Archivio mensile:aprile 2018

Il Tuttofare, commedia all’italiana 2.0

Sono sincero: le commedie italiane me le lascio da vedere in tv perché spesso, a mio avviso, non valgono il prezzo del biglietto e perché altrettanto spesso sono commedie “giovanilistiche” in cui i giovani e anche meno giovani autori non raccontano altro che tutto ciò che accade intorno al loro ombelico senza neanche il coraggio eversivo di scendere più giù verso le parti intime da fare un film da scandalo: circoscrivono e circoncidono le loro crisi esistenziali, le crisi sentimentali, le crisi professionali – spesso prendendosi troppo sul serio o senza essere affatto seri: in poche parole, mancando di spessore narrativo e maturità stilistica. Salvo poi sorprendermi qualche volta, in tv, nel vedere un film di cui mi dico che, però, avrei potuto vederlo al cinema. Come nel caso di “Smetto quando voglio” opera prima che il salernitano Sydney Sibilia dirige e scrive col suo amico Valerio Attanasio che qui, oltre che scriversi il film tutto da solo, fa il salto e se lo dirige pure: stessa qualità stilistica che merita attenzione. E siamo sempre nello stesso ambito dei laureati in cerca di occupazione: speriamo che non diventi un filone.

Sarò sincero per la seconda volta: sono andato a vedere il film attirato solo dall’interpretazione di Sergio Castellitto che dal trailer prometteva, e mantiene, un’interpretazione che io già candido ai David di Donatello – nulla sapendo dell’autore. Il film è molto ben scritto: partendo dalla piaga sociale dei trentenni laureati sfruttati e schiavizzati dalla precedente generazione di ex sessantottini che sono divenuti il peggior incubo dei loro stessi sogni di gioventù, non ne fa pedissequa denuncia ma fertile terreno sul quale innestare la sua storia, forse personale, sicuramente generazionale, senza però darci la sensazione di guardarsi l’ombelico, appunto, ma  preoccupandosi anzi di confezionare un prodotto assai gradevole, dal ritmo sicuro, e che offre a Castellitto un personaggio nel quale calarsi con gran divertimento e, davvero, giganteggiare: un principe del foro truffaldino degno erede della galleria dei personaggi cinici e divertenti che ci ha lasciato Alberto Sordi, uno di quei “mostri” della “commedia all’italiana” che degli anni ’60 e ’70 dello scorso secolo arriva in questo nuovo millennio. E se Sydney Sibilia e Valerio Attanasio saranno gli eredi dei vari Steno, Scola, Monicelli, Comencini e via discorrendo, non possiamo saperlo, perché essendo contemporanei possiamo solo registrare il presente. Che lascia ben sperare, però.

Dell’altro protagonista, il vero protagonista, il tuttofare interpretato da Guglielmo Poggi (già nel cast di “Smetto quando voglio”) leggo in giro che non regge il confronto con Castellitto… è vero, ma è altrettanto vero che a volerlo confrontare coi tanti suoi coetanei che affollano il piccolo schermo delle “fiscion” italiane, ne esce a testa alta, come attore credibile che sa quello che dice, e che pensa quello che gli esce dalla bocca – a differenza dei tanti di cui dico che, recitando in presa diretta, sembrano addirittura doppiati distrattamente e maldestramente. Il suo personaggio ha il “torto” di essere quello attorno al quale la vicenda e con la sua giovane età manca esattamente del “peso specifico” del primattore: se mai lo è, o lo sarà, anche questo è tutto da vedere.

Da registrare la gradevolissima presenza di Elena Sofia Ricci dalle occhiate traverse, ripescata dalle troppe “fiscion” sospiranti e che dà una sferzata di energia al personaggio della moglie “iena” del grand’avvocato, e di Tonino Taiuti come ex sessantottino fallimentare e padre del giovane praticante. Completano il cast dei comprimari Clara Alonso e Marcela Serli come amante argentina e di lei madre. Da segnalare Alberto Di Stasio nel fugace ruolo di un ginecologo “amico”, altro degno erede della commedia all’taliana, e come divertenti mafiosi Domenico Centamore e il mio collega Mimmo Mignemi che è sempre piacevole rivedere e apprezzare sul grande schermo.

In definitiva: siamo nella “commedia all’italiana” del nuovo millennio? ce lo diranno i posteri, intanto prendiamoci quello che c’è.

