Archivio mensile:dicembre 2019

Cena con Delitto – Knives Out


Nulla unisce una famiglia come un omicidio, recita il claim, e le cene sono il luogo ideale per i delitti cinematografici. Ma il titolo italiano, benché funzionale e assertivo, è fuorviante, perché rimanda a “Invito a cena con delitto” scritto nel 1976 dal commediografo Neil Simon, e fa immediatamente pensare a un remake. Ma questo è un progetto originale, originalissimo, e il titolo “Knives out” è traducibile come “Fuori i coltelli” o “Coltelli alla mano” per dire dell’atmosfera che si respira in famiglia, oltre a indicare una bizzarra scultura fatta di coltelli che campeggia nel maniero dove avviene il fattaccio. Anche nel suo ritratto, il patriarca, tiene in mano un coltello, a indicare la sua proficua professione di scrittore di romanzi gialli: quindi, chi più, meglio di lui, è in grado di imbastire in due minuti una trama gialla che mette in scena la sua stessa morte? e qui mi fermo perché sono a rischio spoiler, anticipazione.

L’autore, Rian Johnson, deve essersi divertito molto a scrivere e dirigere il film, e ci consegna un giallo che di diritto si inserisce nel filone del giallo deduttivo alla Agatha Christie, quello dove un investigatore segue tracce indizi e trame di un ristretto gruppo di persone per scoprire, fra loro, il colpevole del delitto. E Rian Johnson dichiara apertamente le sue ispirazioni: Agatha Christie, appunto, con “Delitto sotto il sole” “Assassinio allo specchio” “Assassinio sul Nilo” “Assassinio sull’Orient Express” ma anche “Signori, il delitto è servito” ispirato al gioco da tavolo Cluedo che qui viene citato, insieme al già citato “Invito a cena con delitto”. I suoi “Coltelli” sono già in testa nella classifica degli incassi e presto sentiremo parlare di premi.

Certo ispirato al personaggio del belga Hercule Poirot, anche qui l’investigatore ha un nome francofono, Benoît Blanc, interpretato dal quasi ex 007 Daniel Craig: il prossimo film sull’agente speciale al servizio di Sua Maestà la Regina, il suo quinto, il 25° della serie, sarà il suo ultimo, e chissà che questo Benoît Blanc non sia l’ispirazione per una nuova serie gialla: i produttori tendono a serializzare i successi commerciali.

Qui l’investigatore è un consulente del tenente Elliot, Lakeith Stanfield, che insieme all’agente Wagner, Noah Segan, si presenta al castello per indagare sulla morte, apparentemente suicidio, dello scrittore Harlan Thrombey, che aveva riunito per il suo 85° compleanno la sua disfunzionale (e come potrebbe essere altrimenti) famiglia. Il patriarca è interpretato dal 90enne Christopher Plummer, patriara del cinema inglese; e nella famiglia delittuosa ritroviamo due vecchie glorie del cinema anni ’80: Jamie Lee Curtis, nella vita figlia di Tony Curtis e Janet Leigh, e nel film figlia del vecchio scrittore, e Don Johnson come suo marito, attore di B movies e soprattutto marito di Melanie Griffith: in seguito alla separazione si perde fra alcol droga e problemi finanziari; qui li ritroviamo naturalmente invecchiati, senza aiutini estetici, e in gran forma a capeggiare questo cast di gran classe. La coppia ha un figlio bello e antipatico interpretato da Chris Evans, qui nel suo primo ruolo negativo dopo essere stato (quasi) sempre il super eroe Capitan America. L’altro figlio dello scrittore, il suo editore frustrato e depresso, è interpretato da Michael Shannon, che con la spigolosa moglie Riki Lindhome sfoggia un figlio adolescente precoce nazista, Jaeden Martell. C’è poi la vedova di un terzo figlio, interpretata da Toni Collette con vaporoso opportunismo, e sua figlia Katherine Langford impegnata in corsi di studio tanto costosi quanto altrettanto vaporosi. Il centro nodale del racconto giallo è, insieme al vecchio scrittore morto la sera del suo compleanno, la sua fedele affezionata e onesta infermiera-amica, Ana de Armas che, involontaria testimone della morte del vecchio, e non posso aggiungere altro, diventa l’occhio del ciclone che investe l’intera famiglia. Completano il cast Edi Patterson come segretria e grandi vegliardi caratteristi come Frank Oz, il notaio, M. Emmet Walsh, il guardiano del maniero, e K Callan come vecchissima (nessuno sa la sua età) madre del defunto: quasi un soprammobile che nessuno considera ma che ovviamente sarà determinante per la soluzione dell’intrigo.

