Archivio mensile:ottobre 2019

L’Innocente

1976. Ultimo film di Luchino Visconti, che malato lo ha girato in carrozzella e muore quando ancora la pellicola è in post produzione e il montaggio definitivo verrà curato dalla co-sceneggiatrice Suso Cecchi D’Amico, la quale aveva raccolto le sue ultime indicazioni. Il film vincerà solo il David di Donatello a Franco Mannino per le musiche e ricordiamo, anche per farci un’idea del periodo, che è l’anno del miglior film “Cadaveri eccellenti” di Francesco Rosi, migliore attrice Monica Vitti per “L’anatra all’arancia”, miglior attore un ex aequo per Ugo Tognazzi “Amici miei” e Adriano Celentano “Bluff”, migliore attrice straniera altro ex aequo per Isabelle Adjani “Adele H” e Glenda Jackson “Il mistero della Signora Gabler”, miglior attore straniero ulteriore ex aequo (forse non si voleva scontentare nessuno) per Philippe Noiret “Frau Marlene” e Jack Nicholson “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, mentre miglior film straniero è stato “Nashville” di Robert Altman. Ma i David di Donatello di quell’anno si arricchirono di un premio speciale intitolato proprio all’appena scomparso Luchino Visconti e che è andato a Michelangelo Antonioni per “Professione: reporter”. Il David “Luchino Visconti” verrà assegnato fino al 1995, a Pupi Avati come sorta di premio alla carriera. Poi questo premio verrà accantonato.

Torniamo al film. E’ ispirato a un romanzo omonimo di Gabriele D’Annunzio che non è fra le sue opere fondamentali: si tratta di una sorta di racconto sperimentale di stampo modernista pur non mancando il “superomismo” e il decadentismo fine ‘800. Il romanzo si apre col protagonista, Tullio Hermil, che sara l’io narrante della storia, e che scrive del funerale del piccolo Innocente che intitola il romanzo.

Nulla di tutto ciò nel film, e chi non conosce il romanzo si chiederà fino alla fine, quando il bambino morirà, chi è l’Innocente, cercando di individuarlo fra i tre protagonisti: il dandy egocentrico e piacente, rigoroso con gli altri ma non con se stesso, interpretato con cipiglio da un sempre eccellente Giancarlo Giannini, star italiana dall’impressionante curriculum anche internazionale, che proprio l’anno prima era stato candidato all’Oscar insieme alla regista Lina Wermuller per “Pasqualino Settebellezze”: della Wertmuller sarà un attore feticcio, e lei lo utilizzerà sempre come maschera popolare, essendo il suo cinema espressione di quel mondo.

Secondo nome nel cast è Laura Antonelli, come remissiva Giuliana moglie di cotanto marito: donna pudica e apparentemente frigida, rassegnata a quella situazione maritale fatta ormai solo di stima e rispetto. Ora, tutti sappiamo quale sia stata la carriera di Laura Antonelli, nativa di Pola e profuga con la famiglia durante l’Esodo Istriano: verrà ricordata Insieme a Femi Benussi, Alida Valli e Sylva Koscina come una “delle bellissime quattro” dalmato-istriane. Dopo una variegata carriera con piccoli ruoli o film dimenticati, arriverà al successo con “Malizia” di Salvatore Samperi, accanto a Turi Ferro e la giovane promessa Alessandro Momo prematuramente scomparso per un incidente motociclistico. Sarà uno dei più grandi successi del filone sexy all’italiana e il resto della sua carriera sarà improntato su questo genere, passando anche per la cosiddetta “commedia all’italiana” e da un cachet da 4 milioni di lire a uno di 100 milioni, per film. Dopo “Malizia”, che le era valso anche il Nastro d’Argento come migliore attrice, era passata al cinema d’autore, o per meglio dire al cinema sexy d’autore: ha partecipato al film a episodi “Sesso matto” di Dino Risi, poi rifà la siciliana in “Mio Dio come sono caduta in basso!” di Luigi Comencini, segue “Divina Creatura” di Giuseppe Patroni Griffi e finalmente arriva quella che avrebbe dovuto essere la consacrazione con Luchino Visconti dove sì, mostra il seno, ma il suo personaggio è senza erotismo e la sua recitazione piatta, come sempre e nonostante i premi, politici e di mercato. A 45 anni tenterà ancora l’eros d’autore con “La Venexiana” di Mauro Bolognini fino al finale tragico di “Malizia 2mila” del 1991, dove con Samperi tenterà di bissare il successo della Malizia del 1973: ha 50 anni e il produttore Silvio Clementelli le impone iniezioni di collagene al viso: il film fu un flop e lei rimase permanentemente sfregiata; seguirono depressione, con ricoveri presso un centro di igiene mentale, uso di stupefacenti con conseguenti denunce, e contro denunce al Ministero di Grazia e Giustizia per ottenere un indennizzo. E’ morta in miseria a 73 anni.

