Archivio mensile:marzo 2018

Hitler contro Picasso e gli altri

E gli altri sono Marc Chagall, Otto Dix, Henri Matisse, Claude Monet, Paul Klee, Oskar Kokoschka, El Lissitzky e non finisce qui, e non sono nomi da poco. Un’accozzaglia, secondo Hitler e la cultura nazista, di artisti degenerati da mettere all’indice, addirittura con una mostra itinerante, a loro dedicata nel 1937, che fra Austria e Germania raccolse circa 2 milioni di presenze, e anche questo non è poco, dovendo dire che non tutti i visitatori condividevano l’ideologia nazista ed erano lì per ammirare opere altrimenti irreperibili; come pure alcuni gerarchi nazisti, privatamente, collezionavano opere e artisti messi all’indice; per arrivare al paradosso di pittori e scultori che avevano opere esposte sia nella mostra derisoria che in quella ufficiale “La grande esposizione di arte germanica” a riprova che l’arte è fluida e tutte le etichettature sono di comodo, a seconda del periodo e del luogo e dell’intento.

Ma questo è solo un aspetto dell’ossessione nazista per l’arte (fra le molteplici ossessioni del nazismo fra cui si annoverano l’occultismo e gli alieni), perché nello stesso periodo cominciò nei paesi occupati, senza tralasciare i luoghi sacri, e nelle case degli ebrei principalmente,  il rastrellamento di opere d’arte di ogni genere con l’intento da parte di Hitler di realizzare a Lintz, sua città natale, un grande museo tipo Louvre d’Austria, per fortuna mai realizzato. Ma Adolf dovette contendersi le migliore opere col suo generale Hermann Göring, altro grande appassionato d’arte che voleva creare un’esposizione nella sua residenza privata di Carinhall fuori Berlino, e alla fine si misero d’accordo sui generi da spartirsi.

Il film è un ricco e dettagliato documentario di tutto questo traffico clandestino di opere trafugate nel terrore e nel sangue, e il titolo che cita Hitler e Picasso è solo un amo per pescare spettatori in cerca di sensazionalismi: in realtà di “arte degenerata” si parla pochissimo e le decine di testimonianze raccontano dettagli e punti di vista, analisi storiche e sociologiche, nonché esperienze personali di individui e famiglie, che riguardarono la grande arte trafugata in Europa da parte dei nazisti.

Il film è meritevolmente prodotto, come altri del genere, da Sky Arte. E mi sento di dire che in Italia, in questi ultimi mesi di propaganda politica pre-elettorale, nessun partito e nessun candidato hanno mai parlato di arte, perché l’arte in Italia è ritenuta, erroneamente, un bene di nicchia che non crea consenso, un argomento per élite di intellettuali, quindi meglio rivolgersi alla pancia delle masse parlando di defiscalizzazioni, deregolizzazioni, depenalizzazioni in un paese della cuccagna dove ognuno possa finalmente fare quel che vuole, anche nominarsi presidente del consiglio online.

Diretto da Claudio Poli il film è narrato da Toni Servillo in video, in alternanza alla voce fuori campo di uno speaker ben più impegnato ma non accreditato, per dare più profondità narrativa al film che di sfuggita cita anche le azioni dei “Monuments Men”, gli specialisti dell’arte americani che vennero da militari in Europa per cercare le opere scomparse, raccontati nel film omonimo diretto e interpretato da George Clooney.

L’arte può essere strumento di consenso come pure spunto rivoluzionario ma in Italia nessuno se ne è accorto.

La forma dell’acqua, o la bella (muta) e la bestia (acquatica)

Nell’omonimo racconto di Camilleri la forma dell’acqua è quella del recipiente che la contiene e che nella sua storia diventa metafora di contenenti e contenuti, mentre qui è solo una suggestione poetica per una favola molto bella. Bella per chi ama le favole.

