Archivio mensile:settembre 2019

C’era una volta a… Hollywood, ovvero un 3×1 al multisala

Ben tre film in uno e neanche fra i migliori del cosiddetto genio di Hollywood che ama riscrivere Hollywood. Siamo lontani anni luce dal visionario e narrativamente perfetto dittico di “Kill Bill” del quale mi sarei sorbito anche tre, quattro, cinque volumi di seguito. Il problema dei geni è che non c’è nessun produttore vecchio stampo, di quelli che licenziavano su due piedi i registi, che gli sappia dire: adesso basta, bello, datti una regolata o ti mando affanculo.

Tre film, dunque, che scorrono parallelamente slegati fra loro: il primo con Leo DiCaprio (già cattivissimo in “Django Unchained”), il secondo con Brad Pitt (già eroe americano in “Bastardi Senza Gloria”) e l’ultimo con Margot Robbie, sfortunata new entry nell’universo tarantiniano. A parte un paio di scene, in apertura e chiusura, dove ci godiamo insieme l’inedita coppia di buddy-buddy DiCaprio-Pitt che duettano amabilmente, ognuno dei due poi recita il proprio film all’interno di questo contenitore senza collante.

DiCaprio è una star tv in declino che si ricicla come cattivo, e dunque sempre perdente, nei film di altre star; viene contattato dal produttore (personaggio reale interpretato da Al Pacino) Marvin Schawarzs che gli propone di andare a fare il protagonista negli spaghetti-western italiani e a tal proposito parla al telefono con Sergio; io penso subito a Sergio Leone ma invece si tratta di Sergio Corbucci, il trash del già trash spaghetti-western, che viene citato insieme ad Antonio Margheriti e altri registi italiani esponenti di quell’epopea: la passione di Tarantino. A DiCaprio spetta il personaggio migliore perché si diverte e ci diverte nelle varie performance attraverso cui passa il personaggio.

Meno accattivante, e a mio avviso meno riuscito, il personaggio di Pitt, più cool e manesco, e più dotato dell’ironia tarantiniana, ma meno risolto e poco credibile come controfigura dell’altro: troppo iconico per essere un semplice stuntman a fine carriera al servizio h24 della star anch’essa a fine carriera. E mentre DiCaprio ci diverte con le sue variegate e sempre in tono interpretazioni, Pitt fa a botte e, fra un lavoretto e l’altro per guadagnarsi la giornata, mette al tappeto anche Bruce Lee. Detto questo, dicendo pure della raffinata ricercatezza delle ricostruzioni d’epoca, siamo alla fine degli anni ’60, le insegne, i manifesti, i set cinematografici, non c’è molto altro: i film nel film scorrono riempiendomi gli occhi ma tenendomi lontano dall’appassionato interesse cui il cinema di Tarantino mi aveva abituato.

il terzo film, in assoluto il più noioso, è quello dove Margot Robbie interpreta quella Sharon Tate, moglie di Roman Polanski, che la notte dell’8 agosto del ’69 venne massacrata nella villa di Rodeo Drive, insieme a tre amici, da tre adepti alla setta di Charles Manson. Tarantino ci racconta la sua Sharon senza infonderle anima, la forza tipica delle sue eroine, e si limita a seguirla mentre va alle feste col marito, o si aggira nella villa o se ne va al cinema a rivedersi, contenta che il pubblico apprezzi la sua performance come comprimaria di Dean Martin. E’ chiaro che tutto questo, dove davvero non succede nulla, ci sta preparando a quel finale dove ovviamente convergeranno tutte le storie, ma il problema del film è che le varie storie sono davvero lunghe e inutili e che quando finalmente si arriva al finale dove tutto trova il suo senso, siamo davvero sfiniti e tiriamo un sospiro di sollievo perché finalmente ce ne possiamo scappare da quelle 2 ore e 40 di vuoti compiacimenti stilistici e citazionistici.

Bisogna considerare che il pubblico medio, compresi gli ultracinquantenni, neanche sa chi sia Sharon Tate e non è neanche in grado di riconoscere il ghigno di Charles Manson (Damon Herriman) che si aggira fra le ville dei divi come in avanscoperta e lo si vede appena di sfuggita (la sua scena è stata tagliata e magari era quella buona): dunque non viene caricata l’ansia dell’aspettativa del massacro e ci si continua a chiedere cosa stiamo vedendo. Anche tutte le altre citazioni, a volte iperboliche, sono per cinefili duri e puri, e noi italiani non possiamo riconoscere al volo tutti i riferimenti a fatti e personaggi che appartengono alla cultura americana degli anni Sessanta: il pubblico è una massa indistinta che va intrattenuta, commossa divertita terrorizzata rapita, ma non messa davanti a un narcisistico cervellotico cruciverba senza definizioni.