Terzo nome nel cast e nel romanzo è quello della bella nobildonna Teresa Raffo, amante di Tullio, interpretata dall’americana Jennifer O’Neill, attrice di moda negli anni Settanta e Ottanta con nessun film memorabile nel portfolio; era già stata interprete in Italia di “Gente di rispetto” di Luigi Zampa dal romanzo di Giuseppe Fava e poi sarà anche nell’horror-spaghetti “Sette note in nero” di Lucio Fulci. Erano i decenni in cui nel cinema italiano – quasi unico al mondo – recitavano interpreti di vari paesi in un’insalata linguistica che poi veniva risolta in sala doppiaggio.

Il film, certamente anche grazie alla scrittura di Suso Cecchi D’Amico, si distacca dal romanzo e mette in evidenza le istanze femminili fra cui, soprattutto, il tema del diritto alla maternità come anche quello dell’auto determinazione, sia come comportamento pubblico (la nobildonna) che in quello, assai più delicato, della libera decisione nell’aborto: sono temi politici molto importanti per la società italiana dell’epoca. Per il resto il film è un prodotto tipico di Visconti: opulenza, rigore nella ricerca stilistica di ambientazioni e costumi, sicurezza nell’intero impianto, anche attoriale, nonostante le insalate linguistiche dell’epoca e l’inadeguatezza di Laura Antonelli. Nel cast anche il francese Marc Porel, esibito da Visconti in uno dei suoi nudi integrali maschili, nel ruolo delle scrittore altrettanto dandy, quindi da subito diretto rivale del protagonista, che fa tornare a palpitare la troppo presto abbandonata Giuliana Hermil, dandole la maternità del povero Innocente che Tullio Hermil sacrificherà all’orgoglio del suo ruolo di marito padrone. Da ricordare anche la partecipazione di Rina Morelli come madre nobile: un’interprete di teatro che col compagno Paolo Stoppa aveva fatto “ditta” insieme a Luchino Visconti: la sua interpretazione, essenziale e dimessa, è di una modernità sconcertante. Ma nell’insieme, il film, come firma conclusiva della vita artistica e terrena del Maestro Luchino Visconti, non è fra i migliori. Se non addirittura il peggiore. Che nulla toglie alla grandezza di un maestro cine-teatrale del Novecento, con una personalità fatta di chiari e scuri, che mi piacerà tornare a raccontare prossimamente.

L’inquilino del terzo piano – rivisto in tv

1976. Roman Polanski viene da successi internazionali come “Rosemary’s Baby”, cui “l’Inquilino” si accomuna per le atmosfere di horror quotidiano che scaturiscono da relazioni sociali degenerate, e “Chinatown”, ultimo film americano del regista polacco; che però è anche reduce dal criticato “Macbeth” per i nudi ma soprattutto per le scene di cupa violenza che, come dissero le critiche allora, erano forse dovute al trauma che Polanski aveva subito: l’assassinio ad opera della setta di Charles Manson della moglie incinta, Sharon Tate, a due settimane dal parto.

Quando lo vidi al cinema avevo 17 anni: mi inquietò ma non capii molto e rivederlo a così tanti anni di distanza è stato illuminante. Trovo che Polanski come protagonista sia insieme il punto di forza e il punto debole. Con la sua faccia ordinaria è perfetto come impiegato sopraffatto dalle circostanze: vi mette se stesso, la sua nazionalità polacca, le sue difficoltà a inserirsi in nuovi ambienti e culture. Il film, che ha nel cast interpreti sia francesi che americani, viene girato nelle due lingue, e in post produzione doppiato per i rispettivi mercati: lui si doppia col suo accento polacco sia in inglese che in francese e anche italiano facendone davvero un’opera sua a tutto tondo. Ma come attore oggi trovo che non fosse all’altezza: a mio avviso non interpreta adeguatamente la progressione di follia in cui precipita il personaggio, così che a un certo punto la follia arriva come all’improvviso. Di tutt’altro tono la regia, sempre sicura nel condurre lo spettatore in questa spirale insensata di persecuzioni e trasfigurazioni.