L’autore, Guillermo Del Toro, si è imposto all’attenzione internazionale con l’altro bellissimo “Il Labirinto del Fauno” – da recuperare per chi lo avesse perso – e la sua filmografia è tutta fatta di fantasy e horror e proviene direttamente dalla sua infanzia, quando fu ammaliato dal film “Il Mostro della Laguna Nera” di cui questo film avrebbe dovuto essere un rifacimento ma che poi è diventato un soggetto originale conservando la figura centrale della creatura acquatica che nel suo immaginario si fa da mostro a principe azzurro, ribaltando l’immaginario collettivo anche in linea coi tempi revisionisti e politically correct. Ma nulla di tutte queste mie considerazioni appesantisce il film che, anzi, contrariamente agli altri suoi lavori tutti in noir, ha lo stato di grazia della leggerezza e riesce a fondere perfettamente il dramma alla commedia nella linea precaria del surreale che ci introduce in un bel sogno, il sogno della protagonista muta che conduce una vita solitaria fra un lavoro poco gratificante, un vecchio amico vicino di casa omosessuale e l’autoerotismo nella vasca da bagno: se in questo film vogliamo necessariamente trovare “la forma dell’acqua” questa è senz’altro quella della sua vasca da bagno, dove accoglierà la creatura in fuga dal laboratorio pseudo-scientifico di pseudo-ricerca, e dove con lui troverà finalmente l’amore.

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“Il Labirinto del Fauno” fa coppia con questo film per l’attore che sotto il pesante trucco interpreta la creatura, qua come là, Doug Jones, attore e mimo specializzato in ruoli fantasy. Per Guillermo Del Toro si è travestito anche in “Crimson Peak” e il secondo capitolo di Hellboy “The Golden Army” ed è stato anche Silver Surfer in “I Fantastici 4 e Silver Surfer”. Ma, ancora, il film col Fauno e questo con l’Uomo Anfibio sono legati anche dalla tematica che li ispira: la contrapposizione al potere costituito, lì il franchismo spagnolo e qui le sperimentazioni governative in un pesante clima di guerra fredda; e la collocazione temporale, lì gli anni ’40 e qui i primi anni ’60, comunque epoche ormai lontane in cui è più agevole collocare l’immaginario di una favola moderna di cui noi possiamo sentirci figli o nipoti.

Riguardo all’autore c’è da aggiungere che, affascinato dal fantasy, per dieci anni ha studiato make up, e da qui la dettagliata bellezza delle maschere dei suoi personaggi che oggi gli hanno fruttato prima il Leone d’Oro come miglior film alla Mostra di Venezia e poi gli Oscar come Miglior Film, Miglior Regista, Miglior Scenografia e Miglior Colonna Sonora ad Alexandre Desplat al suo secondo Oscar dopo “Gran Budapest Hotel”.

Poiché al momento del bacio inter-razziale fra i due protagonisti c’è stato un brusio in sala bisogna ricordare che, da questo punto di vista, il film è figlio anche del classico “La Bella e la Bestia” visto e rivisto in tante salse, e se lì non c’è raccapriccio e qui sì ciò probabilmente dipende dalla “credibilità” della storia di Del Toro. Ma ci sono almeno altri due capostipiti a cui risalire: “La Bestia” di Walerian Borowczyk, del 1975, e “Possession” di Andrzej Żuławski, e senza aggiungere altro non posso non notare che i due registi sono polacchi.

Incantevoli tutti i personaggi, sia i buoni che i cattivi. La londinese Sally Hawkins è la dimessa protagonista, già candidata all’Oscar per “Blue Jasmine” di Woody Allen e superpremiata in Europa per “La Felicità Porta Fortuna” di Mike Leigh. Michael Shannon, due candidature Oscar, è il militare supercattivo che vuole vivisezionare la Creatura; Michael Stuhlbarg è il russo doppiogiochista che con Michael Shannon ha già ricevuto lo Screen Actors Guild Award per il Miglior Cast nella Serie TV Drammatica “Boardwalk Empire”; il veterano Richard Jenkins è l’anziano amico vicino di casa, candidato come Non Protagonista; Octavia Spencer è la necessaria amica, candidata Non Protagonista.