Il giovane Karl Marx, e il giovane Engels

Marx ed Engels sono August Diehl e Stefan Konarske, le loro compagne di vita sono interpretate da Vicky Krieps – protagonista in questa stessa stagione anche in “Il Filo Nascosto” e possiamo dunque dire che è il suo momento di gloria – e da Hannah Steele. E il titolo tutto per Marx fa un torto ad Engels dato che è protagonista tanto quanto.

E Lo dico subito, è un film per la tv. Due ore piene che potrebbero benissimo diventare due puntate di un’ora, più fruibili, dato l’andamento e l’argomento del film: due ore di ideologia garbatamente intessuti con i momenti intimi dei due protagonisti: Marx ed Engels. Un film assolutamente ben confezionato ma benché interessante non è coinvolgente, non tanto da tenermi per due ore seduto in una sala cinematografica: lo avrei apprezzato meglio dal divano di casa mia.

Detto questo, il film ha parecchi pregi. Noto soprattutto la fotografia che spesso lascia in ombra volti e figure perché fa uso solo (o così sembra) delle luci ambientali: quella che entra dalle finestre o quella di lumi e candele. Fa venire in mente il “Dogma 95” di Lars Von Trier e Thomas Vinterberg che si proponeva di “ripulire” il cinema dall’eccessivo uso di tecnologia e finzione: dunque niente musica, nessuna scenografia aggiunta, niente luci artificiali, camera a mano; un dogma che ben presto venne tradito ricorrendo ad espedienti, per cui si disse che ogni regista aderente al manifesto poteva interpretarlo a proprio gusto e secondo specifiche necessità… In definitiva il Dogma 95, come tutti i dogmi – a mio avviso – è stato creato solo per essere tradito. Perché il cinema è, e sempre sarà, finzione. L’unica sequenza veramente cinematografica, bella ed emozionante, è quella d’apertura, dove la polizia a cavallo attacca dei poveri raccoglitori di legna secca nel bosco. Notevoli anche ambientazioni e costumi. In generale un film di genere, il biografico, e scolastico da sufficienza, senza difetti ma anche senza grossi pregi, firmato da Raoul Peck.

Ready Player One, l’uovo di pasqua virtuale

Il titolo riprende la schermata iniziale dei primi videogiochi degli ormai lontani anni ’80, dunque siamo in pieno nel mondo dei nerd, ma non solo, perché l’intricatissima trama è anche materia per cinefili, sempre quelli cresciuti negli anni ’80. Il film è tratto da un romanzo di Ernest Cline, che a lungo ha lavorato nel sottobosco informatico, dei nerd appunto, con una sua personale passione per la cultura pop che riversa appieno in questa sua fantasia distopica.

2045. Come in tutti i mondi futuristici, mai ottimisti (chissà perché!), il pianeta Terra è alla frutta, ammesso che in giro ci sia il lusso della frutta fresca: sovrappopolazione, inquinamento, forte divario fra le classi sociali, estremo sfruttamento delle risorse energetiche e degli esseri umani indigenti: una proiezione realistica di quanto stiamo vivendo oggi. E la gente che fa? quello che fa oggi: gioca. Non ci saranno più i gratta-e-vinci statali, né le slot machine mangia pensioni gestite dalla mafia, né tantomeno i web casinò che già creano dipendenza, e il partito politico costruito online è solo il primo passo di quello che sarà: ognuno potrà vestire virtualmente i panni di un ministro, e se vince – vincerà anche nella vita reale. Una volta si beveva per dimenticare, sul finire dello scorso secolo ci si drogava con qualsiasi cosa: la droga odierna, e quella dell’immediato futuro, è il gioco, meglio ancora se gioco di ruolo virtuale dove ognuno può più che sognare, può “essere” qualsiasi/chiunque alterità.

Da questo punto di vista niente di nuovo, abbondano i film sui mondi virtuali e le società futuristiche dove per sopravvivere devi vincere i giochi di ruolo: la trilogia di “Hunger Games”, la trilogia dei “Divergent”, senza dimenticare la trilogia di “Matrix” e riandando indietro nel tempo: “Rollerball” del 1975 remaked nel 2002 e “Tron” del 1982 con un sequel nel 2010.