La sceneggiatura che Polanski ha scritto insieme a Gérard Brach è tratta dal romanzo di Roland Topor, attore (in Italia sarà nel film “Ratataplan” di Maurizio Nichetti, 1979) ma anche scrittore illustratore scenografo e altro ancora, ebreo polacco nato nel 1938 e rifugiato con la famiglia in Savoia per sfuggire ai nazisti che nel ’39 invasero la Polonia. Nei primi anni ’60 sarà tra i fondatori del movimento surrealista Panico, assieme a Fernando Arrabal e Alejandro Jodorowsky: frequentazioni e umori creativi che certamente pervadono il suo romanzo “Le locataire chimérique” inizialmente tradotto in Italia come “L’inquilino stregato” prima che il film lo sdoganasse come “del terzo piano”: non ho letto il romanzo ma leggo delle sue atmosfere surreali e fortemente simboliche, che però Polanski trasferisce in una quotidiano naturalismo, straniante e davvero angosciante che, come nel romanzo, non trova una vera spiegazione nel finale che chiude il cerchio con l’inizio: è un rompicapo psicologico in cui ognuno può trovare ciò che vuole secondo le proprie immaginazione e sensibilità. In ogni caso il film, non amato dal pubblico e dalla critica contemporanei, rimane un gioiello di genialità.

il cast è ricco e variegato e in ruoli di contorno troviamo interpreti già acclamati a riprova del fatto che Roman Polanski era già nell’empireo dei grandi registi del cinema internazionale con cui tutti vogliono lavorare: altrimenti non si spiega Isabelle Adjani, fresca di Oscar e di David di Donatello per “Adele H” di François Truffaut, come spalla in un ruolo senza particolare appeal. Altrettanto sprecata mi pare Shelley Winters, due Oscar e due candidature in una carriera atipica fatta di protagoniste come di secondi ruoli: nell’Inquilino fa la portinaia e da spettatore mi aspetto sempre che il suo personaggio decolli, dato il peso dell’interprete, ma così non è. Nel ruolo dell’inquietante padrone di casa c’è la vecchia star hollywoodiana Melvyn Douglas (Oscar 1964) e in quello dell’altrettanto inquietante vicina troviamo Jo Van Fleet (Oscar 1956). Altri interpreti del cinema francese. già noti e che lo saranno in futuro: Lila Kedrova (Oscar 1965), Claude Piéplu, Rufus, Michel Blanc e Josiane Balasko.

Un remake? Forse con Johnny Depp.

tuttAPPosto, la filosofia della minchiata

Tuttapposto è un’app che gli studenti universitari di un’immaginaria città siciliana (i set reali sono stati Acireale e Catania) creano per valutare e denunciare l’operato di un corpo decente familista e corrotto: l’idea è vincente e ha prodotto un film per universitari che riempiono la sala e che ridono molto generosamente a battute e situazioni che li riguardano molto da vicino. Mente del progetto è il giovane comico palermitano Roberto Lipari che scrive il film con un paio di amici e si fa dirigere da Gianni Costantino, regista attivo nel dirigere comici in commedie dimenticabili tipo “Ravanello pallido” con Luciana Littizzetto. Personalmente non amo i comici al cinema, li apprezzo nel tempo limitato di uno sketch televisivo. Amo ancora meno i comici siciliani perché nel loro umorismo riconosco l’idiozia del siciliano comune: la loro capacità è quella di cogliere e sintetizzare la comicità diffusa di un popolo e rivenderla come genio individuale: è quello che ha fatto Nino Frassica negli anni ’80.

Roberto Lipari fa lo stesso e si mette in film col suo stesso nome: è simpatico, fa sorridere, gli universitari in sala ridono di cuore alle sue battute che sono le loro stesse, retorica e luoghi comuni in cui si riconoscono, qui conglomerati in un film consolatorio che fa leva sul sentire comune delle marachelle giovanili pervase di buoni sentimenti e con lieto fine dietro l’angolo. Il suo film fa l’apologia della minchiata e ne spiega la filosofia alla bella studentessa russa in viaggio con Erasmus; e di minchiata in minchiata mette insieme una sceneggiatura vivace, ricca di caratteri gradevoli intelligentemente affidati a veri attori professionisti, noti e non, che riescono a dare spessore alla carta velina.