Fra premi avuti e altri mancati questo film non può mancare del premio al botteghino.

Omaggio a Haley Joel Osment e agli altri attori bambini

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“Vedo la gente morta”. Il giovane Haley Joel Osment a 11 anni è la star assoluta de “Il Sesto Senso”, un thriller paranormale scritto e diretto da  M. Night Shyamalan, che non ha più realizzato un’opera di tale impatto, un film che ha impressionato il mondo intero, così come ci ha impressionato lui, il ragazzino, con la sua sorprendente bravura. Già a 6 anni aveva interpretato il figlio del protagonista in “Forest Gump” con Tom Hanks di Robert Zemekis, aggiudicandosi il Young Artist Awards come migliore attore con meno di dieci anni. Per “Il Sesto Senso”, oltre a vari premi portati a casa e nomination a tutti i premi disponibili sul mercato, riceve le nomination al Golden Globe e all’Oscar come non protagonista, oscurando il protagonista ufficiale, Bruce Willis. Due anni dopo è di nuovo protagonista per Steven Spielberg in “A.I. – Artificial Intelligence”, altra straordinaria interpretazione come bambino robot, ma in uno dei film meno riusciti di Spielberg. Seguono un altro paio di film minori e poi sparisce, come spariscono tutti gli attori bambini che necessariamente dovranno fare i conti con la crescita, la perdita dell’innocenza, il cambio del corpo e della voce, della vita stessa.

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Senza andare troppo indietro nel tempo con Shirley Temple e tralasciando Daniel Radcliffe che praticamente ce lo siamo visto crescere sullo schermo nell’interminabile saga di Harry Potter, fra gli ex attori bambini dobbiamo ricordare Henry Thomas, il protagonista di “E.T.” di Steven Spielberg che gli ha fatto vincere il Young Artist Awards dopo una nomination al Golden Globe. Da adulto la sua carriera è sporadica con ruoli secondari.

Sempre in “E.T.” c’è Drew Barrymore, 7 anni, anche lei vincitrice del Young Artist Awards ma a seguire la sua infanzia fu assai problematica: a 9 anni già fumava, a 11 beveva alcolici, a 12 fumava marijuana e a 13 sniffava cocaina, fino ad arrivare ai 14 anni  quando tentò il suicidio. Per fortuna ha messo la testa a posto e oggi è attrice di successo, regista, produttrice. Nel 2010 ha vinto il Golden Globe per il film tv “Grey Gardens” accanto a Jessica Lange anche lei premiata.

Macaulay Culkin a 10 anni diventa l’attore bambino più ricco e famoso con “Mamma ho perso l’aereo” (cui fa seguito “Mamma ho riperso l’aereo”) che anche a lui frutta il Young Artist Awards e la candidatura ai Golden Globe, ma conferma il suo talento di attore in “L’innocenza del diavolo” dove interpreta un giovanissimo psicopatico accanto a un altro talento bambino, Elijah Wood. Seguono una serie di film che non lasciano traccia e i soliti (!) problemi per uso di eroina. Oggi si è riciclato come cantante. Anche il fratello minore Kieran, con lui nel film dell’aereo, ha una carriera di attore in film di secondo livello o meno noti.

Elijah Wood a 10 anni vince il Young Artist Awards per “Il Grande Volo” dove interpreta Tom Hanks da piccolo e il “Saturn Award per “L’Innocenza del Diavolo”. Segue un’ottima carriera in film di buon successo fino all’exploit planetario con il suo Frodo in “Il Signore degli Anelli” di Peter Jackson. Sempre nominato, o anche premiato, a vari premi come parte del cast complessivo di quella trilogia e non solo, può però vantare una carriera a livelli sempre medio-alti e la vita privata, per quello che se ne sa, con meno scossoni.