Tutto il blocco su Bruce Lee (Mike Moh), un cortometraggio messo all’interno di un lungometraggio già lungo, è sì divertente e piacevole, ma alla fin fine totalmente estraneo al racconto, se non per dire (io ho dovuto fare approfondite ricerche) che inizialmente Roman Polanski aveva sospettato lui del massacro: e di passaggio vediamo Bruce Lee che allena Sharon Tate nel giardino della villa. Tutto il blocco sulla deliziosa zuccherosa Sharon Tate, e particolarmente la sequenza del cinema, è totalmente inutile. Come altrettanto inutile è la sequenza in cui lo stuntman, seguendo la hippy Pussycat (Margareth Qualley), arriva su un set western abbandonato (lo stesso dove era stato girato “Django”) e incontra il vecchio produttore cieco George Spahn (personaggio reale interpretato da Bruce Dern) per parlare di cosa? Di questa sequenza mi resta la citazione degli zombi di Romero trasfigurati negli hippy strafatti, dato che da spettatore medio non so ancora niente di Spahn, ottantenne soggiogato da Charles Manson che, in cambio del permesso di abitare le rovine con la sua “famiglia” di strafattoni, gli concede sesso con le ragazze del gruppo; mi resta anche il cameo dell’ex bambina prodigio Dakota Fanning come discutibile matriarca del branco; e poi le botte da orbi che lo stuntman assesta a uno sfaccendato innescando la vendetta che porterà al finale.

Altrettanto inutile è il cameo di Damian Lewis che interpreta uno Steve McQueen dispiaciuto di non avere chance con la bella Sharon Tate alla quale piacciono bruni e piccoletti: il suo precedente fidanzato, il parrucchiere delle star Jay Sebring (Emile Hirsch) è la copia conforme del nuovo marito, il più famoso Roman Polanski, per interpretare il quale è stato scelto l’altrettanto polacco Rafał Zawierucha. Altri personaggi reali che faccio fatica a riconoscere, e per i quali ho cercato dettagli, sono: l’attore Wayne Maunder interpretato da Luke Perry che morirà alla fine delle riprese del film; il regista Sam Wanamaker (Nicholas Hammond); l’attore James Stacy, star della nuova serie western, interpretato da Timothy Oliphant, a sua volta star della serie western “Deadwood”. Fra i personaggi fittizi vale la pena ricordare la moglie italiana di DiCaprio interpretata dalla cilena Lorenza Izzo e l’anziano stuntman di Kurt Russell già fictionary stuntman per Tarantino in “Grindhouse”.

Solo nel finale (siamo in zona anticipazione che oggi si dice spoiler) riconosco la mano del regista: riscrive la storia della sua Hollywood e devia dalla realtà per immaginare una favola dove la bella Sharon Tate vivrà ancora perché la Manson Family è andata a far danno nella villa accanto, quella dove DiCaprio sbevazza con l’amico Pitt che si farà pure di acido: sono più strafatti degli strafattoni venuti con cattive intenzioni e ne faranno materiale da barbecue in una di quelle scene splatter e pulp tipiche di Tarantino: tutto è bene quel che finisce bene, dunque, anche se non è reale ma una personale riscrittura della storia che completa il trittico iniziato con “Bastardi Senza Gloria” e “Django Unchained”.

Mi preoccupano le voci di una futura uscita di questo film nella versione “director cut” che serve solo a ridare vita sul mercato home video, e che si preannuncia di 4 ore! Questo è il nono film di Quentin il quale dice che al decimo si fermerà, e c’è già chi prega perché cambi idea. Io dico solo: perché no? se è stanco e crede di aver dato tutto perché non concedergli il suo meritato riposo, invece che una lenta e impietosa discesa fatta di film come questo?

Martin Eden, napoletano verace

La mia prima domanda è stata: perché ambientare un romanzo americano a Napoli? ma non avevo ancora visto il film. “Martin Eden” che Jack London ha pubblicato nei primi del ‘900, è un “romanzo di formazione” con qualcosa in più: l’impegno politico e sociale che trasforma il febbricitante eroe affamato di successo e riscatto sociale, ma anche affetto da egocentrismo e arroganza, in antieroe, e la crescita diventa degenerazione. E’ un romanzo molto letto in Italia e nel 1979 abbiamo avuto una serie tv Rai diretta da Giacomo Battiato.