Il padre, Magnifico Rettore, è Luca Zingaretti che ahinoi ricicla il suo dialetto sicilianese di Montalbano e sembra incartato in un personaggio in cui non crede, poco credibile anche per un trucco e parrucco approssimato: si vedono il bordo e la colla dei capelli ad aureola intorno alla sua troppo famosa pelata e baffi e barbetta sembrano quelli del parrucchiere sotto casa. Molto meglio la madre, Silvana Fallisi, nella vita moglie di Aldo Baglio (Aldo Giovanni e Giacomo) qui nel ruolo di una casalinga che sfoga la sua infelicità matrimoniale (è solo un’intuizione) nel fare torte, ma che si prenderà la sua rivincita nel finale.

Il corpo docente è variegato: ci sono i caratteristi di lungo corso come Paolo Sassanelli, Ninni Bruschetta e un Maurizio Marchetti che, qualsiasi sia il film o la serie tv, drammatico o brillante, non è mai sottotono né sopra le righe e conferisce ai suoi personaggi una sempre fluida credibilità; e ci sono i volti meno noti ma non per questo meno validi: Angela Di Mauro, Maurizio Bologna, Angelo Tosto, Gino Astorina e una godibilissima Barbara Gallo come abbottonatissima professoressa sessuofoba che si trasforma in una scollacciata milf sessuomane dai generosi decollété.

Gli amici studenti sono interpretati da Viktoriya Pisotska, Francesco Russo, Carlo Calderone e Simona Di Bella. Completano il cast Sergio Friscia come ristoratore e Monica Guerritore come ministra dell’Istruzione in un film che, facendo della filosofia della minchiata il suo corpo narrativo, come andrebbe definito?

Vivere, tutto qui

Un titolo assoluto, un verbo pieno di significati, titolo di una sola parola come usava durante il Ventennio. Torna in mente anche la canzone di Vasco Rossi, e col punto esclamativo è anche un film di Zhāng Yìmóu che nel 1994 ha vinto a Cannes il Gran Premio Speciale della Giuria mentre “Pulp Fiction” vinceva la Palma d’Oro: altri orizzonti; ma dopo aver visto il film il richiamo più immediato è la soap “Vivere” Mediaset: un’iperbole per dire che la collocazione più naturale del film, prodotto da Rai Cinema, è il piccolo schermo. Diciamolo, non è fra i migliori di Francesca Archibugi e, dico pure questo, la Archibugi non è fra i miei registi preferiti perché, tranne qualche occasione (“Con gli occhi chiusi” “Questione di cuore”) racconta esclusivamente il mondo da cui proviene, dell’alta borghesia romana con tutti i derivati e corruzioni. E soprattutto continua a raccontare la se stessa adolescente del folgorante debutto “Mignon è partita”: Francesca Archibugi è una regista di bambini e adolescenti, femmine o maschi, italiani o stranieri o nativi stranieri adottati italiani, poco importa, al centro dei suoi film c’è sempre un adolescente e le sue storie che, immancabilmente, si svolgono tutte all’interno di un micromondo alto borghese con sofferte incursioni nei quartieri popolari di Roma.

“Vivere” continua ma non esalta questa serie. Racconta di una famiglia oltre l’orlo della crisi di nervi composta da un giornalista di second’ordine, Adriano Giannini, che da subito ha lo sguardo attento ai culi delle belle ragazze. Sua moglie è la “svalvolata” (definita così dal figliastro) Micaela Rammazzotti, borgatara, distratta, incasinata e casinista; insieme hanno una figlia, La piccola Lucilla (Elisa Miccoli) che dà pensieri, povera stella, perché soffre di asma, e ci è subito chiaro che si tratta di una sofferenza psicosomatica la cui colpa è di cotanta famiglia; c’è poi il primo figlio di lui, Pierpaolo (Andrea Calligari), diciassettenne – ci siamo, ecco l’adolescente! – avuto per sbaglio con la bella e austera Azzurra (Valentina Cervi) figlia di un Avvocato (Enrico Montesano) dell’altissima borghesia romana – e ci siamo di nuovo! – sorta di eminenza grigia che riceve in casa i ministri della repubblica per criticarne un certo lassismo morale ma – e qui siamo in vera soap opera – da che pulpito! come scopriremo.