Intrigo eccellente: a metà film sappiamo già tutto sulla morte del patriarca ma il giallo si sposta su un altro piano: come farà l’investigatore a scoprire l’inganno e, soprattutto, chi lo ha assunto ancora prima che il fattaccio accadesse? I colpi di scena si susseguono e spostano sempre altrove il punto focale dell’intrigo in questo film che, a mio avviso, è uno dei migliori gialli degli ultimi decenni.

L’Immortale, opera prima di Marco D’Amore

Film riuscito, quanto ambiguo. L’Immortale era il soprannome di Ciro Di Marzio, tormentato coprotagonista della serie tv Sky “Gomorra” generata dall’omonimo debutto letterario – ormai divenuto un simbolo e un brand – di Roberto Saviano: dopo esserne stato realizzato un film, anch’esso di successo, Gomorra ha continuato a vivere come serie tv. Il soprannome l’Immortale non ha bisogno di spiegazioni in un micro mondo narrativo che parla di camorra e malvivenza, eppure, l’immortale Ciro Di Marzio, alla fine della terza stagione muore, forse perché il personaggio, involuto nei suoi tormenti, quasi macbethiani, era giunto alla fine della sua crescita narrativa.

Non ho testimoni da chiamare a supporto: sin da subito ho pensato che quel cadavere che sprofonda nel mare sarebbe riemerso a nuova vita: nella trama della serie vi era un precedente, un teaser narrativo interno, apparentemente secondario: un paio di scagnozzi erano stati fintamente giustiziati, nel gioco del dare e dell’avere dei boss, e poi buttati in mare, salvo essere ripescati indenni e lontano da occhi indiscreti. Dunque anche Ciro Di Marzio sarebbe riemerso dalle acque dell’altro mondo? La mia previsione-aspettativa è andata delusa nel corso della quarta stagione: l’Immortale era definitivamente morto e il suo interprete, Marco D’Amore, era passato alla regia firmando due episodi.

Con questo film, spin-off e crossover della serie, si svela il più ampio disegno: Marco D’Amore, che oltre a essere un ottimo attore è anche una mente pensante (nel 2015 scrive produce e interpreta “Un posto sicuro” film bello e impegnato sui disastri dell’eternit) aveva cominciato a pensare all’infanzia non scritta del suo personaggio: un esercizio di immedesimazione e ricognizione del personaggio di stanislavskiana memoria molto stiloso, che lo ha portato a scrivere delle pagine che, sottoposte al team di scrittura della serie, sono diventate la sceneggiatura del film e il punto di ritorno del suo personaggio nella serie, di cui effettivamente nel corso della quarta stagione si è sentita la mancanza, perché Ciro Di Marzio era una stella di prima grandezza che brillava grazie anche alle qualità del suo interprete.

Dunque: nell’arco narrativo della serie il film si pone alla fine della terza stagione e si sviluppa come un progetto autonomo, comprensibile anche a chi non è spettatore della Gomorra tv. Ciro viene ripescato, rimesso in piedi e inviato a Riga, in Lettonia, a curare gli interessi stupefacenti del boss Don Aniello già visto in tv e interpretato da Nello Mascia. Lì, fa e disfà, apprende comprende e utilizza dinamiche nuove e più ampie: quelle che a casa erano guerre fra boss di quartiere qui sono conflitti fra boss di altra levatura, dove lo spaccio della droga va di pari passo con l’affermazione di identità culturali russe con diverse sfumature di rosso e di nero. Ampio spazio è ovviamente dato ai ricordi dove scopriamo l’infanzia di Ciro e la nascita del suo soprannome, e nell’insieme è un film di spessore: mai banale laddove percorre narrative già viste, e maledettamente intelligente a porsi come anello di congiunzione fra la terza e la quinta stagione della Gomorra tv dove l’Immortale tornerà protagonista: alla fine del film è riaccolto in patria dal fratello di sangue Genny (Gennaro) Savastano, l’altra stella di prima grandezza interpretato da Salvatore Esposito. “L’Immortale” è subito andato in vetta nella classifica degli incassi e non escludo dei riconoscimenti ai prossimi David di Donatello sempre attenti al flusso economico oltre ai valori artistici.

Marco D’amore si auto incorona autore: co-firma soggetto e sceneggiatura e debutta in regia dopo essersi fatto le ossa nella scuderia della serie e realizza un film che, benché legato a un mondo e uno stile già noti, lascia delle tracce personali con delle inquadrature eleganti e personali di buona scuola cinematografica. Anche il cast è stato scelto in totale autonomia dall’autore e va tutto a segno: Giuseppe Aiello è Ciro bambino e gli altri interpreti sono: Salvatore D’Onofrio e Giovanni Vastarella che interpretano Bruno, da anziano nell’oggi narrativo, e da giovane quando prese sotto la sua protezione il piccolo Ciro già immortale; Marianna Robustelli e Martina Attanasio sono due importanti figure femminili del racconto sospeso fra presente e passato, e Gennaro Di Colandrea e Aleksey Guskov completano il cast. Bentornato Ciro l’Immortale!