Il regista Pietro Marcello, che ha scritto il film con Maurizio Braucci, ne fa un’opera totalmente sua e totalmente napoletana e nella raffinatissima sceneggiatura si sentono la totale adesione alla storia ma anche la passione personale che riesce a trasformare una storia americana in qualcos’altro, un qualcos’altro che non è soltanto napoletanità ma una differente universalità.

Il regista ha studiato da pittore ma poi comincia a girare documentari e cortometraggi in cui racconta la sua Napoli, ed è questo il terreno su cui si innesta il seme del suo Martin Eden napoletano. Passando dalla realtà sociale americana con le lotte di classe e il socialismo come male assoluto, ci ritroviamo in una Napoli fuori dal tempo, sospesa, con le stesse lotte di classe inizio Novecento ma girando fra i vicoli siamo anche nella Napoli neorealista degli anni Cinquanta mentre da lì a poco, su una spiaggia, si rilassano le camicie nere del Ventennio. Alle immagini di questa Napoli atemporale con una fotografia attenta ai colori e alla grana dell’immagine, si mischiano vecchi filmati di repertorio altrettanto mirabilmente colorati, per generare un caleidoscopio magico che incanta per maestria e ricchezza di spunti. E la scrittura va oltre Jack London e completa gli irruenti monologhi che il Martin Eden americano solo accennava.

Curiosa ma comprensibile la scelta di mantenere il nome americano per il napoletanissimo protagonista, in linea con tutte le scelte coraggiose e vincenti della riscrittura. E a questo punto non sorprende che solo un altro personaggio mantenga il nome originale: il socialista e anarchico Russ Brissenden che si fa mentore del protagonista e che qui trova l’interprete ideale in un sempre più stazzonato Carlo Cecchi che, nota a margine, come regista aveva diretto a teatro il protagonista Luca Marinelli nello scespiriano “Sogno di una Notte d’Estate”.

Grande e ispirante amore di Martin è una bella ragazza, educata e forbita, nella cui famiglia alto-borghese e sedicente liberale, irrompe il protagonista che, benché divenuto scrittore di successo e non più ignorante marinaio dal cuore d’oro, resta un “corpo estraneo” non assimilabile prima e che non si lascia assimilare poi. In questo ruolo c’è la deliziosa francese Jessica Cressy che, benché parlando un ottimo italiano (parla 6 lingue) resta lei pure un “corpo estraneo” nell’altrimenti ben riuscito amalgama del film: fra tutte le “libertà” stilistiche che si fanno calligrafia dell’opera, il suo accento e le frasi francesi buttate qua e là stonano sempre e non hanno dignità narrativa nel raccontare questa personaggio: è il pedaggio da pagare al compromesso della coproduzione con la Francia, che mette altri francesi nel cast tecnico. In passato queste insalate si risolvevano doppiando gli stranieri ma molte battaglie dei sindacati attori hanno portato a questo giusto compromesso: l’interprete straniero deve recitare in italiano, così come viene chiesto agli italiani che recitano all’estero. in altre occasioni, altri film e altre produzioni, l’integrazione dell’attore straniero è riuscita meglio ma qui purtroppo risulta come unico punto debole perché senza giustificazioni narrative.

La ricchezza narrativa di questo film è, però, anche nel corale degli interpreti, molti di provenienza teatrale, e nelle facce delle comparse che si fanno punteggiatura del racconto. Accanto al meritatamente premiato con la Coppa Volpi a Venezia Luca Marinelli e al vecchio teatrante che recita sempre in souplesse Carlo Cecchi, c’è dunque anche Jessica Cressy che fa bene nel suo contesto, ma soprattutto ci sono: fra i volti più noti il calabrese Marco Leonardi e il bergamasco Maurizio Donadoni che nei ruoli del cognato e dell’editore recitano nei loro dialetti; e poi per la borghese famiglia Alpi: Elisabetta Valgoi, Pietro Ragusa e Giustiniano Alpi; Denise Sardisco è la bella popolana Margherita, Autilia Ranieri la sorella di Martin, Carmen Pommella è la ricamatrice che lo ospita, Vincenzo Nemolato l’amico di sempre, Gaetano Bruno è il giudice Mattei e il giornalista Giordano Bruno Guerri nel cameo di un socialista.

Un film che certamente avrebbe meritato il Leone d’Oro (che è andato al “Joker” con Joaquin Phoenix e che aspettiamo senz’ansia) ma che certamente non chiude qua la vetrina in cui stipare i premi perché è un’opera che osa nel linguaggio cinematografico e stravince. Non per tutti: i pigri, gli ipercritici e quelli mentalmente chiusi stiano a casa a vedere le serie tv.