Corpo estraneo alla scombinata famiglia, ma anche troppo presto metabolizzato, è la ragazza alla pari cattolicissima irlandese (Róisín O’Donovan) su cui mettono gli occhi sia l’adolescente che il padre: è subito chiaro chi dei due andrà in porta, e la metafora sessista non è casuale: l’adolescente è caruccio ma quando frequenta l’amici con la grana fa lo stronzetto: la foto rubata di un pompino, nell’alta società è valutata 500 euro; mentre il padre è un bel quarantenne tormentato, dal lavoro con cui non riesce a campare la famiglia, e dalle donne: si sente incompreso e solo, po’rello. Il tutto è osservato, e scandito, dallo sguardo attento e curioso, che incuriosisce, di un vicino solitario che già all’inizio del film sbircia nella spazzatura dei rumorosi vicini e che ha la maschera sospesa e la voce chioccia di Marcello Fonte, miglior attore a Cannes per “Dogman” di Matteo Garrone; è sempre pronto a soccorrere ed ascoltare, anche origliare, e una scena fa addirittura sospettare che sia un pedofilo. Completa la telenovela Massimo Ghini che irrompe nel ruolo del luminare che prende in cura la piccina asmatica e che, vedovo attempato, non può che innamorarsi della svalvolata così piena di vita, la quale sembra ricambiarlo perché gratificata dalle eleganti attenzioni a cui il marito non l’ha mai abituata.

Gli elementi della cinematografia di Francesca Archibugi ci sono tutti, ma anche gli elementi della soap opera in cui si affastellano personaggi e situazioni senza davvero approfondirne nessuno, e la colpa è tutta della sceneggiatura che la regista firma a sei mani con Francesco Piccolo e soprattutto Paolo Virzì, regista e marito di Micaela Ramazzotti, che definisce anche troppo il personaggio della svalvolata, peraltro già visto e rivisto, lasciando tutti gli altri personaggi in un limbo sospeso: avrei voluto saperne di più del maschio alfa cui Adriano Giannini si dedica al suo meglio; Micaela Rammazzotti fa, come detto, la sua maschera meglio riuscita; Róisín O’Donovan è una piacevole scoperta e la scelta di non sottotitolare i dialoghi in inglese la dice lunga sulla regista: proviene da un mondo in cui si parlano le lingue correntemente e non si cura di chi, per età o estrazione sociale, non ha quelle capacità. Avrei voluto saperne di più anche sul personaggio di Valentina Cervi, algida quanto serve, ma al servizio di una sceneggiatura che ne fa il ritratto affrettato di una borghese attenta sì alle necessita del figlio, ma che invece di preparargli il pranzo ordina al telefono piatti gourmet da centinaia di euro. Altrettanto dico del padre avvocato, a cui Enrico Montesano si presta dignitosamente ma al quale manca l’autorevolezza dell’eminenza grigia che il personaggio deve emanare, e il cui finale diverte ma non sorprende. Più in linea e meglio definito il personaggio di Massimo Ghini, che però nel suo finale sfiora il ridicolo: non del personaggio, che ci sta, ma il ridicolo della sceneggiatura. Tutti personaggi e situazioni che, se sviluppati, avrebbero avuto più dignità in una fiction Rai, fermo restando che Archibugi non sa davvero raccontare le periferie e i suoi abitanti, così lontani da lei, e che rimangono macchiette, se non macchie nel suo curriculum.

A tal proposito voglio recuperare le 24 puntate della serie Rai “Romanzo Popolare” che Archibugi ha firmato. Una considerazione sui giovani interpreti cercati e trovati nelle scuole romane: che fine faranno, ora che si sono illusi di essere attori? La Archibugi ne ha una buona dozzina sulla coscienza: alcuni hanno studiato e continuato la carriera (Alessia Fugardi) altri hanno bucato lo schermo, come la romanesca Francesca Antonelli, fino ad essere nel cast di serie come “I ragazzi del muretto” ma poi sono rimasti uguali a se stessi, e qui la ritroviamo trentenne a fare l’infermiera in una sola scena di passaggio. Tutti gli altri persi per strada.

Certamente avrei voluto saperne di più sul vicino inquietante ma non troppo: se si avesse avuto l’accortezza di raccontarlo meglio ne sarebbe risultata più evidenziata la sua strana curiosità per la famiglia Attorre, invece anche lui ha quel medesimo dolore: vivere. Diversamente, e non ci è detto come e perché.

Joker, o della follia come ancora di salvezza

Ce n’è da dire!