Christian Bale a 13 anni è protagonista di “L’impero del Sole” di Steven Spielberg (Young Artist Awards) e la sua carriera è costante e in crescita insieme alla sua età. Dopo varie nomination e vari premi in giro per il mondo riceve l’Oscar e il Golden Globe nel 2011 come non protagonista per “The Fighter” di David O. Russell. Non possiamo non ricordarlo come il Batman della trilogia diretta da Christopher Nolan. E’ uno degli attori più interessanti della sua generazione. A margine non posso non notare che Steven Spielberg, regista che ha lanciato molti attori bambini, non li ha più considerati da adulti.

Dakota Fanning. A 8 anni è la più giovane candidata nella storia dello Screen Actors Guild Award per il ruolo della figlia di Sean Penn che interpreta un ritardato mentale in “Mi chiamo Sam” di Jessie Nelson. La sua filmografia è molto ricca e basta ricordare “La Guerra dei Mondi” (Critics’ Choice Movie Awards e Irish Film and Television Awards) sempre col regista dei bambini Steven Spielberg che produrrà la serie tv “Taken” per la quale ha una candidatura all’Academy of Science Fiction, Fantasy & Horror Films, USA come migliore attrice non protagonista, a 9 anni. Da adolescente è nel cast di “The Twilight Saga” e conducendo una vita da brava ragazza, studiosa e universitaria, partecipa a vari film fino alla dolorosa interpretazione adulta in “American Pastoral” di Ewan McGregor.

Come non ricordare River Phoenix? per tre anni di seguito vince il Young Artist Awards per “Explorers”, “Stand by me” e “Mosquito Coast”. A Venezia vince la Coppa Volpi per “Belli e Dannati” di Gus Van Sant dove recita accanto a Keanu Reeves, una storia profetica di giovani tossicodipendenti: pare che su questo set cominciò a fare uso delle droghe pesanti che lo portarono all’overdose mortale a 23 anni. Nel corso della sua breve vita ha aiutato finanziariamente moltissime organizzazioni ambientaliste e umanitarie, acquistando, tra l’altro, 320 ettari di foresta pluviale in via di estinzione in Costa Rica, per preservarla dallo sfruttamento. Il fratello minore, Joaquin, comincia la carriera da adolescente e oggi è un affermato e rispettato attore.

Tornando a Haley Joel Osment: a 18 anni ha un incidente automobilistico nel quale riportò la rottura di una spalla, insieme al altre ferite, ma la cosa più grave è che fu scoperto responsabile del reato di guida in stato di ebbrezza, con l’aggravante dell’uso della marijuana, e fu condannato a tre anni di libertà condizionata, a 60 ore in un programma di riabilitazione per alcolisti e a una multa di 1.500 dollari. Cose che capitano. La sua carriera continua con ruoli minori e film secondari, e partecipazioni a serie tv. Recita anche in teatro e si avvia alla carriera di doppiatore. Ma finalmente l’ho rivisto protagonista di puntata in “X Files” dove era – giustamente! – uno psicopatico: che altro ruolo si può affidare a un bambino che parlava coi morti che poi è stato un bambino robot?! Oggi è un trentenne sovrappeso ma ci sono altri attori “rotondi” di grande successo come Jack Black o Jonah Hill, che sono diventati “seri” dopo un debutto da comici. Dunque perché non auspicare un ritorno in grande stile, tv o cinema che sia, per Haley Joel Osment? Pagherei il biglietto per qualsiasi film in cui sia protagonista!

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Il Filo Nascosto, molto ben nascosto

Sul manifesto, in testa, prima del titolo e degli attori, campeggia un “Mozzafiato” e la battuta è facile: per i troppi sbadigli. Ma al di là della facile battuta devo dire che non ho sbadigliato, solo perché sono molto ben avvezzo a film dall’andamento lento.