Oasis, il mondo qui immaginato da Cline, è praticamente Second Life, la realtà virtuale creata all’inizio di questo nuovo secolo e la cui immediata diffusione ha riempito per un po’ giornali e telegiornali, creando dipendenze, rotture sentimentali e guai familiari; oggi, pur continuando ad esistere, si è ridimensionato. Ma anche lì come in Oasis si possono fare soldi virtuali che possono diventare reali, se sei davvero bravo. Detto questo è inutile parlare della trama, che è davvero complessa e tutta da scoprire insieme ai tanti rimandi per veri intenditori dei videogiochi e dell’immaginario cinematografico pop, che va da “Shining” e “La Febbre del Sabato Sera”, i film più ampiamente citati e riconoscibili, a “Ritorno al Futuro”, “King Kong”, “Jurassic Park” dello stesso Steven Spielberg che firma questa regia e il quale, con grande senso della misura, ha preteso che venissero tolti, ove possibile, tutti i riferimenti ai suoi film che la sceneggiatura, co-firmata dallo stesso romanziere, e gli autori delle creature virtuali, hanno disseminato dappertutto: bisognerebbe rivedere il film a casa, in slow motion, per scoprire tutti gli omaggi a film e personaggi dell’ultimo trentennio: c’è Chucky la bambola assassina, ma anche il Joker con Harley Quinn, come anche Lara Croft, un Gremlin e tantissimi altri.

Per i non avvezzi ai linguaggi tecnici da nerd c’è da spiegare: “easter egg”, ovvero uovo di pasqua, è una sorpresa che i creatori dei software nascondono all’interno del gioco, e che qui è l’ambitissimo premio finale; il “cubo di Zemeckis” non è altro che il cubo puzzle di Rubik degli anni ’80, rinominato col nome di Robert Zemeckis non si sa perché: forse un omaggio a un altro degli immaginifici registi citati nel film (e a cui in un primo tempo era stata offerta la regia) o forse, e qui mi sono fatto ricercatore di indizi come il protagonista del film, “Zemeckis” è una distorsione pop di Zemdegs, dall’australiano Feliks Zemdegs detentore di 7 record mondiali per la soluzione del diabolico cubo. Comunque sia sono cose da addetti ai lavori.

Per noi spettatori il film scorre veloce e il fatto che non ci dia tempo di pensare a tutti i riferimenti fa parte del gioco, ma è un gioco, questo gioco virtuale, di cui siamo solo spettatori passivi mentre il film racconta quanto e come siano attivi i protagonisti nel loro mondo virtuale: uno specchio che ci rimanda un falso messaggio. Che poi la sceneggiatura sia arrivata al maestro Steven Spielberg dopo diversi passaggi di mani, non è che un bene, anche se in qualche modo si intuisce che questo film per lui è un prodotto e non una delle sue creature. Quello che avrebbe potuto essere l’ennesimo film fracassone – ed è anche questo ma non solo – diventa un divertissement più o meno raffinato, tanto quanto raffinato è il gusto dello spettatore, e in questa linea compone il suo cast.

Padre nobile e deus ex machina è Mark Rylance, Oscar in “Il Ponte delle Spie” e poi “Grande Gigante Gentile”: c’è dunque da pensare che l’eccellente attore inglese sia diventato il suo nuovo alter ego dopo il Richard Dreyfuss degli anni ’70, “Lo Squalo” “Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo” e “Always” e l’Harrison Ford dagli anni ’80 a fine millennio con tutti gli “Indiana Jones”. Il protagonista giovane, che come quasi tutti si alterna dal vero al virtuale, è Tye Sheridan, mentre il cattivo di turno è Ben Mendelsohn, un eccellente caratterista con una lunga carriera che qui se la gode alla grande; fra i buoni c’è un altro caratterista inglese, Simon Pegg, rilanciato nel cinema statunitense come parte dell’equipaggio di “Star Trek” e braccio destro di Tom Cruise in “Mission Impossible”; la buona ma “bella non troppo” – con un occhio attento alle tante nerd al femminile – è Olivia Cooke e completano la squadra dei nerd combattenti Lena Waithe, Philip Zhao e Win Morisaki. La bella e cattiva è Hannah John-Kamen e Il comico T.J. Miller è accreditato come voce del personaggio virtuale i-R0k, ma poiché non lo vediamo mai dal vero citiamo il suo doppiatore Marco Vivio.

In sala molta gioventù, ma non quella dei film fracassoni coi super eroi belli e fashion, bensì quelli coi brufoli e gli occhiali, i nerd appunto, con le loro moltiplicazioni all’ennesima potenza dei trenta-quarantenni. E poi, in ordine sparso, i battitori liberi come me. Il divertimento è assicurato esclusivamente a chi ama il genere.