Joker, come personaggio dei fumetti, ha la stessa età di Batman: sono dei giovanotti del 1940. E’ apparso come antagonista dell’Uomo Pipistrello nel primo numero della serie e, attraversando molteplici vicende e fortune, è sempre tornato a sfidare la sua nemesi fino a rubargli la scena in “Il Cavaliere Oscuro” di Christopher Nolan, secondo capitolo di un trittico con il quale è stato ridisegnato Batman, interpretato da Christian Bale: poiché Batman è un super eroe senza super poteri ma solo tanti soldi da spendere in gadget e marchingegni, se ne è riscritta la sua umanità rendendolo un personaggio più realistico, un uomo tormentato, con un suo lato oscuro, che alla fine della saga sacrifica la sua immagine pubblica di eroe mascherato per non macchiare quella dell’eroe di Gotham City, il tutore dell’ordine Harvey Dent che era divenuto il folle Due Facce: Batman si fa carico dei suoi crimini e sparisce come eroe caduto da dimenticare.

Nel secondo film sul nuovo Batman di Nolan finalmente entra in scena il Joker, e che Joker! Tutti abbiamo ancora nel cuore e nella mente l’interpretazione di Jack Nicholson, che col suo ghigno naturale (vedi “Shining” di Kubrick) è sempre stato un po’ Joker. Il film era “Batman” diretto da Tim Burton, con Michael Keaton nel ruolo del protagonista. Dicono le cronache che Nicholson volle che venisse riscritto il suo personaggio, pretese un tempo limitato per le sue riprese e un contratto da 6 milioni di dollari che diventeranno 60 grazie alla percentuale sugli incassi che aveva chiesto e ottenuto: un brand a parte all’interno del film.

Anche il Joker di Nolan, come Batman, fa un bagno di realismo: è un criminale sociopatico che verrà interpretato dalla giovane star in ascesa Heath Ledger che si è lasciato ispirare, oltre che dai fumetti, ovviamente, dal “vizioso” Sid Vicious, batterista punk dei Sex Pistols con la passione per le droghe, tanto da morirne, e da Alex DeLarge, il personaggio protagonista di “Arancia Meccanica” di Stanley Kubrick, i cui interessi principali sono “lo stupro, l’ultraviolenza e Beethoven”: dal romanzo di Anthony Burgess. L’interpretazione di Heath Ledger è magistrale e gli varrà un Oscar postumo dato che alla fine delle riprese l’attore muore, anche lui di overdose, ma di farmaci regolarmente (e con molta leggerezza?) prescritti; il referto medico dichiara: “Mr Heath Ledger è morto per un’intossicazione acuta provocata dagli effetti combinati di ossicodone, idrocodone, diazepam, temazepam, alprazolam e doxilamina”, un cocktail letale di sonniferi, ansiolitici e analgesici: che l’ispirazione fosse diventata troppo realistica?

Va annotato anche il commento ingeneroso di Jack Nicholson all’uscita del film che definì l’interpretazione di Heath Ledger “senza spirito” e criticò la produzione per non aver chiesto il suo parere: evidentemente con i suoi 60 milioni di dollari si riteneva l’unico tenutario del marchio Joker. Chissà cosa avrà detto oggi?

Nasce in quegli anni e da quelle esperienze il Joker odierno. in contemporanea alla riscrittura realistica di Nolan anche gli autori dei fumetti lavorano su un’identica linea realistica creando “The Joker”, protagonista del fumetto sganciato da Batman. Un’idea che il regista Todd Phillips fa sua riscrivendo ex novo il background del personaggio per sganciarlo ancor più dai fumetti della DC Comics e dagli altri film, e ne fa un film potente sul male di vivere. Questo Joker è Arthur Fleck, un comico senza talento che si guadagna da vivere facendo il pagliaccio per un’agenzia che lo manda in giro come uomo-cartello pubblicitario o animatore per bambini. Soffre, oltre che di depressione, di un grave disturbo neuro-psichiatrico, un’incontinenza emotiva che nei momenti di rabbia e stress gli fa scattare una risata involontaria e tragica, angosciante. Scopriremo, insieme a lui, che il disturbo è causa di un trauma di cui è rimasto vittima nella prima infanzia. Inoltre le cure che riceve dal dispensario pubblico vengono interrotte per la sospensione dei fondi e Arthur imparerà a fare i conti con la sua diversità: accoglierà nella sua coscienza questa sua “follia”, indotta per trauma, e non più curata per il disinteresse della gestione della sanità pubblica: ne farà la sua dirompente personalità finalmente libera da costrizioni mediche e fraintendimenti pseudo morali: nasce il Joker.