Da cotanto regista, Paul Thomas Anderson, autore di film come “Boogie Nights”, “Magnolia”, “The Master” e “Il Petroliere” con cui uno straordinario Daniel Day-Lewis ebbe un meritatissimo Oscar, mi sarei aspettato più attenzione al ritmo, che qui, nella sua lentezza, vuole essere avvolgente, come le stoffe degli abiti che vestono il bel mondo, ma che forse si affida, come in trance, alla recitazione degli interpreti – o per meglio dire “dell’interprete”: Daniel Day-Lewis ha dichiarato che questo sarebbe stato il suo ultimo film. Non sappiamo se ha problemi di salute o è solo un’esigenza esistenziale o un capriccio attoriale ma ne prendiamo atto senza crederci fino in fondo. Di fatto la regia ha ritagliato l’intero film sull’interpretazione del protagonista (che sicuramente avrebbe gradito un altro Oscar a chiusura carriera) facendo un pessimo servizio al film nel quale non accade nulla e stiamo lì a subire, come le due eccellentissime coprotagoniste, i capricci e l’irascibilità della star della moda sempre imbronciato nell’atto creativo: diciamolo pure, l’interprete è sempre eccellente ma come film di fine carriera avrebbe dovuto aspettare un’altra occasione perché qui c’è poco da gridare al miracolo o cadere in deliquio per la sua performance. Molto meglio le altre due interpreti, Vicky Krieps e Lesley Manville.

La prima interpreta una cameriera, poi amante dello stilista, che per me già si candida all’applauso alla prima apparizione dove è talmente brava e compenetrata nel ruolo che riesce ad arrossire senza effetti speciali: sorprendente. Lussemburghese, è qui al suo primo ruolo da protagonista in un film mainstream con grande distribuzione e pubblicità “mozzafiato”.

La seconda, Lesley Manville, è un’attrice britannica di lungo corso non nuova a candidature e premi. Interpreta la silente sorella dello stilista, quella che fa i conti sui registri e con le intemperanze del fratello, e manda avanti la baracca: riesce ad essere glaciale e umana insieme: altra interprete superba.

Il filo nascosto fa riferimento all’abitudine dello stilista di nascondere qualcosa, un bigliettino o una scritta ricamata, fra le cuciture dell’abito, per dargli un’anima segreta. Ma diventerà anche il filo nascosto che lo lega alla non ordinariamente bella ma intraprendente Alma; poi, un colpo di scena finale che più che “mozzafiato” direi improbabile, arriva quasi all’improvviso in un racconto che vuole svoltare nell’ambiguo ma che rimane piatto e insensato: lo stesso racconto nelle mani di un Roman Polanski sarebbe stato veramente mozzafiato. Il trailer racconta il film con un ritmo intrigante che il film non ha.

L’unico Oscar è andato ai costumi, e in un film che parla di moda anni ’50 vorrei vedere. E l’unica cosa che mi ha intrigato è quando lo stilista, in crisi e incompreso per il gusto che cambia – siamo a ridosso della rivoluzione di Mary Quant con la minigonna – se la prende con l’invenzione di una paroletta di cui non capisce il senso: chic. E mi fa il paio con il poeta Guido Gozzano che negli anni ’20 del secolo scorso deprecava l’invenzione di quel brutto termine: signorina, come diminutivo di signora. Perché in una lingua viva che si evolve insieme al costume anche le parole hanno un inizio, in qualche modo e da qualche parte. “Chic” pare provenga – fra altre ipotesi – dalla Francia dell’inizio del Novecento e veniva scritta “chique”, l’etimo pare provenga dal tedesco “schick – abito”. E Il dizionario Larousse ipotizza l’origine del termine al diciassettesimo secolo, quando al tempo di Luigi XIII, una persona abile a destreggiarsi con la legge veniva soprannominato “chicane”, con il significato di “cavillo”. Il significato della parola “chic” con il tempo e la diffusione nel mondo è mutato e viene usato anche al di fuori della moda.

Con buona pace dell’autore e del suo personaggio il film è soltanto chic, nient’altro.