Il Generale Della Rovere – Fascismo e Resistenza nel cinema d’autore

Di cinema, fiction &....: Il Generale Della Rovere, 1959

«Caro Signor Rossellini
ho visto i suoi film ‘Roma città aperta’ e ‘Paisà’ e li ho apprezzati moltissimo. Se ha bisogno di un’attrice svedese che parla inglese molto bene, che non ha dimenticato il suo tedesco, non si fa quasi capire in francese, e in italiano sa dire solo ‘ti amo’, sono pronta a venire in Italia per lavorare con lei.

Ingrid Bergman»

Inizia così, nel 1948, una storia d’amore cinematografica molto chiacchierata, dato che entrambi erano già sposati, e Roberto Rossellini lo era, poi, nientemeno che con Anna Magnani. Ma andando oltre il pettegolezzo, i due film che Ingrid Bergman cita compongono, insieme a “Germania Anno Zero“, la “trilogia della guerra antifascista” del maestro italiano che, ispirato dal nuovo amore, gira subito con lei un soggetto che era stato pensato per la Magnani, “Stromboli”, la quale gli risponde girando in contemporanea “Vulcano” diretta dall’ebreo tedesco-americano William Dieterle, esponente di quella diaspora di cineasti tedeschi fuggiti negli Stati Uniti a causa delle persecuzioni naziste. Entrambi i vulcanici film non furono però un successo al botteghino. Il sodalizio sentimentale e artistico di Roberto Rossellini e Ingrid Bergman si concluse dopo “Giovanna d’Arco al rogo”, ripresa cinematografica di uno spettacolo teatrale basato sull’omonima opera musicale di Paul Claudel: dopo sei film, nessuno dei quali memorabile, e tre figli, la coppia si separa: la riuscita artistica non era nel pacchetto, il neorealismo italiano che tanto fascino aveva avuto sulla Bergman spettatrice non si addice all’attrice internazionale, la quale torna a recitare in America dove vincerà il secondo di tre Oscar con “Anastasia” mentre Rossellini va in India dove appunto gira “India” del 1958 e conosce e sposa la sua terza moglie, una sceneggiatrice indiana.

I metodi del neorealismo – con l’apparente mancanza di preparazione e, spesso, anche di una sceneggiatura completa, o un’attenta costruzione della scena, che rendono il cinema di Rossellini (e non solo) così simile alla realtà proprio per questa assenza di impostazione tecnica – era sentita allora come indice di modernità, e fu anche di ispirazione per i cineasti della Nouvelle Vague francese, e non solo. Il cinema europeo del dopoguerra faceva necessariamente i conti col conflitto appena concluso, e ogni Paese lo ha raccontato a suo modo, e qui vale la pena ricordare che l’unica nazione a non avere nell’immediato dopoguerra una vera e propria cinematografia fu la Germania “colpevole” di aver dato vita al nazismo e subito divisa nei due blocchi che crolleranno nel 1989; ebbe una cinematografia politicamente spaccata in due, come la nazione, per la maggior parte ispirata proprio al neorealismo italiano: ma mentre a occidente si realizzavano film “rieducativi” antinazisti, a oriente si facevano film “educativi” al socialismo. Per non dire di tutti i professionisti che erano scappati in America dove non solo al cinema faranno grandi cose. Ricordiamo alcuni nomi austro-tedeschi a Hollywood: Fritz Lang, Peter Lorre, Georg Wilhelm Pabst, Otto Preminger, Erich Von Stroheim, Billy (Samuel) Wider, solo per citare i primi che vengono in mente.

1959, finalmente è l’anno di “Il Generale Della Rovere” che nelle intenzioni dell’autore è un film “di transizione”, quasi un ripiego alle necessita produttive e commerciali del momento: dopo l’India avrebbe voluto filmare il Brasile, ed è di quegli anni l’ispirazione a un ampio progetto alla cui realizzazione avrebbe dedicato il resto della sua carriera e della sua vita: un’enciclopedia di stampo scientifico e didattico sullo sviluppo tecnologico degli audiovisivi, e in particolare sulla capacità narrativa della nascente televisione nella quale avrebbe avuto molto da dire ad alti livelli.