Ma non mancano i riferimenti al mondo DC Comics: la città è sempre Gotham, l’ospedale è sempre l’Arkham Asylum e il magnate che amministra la città, che fa mancare i fondi alla sanità, e che si presenta alla carica di sindaco è Thomas Wayne, il padre del piccolo Bruce che diverrà Batman quando un delinquente assassinerà davanti a lui i suoi genitori per derubarli. Ma il Thomas Wayne che altrove è sempre stato un magnate buono e generoso, qui rivela un lato oscuro più in linea con una realtà dove i magnati non sono mai angeli. Todd Phillips recupera anche uno dei vari passati del Joker che i fumetti hanno variamente raccontato: è di nuovo un clown fallito. Qui è anche ammiratore del comico Murray Franklin che ha un suo programma tv nel quale sogna di esibirsi: per questo personaggio autore e interprete, Robert De Niro, si sono dichiaratamente ispirati a “Re per una notte” di Martin Scorsese dove De Niro ammirava fino al delirio la sua star tv lì interpretata da Jerry Lewis. Ancora, la cronaca ci dice delle frizioni fra De Niro e Phoenix a causa del differente approccio al copione e alle prove: classico e metodico il primo, irrituale il secondo.

C’è di nuovo che il Joker ha una mamma, una vecchia signora che passa le sue giornate fra depressione e nostalgie, fra divano e letto, sempre davanti alla tv accesa, tenutaria di segreti che si riveleranno diversi da come lei li racconta, o li tace: perché si sa che la memoria inganna, e certi inganni possono anche rivelarsi letali. C’è di nuovo che il disagio del Joker, amplificato da un’imboscata tv, viene inteso dai derelitti della città come una chiamata alle armi della riscossa, uguale a una di quelle che hanno fatto la nostra storia civile: il popolo che si ribella a chi li governa con troppi bastoni e poche carote. Qui però indossano maschere da clown e inneggiano al folle che ha indicato la via della follia come salvezza dalle miserie quotidiane.

Il film ha vinto il Leone d’Oro a Venezia e, a mio avviso, Joaquin Phoenix si sarebbe meritato il premio come Miglior Attore che è andato, invece, a Luca Marinelli protagonista di “Martin Eden” che, per carità, se lo è meritato, ma qui siamo davvero su un altro pianeta: Phoenix ha perso 24 chili e ha definito la sua risata studiando persone affette da quel disturbo; per approcciarsi alla personalità del Joker ha studiato le biografie di famosi attentatori alla vita di altri famosi. Aveva definito il progetto come “unico, un mondo a parte”, “la cosa più spaventosa” su cui dedicare il suo lavoro di attore, e non ci resta che inchinarci a questa sua interpretazione che, finalmente dovrebbe portargli quell’Oscar che gli è già sfuggito tre volte per “Il Gladiatore”, “The Master” e la biografia di Johnny Cash “Quando l’amore brucia l’anima”.

Accanto a Joaquin Phoenix e Robert De Niro c’è Frances Conroy nel ruolo della madre, attrice rivelatasi al grande pubblico tv come matriarca della serie dark “Six Feet Under” e poi star ricorrente nell’antologia horror “American Horror Story”. Zazie Beetz è la donna dei sogni di Arthur/Joker e Brett Cullen è Thomas Wayne mentre Glenn Fleshler è il collega clown finto amico che, come tutti in questo film tranne il protagonista, hanno sempre un pensiero diverso da quello che invece dichiarano: tutti mentono, tranne il folle che, come i bambini, dice sempre la verità.

Contrariamente a quello che ha dichiarato il regista, che dice che questo film non è l’inizio di una nuova saga, io, da spettatore, mi auguro il contrario. Nota a margine sul mondo del Joker: è on line una serie web liberamente ispirata ai personaggi della DC Comics che, avviata come un divertissement fra amici, è via via cresciuta fino ad aggiudicarsi premi internazionali, fra cui quello al miglior regista (che è anche interprete e autore) a Bruno Mirabella: “Like me, like a Joker” per non perdere nulla sull’affascinante mondo dei folli.

