrofobica dentro la tortuosa trincea ed è subito chiaro che si tratta di un lunghissimo sofisticatissimo piano sequenza che coinvolge centinaia di uomini fra comparse figuranti e attori, senza contare la troupe tecnica che non si vede ma c’è, lì, dietro e intorno la macchina da presa che non si ferma un attimo: un solo errore di uno fra i tanti e bisogna ricominciare tutto daccapo. Fino al prossimo raccordo che è un’esplosione, e così di seguito tutto il film è costruito cucendo insieme lunghi e difficilissimi piani sequenza fitti di azione: corse, scoppi, sparatorie, dialoghi… Il pericolo poteva essere quello di rallentare l’azione ma, al contrario, la esalta, introiettando lo spettatore in un’unica sequenza, un’azione che si svolge in tempo reale (apparentemente). Solo per questo il film vale il prezzo del biglietto.

Da spettatore mi viene in mente solo un altro film girato in un unico piano sequenza, vero, senza raccordi artificiali, di 96 minuti, del 2002: “Arca Russa” di Aleksandr Sokurov. Un film in qualche modo sperimentale, girato dentro quel Palazzo d’Inverno di San Pietroburgo in cui abitavano gli zar e che oggi è un museo; una lunga sequenza onirica in cui un visitatore, che è la soggettiva dello spettatore, vaga per le sale vedendo i fantasmi del passato: sicuramente affascinante ma anche, a dire il vero, soporifero. Sokurov riuscì a girare l’intera sequenza solo al quarto tentativo, proprio per gli errori che capitavano, e Mendes ha provato le sue sequenze per sei mesi prima di girarle, e il risultato si vede.

Bisogna ricordare che il primo a usare all’interno di un film un “piano sequenza” – fra le altre innovazioni – fu un geniale venticinquenne che nel 1941 scrisse produsse diresse e interpretò il suo primo lungometraggio: lui era Orson Welles e il film “Quarto Potere”, un’opera arrogante e geniale che rifondò il cosiddetto “cinema delle origini” e che merita un approfondimento a parte.

Fatte le dovute ricognizioni sulla tecnica e lo stile, veniamo alla storia, al genere del film, che è un film di guerra, ma di una guerra poco rivisitata nei recenti decenni, la Prima Guerra Mondiale: un cardine nello svolgimento delle battaglie, perché è l’ultima guerra combattuta muovendo le armate in campo secondo il metodo ottocentesco, con le trincee in campo aperto e i corpo a corpo, con i fucili innestati di baionetta, armi e da tiro e insieme armi da taglio. E’ anche l’ultima guerra in cui vengono impiegati i cavalli e all’inizio del film ne vediamo un paio di carcasse. Ma è anche la prima guerra moderna per il gran numero di innovazioni tecnologiche: a cominciare dal filo spinato e per finire coi carri armati, sono stati impiegati per la prima volta la mitragliatrice leggera e il lanciafiamme, le maschere antigas e i primi aerei bombardieri: un nuovo genere di battaglia che ha portato il conflitto nei centri abitati coinvolgendo, per la prima volta massicciamente, i civili, e lasciando sul campo, insieme ai morti, una impressionante quantità di feriti, mutilati e sfregiati: sono di quel primo dopo guerra le fondazioni, nelle nostre città, delle “case del mutilato”, oggi archeologia architettonica, a significare di come la nuova guerra abbia cambiato la civiltà a venire.

Tutti i film di guerra raccontano grandi battaglie o piccoli episodi realmente accaduti. Fra i più recenti ricordiamo il pluripremiato “Dunkirk”, del 2017, anche quello molto interessante per il montaggio ellittico di scene che si svolgono in contemporanea ma da diversi punti di vista; e poi il più lineare “Midway”, dello scorso anno, dove si racconta la riscossa che gli americani si sono presi sull’atollo di Midway dopo l’attacco giapponese subìto a “Pearl Harbor”, altro gran film del 2001. E poi ci sono i film di guerra che raccontano storie private, di persone realmente esistite come anche di personaggi immaginari, letterari, la cui vita viene stravolta dal conflitto. Questo “1917” è un’ambigua sintesi fra i due generi perché, ispirato dai racconti reali del nonno del regista, è una fiction che racconta un evento verosimile in un contesto vero, ed è anche la storia privata di personaggi che vivono e muoiono nella guerra del loro tempo.

I protagonisti sono due ex attori bambini, inglesi come il regista e il resto del cast in una produzione anglo-americana che schiera grandi interpreti in camei di una sola scena. il 28enne George MacKay, che praticamente ha sulle spalle l’intero film, fra i due è quello che ha il curriculum più lungo, e che ha avuto un ruolo da coprotagonista in un altro interessante film bellico, “Defiance – I giorni del coraggio” del 2008. Il 23enne Dean-Charles Chapman, invece, qui è al suo primo ruolo adulto: ha recitato ballato e cantato in teatro in “Billy Elliot the Musical” ed è poi stato un re adolescente della famiglia Baratheon nella saga tv “Il Trono di Spade”; serie da cui proviene anche Richard Madden, lì della famiglia degli Stark, famiglie in sanguinari conflitti, e qui – curiosità per cinefili – fratello maggiore assai somigliante del giovane coprotagonista: fratello da ritrovare alla fine del film un po’ come accade nell’Oscar 1998 “Salvate il soldato Ryan” di Steven Spielberg di cui rimane indimenticabile la sequenza d’apertura con lo sbarco in Normandia.

Gli altri camei nel cast sono di Colin Firth, Benedict Cumberbatch, Mark Strong, Andrew Scott e la francese Claire Duburcq. Di Sam Mendes, il regista co-sceneggiatore, va ricordato che viene dal teatro e ha debuttato in cinema facendo subito centro con “American Beauty”; ha poi fatto a tempo a dirigere, prima di separarsi un paio d’anni dopo, la moglie Kate Winslet in “Revolutionary Road” con Leonardo DiCaprio, rimettendo insieme la mitica coppia cinematografica del “Titanic”. “1917” mi sembra il suo film più personale, oltre a essere quello più rivoluzionario dai tempi del suo debutto cinematografico. Ha già vinto il Golden Globe come miglior film drammatico e miglior regista ma altri premi sono sicuramente in arrivo.