È a Parigi dove sta cominciando a lavorare al documentario tv in 10 puntate di “L’India vista da Rossellini” e accetta di girare questo film di stampo tradizionale solo per compiacere i produttori italo-francesi. Il soggetto è di Indro Montanelli che ha firmato la sceneggiatura con Sergio Amidei e Diego Fabbri, che nasce da un’esperienza personale di Montanelli che imprigionato dai tedeschi a San Vittore, Milano, conosce un certo Giovanni Bertoni realmente fucilato dai tedeschi e i cui familiari, dopo l’uscita del film, intentano causa contro il regista per diffamazione nonostante il nome del protagonista sia stato blandamente mutato in Emanuele Bardone; dal successo della sceneggiatura successivamente Montanelli svilupperà il romanzo omonimo.

La diffamazione sta nel fatto che Bertoni/Bardone è un truffatore, giocatore incallito e frequentatore di prostitute, che come fasullo Colonello Grimaldi raggira i parenti di prigionieri millantando aderenze fra i tedeschi e spillando denaro, se non per farli rilasciare, per lo meno evitare di farli trasferire nei campi in Germania. In realtà è in combutta con un sottufficiale della Gestapo al quale passa la metà dei proventi in denaro, quando non li ha persi tutti al tavolo del baccarà. Il generale del titolo è un importante esponente della resistenza italiana che il colonnello Müller contava di catturare per poterlo poi scambiare con importanti prigionieri tedeschi, ma il partigiano viene ucciso in un’improvvida sparatoria e al dunque propone al miserabile truffatore dai modi eleganti di fingersi il Generale Della Rovere nel braccio dei prigionieri politici del carcere di San Vittore, per raccogliere informazioni sulla resistenza. Va da sé che una volta in prigione e a stretto contatto con i veri combattenti per la libertà italiana, il malfattore ha una conversione morale e muore da eroe. Grande successo al botteghino e Leone d’Oro a Venezia, ex aequo con un altro film bellico, sulla prima guerra mondiale, “La grande guerra” di Mario Monicelli che guarda al conflitto con dissacrante ironia.

Oggi il film, pur mantenendo intatta la sua forza narrativa, risente del tempo e mostra, quasi come uno spaccato sul cinema di quell’epoca, la rudimentalità dei mezzi tecnici: è il primo film italiano in cui si usa lo zoom e le ricostruzioni in studio a Cinecittà (il cui ingresso sulla via Tuscolana, corredato di due garitte militari, viene filmato come ingresso di un kommandantur) sono abbastanza riconoscibili soprattutto nell’ambientazione carceraria; le scene più dialogate, molto statiche e con pochi controcampi, sono filmate con gli attori che si posizionano in favore della cinepresa come a teatro si sarebbero posti in favore del pubblico.

Il protagonista, che ha come antagonista il tedesco Hannes Messemer che recita bene anche in italiano, è il 59enne Vittorio De Sica in stato di grazia che, consapevole dell’impegno, per l’occasione rende più fluida e veritiera la sua recitazione, altrove sempre abbastanza manierata e gigionesca. L’anno prima era stato candidato agli Oscar come non protagonista per “Addio alle armi” da Hemingway, regia di Charles Vidor con Rock Hudson e Jennifer Jones; c’era anche Alberto Sordi. Ma la maggior parte dei premi e delle candidature di De Sica sono dovute alla sua attività di regista, dove ha sicuramente dato il meglio di sé firmando film memorabili che qui sarebbe troppo lungo elencare, ma basta ricordare “Il giardino dei Finzi-Contini” del 1970 che rientra in questa casella di film sul Fascismo e la Resistenza.

Nel cast la “partecipazione speciale” di Sandra Milo e Giovanna Ralli, che Rossellini deve essersi divertito nello scambiargli il colore dei capelli, facendo bruna la prima e platinata la seconda. Il terzo nome femminile è quello della francese Anne Vernon, come compromesso della coproduzione. Ma il terzo ruolo più interessante è affidato al caratterista per tutte le stagioni Vittorio Caprioli, sempre a suo agio sia in ruoli drammatici che brillanti. Nella scena finale fra i prigionieri in anticamera per la fucilazione troviamo Ivo Garrani come capo dei partigiani, un giovane Franco Interlenghi e, omaggio al De Sica regista, Lamberto Maggiorani, che nel suo intervento fa riferimento a una bicicletta: da operaio, De Sica ne aveva fatto, un paio d’anni prima, il protagonista di quel “Ladri di biciclette” che riceverà Oscar, Golden Globe, BAFTA e Nastri d’Argento.

Nel 2011 ne è stato fatto un film in due puntate Rai con la regia di Carlo Carlei e l’interpretazione di Pierfrancesco Favino. Un remake cinematografico sarebbe oggi immaginabile con quel George Clooney molto in sintonia con l’Italia e l’antimilitarismo, nonché con quel pizzico di cialtroneria, voluta e controllata, che spesso ritroviamo nelle sue interpretazioni. Chi gli telefona per dirglielo?