Ad Astra, per aspera

Il titolo latino la dice lunga sulle velleità autoriali del film: per l’americano medio il latino è come per noi l’egiziano coi geroglifici, ma per fortuna sul cartellone campeggia Brad Pitt in tuta spaziale. La frase latina completa è “per aspera ad astra”, sino alle stelle attraverso le asperità: e ci sta tutta, perché il film è questo, un viaggio fra le stelle attraverso grandi problemi da risolvere. Una storia di formazione. Ma anche, soprattutto, una storia padre-figlio. Un figlio cresciuto nel mito dell’eroico padre scomparso trent’anni prima, ma poi i fatti raccontano che il padre non è l’eroe creduto e infine, nell’incontro-confronto, scopriremo che i fatti non sono quelli narrati e creduti, ma quelli che il vecchio sperduto deve ancora raccontare. Storie che emozionano ma anche storie già raccontate. Una storia che avrebbe potuto essere collocata nel medioevo vichingo, o fra i viaggiatori alla scoperta delle Americhe, dell’Africa, dell’emisfero australe; potrebbe anche ambientarsi durante la Seconda Guerra Mondiale dove un militare resta sperduto e isolato su un atollo del Pacifico a combattere la sua guerra personale in un mondo che è andato oltre…

James Gray, sceneggiatore e regista, ambienta questa storia fra le stelle. In un futuro non specificato la Terra ha già colonizzato la Luna e Marte per andare oltre, verso Nettuno, il pianeta più lontano dal Sole, quello dove si è perso il Padre con tutta la sua spedizione esplorativa e da dove, adesso, arrivano potenti scariche elettromagnetiche che a lungo andare distruggeranno la Terra e le sue colonie con tutti gli esseri umani. Qui comincia l’avventura del Figlio.

Lo spazio, scelto come scenario della storia già nota, a parte un paio di necessarie scene adrenaliniche, scorre piatto senza raccontarci nulla di nuovo sul genere film spaziali. Tutto già visto, aleggia addirittura una sensazione di vecchiume: i terrestri del futuro stanno ancora cercando altre forme di vita nell’universo, mentre il cinema ce ne ha già raccontate di ogni genere; senza parlare dei programmi scientifici tv che affermano la realtà di basi aliene nel sottosuolo di Antartide e nel sottomare dell’Oceano Pacifico, di autopsie su cadaveri alieni, di incontri ravvicinati di qualsiasi tipo, di alieni che sono fra noi… insomma, il cinema e la realtà sono molto oltre questo racconto.

Resta l’eccellente interpretazione di un Brad Pitt (in contemporanea al cinema in “C’era una volta.,. Hollywood”) che qui, fattosi anche produttore, attraversa praticamente da solo lo spazio stellare e lo spazio del film dove affronta con grande intensità tutte le asperità e tutti i monologhi che sono la parte preponderante della scrittura del film. Ricordiamo che il monologo, nato a teatro, è un espediente retorico per dare modo a un personaggio di raccontarsi e di raccontare in mancanza di un secondo soggetto con cui dialogare. Nessuno nella vita reale monologa, qualche imprecazione, certo, magari qualche considerazione davanti lo specchio o qualche confidenza fatta all’animale da compagnia, ma mai monologhi letterari e poetici e intensi come “Vengo spinto sempre più lontano dal sole verso di te!”… Anche i poveri fuori di testa che parlano da soli per strada sanno essere più discreti.

La prima parte del film è accesa dalla presenza dal grande vecchio Donald Sutherland al quale bastano poche occhiate delle sue per dare un senso a quel segmento di storia. Nell’ultima parte del film finalmente troviamo, insieme al Figlio, il grande Padre, finora intravisto nei ricordi e nei filmati: un Tommy Lee Jones intensissimo e secondo me anche da Oscar: in una sequenza troppo breve racconta la sua storia anche solo con gli occhi perché James Gray non gli ha scritto niente di più. Personalmente avrei gradito un incontro fra Padre e Figlio di più grande respiro, magari con un po’ di retorica, certo, ma sicuramente più conforme alle mie aspettative di spettatore che per due ore si è sorbito i monologhi di Brad e poi non mi danno neanche il piacere di un bel dialogo-incontro-scontro un po’ più intenso e meno frettoloso.

Altri interpreti sparsi e spersi nel film sono: Liv Tyler come moglie sfranta dall’assenza di un marito sempre in missioni monologanti; Ruth Negga come marziana DOP, nata sul pianeta rosso da colonizzatori terrestri; John Finn, LisaGay Hamilton e John Ortiz come militari d’alto rango che mandano il nostro fra le stelle; Greg Bryk e Loren Dean come compagni di viaggio. Film pretenzioso nella scrittura ma deludente nei fatti, per quanto non brutto e molto ben fatto. Per i fan di Brad Pitt ma non per quelli di fantascienza.